Jan 20, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL PALAZZO LO IACONO-PORTERA – IL MUSEO DELLA FAUNA DEI NEBRODI – IL MUSEO DELLO SCALPELLINO

IL PALAZZO LO IACONO-PORTERA – IL MUSEO DELLA FAUNA DEI NEBRODI – IL MUSEO DELLO SCALPELLINO

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Il Palazzo Lo Iacono-Portera è sito a MISTRETTA nel quartiere San Nicolò, quasi di fronte alla chiesa di San Nicolò di Bari.
La sua costruzione, iniziata alla fine del 1700, fu completata nel 1803 grazie alla sollecitudine di don Cristoforo Lo Iacono, ricco proprietario terriero e membro del Decurionato nel periodo in cui la città di Mistretta aveva raggiunto l’apice del suo splendore economico, artistico e artigianale.
In questo palazzo don Cristoforo Lo Iacono elesse la sua dimora abitandovi con la consorte, donna Liboria Mastrogiovanni-Tasca.
Alla morte dei coniugi Lo Iacono il palazzo fu ereditato da don Michele Mastrogiovanni-Tasca, nipote di donna Liboria, che già, nel 1844, si era congiunto in matrimonio con la sedicenne Marianna Lipari.
Poiché gli sposi preferirono abitare altrove, don Michele concesse il palazzo in affitto più volte al Comune di Mistretta.
Dal 1862 fu sede provvisoria del Tribunale con l’annesso carcere.
Dopo la morte di don Michele, avvenuta nel 1889, la proprietà fu ereditata dalla moglie.
Nel marzo del 1903 in un giornale comparve questo messaggio: ” Per lire tremilacinquecento si vende la casa sita nel quartiere San Nicolò di proprietà della signora Marianna Lipari vedova Tasca e del di lei figlio Salvatore”.
Il palazzo fu acquistato dai fratelli Portera.
Dal 2006 il palazzo è di proprietà dell’Ente Parco dei Nebrodi che lo ha acquistato per valorizzare i tesori naturalistici, architettonici e artistici che la città di Mistretta possiede.
Il restauro del palazzo è stato effettuato dall’Assessorato Turismo e Ambiente che lo ha reso una sede idonea ad ospitare un’importante struttura museale e dove le pubblicazioni, i pannelli illustrativi e il percorso espositivo multimediale mostrano le attività promozionali dell’area protetta.
Il palazzo è costituito dal piano terra, dal primo piano, dal secondo e dal terzo piano.
Il meraviglioso portale dell’ingresso, posto al centro della facciata costruita in pietra rossa locale, è circondato da colonne scolpite con motivi floreali.
La chiave di volta riproduce lo stemma della famiglia.

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Ai lati del portone due piccole finestre, dalla forma particolare e protette dall’intelaiatura di ferro, permettono alla luce di penetrare all’interno del piccolo atrio.
Sopra l’architrave, tre finestre si affacciano sul lungo balcone sostenuto da numerose mensole e protetto dalle ringhiere in ferro.
Nella parte laterale sinistra del palazzo si ammirano le eleganti ringhiere arrotondate, di stile spagnolo, dei balconi lavorate in ferro battuto e le grandi mensole antropomorfe.

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Si sale al primo piano tramite una scala non molto lunga addossata alla parete.
Molto caratteristica è la serie di archi del soffitto e della parete laterale di destra.
Al piano terra si trova la sala delle conferenze, al primo piano si trovano le sale degli uffici, dell’accoglienza e dell’introduzione, al secondo piano le sale del Museo della Fauna, al terzo piano il Museo dello Scalpellino.
Grazie all’ intervento dell’Assessorato regionale dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione, del Dipartimento BB.CC. AA, della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina e dell’Amministrazione comunale di Mistretta il Palazzo lo Iacono-Portera è diventato la sede del Museo della Fauna, una sezione naturalistica del Museo Regionale delle Tradizioni Silvo-Pastorali “G. Cocchiara”.
Il Museo è stato inaugurato il 05/06/ 2011.
Alla cerimonia hanno preso parte i signori allora in carica: l’avv. Iano Antoci, sindaco della città di Mistretta, Enzo Seminara, assessore alla cultura e ai servizi sociali di Mistretta, il presidente nazionale di Federparchi, Giampiero Sammuri, il dott. Antonino Ferro, commissario straordinario dell’Ente Parco dei Nebrodi, il dott. Sergio Todesco, direttore del Parco archeologico dei Nebrodi occidentali, il dott. Calogero Beringheri, sindaco di Caronia, il dott. Mario Centorrino, assessore regionale all’Istruzione e alla formazione, Costantino Salvatore, sindaco di Troina, l’on. Rinaldi e numerose altre autorità civili e militari.
Ha dato la Sua benedizione mons. Michele Giordano.

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 Nelle sale del Museo della Fauna la biodiversità degli animali in Sicilia è rappresentata da una notevole quantità di esemplari esposti nella sala dei mammiferi,

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nella sala dei fossili,

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nella sala degli uccelli acquatici,

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nella sala degli uccelli terrestri,

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 nella sala degli uccelli del Parco dove il volatile di maggior richiamo è il Grifone, recentemente immesso per merito delParco dei Nebrodi con un complesso progetto di reintroduzione.

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L’apertura alare i 75-90 centimetri. Le ali sono molto lunghe, strette, appuntite e, durante il volo, sono arcuate a forma di falce. La coda è piuttosto corta.
I territori preferiti dal Falco lodolaio sono quelli che presentano una notevole varietà di paesaggi dove sono presenti boschi di alberi annosi e prati aperti possibilmente con stagni o con laghetti.
In questi ambienti facilmente può alimentarsi, dissetarsi e nidificare.
Il Museo della Fauna merita di essere visitato per l’osservazione delle numerose specie di animali, soprattutto di uccelli imbalsamati, circa 385, provenienti dalle collezioni.
Gli esemplari di Grifone sono arrivati in Sicilia dalla Spagna grazie alla collaborazione dell’associazione spagnola G.R.E.F.A. Il Grifone, “u Vuturuni”, così chiamato in dialetto siciliano, presente in Sicilia con un’ampia diffusione territoriale e con una grande consistenza numerica tanto da essere considerata una specie comune, è scomparso dalla Sicilia intorno al 1960.
L’ultima colonia di Grifoni rimasta in Sicilia fu quella che nidificava negli anfratti delle alte pareti rocciose delle Rocche del Crasto, alte 1315 metri, sui Nebrodi, dove le correnti termiche ascensionali spingevano il Grifone che, risparmiando l’energia delle sue ali, raggiungeva le ampie fenditure delle pareti scoscese delle Rocche del Crasto.
La diminuzione graduale della popolazione, fino alla sparizione, avvenne a causa dei cambiamenti nel settore agricolo e zootecnico che portarono alla restrizione della sua principale risorsa trofica costituita dai cadaveri degli animali quali bovini, caprini, ovini che non vivevano più all’aperto. Anche l’uso sconsiderato dei bocconi avvelenati, usati per eliminare gli animali dannosi, uccisero pure il Grifone.
L’avvoltoio Grifone, il “Gyps fulvus”, per il colore fulvo intenso del suo piumaggio, è uno degli uccelli più grandi d’Europa potendo raggiungere tre metri di lunghezza nell’apertura alare, di un metro nell’altezza corporea e 11 Kg nel peso.
L’impostazione scientifica del Museo è stata curata dal prof. Maurizio Sarà, del dipartimento di biologia animale dell’Università degli studi di Palermo, che ha illustrato ai presenti le vetrine delle sale e i numerosi pannelli dove l’utente può acquisire maggiori informazioni scientifiche. Gli accorgimenti espositivi sono stati progettati dall’arch.Franco Brancatelli.
Guida i visitatori lungo il percorso direzionale del museo il Falco subbuteo o Falco lodolaio, chiamato così perché preferisce nutrirsi soprattutto di allodole. Il Falco lodolaio è un uccello rapace di medie dimensioni appartenente all’ordine dei Falconiformi che ha le sue maggiori popolazioni siciliane nel parco dei Nebrodi. Il suo corpo raggiunge la lunghezza di 30-36 centimetri. Forme ornitologiche esistono  nel Museo civico di Brà, bellissime nel piumaggio, riprodotte nel proprio ambiente, ma prive di vita.
Il materiale esposto nella sala dei fossili proviene dal Museo Gemmellaro di Palermo.

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 Il 18 gennaio del 2015  il palazzo Lo Iacono-Portera, che ospita già  il Museo della Fauna dei Nebrodi, è stato teatro di due importanti avvenimenti: l’inaugurazione del percorso espositivo multimediale e la nascita del MuSca, il Museo dello Scalpellino.

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 Ha tagliato il nastro augurale il Presidente del Parco dei Nebrodi, il dott. Giuseppe Antoci. Ha benedetto il locale il sac. padre Michele Giordano. Erano presenti: il sindaco di Mistretta avv. Liborio Porracciolo, il vice sindaco dott. Vincenzo Oieni, il presidente della Pro Loco signor Giuseppe Lo Stimolo, le autorità militari, le guardie del parco dei Nebrodi, e un folto pubblico.

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Il Museo dello Scalpellino, il laboratorio didattico della pietra, è nato per volontà del mistrettese Gaetano Russo.

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  sostenuto dal Parco dei Nebrodi, dall’Amministrazione comunale e dalla Pro Loco di Mistretta.

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Da sx: Giuseppe Lo Stimolo- Gaetano Russo

Il Museo dello Scalpellino di Mistretta è la prima entità museale sorta in Sicilia dedicata allo scalpellino, il lavoratore che, con l’uso del suo scalpello, ha saputo creare vere opere d’arte.
Il Museo dello Scalpellino, costituto da tre angoli delle sale, poste al terzo piano del palazzo, mostra gli attrezzi dello scalpellino.

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Col passar del tempo, sicuramente il Museo dello Scalpellino sarà ampliato e perfezionato nell’allestimento e nel possesso di altri reperti. Ammiriamo, valorizziamo l’idea, l’impegno, la volontà, la resistenza di Gaetano e la collaborazione dei volontari che lo hanno aiutato a realizzare questo suo ambizioso progetto.

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A Mistretta è evidente la presenza della pietra rosata locale.
I palazzi signorili mostrano le decorazioni a rilievo in pietra intagliata da maestranze locali.
Sono decorati da divertenti e grottesche maschere aventi la funzione magica di allontanare o annullare, con il linguaggio figurativo, le influenze malefiche dai loro padroni.
Le stesse propiziano abilmente il benessere e la bellezza della vita riproducendo le effigie delle personalità che vi abitavano realmente.
Attualmente molte opere, donate dallo scultore Gaetano Russo, arredano la città di Mistretta.

Jan 13, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN SEBASTIANO – LE FESTE – LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN SEBASTIANO – LE FESTE – LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Su Sebastiano sono state riportate molte notizie, ma le fonti storiche certe dalle quali si possono ricavare i pochi elementi sulla vita, sul luogo del martirio e della sepoltura e sulla festività liturgica sono: la “Depositio Martyrum”, il più antico calendario della Chiesa di Roma risalente al 354, che lo ricorda il 20 gennaio, e un’annotazione del “Commento al salmo 118” di Sant’Ambrogio, (340-397), secondo il quale Sebastiano, di origine milanese, si era trasferito a Roma.
Altre notizie sulla vita di Sebastiano sono narrate nella Legenda Aurea
scritta da Jacopo da Varagine e, in particolare, nella Passio Sancti Sebastiani, opera curata da Arnobio il Giovane, monaco probabilmente del V secolo. La Passio Sancti Sebastiani è molto ricca di episodi e di particolari biografici, però è ritenuta poco attendibile nonostante la “storia” del Santo sia stata compilata intorno alla metà del sec. V, quando la memoria di Sebastiano poteva essere ancora viva, e l’autore mostri un’ottima conoscenza della pianta di Roma.
Sebastiano, secondo Sant’Ambrogio, è nato a Milano nel 256, dove è cresciuto e educato alla fede cristiana, da madre milanese e da padre di Narbona, alto funzionario della Francia meridionale. Fu il Santo italiano di origine francese e venerato come martire dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa Cristiana Ortodossa.
Il nome Sebastiano deriva dal greco “σεβαστός” col significato di “degno d’onore, augusto, imperiale”.  Prima di raccontare la vita di Sebastiano è giusto dare una piccola introduzione storica.
Nel 260, poiché l’imperatore Galliano aveva abrogato gli editti persecutori contro i cristiani, seguì un lungo periodo di pace durante il quale i cristiani, pur non essendo riconosciuti ufficialmente, erano stimati occupando, alcuni di loro, importanti posizioni nell’amministrazione dell’Impero. Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, desiderava portare avanti questa condizione pacifica.
Dopo 18 anni, su istigazione di Galerio, scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto l’impero. Intanto Sebastiano si era trasferito a Roma nel 270 intraprendendo, intorno al 283, la carriera militare. Diventò un alto ufficiale dell’esercito imperiale.
Fu il comandante della prestigiosa prima coorte della guardia imperiale di Diocleziano stabile a Roma per la difesa dell’Imperatore. Per le sue doti di fedeltà e di lealtà e per la sua intelligenza, fu molto stimato dagli imperatori Massimiano e Diocleziano che non sospettavano della sua fede cristiana. Grazie al suo incarico, godendo dell’amicizia dell’imperatore Diocleziano, ha potuto mettere in pratica azioni a favore dei cristiani, prestando aiuto a quelli segregati in carcere e condotti al supplizio, e ha potuto curare la sepoltura dei martiri.
Ha fatto anche opera missionaria diffondendo la religione e convertendo al cristianesimo soldati, militari, magistrati, nobili della corte. Lo stesso governatore di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio, da lui convertiti, avrebbero affrontato il martirio. Sebastiano, per la sua opera di assistenza ai cristiani, da papa San Caio fu proclamato “difensore della Chiesa”.
Proprio quando, secondo la tradizione, aveva seppellito sulla Via Labicana i Santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti i Quattro Coronati, fu arrestato e portato davanti a Massimiano e a Diocleziano. Diocleziano, già irritato perché in giro si era diffusa la voce che nel palazzo imperiale si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, interrogò il tribuno.
Tutto ciò non poteva passare inosservato a corte. Diocleziano, che odiava profondamente i fedeli a Cristo, avendo scoperto che anche Sebastiano era cristiano, così lo affrontò: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me ingiuriando gli dei”.
Questo aspetto della vita del Santo, diviso tra il giuramento militare e la sollecitudine verso i sofferenti, fu motivo della sua condanna. Sebastiano, per ordine di Diocleziano, fu, quindi, per la prima volta arrestato, portato fuori città, denudato, legato al tronco di un albero in una zona del colle Palatino chiamato “campus”. Essendo un soldato, gli fu concesso il supplizio “onorevole”, quello, cioè, di morire trafitto dalle frecce lanciate da alcuni commilitoni tanto da sembrare un riccio con gli aculei eretti, “ut quasi ericius esset hirsutus ictibus sagittarum“.

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Abbandonato dai suoi carnefici, fu creduto morto. Sebastiano non morì! La nobildonna Irene, vedova di Castulo, pietosamente, andò a recuperare il corpo per dargli la giusta sepoltura secondo l’usanza dei cristiani. Rendendosi conto che non era morto, lo condusse nella sua casa sul Palatino, gli medicò premurosamente le numerose ferite. Miracolosamente, Sebastiano guarì.
Egli, che cercava il martirio, recuperate le forze, volle proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e a Massimiano mentre gli altri imperatori, per assistere alle funzioni, si recavano al tempio eretto da Elagabolo in onore del Sole Invitto.
Diocleziano, superato lo stupore per la vista di Sebastiano, che sapeva di essere stato ucciso perchè lo accusava di perseguitare i cristiani, ordinò che fosse flagellato a morte per la seconda volta. Il martirio di Sebastiano avvenne il 20 gennaio del 304 a Roma, sui gradus helagabali, cioè sui gradini di Elagabalo, sul versante orientale del Palatino, e il suo corpo fu gettato nella Cloaca Massima affinché i cristiani non potessero recuperarlo. La tradizione racconta che il martire Sebastiano, apparso in sogno alla matrona Lucina, le indicò il luogo dove giaceva il suo cadavere e le ordinò di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” sulla Via Appia.
Mani pietose recuperarono la salma e la seppellirono nelle catacombe. Le catacombe, oggi conosciute come le catacombe di San Sebastiano, erano chiamate allora “Memoria Apostolorum” perché, dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano, nel 207, di radunarsi e di celebrare nei “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense e le trasferirono sulla Via Appia in un cimitero considerato pagano. In quello stesso luogo fu eretta una chiesa in onore di Sebastiano. Costantino, nel secolo successivo, fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi e là furono costruite le celebri basiliche. Sulla Via Appia fu costruita la “Basilica Apostolorum” in memoria dei due apostoli.
A questo luogo, famosa meta di pellegrini, si deve la diffusione del culto di Sebastiano nell’Europa cristiana, culto che aumentò sempre di più per i numerosi prodigi attribuitigli e soprattutto per l’invocata protezione contro la peste. Fino a tutto il VI secolo i pellegrini che si recavano al cimitero per visitare la tomba dei Santi Pietro e Paolo, visitavano anche la tomba del martire Sebastiano la cui figura era diventata molto popolare.
Nel 680, allorché si attribuì la fine di una grave pestilenza a Roma per Sua intercessione, il martire Sebastiano fu eletto taumaturgo contro le epidemie e la sua chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”.
Il Santo, venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma dopo gli apostoli Pietro e Paolo. Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) che ne mandò una parte alla chiesa di San Medardo di Soissons il 13 ottobre dell’ 826. Gregorio IV (827-844), suo successore, fece trasferire il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e fece inserire il capo in un prezioso reliquiario che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di San Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218 quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di San Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta.
Gli altri resti di San Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218 quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di San Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta.
Nel XVII secolo l’urna fu posta in una cappella della Basilica di San Sebastiano fuori le Mura, che si trova lungo la Via Appia Antica, tra il Parco della Caffarella e le Catacombe di San Sebastiano, sotto  la mensa dell’altare marmoreo dove si trovano tuttora e dove è scritto il suo nome.

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Statua marmorea di Antonio Giorgetti

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Altare di San Sebastiano

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Sebastiano Zampino visita la tomba di San Sebastiano

4  soffitto ligneo intagliato dal Vasanzio dove al centro c’è l’immagine di San Sebastiano

soffitto intagliato dal Vasanzio dove al centro c’è l’immagine di San Sebastiano

 La comunità amastratina ha ottenuto dal Vaticano un’importantissima sacra reliquia del martire San Sebastiano.

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Ad una prima richiesta, con esito negativo, ha rimediato la Provvidenza. Infatti, nel riordino del tesoro della basilica costantiniana di San Pietro, è stato trovato un altro frammento osseo appartenente al cranio di San Sebastiano che ha consentito alle Autorità vaticane di concedere il prezioso reperto e la sua autentica datata 22 luglio 2009 ai mistrettesi.
San Sebastiano è il patrono di numerosi comuni italiani e stranieri.
È particolarmente venerato in Sicilia fin dal 1575, anno in cui infuriò la peste e in molte città era invocato contro la terribile epidemia. Ma il culto si diffonde sin dal 1414 anno in cui, secondo un antichissimo documento custodito negli archivi della Basilica in Melilli, una statua del Santo martire sarebbe stata ritrovata presso l’isola Magnisi, in provincia di Siracusa. Sempre secondo quanto riportò questo documento, alcuni marinai sostennero di essere stati salvati da un naufragio grazie alla protezione di quella statua.
Subito accorsero in quel luogo centinaia di persone incuriosite provenienti da tutta la provincia. Nessuno dei presenti riuscì a sollevare la cassa contenente il simulacro del Santo, nemmeno il vescovo di Siracusa accompagnato dal clero e dai fedeli della città. Ma i cittadini di Melilli l’1 maggio del 1414, giunti sul posto, riuscirono a sollevare la cassa che, entrata in paese tra invocazioni e preghiere, divenne di nuovo pesante, chiaro segnale che San Sebastiano voleva fermarsi proprio lì.
All’ingresso del paese un uomo fu guarito dalla lebbra, fenomeno attribuito al primo miracolo del Santo. San Sebastiano è il santo invocato contro le epidemie in generale insieme a San Rocco, a Sant’Antonio Abate e a San Cristoforo. San Sebastiano è venerato nella cittadina di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.
Nella basilica minore di San Sebastiano, sita in Piazza Duomo, è custodito un resto sacro che contiene l’osso dell’avambraccio del Santo martire detto “u virazzu di Sammastianu“.
San Sebastiano è il Santo patrono di Mistretta dove riscuote tanta venerazione. San Sebastiano è il Santo Patrono della Polizia Municipale,dei Militari in genere,deifabbricanti di aghi, degli arcieri, di quanti hanno avuto a che fare con oggetti a punta simili alle frecce. La spiegazione di proclamare San Sebastiano patrono dei Vigili Urbani d’Italia da parte di Pio XII si trova nel Breve Pontificio del 3 maggio del 1957.
Il breve pontificio così recita: ” Tra gli illustri martiri di Cristo i militari occupano un posto di primissimo piano presso i fedeli per la loro peculiare religiosità e per l’ardente impegno a compimento del dovere. Tra questi brilla San Sebastiano che, come riferito dalla tradizione, durante l’impero di Diocleziano fu comandante della coorte pretoriana e fu onorato con grandissima devozione … e a lui si consacrano molte associazioni sia militari sia civili attratte dal suo esempio e dalle virtù cristiane…. per cui, dopo aver consultato la Sacra Congregazione dei Riti, soppesata accuratamente ogni cosa, con consapevolezza e matura deliberazione, nella pienezza della nostra potestà apostolica, in forza di questa lettera costituiamo e dichiariamo per sempre San Sebastiano Martire custode di tutti i preposti all’ordine pubblico che in Italia sono chiamati Vigili Urbani e celeste patrono di tutti i privilegi liturgici, specialmente di quelli che competono, secondo rito, ai Patroni…dato a Roma presso San Pietro sigillato col timbro dell’anello del Pescatore il 3 maggio 1957, undicesimo del nostro pontificato”.

PREGHIERA

Signore Iddio,
Tu che vigili il corso degli astri ed ogni cosa disponi con soavità e con fermezza, nell’ordine della Tua Provvidenza, veglia su di noi, votati al servizio dei nostri fratelli.
Tu ci donasti, nella vita terrena, l’esempio luminoso di fedele obbedienza alle leggi di Cesare, di amorosa sollecitudine verso chi è debole, di infinito amore verso chi erra, di umile e faticosa operosità nel quotidiano lavoro.
Dio umanato, rendici degni di te affinché la nostra giornata terrena sia degna anch’essa della missione a noi confidata.
Concedici, per intercessione di Maria, Madre Immacolata, di essere pronti a soccorrere chi ha bisogno di noi, esatti nel dovere, amanti della legge, fraterni con chi sbaglia, forti nell’intemperie, decisi contro chi offende la morale, la religione, la legge.
Così aiutando gli uomini nella loro dura quotidiana fatica, saremo suscitatori di concordia e di pace nella turbinosa vita che corre nel mondo.
E porteremo in esso l’eco gioiosa dell’armonia dei cieli.

Moltissime sono le iconografie riproducenti San Sebastiano nella storia. Nell’arte medioevale fu raffigurato come un uomo anziano, con e senza la barba, vestito da soldato romano o con addosso lunghe vesti proprie dell’abbigliamento di un uomo del Medioevo e senza frecce in corpo. Nel Rinascimento è stato rappresentato legato ad una colonna, nudo e trafitto da frecce.  Dal Rinascimento in poi diventò l’equivalente degli dei e degli eroi greci decantati per la loro bellezza come Adone o Apollo. Successivamente, ispirandosi ad una leggenda del VIII secolo secondo la quale il martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon nelle sembianze di un efebo, pittori e scultori lo raffigurarono come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o ad una colonna e trafitto dalle frecce. Anche Michelangelo, nel “Giudizio Universale”, lo immaginò nudo e possente come un Ercole mentre stringe in pugno un fascio di frecce.

LE FESTE DI SAN SEBASTIANO PATRONO DELLA CITTA’ DI MISTRETTA

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La festività religiosa di San Sebastiano, patrono della città di Mistretta, è celebrata dal mondo occidentale il 20 gennaio e dal mondo orientale il 18 dicembre.
A Mistretta San Sebastiano si festeggia in due periodi dell’anno: il 20 gennaio, giorno in cui la Chiesa ricorda il Suo martirio, e il 18 agosto per consentire agli emigrati presenti a Mistretta per le ferie estive e ai turisti di venerare il Santo.

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Il 20 gennaio, poiché le condizioni climatiche non sono favorevoli, l’inverno mistrettese è molto freddo, la giornata è corta e spesso la neve fa la sua apparizione, la festa di San Sebastiano è celebrata solo dai paesani in tono minore rispetto alla festa del mese di agosto, limitatamente alla funzione religiosa in chiesa, con la celebrazione della Santa Messa alla quale partecipano le autorità civili, militari e le associazioni, in particolare la Società del Militari in Congedo, per ricordare che anche San Sebastiano era un militare, e con il cammino processionale che inizia nelle prime ore del pomeriggio.

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Io vengo di proposito da Licata a Mistretta per partecipare devotamente alla festa di San Sebastiano.

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 Prima dell’uscita di San Sebastiano dalla Sua chiesa Mons. Michele Giordano e padre Giuseppe Capizzi recitano la preghiera a San Sebastiano assieme ai portanti.

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 Quindi, uno per uno, i portanti baciano l’urna di San Sebastiano.

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I portanti si preparano ad uscire dalla chiesa

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Molta gente, con grande devozione e spiritualità, attende l’uscita della Varetta e del fercolo di San Sebastiano nel piazzale davanti alla sua chiesa e nell’ex piazza Guglielmo Marconi intitolata a San Sebastiano.

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La banda musicale suona armoniosa.

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La festa consiste nel cammino breve della processione, senza gli addobbi luminosi, senza i giochi pirotecnici e senza la raccolta dei “miracoli“.
E’ ugualmente un giorno festoso!
L’uscita della Varetta degli Angeli dalla chiesa di San Sebastiano dà inizio al cammino processionale.

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 La pesante vara di San Sebastiano, addobbata con i fiori, con gli ex voto d’argento, con le offerte in denaro.

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è portata a spalla da circa 60 portanti che indossano un tradizionale costume del Seicento con camicia e calze bianche, con pantaloni di velluto nero e con un fazzoletto di color carminio al collo.

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Svolgono questo piacevole compito con fede ed entusiasmo tramandando il posto sotto la vara, secondo la tradizione, da padre in figlio.
La Varetta è trasportata a spalla dai giovani del paese in numero molto minore rispetto ai portanti poiché è più leggera.

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 San Sebastiano, percorrendo le vie di Mistretta, compie un percorso più corto rispetto alla festa d’estate.
Imbocca la via Anna Salmone, passa davanti alla chiesa del Rosario e alla chiesa di Santa Maria di Gesù. Giunge alla fontana Pia.

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 In alcuni punti particolari della città San Sebastiano si ferma, in altri punti corre.

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Il cammino prosegue per tutta la via Libertà fino al rientro nella sua chiesa.
La Varetta degli Angeli, recante la reliquia di San Sebastiano e i ceri votivi, simbolo delle grazie ricevute, precede sempre il fercolo di
San Sebastiano.

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Prima di ritornare nella sua chiesa, davanti al Circolo Unione avviene “a girata” del fercolo di San Sebastiano. I portanti cambiano la spalla.

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  Infine, quasi di corsa, riportano i simulacri nella loro chiesa.

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La festa del 18 agosto, “a festa ranni“, “a festa ru vutu“, a Mistretta presenta non soltanto le caratteristiche di religiosità, ma soprattutto di folklore.
Fu istituita per la prima volta il 17 agosto del 1723.
Su un brigantino, attraccato nel porto di Palermo, viaggiò anche la peste, un morbo che si diffuse in Sicilia. Era l’anno 1575.
I palermitani invocarono San Sebastiano, Santa Barnaba e San Rocco affinché li proteggessero dalla malattia che aveva già causato diversi morti.
Esaurita la prima fase, la peste ricomparve nel 1624. E’ noto che nel corso degli anni 1628- 1629, ancora una volta la peste colpì gran parte dell’Europa. L’intercessione di San Sebastiano e la fervente preghiera del popolo fedele fermarono il contagio anche a Mistretta. L’epidemia scomparve.
Il culto del Santo sembra sia stato introdotto nel 1063, ma la devozione a San Sebastiano si estese in tutto il mondo tra 1625 e il 1630.
Nel 1569 a Mistretta, posta vicino al convento delle Suore Benedettine, era iniziata la costruzione della chiesa intitolata a San Sebastiano.
Quindi la prima festa in onore di San Sebastiano a Mistretta fu istituita nel 1582.
La peste ritornò ancora una volta nel 1723, ma fu di breve durata. Scomparve grazie all’intercessione di San Sebastiano.
Furono allestiti i lazzaretti per curare e isolare gli ammalati di peste. “ Durante il contagio, e anche dopo per quarantena, si allestirono dei lazzaretti dove medici e confraternite ebbero cura dei malati di peste “. Un documento, redatto dall’autorità spagnola che nel 1600 governava buona parte dell’Italia, decretava che le processioni religiose in onore di San Sebastiano dovevano svolgersi nel più breve tempo possibile e le soste davanti ai lazzaretti dovevano essere di brevissima durata per paura del contagio.
Quindi, durante la festa “ru votu” San Sebastiano, depulsor pestis, passa di corsa vicino ai lazzaretti presumibilmente per scongiurare il contagio della malattia ai portanti e ai fedeli. Anche se la peste è scomparsa, sia il particolare percorso processionale, sia la corsa sono rimasti come consuetudine e continuano ad effettuarsi.
Per la festa di agosto i mistrettesi, residenti altrove, ritornano al paese natio facendo coincidere la loro permanenza a Mistretta con la festa del Santo Patrono. Già il 19 agosto, giorno successivo alla festa, il paese si spopola riprendendo l’aspetto invernale quando non s’incontra quasi nessuno nella piazza e nelle strade.
Il poeta Filippo Giordano, nella sua poesia “A festa ru santu patruni” esprime l’intenso sentimento religioso e devozionale dei mistrettesi verso il Patrono San Sebastiano.
La poesia è tratta dal suo libro “Scorcia ri limuni scamusciata

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Attualmente la festa di San Sebastiano è gestita dal Comitato “Amastra Fidelis”, formato da alcune persone che assumono l’impegno di una buona organizzazione.
Caratteristica è “la raccolta dei miracoli”.
Il gonfalone di San Sebastiano, trattenuto dalle mani dei giovani che stringono i nastri laterali, accompagnato in processione da un componente del Comitato, dalla banda musicale e da alcuni ragazzi, la mattina del 18 agosto si recano nelle abitazioni di quelle persone che, per avere ricevuto il dono della grazia richiesta, offrono gli ex-voto.

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La funzione definita “ritiro dei miracoli” è, appunto, il ritiro delle grandi candele di cera adornate con l’immagine di San Sebastiano, abbelliti con disegni di fiori e di una testina d’angelo offerte dalle persone che hanno ricevuto grazie.
Se a ricevere la grazia è un bambino, il cero è più piccolo di lunghezza. Su una targhetta è apposto anche il nome del beneficiato.
Queste candele sono la testimonianza dei miracoli che i fedeli dichiarano di aver ricevuto dal Santo patrono.
Una volta il compenso al voto consisteva nell’elargizione dei prodotti della natura,  del frumento dopo la sua raccolta e, soprattutto, dei grossi ceri prodotti a Mistretta.
Oggi i prodotti in natura sono stati sostituiti dall’offerta in denaro e in oggetti d’oro e d’argento.
Le offerte ricevute dal Santo sono esposte nella vara e i ceri nella Varetta.
Dal suono della banda sono accompagnati le autorità civili e militari e le associazioni.
Qualche anno fa, un giorno prima della festa, il gruppo dei bersaglieri, provenienti da altre città, è sfilato di corsa per la via Libertà suonando la marcia flick flock e suscitando grande allegria fra la gente.

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 Nel programma della festività sono  inseriti i giochi con i ragazzi delle scuole e la sfilata dei cavalli.

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La processione inizia dopo la celebrazione della Santa Messa “a missa ranni”.
I portanti sono chiamati da Mons.Michele Giordano per recitare insieme la preghiera del portante a San Sebastiano e per baciare il reliquario che contiene un osso del cranio di San Sebastiano.

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Una pioggia di bigliettini colorati, con la scritta “Viva San Sebastiano”, piovono dal campanile della chiesa e annunciano che l’uscita del Santo patrono è imminente. Le luci illuminano la facciata della chiesa.

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Dalla chiesa esce prima la Varetta, poi la vara di San Sebastiano entrambe addobbate con i garofani rossi.

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Il fercolo di San Sebastiano mostra gli ex voto.

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La processione si snoda per le vie del paese dove ripide discese e brusche salite mettono a dura prova la forza e la resistenza dei portanti che si muovono con un movimento ritmico a passo di marcia, la cosiddetta “annacata”.
Il percorso è più lungo rispetto alla festa del 20 gennaio.
La varetta e il fercolo di San Sebastiano, usciti dalla loro chiesa, imboccano il Corso Umberto I, percorrono la via San Giuseppe, giungono e si fermano nel quartiere Annunziata, dove c’era il forno civico che il Comune utilizzava per la pubblica panificazione durante le carestie, percorrono la via Gisuè Carducci e la via Numea, salgono per Porta Palermo, detta “l’acchianata ri San Vicienzu”, e giungono nella Piazza del Progresso, meglio conosciuta come la piazza di San Vincenzo dove sostano, nello stesso “chianu ri San Vicienzu” avviene “a Vutata”, uno dei momenti più emozionati della  processione.  Quindi imboccano la via Libertà. Girano intorno alla Piazza Vittorio Veneto per procedere nella Via Anna Salamone.
Da questo momento la processione continua seguendo lo stesso percorso della processione invernale, sostando davanti alla Chiesa del Rosario, alla Fontana Pia, alla chiesa di San Francesco, al  palazzo Vincenzo Salmone  e ritornando nella Sua chiesa correndo.
Durante il percorso spesso si sentono voci di sottofondo che ripetono questa antica  orazione:

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San Sebastiano, depulsor pestis, sosta nei posti dove, in passato, erano ubicati i lazzaretti, gli ospedali e nei luoghi di assistenza agli ammalati colpiti dalle epidemie.
Uscito dalla Sua chiesa, San Sebastiano sosta davanti al convento delle Benedettine dove sorgeva la chiesa di San Rocco demolita nel 1877.
In via Bellini, ex via Ospedale Vecchio,  una traversa di via Anna Salamone, c’è la porta d’ingresso alla cappella della Domus Hospitalis che si affaccia in via San Giuseppe.
Ecco perchè San Sebastiano la attraversa!

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Nell’architrave della porta  è ancora leggibile l’iscrizione in latino che riporta anche la data della ristrutturazione del 1779.

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La Domus Hospitalis, fondata  da don Filippo Pizzuto nel 1584, era un  centro di ospitalità che accoglieva i poveri e ristorava i pellegrini venuti da lontano.
Le donazioni dei nobili, dei piccoli borghesi, e l’aiuto delle confraternite contribuirono ad ampliare questa istituzione caritatevole che diventò un piccolo ospedale.

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La Domus Hospitalis,  conosciuta come l’ospedale vecchio del SS.mo Salvatore,  chiamata da don Filippo  Pizzuto “Hospitale infirmorum et peregrinorum tantum“, era il lazzaretto più attrezzato. Fu costruita  dall’arciprete don Filippo Pizzuto aiutato da Padre Serafino da Mistretta.
Nel 1584 don Filippo Pizzuto fondò l’ospedale del SS.mo Salvatore.
Il lazzaretto fu chiuso quando l’ospedale fu trasferito nell’ex convento dei Frati Minori Riformati, oggi sempre col nome di ospedale SS.mo Salvatore.
La casa di don Filippo Pizzuto, posta fra le antiche mura urbane, tra la Via Numea e la Chiesa Madre, accoglieva nei locali a pianterreno  i pellegrini. Nei locali al piano superiore c’erano gli alloggi per le donne madri sole, indifese e indigenti.

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L’architrave reca l’epigrafe “Don Philippo Pizzuto fecit pro pauperæ 1590” a perenne memoria del benefattore e della destinazione della casa.

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Al largo San Vincenzo c’era il lazzaretto della SS.ma Trinità, già utilizzato come ospedale dei Trinitari nel Medioevo e poi sede dell’Arciconfraternita per la redenzione dei captivi istituita per la liberazione degli schiavi in Barberia.
Il Museo della Tradizioni Silvo-pastorali  “G. Cocchiara” un tempo era la Casa Santa o Casa degli Esercizi Spirituali usata come lazzaretto.
Era anche un Collegio adibito a istituzione scolastica gestita dai Padri Gesuiti.
Di fronte alla chiesa delle Anime Purganti c’era la chiesa di Sant’Antonio Abbate “in cui era alloggiata la ronda per il rispetto del cordone sanitario e dove si tenevano le riunioni dei giurati”.
Della chiesa, demolita, rimangono  la monofora tardo gotica della facciata, del 1593, riutilizzata come fontanella,  e un larga superficie.

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L’ultimo lazzaretto fu la Rabbica araba sita in via Canova.
Era una costruzione con due ampi balconi a semicerchio e che era divenuta la sede del Peculio Frumentario, cioè il granaio pubblico degli arabi.

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La corsa della vara e della varetta è un momento molto atteso dalla gente che grida ”Sammastianuzzu senza dannu”.
Corrono tutti: i sacerdoti, le autorità civili e militari, le due bande, la folla dei mistrettesi, la gente dei paesi vicini richiamata dallo sfarzo e dalla grandiosità della festa.
Nel tratto terminale, che va dal palazzo Vincenzo Salamone alla chiesa di San Sebastiano, la marcia “della bersagliera“, suonata dalla banda, accompagna l’ultima corsa.
E’ una grande emozione!
I portanti si lanciano a velocità sostenuta quindi girano seguendo la curva a gomito davanti alla chiesa di San Sebastiano. Sempre correndo, fanno il cambio di spalla.
Rimanendo sotto la vara, si girano per tornare indietro.
Per un attimo la vara resta sospesa in aria.

 

 

 

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Numerosi sono i fedeli che aspettano il passaggio delle vare fermi ai bordi delle strade, oppure affacciati ai balconi o stipati nei ballatoi.
Con l’omelia, con la benedizione eucaristica, con la musica della banda musicale si chiude la festa religiosa.
San Sebastiano e la Varetta degli angeli ritornano nella loro chiesa.
La festa folkloristica continua con gli spari dei giochi pirotecnici, con il sorteggio dei premi messi in palio, con l’esibizione degli artisti negli spettacoli di vario genere nella piazza Vittorio Veneto, con la passeggiata lungo la Via Libertà.

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 Il  giorno dopo è la giornata del Ringraziamento.
Hanno celebrato la Santa messa Mons. Michele Giordano e padre Giuseppe Capizzi.
Ha letto le le letture il giovane Mattia Lo Iacono.

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Mattia Lo Iacono

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Il signor Franco Prestigiovanni, il sagrista

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Da sx: Padre Giuseppe Capizzi e Mons. Michele Giordano

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La benedizione con la reliquia di San Sebastiano

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LA CHIESA DI SAN SEBASTIANO A MISTRETTA

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 La chiesa di San Sebastiano, situata nel cuore della città, è stata costruita nel XVI secolo. Nel 1603 fu realizzato il portale dell’ingresso principale in arenaria riccamente scolpito lateralmente. La trabeazione è sormontata da una lunetta ogivale all’interno della quale è rappresentata in altorilievo la figura si San Sebastiano legato ad un albero nel momento del suo martirio. Ai suoi piedi sono scolpiti lo scudo e l’armatura.
In bassorilievo, sullo sfondo, s’intravede una vallata, che separa due luoghi: a sinistra c’è una città arroccata sul fianco della montagna e fortificata da alte mura di cinta, a destra un tempio greco è posto sullo sperone di roccia della montagna di fronte. Probabilmente l’artista ha collocato il martirio non a Roma, ma sullo sfondo di un paesaggio locale.
La vallata di sinistra sembra quella di Santa Domenica, la città fortificata è Amestratus, il tempio di destra è collocato sul Pizzo di Sant’Arianna.

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 A sua volta la lunetta è sormontata da una costruzione poligonale nel cui interno c’è una finestra rotonda.

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Altri due portali minori, posti lateralmente, sono sormontati da lunette riempite da figure di angeli in atteggiamenti oranti, opere attribuite allo scultore Noè Marullo.

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 Dai tre portali si entra all’interno della chiesa mediante ampie scale separate, a tre blocchi indipendenti, e contenente, ciascuna scala, da cinque a sette gradini.

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 Una porticina di servizio, per accedere direttamente alla sagrestia, si apre in Via Cairoli.
Sul lato destro della chiesa si innalza il campanile edificato nel 1676 da maestranze locali su commissione di Michele Rescifina. Presenta quattro ordini in cui si aprono semplici finestre.

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Nel tempo la chiesa ha subito alcune modifiche: alla fine dell’Ottocento la facciata principale è stata ricoperta da intonaco e sulla lunetta del portale principale e sui portali laterali sono stati inseriti dei bassorilievi in stucco raffiguranti scene del martirio del Santo e alcuni angeli con le ali e con le mani sul petto. Il terremoto del 31 ottobre del 1967 provocò al campanile e all’interno della chiesa danni notevoli per cui fu necessario intervenire con una considerevole ricostruzione di buona parte di essi. I lavori sono proseguiti per diversi anni. La chiesa è stata riaperta al culto solo da alcuni anni.
La Vara di San Sebastiano e la Varetta degli Angeli, a causa del terrmoto,  furono traslocati nella Chiesa Madre assieme ad altre opere.
La Varetta di San Sebastiano e la Varetta degli Angeli fecero ritorno nella propria chiesa precisamente il 15 agosto del 1993.
Il 18 agosto dello stesso anno si svolse la festa facendo uscire San Sebastiano e la varetta dalla loro chiesa.
La chiesa presenta la pianta basilicale a tre navate separate da alte colonne monolitiche in pietra.

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All’interno della chiesa di grande effetto scenico è la maestosa croce di luce che abbraccia l’altare maggiore realizzata nel 2004. E’ stata ideata dall’arch. Angelo Pettineo e da Ivana Elmo su commissione del comitato pro-tempore di allora.

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Il tempio ospita nel presbiterio il fercolo e la statua lignea di San Sebastiano, il patrono della città di Mistretta.
Il fercolo è una vera e propria macchina trionfale che manifesta la fede dei mistrettesi devoti al Santo che li protegge dalle epidemie e dalle pestilenze. La confraternita di San Sebastiano nel 1610 aveva commissionato ai fratelli Li Volsi di Nicosia una monumentale “Vara immaginis sacti Bastiani di legnami di chiappo” intagliata e rivestita di oro zecchino. Il maestro scultore amastratino Noè Marullo ha realizzato la statua del Santo Patrono di Mistretta completando la sua opera tra il 1886 ed il 1904.

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Noè Marullo ha scolpito San Sebastiano calmo nella accettazione del martirio e contorto negli spasimi della morte.
L’artista effigia San Sebastiano come uomo maturo che soffre per questa umanità attaccata ai valori terreni . Riproduce San Sebastiano quando riceve l’ultima freccia e quindi si accascia con un movimento verso sinistra.
Però, mentre il corpo soffre,  il volto rimane sereno perché San Sebastiano imita la sofferenza di Cristo, anzi  ne è felice perché subisce lo stesso dramma che ha sofferto Gesù.
E’ la celebrazione della bellezza del corpo umano che gli artisti esaltano proprio a partire dall’epoca rinascimentale.
Il fercolo è comunemente chiamato “a Vara ri Samastianu” ed è adibito al trasporto processionale del simulacro del Santo martire.
Le quattro formelle rettangolari, poste alla base, raccontano episodi tratti dalla Passio Sancti Sebastiani: il primo martirio del Santo trafitto dalle frecce, il giudizio e la condanna dinanzi all’imperatore Diocleziano,  le cure mediche di Irene, il martirio di San Sebastiano dinanzi all’imperatore.
Questa formella rappresenta il martirio delle frecce.
San Sebastiano è legato ad un albero, i pretoriani  lo colpiscono, osserva questo dramma un personaggio che non è romano, ma è il simbolo di colui che persegue fini non umani, in alto  l’angelo mostra nelle mani il segno della vittoria.

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Andando in senso orario nell’altra formella è raffigurato San Sebastiano arrestato che viene presentato di fronte a Diocleziano seduto in trono.

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Questa formella racconta San Sebastiano viene curato da Irene. L’ambiente è il palazzo imperiale, ciò vuol dire che San Sebastiano è curato dalla nobil donna dentro il palazzo. Diocleziano si rivolge al popolo  come se fosse stato costretto a emanare questa sentenza.
Ai tempi di San Sebastiano c’era il ritorno della religione  di stato. Diocleziano lo condanna perché Sebastiano, l’ufficiale della cavalleria romana, si era messo contro le leggi dello stato. Il paggio prepara le medicine. Il pane, il vino sono i simboli dell’ultima cena o dell’Eucaristia. Un altro paggio sposta la tenda come per dire: venite a guardare il martire che, per amore di Cristo, ha subito questo martirio.

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In questa formella Diocleziano non guarda mai San Sebastiano, ma guarda l’osservatore e l’altro imperatore Massimiliano che mostra San Sebastiano.  Come se dicesse: “Guarda, Diocleziano, è il nostro ufficiale”!  Erano amici tutti e tre. Lo presenta come colui il quale ha negato la religione di stato. Ci sono i pretoriani e il pretoriano che cerca di decapitarlo con la spada.
San Sebastiano non è stato decapitato,ma ammazzato a bastonate e poi gettato nella cloaca massima. Ai lati si vede il cavallo e ciò dimostra che San Sebastiano era un ufficiale di cavalleria. Diocleziano aveva riformato l’esercito e San Sebastiano era stato incaricato di comandare un reparto di cavalleria a protezione dell’imperatore, ma soprattutto della città di Roma.

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Gli artisti ripropongono il primo martirio di Sebastiano che viene colpito dai pretoriani. Riesce a sopravvivere perchè i pretoriani lo risparmiano. Nasce la tradizione che Sebastiano, avendo superato il dolore delle frecce, diventa un santo taumaturgo.
Fra le colonne del fercolo si trovano i quattro Santi dottori della chiesa: Sant’Ambrogio con le Sacre Scritture, San Gregorio Magno, che segna la consacrazione del Santo a Roma eletto terzo difensore della chiesa, San Tommaso d’Aquino, proclamato doctor angelicus nel 1568, San Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dei Francescani e riformatore dell’Ordine.

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Le altre quattro figure sono i primi difensori della chiesa: San Pietro, San Paolo, Santo Stefano, San Vincenzo di Saragozza.

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Poste in alto, all’interno del fercolo, ci sono le quattro vergini: Santa Lucia, Sant’Agata, Santa Caterina d’Alessandria, Santa Oliva.

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Le altre quattro figure rappresentano: gli Arcangeli Michael, Gabriel, Raphael, Uriel.

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Ancora più in alto si trovano i quattro Santi evangelisti: San Giovanni con l’aquila, San Marco con il leone, San Luca con il bue, San Matteo con il volume aperto.

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Infine l’aurea calotta potrebbe significare l’ultimo stadio del processo escatologico a cui tende l’Umanità, la Gerusalemme celeste presidiata da 12 angeli a guardia delle rispettive porte per le altrettante tribù d’Israele e dove si staglia nel cielo la Vergine, “una Donna vestita di sole, con la testa coronata da 12 stelle e la luna sotto i piedi”.

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La statua lignea di San Sebastiano, della fine della seconda metà del ’500 e chiamata “viecchiu”, è tornata a occupare il Suo fercolo, anche se per un breve periodo di tempo. Infatti è stata sostituita con la nuova statua di San Sebastiano realizzata da Noè Marullo nei primi anni del 1900. Poiché la statua di San Sebastiano del Noè Marullo nel mese di giugno del 2018 è stata sottoposta a un delicato restauro eseguito dalla dott.ssa Sebastiana Manitta la vecchia statua di San Sebastiano, collocata nella magnificenza della Sua vera, dalla chiesa Madre è stata trasportata ed esposta alla venerazione dei fedeli nella chiesa di San Sebastiano.

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La Vara, realizzata nel 1611 dai fratelli Li Volsi, fu adattata alle dimensioni della statua di San Sebastiano del ‘500 che vi rimase fino al 1908. La vecchia statua di San Sebastiano è stata collocata sui fori di fissaggio alla base della vara corrispondenti esattamente a quelli predisposti dai fratelli Li Volsi. Il corpo del Santo patrono di Mistretta è perfettamente in asse con la cupola.

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La Chiesa custodisce la sacra reliquia che contiene un osso del cranio di San Sebastiano.

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Altro capolavoro d’arte è la Varetta che corre davanti a San Sebastiano durante la processione. E’ custodita a sinistra del presbiterio.
Il fercolo processionale è formato dagli angeli circondati da grossi ceri che rappresentano i miracoli offerti dai devoti che hanno ricevuto grazie per intercessione di San Sebastiano. In alto ci sono le reliquie del santo sorrette da putti, del XVII secolo.

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 La statua del Santo che corre e la Varetta sono portate in processione per le vie del paese due volte l’anno: il 20 gennaio, perché è il Suo giorno scritto nel calendario, e il 18 Agosto, la festa dell’estate, per tutti i mistrettesi emigrati in altri Paesi.

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Il tempio custodisce l’apprezzabile statua lignea della Madonna della Cintura, o Madonna della Consolazione,  rivestita d’oro zecchino.
La statua della Madonna della cintura risale alla fine del ‘500. E’ l’espressione della vergine che protegge l’ordine agostiniano.
Poiché Mistretta apparteneva alla dicesi di Cefalù,  il vescovo mandò un sacerdote agostiniano che diffuse il culto di San Sebastiano.
La Madonna mostra al popolo  la cintura rifacendosi  a Sant’Agostino, uno dei padri della chiesa.

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La statua dell’Angelo Custode, o Raffaele e Tobia, opera lignea scolpita dal cappuccino frà Macario da Nicosia e risalente al 1653, è molto simbolica.
Il bambino, che si affaccia alla vita, è preoccupato pensando al suo futuro e non si accorge che è protetto dall’angelo custode che gli appoggia la mano  sulle spalle. L’angelo, rispetto al bambino, è alto e il bambino non lo vede.
I piedi dell’angelo sono più  avanti rispetto a quelli del bambino e sono vestiti dai sandali, simbolo che la statua è stata realizzata da un francescano.  L’angelo, con l’espressione serena del volto, col braccio alzato e col dito verso l’alto, indica Colui che sta sopra tutta  l’umanità.

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Gesù nell’orto di Getsemani, di fattura ignota, del XX secolo.

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San Filippo Apostolo, scultura lignea di Noè Marullo, della fine del XIX e inizi del XX secolo.

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La statua di Sant’ Antonio Abate è una scultura lignea di Giuseppe e Giovan Battista Li Volsi  risalente al 1606 che raffigura  il vescovo della chiesa rappresentante l’autorità vigilante nei confronti del popolo cristiano.  Proveniente dalla chiesa eponima distrutta negli anni ’30 del secolo scorso.

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Le tele raffigurano: il martirio di San Giacomo, la Madonna col Bambino e i Santi, il Battesimo del Re Costantino, la Madonna col Bambino, queste due ultime tele sono opera di ignoti e risalenti al XVIII secolo.
Primo tra gli apostoli, Giacomo fu martirizzato in Gerusalemme, verso l’anno 43/44, per ordine di Erode Agrippa subendo la decapitazione.
La spada che tiene in mano è il simbolo del suo martirio. Il culto di San Giacomo è stato introdotto dai normanni,  quindi si è diffuso anche a Mistretta.
Molti dei cavalieri erano devoti a San Giacomo, altri a San Sebastiano e altri ai santi venerati nella Sicilia orientale.
Il cappello, posto in basso, è simbolo del pellegrino e del pellegrinaggio perché San Giacomo era vescovo, pellegrino, evangelizzatore della fede di Cristo. La tela è opera di ignoto pittore siciliano realizzata nel periodo ante 1750.

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La tela della Madonna della Grazia, la Madonna col Bambino e i santi,  di ignoto pittore siciliano è stato dipinto nel periodo ante 1750 .

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San Silvestro o Battesimo del Re Costantino. E’ un olio su tela opera di ignoto pittore siciliano dipinto nel periodo ante 1750.

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La tela della Madonna della Mercé, la Madonna col Bambino, è opera di Antonino Manno, del 1771, proveniente dalla Chiesa Madre.

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Una amastratina in preghiera!

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Da visitare è la cappella del SS.mo Sacramento. Il piccolo tabernacolo ligneo,  del periodo neoclassico, proviene dalla stessa chiesa distrutta durante il terremoto del 1967.

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L’organo verde, presente nella navata laterale destra, opera di ignoto organaro siciliano o napoletano della seconda metà del XVIII secolo,non appartiene alla chiesa di San Sebastiano, che lo custodisce gelosamente, ma al Santuario della Madonna della Luce poiché la chiesa è insicura.

 

LA CONFRATERNITA DI SAN SEBASTIANO

 La Confraternita di S. Sebastiano, dapprima intitolata a Sant’Agostino, perché la cappella era limitrofa al convento delle suore agostiniane e con lo statuto ispirato alla regola agostiniana, nacque probabilmente nel sec. XVII.
Tra il 1400 e il 1600 a Mistretta la devozione a San Sebastiano aveva assunto proporzioni così popolari tanto da proclamarLo patrono della città, grazie all’insistente sollecitudine della confraternita, il 2 giugno 1775 quando la Chiesa Madre fu dedicata al Santo martire unitamente a Santa Lucia e a San Maurizio. Allora  c’era l’usanza di dedicare le grandi basiliche a tre diversi santi.

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Il sec. XIX fu il periodo d’oro della confraternita notevolmente impegnata nel culto di San Sebastiano, nell’attenzione per la Sua chiesa, nell’amministrazione di beni, nel mutuo sostegno ai confrati. Nel 1890 la confraternita incaricò lo scultore amastratino Noè Marullo di realizzare la statua del Patrono, magnificamente integrata nel pregevole fercolo dei fratelli Li Volsi e che ha già raggiunto i 402 anni d’età. La confraternita di San Sebastiano attualmente è formata da tanti giovani devoti che, con entusiasmo, coordinano il culto e la festa del Santo Patrono. Qualche anno fa il Comitato per i festeggiamenti di San Sebastiano e la Confraternita hanno sostenuto la pubblicazione del volumetto dell’arch. Angelo Pettineo “Un capolavoro del manierismo siciliano: la vara di San Sebastiano a Mistretta”.
La confraternita è sottoposta a “Regole, Costituzioni ed Osservanze”. Partecipa, inoltre, a tutte le processioni delle feste locali impegnandosi particolarmente al trasporto della statua di Gesù nel Getsemani durante la processione dei Misteri del Venerdì Santo. La statua raffigura Gesù nell’orto di Getsemani, il giardino situato ai piedi del monte degli Ulivi. La confraternita non ha mai posseduto grandi patrimoni, pertanto è priva della cappella funeraria al cimitero monumentale di Mistretta.
Lo stendardo della confraternita.

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Jan 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA MANDRAGORA AUTUMNALIS

LA MANDRAGORA AUTUMNALIS

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Alla fine del mese di novembre percorrevo la strada che collega la contrada di Mollarella con quella della Poliscia per la consueta passeggiata all’aria aperta. A circa 300-400 metri di distanza dalla famosa spiaggia di Licata su un terreno incolto ho visto che vegetavano molto bene alcuni cespugli di Salsola oppositifolia dai bellissimi fiori dal colore rosato. Pazientemente, preparo la mia macchina per fotografare questa meraviglia della Natura.
Sotto un cespuglio di Salsola, timidamente, una piccola piantina dai fiori violetti si presenta a me.
Mi stupiscono: la sua bellezza, la sua ritrosia, ma anche la sua sfacciataggine nel mostrarsi all’improvviso.
Le chiedo: chi sei?
Mi risponde: sono la magica Mandragora autumnalis.
Suggestiva, splendida e misteriosa creatura tu sei la benvenuta!
Sono molto curiosa di conoscerla!
La grande attenzione rivolta alla Mandragora nel corso della storia e in diverse parti del mondo ha stimolato la ricerca dell’etimologia del suo nome in relazione alle diverse culture presso le quali era utilizzata. L’erba Mandragora è stata celebrata più volte dagli autori greci e latini e ha influenzato la fantasia di molti autori medievali.
Secondo alcuni studiosi il nome del genere della pianta potrebbe derivare dalla deformazione dell’espressione “Mano di drago” riferendosi sia all’aspetto della radice, che talvolta può ricordare la zampa e gli artigli di un drago, sia alla superficie delle foglie caratterizzate da rilievi carnosi simili alla pelle di un rettile. Secondo altri il suo nome potrebbe derivare dal sanscrito “Mandros” “sonno”, e “agora”, “piazza, luogo di adunanza”, perché preferisce gli spazi aperti, oppure da “Mandara” “Paradiso” perché è una pianta che proviene dall’Eden.
Forse è la pianta del bene e del male.
Altri propendono per l’origine sumerica da “Nam-tar” “Pianta del dio del castigo”. Oppure dalla derivazione medievale tedesca “Mann-dragen” “Figura di uomo”. Il nome è assonante con il persiano “Mandrun-ghia“, “Erba-uomo”, che allude alla forma antropomorfa delle radici. Bodeo Stapel pensa che possa derivare dal germanico “Man” Uomo” e “tragen” “ portare” perché le grosse radici, spesso biforcate e accavallate, hanno una certa somiglianza con le gambe umane o con gli uomini senza braccia: “Radix subinde bifida, aut triftda, crura bina et clunes quasi disparata ostentant“.
Per questo motivo Pitagora la chiamò “Antropomorfon”.
Anche Columella la definì “semi umana”, accennando alla forma antropomorfa delle sue radici: “Quamvis semi hominis vesano gramine foeta Madragorae pariat flores, moestamque cicutam“.
Dioscoride, nel De Materia Medica, la chiama “NantimelonArchinenMorion”.
Claudio Eliano, nel De Animalium Natura, la chiama “Cynospastos” “estirpata per mezzo di un cane”, come racconta anche Flavio Giuseppe (37-100 d.C.) nel De Bello Judaico, e, poiché brilla di notte, la chiama anche “Aglaophotis” “risplendente”. Questo nome è stato usato da Plinio il Vecchio nella Historia Naturalis.
Altri studiosi sostengono che derivi dal greco “μανδραγόρας” “pianta che addormenta” o dall’unione di “μάνδρα” “recinto per greggi” e di “γόος” “chiamata” col significato di “richiamo delle mucche” perché la Mandragora, poichè preferisce vegetare su terreni fertili, si trova spesso in vicinanza dei luoghi di rifugio e di riposo del gregge: “Speluncarum stabulorumque honos. Quod ad mandras pecorum aliisque speluncas provenit“. La forma greca “μανδραγόρας” si trova già negli scritti di Xenofon e di Teofrasto.
Gli Ebrei la chiamano “Dudaim”, da “dum” “amore”. Gli Arabi la chiamavano “Pomo dei Djinn”, ossia degli “Spiritelli” e “Mela di Satana”.
Il naturalista Carlo Linneo, che aveva affermato l’unicità della specie, l’ha battezzata Mandragora officinarum per i suoi impieghi nella medicina empirica.
Proprio per la sua particolare forma, nel corso del tempo ad essa sono stati attribuiti affascinanti e divertenti appellativi quali: “AnthropòmorphonSemi-HomoMela del DiavoloVecchietto barbuto, Vecchia signora”.
Anche il medico greco Ippocrate, affascinato dalla sua bellezza, asserì che il suo nome era “Mardumgià”Erba dell’uomo” di derivazione persiana. In Asia la Mandragora è nota come “Lakshmana”che possiede segni fortunati”. In Francia è nota come “Main de gloire” “Mano di gloria”, o “Mandragloire”, vocabolo forse nato dall’unione delle parole “mandragora” emagloire”. Quest’ultimo è il nome di un elfo del folklore francese personificato come una radice di Mandragora.
Il Fiori, nella sua Flora Italiana, ne considera due specie: la Mandragora officinarum, che fiorisce in primavera, ed ha la radice grossa, carnosa, bianca e la corolla di colore bianco-verdognolo, e che corrisponde alla Mandragora maschio degli antichi, e la Mandragora autumnalis, che fiorisce in autunno, ed ha la radice più piccola e nerastra e la corolla violacea e che corrisponde alla Mandragora femmina degli antichi. Anche secondo Plinio la Mandragora con la radice bianca è la pianta maschio, quella con la radice nera è la pianta femmina.
Da questo lungo elenco dei suoi nomi si deduce che la Mandragora è un pianta che ha avuto la capacità di incantare gli studiosi nella complicata ricerca dell’origine della sua denominazione. Il nome della specie della pianta fotografata è molto semplice. Deriva dal latino “autumnalis” perché la fioritura avviene in autunno.
Il tipo corologico dellaMandragoraè Steno-Mediterraneo. E’ una specie diffusa nella area mediterranea – meridionale, dal Portogallo, alla Spagna,  alla Grecia, nell’Isola dì Candia, nell’Africa settentrionale ed in Medio Oriente. E’ abbastanza comune nell’Italia centro-meridionale e nelle grandi isole. In Sicilia è conosciuta con diversi sinonimi: a Caltanisetta è chiamata “Minnulagrò”, a Catania “Mannaraona, Mandulagròna”, a Palermo, a Siracusa, a Ragusa “Pàmpina di Aùna”.
Le Mandragore che crescono in Sicilia sono: la Mandragora officinarum e la Mandragora autumnalis. Sono entrambe le famose “piante magiche” conosciute fin dall’antica Grecia. Su di esse si è sbizzarrita la fantasia popolare creando aloni di mistero e di superstizione ed eccedendo in indicazioni sul loro potere e sul loro uso.Anche Omero, nel X libro dell’Odissea, narra che una piantina di Mandragora, l’erba “Moli”, fu donata ad Ulisse dal dio Hermes come amuleto per proteggersi dagli incantesimi della maga Circe che voleva trattenerlo.

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La Mandragora autumnalis, che ho incontrato casualmente nella campagna di Licata, volgarmente chiamata “Mandragora femmina”, appartenente alla famiglia delle Solanaceae, è una pianta erbacea perenne che emana un odore alquanto puzzolente.
Possiede una grossa radice a fittone, della lunghezza di 150 cm, di colore scuro che si sotterra profondamente. Gli antichi Greci chiamavano la radice di Mandragola “anthropomorphon” per il suo aspetto antropomorfo che assume biforcandosi e ramificandosi. Poiché il simile agisce sul simile, ha potere di agire sull’intero corpo umano. Probabilmente questo aspetto antropomorfo delle radici ha contribuito a far attribuire alla pianta poteri sovrannaturali. Molte credenze popolari le hanno attribuito virtù magiche e afrodisiache.
La radice principale è divisa in basso a formare gli “arti inferiori”; le radici avventizie, più in alto, rappresentano gli “arti superiori”. La “testa emerge dalla terra con una rigogliosa capigliatura formata dalle grandi foglie. A volte tra “arti inferiori” si scorgono, con molta fantasia, anche gli “organi genitali”.
Ecco perché la Mandragola si distingue nei due individui “maschio” e “femmina”.
Il fusto è acaule o brevissimo alto non più di 10 cm. Le foglie, disposte in una rosetta basale, come se nascessero dalla radice, sono brevemente picciolate, con lamina ovato-oblunga, corrugata, intera o dentellata e ondulata al margine, cosparsa di peli su entrambe le pagine di un bel colore verde intenso, con l’apice acuminato e con nervatura centrale ispessita.
I fiori,  ermafroditi, solitari, inseriti in gruppi di 4-6 al centro della rosetta fogliare, spuntano su peduncoli pubescenti alti 1,5-2 cm. Il calice,  gamosepalo, con tubo diviso in 5 lobi ineguali triangolari o lineari, è persistente alla fruttificazione. La corolla,  gamopetala, con tubo imbutiforme lungo 2-2,5 cm, campanulata, di colore azzurro-violaceo intenso e luminoso, è divisa in 5 lobi larghi e triangolari.

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L’androceo è composto di 5 stami saldati al tubo della corolla. Lo stilo è più lungo degli stami.
L’ovario è supero e biloculare. Lo stimma è bilobo. L’antesi normalmente avviene in autunno, nei mesi da settembre a dicembre. Tuttavia la fioritura, lunghissima, si protrae per quasi tutto l’inverno continuando a fiorire anche sotto la neve. Alla fioritura seguono i frutti, i così detti pomi. Il frutto è una bacca globosa di colore giallo-rossastro, lunga fino a 3 cm, che diventa nera quando è molto matura e che emana un odore fetido di meloni guasti. La bacca contiene all’interno numerosi piccoli semi reniformi.

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Singolare è il modo di comportarsi della Mandragora autumnalis rispetto alle stagioni. In estate la pianta scompare dal terreno andando in letargo e diventando ipogea, ma sotto lo strato della terra è perfettamente viva. In una calma e paziente attesa delle lunghe ombre autunnali rispunta in autunno dando spettacolo di sé nella stagione fredda!
I suoi habitat preferiti sono i terreni incolti, calcarei, leggeri, permeabili e profondi che consentono alle radici di svilupparsi in profondità. Sceglie luoghi esposti al sole e non gradisce essere spostata. Non soffre il freddo.
Poichè la Mandragora è considerata la pianta magica per eccellenza, che possiede svariati poteri, stimola la tentazione di essere coltivata. Si può coltivare sia in vaso sia in piena terra. Per la coltivazione in vaso occorrono: un vaso più alto che largo in modo tale da favorire lo sviluppo della radice, semi freschi e terriccio fine, leggero e umido. E molte cure! La germinazione è lentissima, ma le nuove plantule sono abbastanza resistenti al trapianto.
Per la coltivazione in piena terra, oltre al tipo di terreno che deve essere periodicamente concimato e bagnato, è importante la scelta del luogo dove non devono arrivare i raggi diretti del sole. La pianta, coccolata, procurerà felicità, ricchezza, buona salute, scaccerà le forze negative, aiuterà a ritrovare le ricchezze nascoste e sarà la cura per tutti i mali.
Essendo questa pianta realmente dotata di azione tossica ed allucinogena, è consigliabile evitare di coltivarla nelle abitazioni dove ci sono bambini piccoli che potrebbero essere invogliati ad ingoiare i colorati frutti.
La storia della Mandragora è molto lunga. Oltre alle credenze popolari, bisogna valutare le effettive proprietà della pianta e gli usi terapeutici empirici accertati dall’indagine clinica e farmacologica.
Le testimonianze sull’uso terapeutico della Mandragora attraversano la storia delle erbe e, nella maggior parte dei casi, concordano le ipotesi sulla sua capacità di procurare un sonno profondo e ristoratore. Tracce storiche sulle potenzialità curative della pianta si trovano in Plinio, in Galeno, in Lucio Apuleio. La pianta è raffigurata e descritta non solo in tutti i testi antichi, ma anche nell’Herbario Novo di Castore Durante che ne riassume le proprietà:
Conciliat somnum, sedat pariterque dolores

Mandragoras, et mollit Ebur; tuberculas, strumas

Discutit, et collecta; Iuvat serpentis ad ictus,

Expellit partus, et menstrua; detrahit atram

Tum vomitu bilem, et pituitam; inducit et inde

Humorem, ac frigus; largo demittit ad orcum

Et potu“.

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Gli speziali antichi usavano la radice e le foglie della Mandragola per preparare i loro intrugli.
 Infatti Giacinto Marchi, capo-speziale dell’ospedale Santa Maria della Scala nei primi decenni del XVIII secolo, riporta la ricetta del rinomato “Unguento Populeon” ottenuto utilizzando le grandi foglie e utile nel trattamento delle emorroidi. E’ senza dubbio vero che la Mandragola ha notevoli proprietà farmacologiche.
L’uso a scopo medico della Mandragora è continuato per tutto il Medioevo e quasi fino ai giorni nostri.
Anche se in commercio non esistono più preparati a base di Mandragora, tuttavia è importante riconoscere che essa ha lasciato un importantissimo testamento nella farmacologia moderna. Si può andare a ritroso perché già ai tempi del medico greco Ippocrate (460-377 a.C.), e ancora per molti secoli, si usava ricavare l’infuso di radice di Mandragora immersa nel vino da somministrare, per il suo effetto ipnotico, “a coloro ai quali si deve segare qualche membro senza dolore o si debbono fare cauterizzazioni”, come riferisce Castore Durante, anticipando l’uso del cloroformio come anestetico introdotto solo nel 1847 dallo scozzese Sir Giacomo Simpson.
riporta che i frutti di Mandragora possono essere mangiati senza rischio e che hanno una notevole proprietà afrodisiaca: “Rachel venusta sed sterilis, Jacobi Patriarchae uxor; quamvis foecunditatern a Deo precario obtinuerat, non tamen prius concipere poterat quam Poma Mandragorae, a sorore Lya accepta, gustasset, Quorum foecundas vires (aggiunge Langius Epist. Lib.2) pleraeque Bononiensium uxores, ‘me consule’ expertae sunt“!
Poiché il pomo mangiato da Rachele in ebraico è chiamato “dudajm”, dalla radice “dud” “amore”, la maggior parte dei coIl principio attivo della radice di Mandragola fu identificato verso la fine dell’800 ed inizialmente fu definito come “mandragorina”. Un’analisi chimica più accurata ha evidenziato la presenza di una miscela degli alcaloidi “iosciaminascopolamina e atropina”.
Dunque la Mandragora deve le sue proprietà medicinali e la sua tossicità all’alto contenuto di atropina. I benefici farmacologici della mandragorina e dell’atropina sono simili e utili a basse concentrazioni, dannosi alle medie, letali ad alte dosi.
Come tutte le piante dotate di una certa attività, la Mandragora anticamente fu sperimentata e vantata per la cura di svariate malattie. La sua applicazione più efficace era contro le malattie oculari: “Mandragoras Epiphoris, quod certum est, medetur…. nam succus multis oculorum medicamentis miscetur” (Camers, Index Plin, Venezia, 1525). Era anche usata esternamente come antiflogistico ed analgesico, applicando le foglie su parti infiammate o dolorose.
Discordanti sono i pareri sulla tossicità dei frutti. Alcuni studiosi affermano che sono commestibili, anzi che sono innocui, altri invece che non si devono mangiare. Bodeo Stapel cita una lettera di Langius, riferita alla Bibbia, dove mmentatori e traduttori della Bibbia non crede che il pomo della Mandragora sia velenoso proprio perché lo considerano il dudajm di Rachele.
Narra la Genesi (30 – 14/16) come Rachele abbia fatto ricorso alle proprietà afrodisiache degli estratti della radice della Mandragora per eccitare all’amore il frigido Giacobbe, sposo tanto suo quanto di sua sorella Lia: “Al tempo della mietitura del grano, Ruben uscì e trovò Mandragore, che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: <Dammi un po’ della Mandragore di tuo figlio>. Ma Lia rispose: < E’ forse poco che tu mi abbia portato via il marito perché voglia portar via anche le Mandragore di mio figlio?>. Riprese Rachele: < Ebbene, si corichi pure con te questa notte, in cambio delle Mandragore di tuo figlio>. Alla sera, quando Giacobbe arrivò dalla campagna, Lia gli uscì incontro e gli disse: < Da me devi venire, perché io ho pagato il diritto di averti con le Mandragore di mio figlio>. Così egli si coricò con lei quella notte”. Questo discorso non dà certo un’idea esemplare della purezza e del candore dei costumi di quel tempo.
Alle presunte proprietà afrodisiache e fecondanti della pianta fa riferimento Niccolò Machiavelli nella sua celebre commedia intitolata appunto “La Mandragola”, come lui chiama la pianta,scritta dall’autore nel lontano 1518: “non è cosa più certa ad ingravidare una donna che dargli bere una pozione fatta di mandragola”. Nella cultura Voodoo la polpa della radice è modellata per creare feticci per fatture d’amore e di maledizioni alle quali dona l’indispensabile potere esoterico.
Forse proprio questa sua capacità di favorire il concepimento indusse Teofrasto a considerarla una pianta “magica” e a descrivere per primo la complicata procedura necessaria per raccogliere la sua radice dalle viscere della terra.
Dell’azione narcotica degli infusi delle radici di Mandragora narra Sesto Giulio Frontino (40-103 d.C.) in “Strategematon libri IV: Hannibal missus a Carthaginiensibus adversus rebellantes Aphros, cum sciret gentem esse avida vini, magnum ejus modum mandragoras permiscuit, cujus inter venenum et soporem media vis est. Tunc, proelio laevi commisso, ex industria cessit, nocte deinde intempesta, relictis intra castra quibusdam sarcinis et omni vino infecto, fugam simulavit; quumque Barbari occupatis castris, in gaudium effusi, medicaturn merum avide hausissent, ac in defunctorum modo strati jacerent, reversus, coepit eos ac trucidavit in copia“.
Giulio Fiorentino racconta che Annibale, inviato dai Cartaginesi per sedare un ammutinamento di uomini africani, dopo un primo approccio, finse di ritirarsi lasciando, però, sul campo alcune botti di vino dove erano state infuse alcune radici di Mandragora. Non dovette aspettare molto per catturare i ribelli! Dopo aver bevuto quel vino erano caduti in un profondo stato di torpore.
Sembra che l’infuso di radice di Mandragora abbia effetto anche soporifero tanto che ad un individuo, intontito e sonnolento, gli si domandava se avesse bevuto l’infuso di Mandragora.
L’imperatore Giuliano, in una lettera a Callistene, esclama: “Non sembra che abbiano bevuto molta Mandragora?” Ai bevitori di Mandragora accenna pure Demostene nella sua Quarta Filippica. Luciano, in Timone, parlando dei mercanti che sonnecchiano nei bazar senza curarsi degli affari, scrive: “Quod modo, Jupiter, tamquam sub Mandragora dormis, qui neque prejeran-tes audis, neque juris violatoris advertis?
Sebbene la riconosciuta tossicità, moderatamente dosato, l’infuso di radice, che è la parte più attiva della pianta, è antisettico e utilizzato nella cura degli spasmi intestinali e nell’omeopatia come rimedio sedativo nei casi di asma e di tosse. Effetti collaterali, per l’assunzione di dosi massicce, potrebbero essere: diminuita sensibilità, forme di delirio, convulsioni, allucinazioni, aumento dei battiti cardiaci, pressione alta, nausea, riduzione della secrezione della saliva e dei succhi gastrici, sete, vomito, diarrea, letargo e anche esiti letali.
Usato in concentrazione corretta è un efficace deprimente del sistema nervoso parasimpatico per cui è utile per eliminare gli stati spastici della muscolatura liscia. Per la capacitàdi dilatare la pupilla dell’occhio è un segnale importante per diagnosticare l’avvelenamento da Mandragora.
Le accertate proprietà tossiche della Mandragora prevalgono su quelle terapeutiche.
La moderna farmacopea le ha lasciate in eredità ai ciarlatani e alla stregoneria zingaresca per creare i loro intrugli.
In Europa i rimedi utilizzando le parti della Mandragola non si usano più. I Russi continuano liberamente ad adoperarli nella cura contro i tumori, le parotiti, gli ascessi.
Tra tutte le piante tradizionalmente considerate magiche sicuramente la Mandragora è una delle più famose piante a cui appartiene una lunga e complessa storia.Pianta ammaliatrice, ha sempre esercitato un fascino particolare sull’immaginario collettivo. Il periodo brillante delle credenze sulla magia della Mandragora fu il Medioevo essendo stata un elemento indispensabile per le pratiche magiche e spirituali di molte culture. Imbonitori e streghe preparavano pozioni magiche e filtri d’amore dall’effetto narcotico ed allucinogeno.
Alcuni esempi: la radice di Mandragora può scacciare i demoni, posta sotto il letto di una persona ammalata può guarire il suo corpo e la sua anima, ma, nello stesso tempo, può portare alla malvagità, può donare un sonno ristoratore, ma può provocare anche la demenza, può uccidere, ma è anche un rimedio contro il veleno dei serpenti. E’ una vera e propria bilancia sospesa fra incertezza ed ambiguità.
La Mandragora è un potente talismano e con essa sono costruiti amuleti di protezione per la difesa attiva, per attrarre il denaro col gioco, per la seduzione, contro l’impotenza o per salvaguardare la fedeltà dell’innamorato/a. L’incenso creato con la radice della Mandragora magica, in unione con una parte di aconito, di elleboro nero, di belladonna, di giusquiamo e di olio di mandorle amare, è utilizzato per entrare in contatto con Ecate. La Mandragora è sacra ad Ecate, dea delle tenebre, protettrice delle streghe, che ingenera follia, incline a sacrifici animali, a magie e ad incantesimi. Ecate è legata ad Artemide, dea della luna. La Mandragora guarisce, quindi, l’epilessia e il “mal di luna“.
L’incenso di radice, mescolato alle foglie di salvia e al peperoncino rosso, finemente tritati e a 13 gocce di olio essenziale, è un valido aiuto per iniziative di difesa personale. Grani di incenso, uniti a pochi petali di rosa e a 13 gocce di olio essenziale di verbena scatenano l’amore passionale.
La Mandragora è la pianta delle streghe dalla quale ricavavano una magica bevanda utilizzata per i Sabbat.
Le sacerdotesse dell’antico Egitto la consumavano durante la grande festa della dea Hator. È chiamata “Pianta Sacra e Maestra”, “Chiave d’Accesso” agli stati di trance per gli antichi maghi iniziati, sciamani e moderni psicopranoterapeuti. La radice della Mandragora caratterizza la connessione purificatrice delle zone più profonde e insondabili dell’astrale. Da tutto ciò si evince che non ci può essere nessun rito occulto efficace senza la preziosa e prodigiosa presenza della Mandragora, pianta dai poteri infiniti.
Quante leggende, quanti miti sono stati inventati intorno a questa pianta durante gli oscuri periodi dell’era barbarica e del Medioevo!
Nel Medioevo, infatti,si riteneva che la Mandragora nascesse ai piedi penzolanti degli impiccati la cui anima dannata entrava nella radice della pianta che acquisiva i poteri magici. Questi “esseri magici”, estratti dal terreno, si sottoponevano al potere dell’uomo procurandogli benefici, salute e prosperità.
Sempre secondo alcuni racconti medievali, pericolosi rischi correva chi estirpava le radici della Mandragora. Grandi erano le ricchezze accumulate dal medico e dallo speziale che, dalle radici preparavano dei farmaci “magici” che vendevano agli ingenui e ricchi clienti.
Altre leggende raccontano che, per ottenere “omuncoli” vivi dalla radice, le piantine di Mandragora dovevano essere nutrite con sangue mestruale mescolato al liquido spermatico per almeno tre mesi di tempo. Era diffusa la credenza secondo la quale la Mandragora “urlava” nel momento in cui veniva estirpata dal terreno e questa funzione non si poteva fare senza un rituale preciso. L’urlo della Mandragora, quando viene divelta dal terreno, è stato ascoltato dai personaggi di Shakespeare in Romeo e Giulietta.
Il filosofo greco Teofrasto (312-287 a.C.) nella sua Historia Plantarum, ( IX, 8) descrisse il metodo di estrazione della radice di Mandragora dalla terra. Per evitare i pericoli insiti all’estirpazione delle radici bisognava tappare le orecchie con la cera per non sentire le strazianti grida della radice, tracciare attorno alla pianta tre cerchi con la spada di ferro mai usata prima, scavare la terra tenendo il volto rivolto verso ovest intanto che un amico danzava cantando senza interruzione le laudi alla filantropia e all’erotismo. Finalmente si arriva al momento dello strappo finale della radice. I cerchi indicavano il potere circoscritto della Mandragora preservando chi stava fuori. Il ferro incarnava gli aspetti oscuri della pianta.
Secondo lo storico Flavio Giuseppe (37-100 d.C.) in De Bello Judaico,  (VII, 6) più prudenti erano gli ebrei di una vallata della Palestina, chiusa a nord dalla città di Machrus, dove cresce appunto questa “meravigliosa radice di color rosso fuoco, che la sera getta bagliori“.
Racconta che sradicarla è molto difficile perché continua ad infossarsi e a resistere finché non si irrori di orina o di sangue mestruale. All’estirpazione della radice potrebbe seguire la morte di chi ha manualmente effettuato tale lavoro. Per evirare ciò, dopo avere lavorato con la vanga, per allontanare la terra dalla radice ancora saldamente aggrappata ad essa, nella parte aerea della radice si lega con una corda il collare di un cane. Il suo padrone si allontana, lo chiama ad alta voce e lo attira mostrandogli un prelibato boccone lanciatogli da lontano.
Il cane, sollecitato a correre per guadagnare il boccone, involontariamente asporta la radice dal terreno trascinandola con sé nel suo breve slancio. Si leverà nell’aria l’urlo agghiacciante della Mandragora. Il cane è l’unico individuo a sentire le grida lancinanti della demoniaca radice asportata dalle viscere della Madre Terra. Il cane muore.
E’ l’unica vittima innocente della Mandragora che, dopo tale cruento sacrificio, perde ogni potere letale mantenendo integro quello di scacciare i “maligni” dal corpo degli umani. L’estrazione della radice è un sacrilegio che si punisce con la vita di un cane. E’ stato scelto proprio il cane perchè nella mitologia il cane è da sempre associato al mondo sotterraneo dove attende fedele ed accompagna il padrone nel mondo dell’aldilà.
Il Dio Anubis, il Guardiano dei Morti degli antichi egizi, ha, infatti, la testa di cane. Il cane è un chiaro simbolo riconducibile ad Ecate, divinità degli inferi, spesso rappresentata con tre teste di cui una è di cane. Ecate gradisce il sacrificio del cane, inviatole dalla pianta che ingenera follia. Eseguite le operazioni di estirpazione bisogna richiudere la buca. Se è stato il cane a compiere l’operazione, allora sarà lo stesso cane a riempire il buco al posto della radice estratta.
Se ad estrarre la radice è stato un mago, allora bisogna introdurre una moneta o un monile d’oro al posto della radice sottratta. Più raramente si richiude la buca rimettendo il ciuffo di foglie al posto della radice quasi a sostenere che tutto è ritornato come prima e che nulla è, in realtà, avvenuto.
Tutto ciò è frutto di pura fantasia medianica. Il moderno raziocinio non concede di credere che, una volta estratte, le radici emettano realmente un possente urlo.
Nell’estirpare le radici della Mandragora le speciali precauzioni da osservare sono ricordate anche da Camers (1. c. lib. 25, cap. XIII): “Cavent effossuri contrarium ventum et tribus circulis ante gladio circumscribunt. Posteo fodiunt ad Occasum spectantes”. L’imprudente, che tentasse di impadronirsi della Mandragora senza tener conto della direzione del vento, avvertirebbe un alone altamente fetido.
Anche Bodeo Stapel ha insistito sulle precauzioni da osservare: “Mandragoram quoque ense ter circumscribere jubent et alterum succidere ad Occasum spectando. Alterum circumsaltare plurimaque de rea venerea dicere”.
Oltre alle precauzioni materiali, si dovevano recitare preghiere da innalzare al cielo, maledizioni, imprecazioni, volgarità. Tutte queste pratiche effettuate, sia in buona fede, per ignoranza, sia scaltramente, per imbroglio, servivano ad esaltare la fama magica della Mandragora. Nel popolino era diffusa la credenza che, sagomate come amuleti ad immagine umana di ambo i sessi, le sue radici acquisivano poteri soprannaturali.
La fantasia popolare era stata abbagliata dall’aspetto antropomorfico della radice che gli imbroglioni si ingegnavano di esaltare mediante ben adattati colpi di coltello così da evidenziare gli organi esteriori della riproduzione. Si distinsero: la Mandragora maschio e la Mandragora femmina con il selettivo potere di scegliere l’uno o l’altro sesso. E’, appunto, su questa credenza che si basa l’intreccio della commedia  burlesca “La Mandragola”  di Niccolò Machiavelli (1469-1527), una divertente satira sulle presunte “virtù erotiche” della Mandragora.
Il nucleo della commedia è rappresentato dalla burla compiuta dal giovane Callimaco, coadiuvato dal servo Ligurio, a svantaggio del vecchio e stupido messer Nicia, marito di Lucrezia, dalla quale bramava la nascita di un figlio ad ogni costo per lasciargli l’eredità. Il giovane Callimaco, ritornato a Firenze da Parigi, attratto dalla fama della bellezza di Lucrezia, aiutato da Ligurio, sfrutta la buona fede del credulone Nicia convinto che la moglie fosse sterile.
Callimaco, falsamente, fingendosi dottore in medicina, propone a Nicia di vincere la sterilità della moglie somministrandole una magica pozione di Mandragora. Messer Nicia, per esalare la sua ammirazione per la dottrina medica di Callimaco, si esprime con bestemmie da becero e con i modi del più elegante fiorentino parlato: “Oh, uh potta di San Puccio ! Costui mi raffinisce tra le mani; guarda come ragiona bene di queste cose!”. Oppure “Ho più fede in voi che gli Ungheri nelle spade”. Lucrezia, diventata “velenosa” dopo aver bevuto l’infuso dell’erba Mandragora, avrebbe causato la morte di chi si sarebbe disteso accanto a lei.
Callimaco e Ligurio, anche con l’aiuto di Sostrata, la madre di Lucrezia, e di Fra’ Timoteo, il corrotto suo confessore, per estirpare il maleficio e scongiurare questo pericolo, convincono Nicia a far coricare nello stesso letto la moglie con uno sconosciuto. Durante la notte organizzano il rapimento e catturano un giovane deforme. E’ Callimaco travestito e irriconoscibile.
Egli giace nel letto con Lucrezia per una notte d’amore. Si è attardato in camera sino all’alba. La mattina successiva le rivela l’amore, il raggiro, la promessa di sposarla qualora il vecchio Nicia passerà a miglior vita. Lucrezia, paragonando la notte trascorsa col marito Nicia con quella appena trascorsa con Callimaco, accetta la proposta dicendogli: “poiché la tua astuzia, la stupidità di mio marito, l’ingenuità di mia madre e la malizia del mio confessore mi hanno condotta  a fare quello che mai avrei fatto, voglio credere che tutto questo derivi dalla volontà celeste. Non ho il potere di rifiutare quello che il Cielo ha voluto, perciò ti prendo per signore, padrone e guida. Sii tu mio padre, mio difensore, ogni mio bene. Ciò che mio marito Nicia ha voluto per una sera, voglio che sia per sempre”.
La Mandragora è presente nelle novelle di Boccaccio e di Sacchetti. Si trova nel Faust di Goethe, e in autori del XIX secolo quali Hoffmann e Nadier. Nella letteratura minore italiana si trova nell’Incantesimo di Giovanni Prati. La Mandragora è citata da J. K. Rowling in Harry Potter e la camera dei segreti.
Queste credulità hanno fatto acquistare alla pianta di Mandragora un elevato valore commerciale e non di rado in passato la radice di Mandragora veniva contraffatta  usando, al suo posto, la più comune radice di Brionia. Nel 1950 in Francia è stata acquistata una falsa Mandragora per 35.000 franchi. Mandragore famose sono state quelle possedute dai Duchi di Borgogna, di cui si è trovata traccia nell’inventario dei beni. Il possesso di una pianta di Mandragora fu uno dei capi d’accusa attribuiti a Giovanna D’Arco.
Naturalmente oggi simili millanterie, che sussistevano anticamente solo in ambienti di grande ignoranza e credulità, sono del tutto scomparse. Qualche veritiera utilità pare che sia stata attribuita veramente alla radice della Mandragora. In Germania si tessevano le vesti per i guerrieri. Una bollitura prolungata della sua radice ha la capacità di rammollire e rendere pastaceo l’avorio in modo da poterlo modellare.

Dec 25, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL VISCUM ALBUM LA PIANTA AUGURALE DI UN SERENO NATALE E DI UN FELICE ANNO NUOVO

IL VISCUM ALBUM LA PIANTA AUGURALE DI UN SERENO NATALE E DI UN FELICE ANNO NUOVO

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Il Visco è una pianta simbolo del periodo natalizio assieme all’Agrifoglio, al Pungitopo, all’Euphorbia pulcherrima, alla Picea excelsa.
Ho fotografato il Visco abbracciato agli alberi di Ulivo sui monti Nebrodi, in contrada Romei, a Mistretta.
Il suo nome scientifico è “Viscum album”, ma è conosciuto con i sinonimi: “Vischio o Pania“.
Il genere Viscum (Linneo, 1735) conta circa 30 specie. Appartenente alla famiglia delle Lorantaceae, il Visco, originario dell’Europa centrale, ampiamente distribuito nelle regioni temperate, si è diffuso in Asia e in Africa boreale. In Italia è comune nelle regioni montane e sub montane.
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Il Viscum album è un arbusto emiparassita, perenne, sempreverde, che riesce a mantenere il colore verde anche quando le ramificazioni degli altri alberi sono spogli.
Infatti, la sua presenza si nota facilmente inautunno- inverno quando i suoi cespugli sono avvinghiati ai tronchi degli alberi ospiti che hanno perso le foglie.
In natura cresce spontaneo sui rami e sui tronchi di varie specie di alti vegetali quali conifere e latifoglie assumendo un portamento tondeggiante. A seconda delle piante ospiti il Viscum album è distinto in sottospecie: Viscum laxum dell’Abete rosso, del Ginepro, del Pino silvestre. Viscum abietis dell’Abete bianco, ed altre semiparassite dei meli, di pioppi, della robinia etc.
Essendo sprovvisto di un apparato radicale inserito nel terreno, si attacca alla pianta ospite mediante robuste ventose dette “austori” che, penetrando nell’albero ospite, succhiano l’acqua e i sali minerali. Ha fusto corto e molto ramificato, di 20 – 50 cm, di colore verde intenso, rami verdi, cilindrici, opposti, articolati, sui quali si attaccano le foglie poste a due a due lungo il ramo, coriacee, oblungo-lanceolate, di un bel colore verde per la presenza della clorofilla che permette alla pianta di compiere il processo chimico della fotosintesi clorofilliana.

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In primavera compaiono i piccoli fiori bianco-giallastri, sessili, riuniti in capolini ascellari o terminali a gruppi di 3-5. Sono dioici, maschili e femminili, separati e portati da piante diverse. Sono poco appariscenti, gradevolmente profumati, forniti di nettare per cui sono visitati da molti insetti.
Le piante femminili alla fine dell’autunno producono piccoli frutti. Sono le bacche sferiche, simili alle perle, traslucide, appiccicose, contenenti un solo seme piatto con mesocarpo gelatinoso.

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Esse sono un appetibile alimento per molti uccelli, specie per i Tordi, per i Merli, per i Pettirossi, per le Capinere, per lo Storno che ne favoriscono la disseminazione. Sono velenose per l’uomo. 10 bacche potrebbero ucciderlo!
Il seme, espulso dal becco degli uccelli, che lo introducono dentro le fessure della corteccia degli alberi, o con la evacuazione dei loro escrementi, dal momento che è resistente ai succhi gastrici, trasportato nelle intercapedini di un ramo della pianta ospite, comincia a germinare spingendo la radichetta dell’embrione all’interno della corteccia del ramo perforandola fino a raggiungere i vasi legnosi per assorbire la linfa grezza.
Si sviluppano gli austori secondari che si diramano in ogni direzione. Altre diramazioni cuneiformi si spingono sempre più profondamente nel legno del ramo dove la piantina svilupperà un fusticino con rami e foglie. Le bacche che cadono al suolo non germogliano.
In genere il Vischio si sviluppa senza arrecare notevoli danni sulla pianta ospite. Non è, però, facile liberare la pianta ospite dalla presenza del Vischio. Non è sufficiente asportarlo esternamente perchè il Vischio rigermoglia. Occorrerebbe compiere necessarie operazioni di dendrochirurgia incidendo i tessuti parassitati dei rami e del tronco e togliendo le ramificazioni del Vischio.
Altrimenti bisognerebbe tagliare tutta la parte aggredita.
Il Vischio è una specie protetta e in forte diminuzione a causa della sua sensibilità all’inquinamento atmosferico.
In Toscana una specifica legge vieta categoricamente la raccolta dei suoi rametti. La stessa legge dovrebbe essere regolamentata ed estesa in tutta l’Italia dove la raccolta del Vischio è consentita, ma con moderazione.
Il Vischio, pur essendo presente allo stato naturale, è coltivato nei giardini privati perché molto richiesto dai fiorai che ne fanno mazzi ornamentali.

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Secondo l’usanza nordica, ormai diffusa ovunque, mazzetti di Vischio sono offerti all’inizio dell’anno a parenti e ad amici come simbolo augurale di fortuna e di benessere.
Questa leggenda sul Vischio è legata forse all’uso che l’erboristeria fa delle foglie e dei rami per le benefiche proprietà vasodilatatrici e cardiotoniche in virtù del contenuto in viscotossina, viscobina e viscoflavina.
La coltivazione artificiale del Vischio, per scopi ornamentali ed erboristici, richiede cure particolari. Il terreno è il tronco dell’albero ospitante dal quale trae tutto il nutrimento di cui ha bisogno.
In inverno, periodo nel quale la bacca è matura, si effettuano alcune lesioni nella corteccia introducendo qualche bacca matura. Sicuramente qualche seme germinerà. Dopo un lento sviluppo, che può durare anche un paio d’anni, inizierà la crescita spontanea della nuova piantina. Bisognerà attendere ancora circa quattro anni per osservare la pianta pienamente fiorita.
Molto importante, per una crescita sana del Vischio, è il sole. Mal sopporta il freddo e preferisce decisamente il caldo.
La potatura del Vischio non è necessaria. E’ sufficiente eliminare le foglie e i rami danneggiati. Il Vischio non è soggetto a particolari malattie.
Il Vischio è apprezzato come pianta ornamentale, poiché, essendo molto tossico, è sconsigliato in campo erboristico/fitoterapico.
Tuttavia, considerando molto attentamente la sua tossicità, possiede numerose virtù fitoterapiche.

Giova principalmente negli stati ipertensivi di varia origine.
L’uso del Vischio come farmaco fu accolto dalla cultura romana e rimase in auge per tutto il Medio Evo e il Rinascimento.
Nel 1600 fu presente nella medicina popolare, specie tra gli erboristi francesi che lo utilizzavano per curare l’epilessia ed alcuni disturbi nervosi. A partire dalla seconda metà dell’800 e fino ai primi decenni del 1900 fu di nuovo utilizzato dalla medicina ufficiale come ottimo regolatore della pressione arteriosa. Associato ad altre piante, oggi si trova in alcune preparazioni omeopatiche. In fitoterapia si usano le foglie e i ramoscelli verdi raccolti alla fine dell’autunno, prima dell’apparizione delle bacche, che servono per preparare tisane ed estratti liquidi con azioni ipotensive, diuretiche e antispasmodiche. Le bacche, tossiche, non sono utilizzate. Se ingerite, provocano vomito, diarrea fino allo shock cardiovascolare.
Altre proprietà terapeutiche da non trascurare sono quelle antitumorali.
L’introduzione del Vischio come terapia antineoplastica si deve a Rudolf Steiner, che per primo ne consigliò l’uso, e risale agli anni 1920-24. Molti benefici per la salute sono stati riconosciuti al Vischio fin dall’antichità: per regolare il sistema circolatorio, per contrastare l’arteriosclerosi, per rendere meno complessi i problemi gastrointestinali, per agire contro la diarrea, per ridurre lo stress, per alleviare le affezioni respiratorie.
Il Vischio ha anche un potere emostatico.
Il suo utilizzo è raccomandato in caso di irregolarità del ciclo o mestruale o di emorragie uterine. Combatte la sterilità. Applicato localmente, ha anche azione antinfiammatoria rendendo meno acuti i dolori reumatici e gli attacchi di sciatica. Tutte le parti del Vischio possono risultare tossiche; le bacche, soprattutto, sono pericolose per i bambini che potrebbero essere tentati di ingoiarle. L’azione tossica del Vischio dipende dalla presenza di viscumina, sostanza capace di provocare agglutinazione dei globuli rossi, e di alcuni peptidi.
Le controindicazioni sull’uso dei rimedi ottenuti dal Vischio si fondano sulla presenza di un’eventuale ipersensibilità verso alcuni componenti della pianta.
E’ consigliabile di non assumere Vischio in maniera autonoma, ma di rivolgersi sempre a personale specializzato in quanto la pianta è segnalata dai centri antiveleni. I sintomi di avvelenamento da Vischio comprendono manifestazioni di: gastroenterite, sete elevata, diplopia, dilatazione pupillare, allucinazioni, disturbi mentali, convulsioni, diminuzione dei battiti cardiaci fino al collasso.
Il Vischio, oltre ad essere una pianta utile nella medicina, è gremito di significati mitici e rituali.
Anche oggi la fama della sua sacralità fa rinnovare, tra Natale e Capodanno, l’augurio di un prospero e felice anno nuovo.
Per questo motivo rametti di Vischio infiocchettati sono scambiati fra parenti ed amici.
Questo valore sacro della pianta è rimasto nel folklore delle popolazioni nordiche d’Europa, particolarmente della Scandinavia e dell’Inghilterra, soprattutto in occasione dei due solstizi, nel solstizio d’estate, per San Giovanni, e specialmente nel solstizio d’inverno, per il Natale.
Nella ricorrenza del Santo Natale e, soprattutto, nell’attesa del Nuovo Anno, la tradizione di appendere sull’uscio di casa un ramo di Vischio o di regalarlo, simbolo di buon augurio, di prosperità, di fortuna, di gioia, è stata introdotta anche in Italia.

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Andando a raccogliere un solo rametto di Vischio in campagna, per augurio, così come ho fatto io, è sconsigliabile staccarlo dall’albero con le mani e soprattutto con quella sinistra: con la mano destra si attrarrebbe la sfortuna. Per fortuna sono mancina!
Al Vischio sono riconducibili leggende e tradizioni molto antiche.
Il Vischio nei popoli Celti ricoprì un ruolo di primaria importanza in molti riti della loro religione. Lo chiamavano oloaiacet ed era considerato, assieme alla quercia, pianta sacra donata dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come emiparassita sul ramo di un’altra pianta.
Ritenevano che il Vischio era generato dai fulmini quando colpivano gli alberi, in particolare le querce ricoperte dal Vischio. Per questo lo consideravano una manifestazione del divino sulla terra e quindi lo utilizzavano come toccasana per tutti i mali. Secondo altre credenze celtiche il Vischio allontanava sventure e malattie, portando invece fortuna e benessere.
Un’altra diffusa usanza celtica impone ad una coppia di giovani innamorati di baciarsi sotto un rametto di Vischio. La giovane donna, che non riceverà il bacio rituale sotto il Vischio, non si sposerà entro il prossimo nuovo anno.
Il potere fortunato del bacio arriva dai Druidi del nord Europa: quando due nemici si incontravano sotto una pianta di Vischio erano soliti abbandonare le armi e concedersi una tregua sancendo il patto con un bacio.
In Inghilterra, nella notte del 6 gennaio, per scongiurare il pericolo di rimanere nubili, le ragazze dovevano bruciare il mazzetto di Vischio che aveva addobbato la loro casa durante le feste invernali.In Gallia, i druidi, che costituivano il sacerdozio e l’aristocrazia intellettuale celtica, e che hanno tramandato le usanze riguardanti il Vischio, ritenevano che la nascita di questa pianta parassita su di una quercia ne attestasse la santità. Lo raccoglievano con solenne cerimonia al sesto giorno della luna.
Davanti al popolo radunato, un druida, vestito di bianco, saliva sull’albero e tagliava con un falcetto d’oro il Vischio che cadeva sopra un drappo bianco disteso a terra. Seguiva il sacrificio di due tori bianchi mai aggiogati e ai quali per la prima volta venivano legate le corna.
Già Plinio il Vecchio ( Nat. Hist., XVI, 249.51) descrisse i rituali delle popolazioni galliche che accompagnavano la raccolta del Vischio: “Nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno i druidi si avvicinavano alla quercia indossando vesti candide e conducendo alla cavezza due tori bianchi. Il capo dei sacerdoti saliva sull’albero e usando un falcetto d’oro tagliava i rami del Vischio che venivano raccolti in una pezza di lino immacolata, prima che cadessero a terra. Poi, immolati i due animali, pregavano per la prosperità di quanti avrebbero ricevuto il dono”.
Secondo Plinio i Druidi raccoglievano il Vischio quercino, quello che cresce sulle querce, nel solstizio d’estate. Celebravano i loro riti sacri all’aperto, in radure dei boschi e presso le fonti, e consideravano sacri quei luoghi, gli alberi, la quercia, il faggio e, soprattutto, il Vischio.
In effetti, se usato bene, il Vischio aveva effetti curativi e miracolosi, se usato male poteva essere velenoso.
Virgilio, nel VI libro dell’Eneide, racconta la discesa di Enea nell’oltretomba. La Sibilla cumana spiega ad Enea che non potrà mai scendere nel Tartaro per rivedere il padre Anchise se non avrà staccato da un albero il virgulto dalle foglie d’oro:

Se tanto ami e vuoi due volte navigare

sulla stigia palude, due volte il nero Tartaro vedere,

se ami inoltrarti nell’immane fatica,

ascolta che cosa devi compiere prima.

Si cela in un albero ombroso

un ramo d’oro nel fogliame, e nei rami flessibile,

a Giunone infera consacrato; tutto il bosco

lo copre, e ombre lo racchiudono in oscure convalli.

Ma non puoi scendere nei segreti della terra se prima

dall’albero non ha staccato il virgulto dalle fronde d’oro

Grazie a una coppia di colombe, messaggere della madre Venere, Enea riesce a scoprire il ramo d’oro:

Quale suole nelle selve col freddo invernale il vischio

verdeggiare di fronda nuova, poiché la sua pianta

non germina, e con frutti giallastri avvolge i tondi tronchi,

tale era l’aspetto dell’oro frondeggiante sull’ombroso

elce, così crepitava la lamina al vento lieve

Sarà quel ramo d’oro a placare l’ira del barcaiolo infernale convincendolo a traghettare Enea sull’altra riva dello Stige.

Secondo il parere dell’antropologo britannico James Frazer il ramo d’oro era un ramoscello di Vischio.

Nel Medioevo il Vischio per i cristiani era simbolo di maledizione. Una leggenda racconta che quando Cristo fu messo in croce tutte le piante si spezzarono ad eccezione del Vischio.

Un’altra leggenda racconta come è nato il Vischio. C’era una volta, in un paese nascosto tra i monti, un vecchio mercante. L’uomo viveva da solo. Non aveva figli e neppure un amico. Il vecchio mercante si girava e rigirava senza poter prendere sonno. Uscito dalla sua casa, vide molta gente, proveniente da tutte le parti del paese, che si dirigeva nello stesso luogo. Una voce lo chiamò: “Fratello, vieni anche tu”!
Fratello? Lui non aveva fratelli! Era un mercante e per lui c’erano solo i clienti: chi comprava e chi vendeva. Per tutta la vita era stato avido e avaro. Non gli importava chi erano i suoi clienti e che cosa facessero.
Dove andavano tutti insieme?  Si unì ad un gruppo di anziani e di ragazzi. Fratello! Sarebbe stato anche bello avere tanti fratelli! Il suo cuore gli sussurrava che non poteva essere un loro fratello. Tante volte li aveva ingannati! Mai la sua mano si era aperta per donare ai poveri. No, non poteva essere fratello di quella povera gente che aveva sempre sfruttato e ingannato. Eppure tutti gli camminavano a fianco.
Assieme a loro era giunto davanti alla Grotta di Betlemme. Nessuno era venuto a mani vuote.
Anche il più povero portava il suo modesto dono. Lui, che era ricco, non aveva nulla nelle mani da regalare. Arrivò davanti alla grotta con gli altri e, come tutti, s’inginocchiò. “Signore” esclamò “ho trattato male i miei fratelli. Perdonami”. Appoggiato ad un albero, il mercante cominciò a piangere. Il suo pianto fu spontaneo e sincero. Il suo cuore si aprì.
Alle prime luci dell’alba le sue lacrime splendettero come perle in mezzo a due foglioline. Era nato il Vischio.

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Dec 14, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’HELIOTROPIUM EUROPAEUM

L’HELIOTROPIUM EUROPAEUM

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Stimolata dalla capacità di osservazione e dal desiderio di scoprire nuove piante spontanee durante i miei percorsi in macchina o a piedi guardo sempre attorno a me nella speranza, di solito premiata, di scoprire una nuova piantina, mia amica.
Sotto il marciapiede di Corso Vittorio Emanuele II, a Licata, alla fine dell’estate un ciuffo di foglie arruffate e un insieme di piccoli fiori bianchi hanno attratto la mia attenzione e l’obiettivo della macchina fotografica.
La nuova piantina è Heliotropium europaeum.             

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Licata è uno dei suoi areali corologici che si ampliano dalle zone desertiche e subdesertiche dal bacino mediterraneo all’Asia centrale.
In Italia la pianta è presente in quasi tutto il territorio nazionale, dal mare alla regione submontana, da 0 a 600 metri di altitudine, anche se recentemente non è stata notata in Trentino-Alto Adige. In ogni regione è conosciuta con tanti apparentemente nomi simili ma diversi. I più comuni sinonimi italiani sono: Eliotropio europeo, Eliotropio selvatico, Erba porraia, Heliotropium dolosum.

E, specificatamente, in Liguria: Colleghe, Erba da porrin, Vaniglia sarvaega.

In Piemonte: Erba dij poret, Vaniglia servaja, Verrucaria, Verucana.

In Toscana: Eliotropio, Eliotropio maggiore, Dittamo salvatico, Erba de’ porri, Porraja, Porricella.

In Lombardia: Vaniglia salvadega.

In Campania: Erba dei porri, Porraja, Solari, Verrucaria.

In Sicilia: Erba di li purretti, Erva di maisi a Modica, Vaniglia sarvaggia nella zona dell’Etna.

In Sardegna: Erba de soli.

Altri antichi sinonimi sono: Girasole, Mirasole, Verrucaria

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Il termine Heliotropium deriva dal greco ed è composto dai vocaboliλιος ” “sole” e “τρέπω” “far girare, volgere” con il significato di “girare con il sole“. Infatti, sembra che i bianchi fiorellini dell’Eliotropo seguano il movimento del sole nella volta celeste.
Il termine della specie “europaeum indica la sua provenienza europea.
L’Heliotropium proviene dalle regioni più calde della Terra e ne esistono diverse specie. In Italia sono spontanee le specie: l’Heliotropium europaeum,  a fusto eretto,comune nei campi e nei luoghi incolti, l’Heliotropium supinum, a fusto prostrato, presente dal Lazio alla Calabria e nelle isole,  L’Heliotropium peruvianum, originario dall’America Meridionale, coltivato nei giardini per i suoi fiori dal gradevole odore di vaniglia.
L’Heliotropium europaeum, appartenente alla famiglia delle Borraginacee, è una pianta selvatica, erbacea, annuale, o perenne, talora legnosa alla base, di piccole dimensioni.
E’ una pianta a portamento eretto o sdraiato-ascendente, nell’insieme di colore verde – cenerino, pubescente perchè coperta da una forte tomentosità. Possiede il fusto cespuglioso, molto ramificato, alto 2 – 3 dm.  Le foglie, attaccate al fusto mediante un corto picciolo, lunghe 2-3 cm, sono di forma ovale ellittica, più o meno arrotondate alla base e ottuse all’apice. Possiedono il margine intero e la superficie ruvida e vellutata per la presenza di una fitta peluria. Nella pagina inferiore sono ben visibili la nervatura principale e quelle secondarie poiché sporgono nettamente dalla lamina fogliare.

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 L’infiorescenza floreale è formata da racemi laterali inseriti all’ascella delle foglie e da racemi terminali spesso riuniti a due a due. I fiori, odorosi o non, sessili, pentameri, hanno il calice partito, generalmente diviso in cinque sepali lineari che,  dopo la fioritura, si apre a stella persistendo anche dopo la caduta del frutto.
La corolla, molto piccola, bianca, con fauce giallognola, è imbutiforme in basso, quindi si divide in cinque lobi arrotondati. Gli stami, in numero di cinque, sono inclusi, inseriti e saldati a circa la metà del tubo. L’ovario è supero. Lo stilo, incluso, generalmente è molto corto e sorregge lo stimma largo,  disciforme  o arrotondato.  Il periodo della fioritura si estende da giugno a novembre. Il frutto è composto da quattro acheni verrucosi e rugosi addossati gli uni agli altri a formare un corpo globoso che si apre solo a maturità. Contiene piccolissimi semi neri.

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La moltiplicazione avviene per seme nel mese di febbraio. Nuovi esemplari si possono ottenere anche mettendo a radicare talee dalla lunghezza di 8-10 cm prelevate da rametti a febbraio a luglio o a settembre. Per dare una forma più armoniosa alla pianta si potrebbe eseguire nel mese di marzo una leggera potatura dei rami disordinati a due terzi o a metà della loro lunghezza.

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L’Heliotropium europaeum preferisce vegetare negli ambienti urbani, nei suoli arenosi specialmente marittimi, nei luoghi erbosi e molto soleggiati, nei campi incolti, sulle macerie, nelle colture sarchiate, nei vitigni, più raramente nei giardini e negli orti. Gradisce terreni limoso-argillosi da aridi a mediamente freschi, ricchi di composti azotati. Le annaffiature devono essere abbondanti. Il terreno deve essere sempre umido sia in estate sia in inverno.  Non tollera il gelo. La temperatura invernale non deve scendere mai al di sotto di 7-10°C.
Per quanto riguarda le proprietà farmaceutiche l’ Heliotropium europaeum ha modeste capacità curative.Già Dioscoride e i popoli antichi attribuivano all’ Heliotropium virtù terapeutiche contro il morso dei serpenti e degli scorpioni. In passato questa pianta fu utilizzata nella cura delle verruche tanto che era conosciuta anche come “Porricella” o “Verucana”. La medicina popolare attribuiva alla pianta proprietà astringenti, cicatrizzanti, sedative, analgesiche per combattere nevralgie, emicranie esercitando, contemporaneamente, un’azione sedativa generale.
Era usata la parte aerea della pianta. Queste proprietà terapeutiche sono attribuite all’eliotropina e alla lasiocerpina, alcaloidi che hanno azione ipotensiva, sedativa del sistema nervoso centrale e leggermente narcotica. Poiché sono sostanze tossiche per il fegato, si consiglia un uso prudente, limitato solo ai casi di reale necessità e riservato a personale altamente specializzato. Per uso esterno i tannini contenuti nella droga, che si ricava dalla parte aerea della pianta raccogliendola all’inizio della fioritura e recidendola a qualche centimetro da terra, curavano le infiammazioni della pelle, lenivano i pruriti e le irritazioni cutanee, rimarginavano le ferite e chiudevano le piaghe.
Curiosità: all’Heliotropium europaeum durante il Medioevo furono attribuiti poteri magici. Si credeva che fosse in grado di allungare la vita, di rendere invisibile la persona che era in possesso di una parte della pianta tenuta segretamente nascosta.

 

 

Dec 2, 2014 - Senza categoria    Comments Off on SANTA LUCIA E LA SUA PARROCCHIA A MISTRETTA

SANTA LUCIA E LA SUA PARROCCHIA A MISTRETTA

A

Il 13 Dicembre la Chiesa cattolica festeggia Santa Lucia.
Lucia nacque a Siracusa nel 283 in una nobile famiglia molto ricca. Educata alla religione cristiana, desiderò dedicare la sua vita a Dio e donare le sue ricchezze agli indigenti. Nel 302, sotto Diocleziano, durante la persecuzione, un soldato romano tentò di rapirla. Poiché Lucia gli oppose resistenza, in quanto cristiana, la denunciò alle autorità e, per ordine del governatore Pascasio, subì il suo atroce martirio.
Fu arrestata, torturata, uccisa.
Dopo il martirio, il suo corpo fu portato in processione nelle catacombe di Siracusa che chiamarono “le catacombe di Santa Lucia”.
Il culto della Santa cominciò immediatamente e proseguì nel tempo. Papa Gregorio Magno (590-604) inserì il nome Lucia nel Canone della Messa imponendo la Sua venerazione a tutta la Chiesa.
Nel 1039 il generale bizantino Giorgio Maniace strappò agli Arabi la Sicilia orientale, compresa la città di Siracusa, e trasportò il corpo di Lucia a Costantinopoli. Quando la capitale imperiale fu occupata dai crociati nel 1204, il doge Enrico Dandolo ordinò di portare le spoglie della Santa a Venezia dove si trovano tuttora.
La città di Siracusa custodisce in una teca d’oro solamente alcuni preziosissimi frammenti di costole. Probabilmente, grazie al suo nome che ricorda la purezza, la luce, dal latino “lux”  “Lucia”, sul suo conto si diffusero molte leggende. Una di esse narra che durante il martirio le sono stati strappati gli occhi, simbolo della luce. Ancora un’altra leggenda racconta che lei stessa si strappò gli occhi per non cedere all’ assalitore e, talvolta, è raffigurata nell’atto di porgerglieli.
Lucia è la Santa protettrice della vista e quindi della luce degli occhi perché gli occhi sono la fonte della nostra percezione della luce. Pitrè scrive “che serba sani gli occhi dei suoi devoti”.
A Mistretta l’ingenuità faceva credere al popolo semplicione che bastava lo scongiuro con uno spicchio d’aglio e con la recita di una orazione per guarire da tutti i mali dell’occhio. Lo spicchio d’aglio, sezionato orizzontalmente, si doveva poggiare vicino all’occhio malato e, intanto, a bassa voce, si doveva recitare “L’orazzioni pà bbiniritta”:

Santa Lucia n-cammira stasìa;

fuorfici r’oru, sita cusìa;

passau lu Signori cu la Vergini Maria

e cci rissi: < Chi ai, Lucia?>

<Mi fa-mmali l’uocchju>.

<Trasi nna lu me uortu,

cc’è m-per’i finuocchju:

cu li manu lu chjantai,

cu li pieri lu scarpisai:

Susi, Lucia, ca nenti ai!>

Segue: a salivi rriggina

Santa Lucia in camera stava;

con le forbici d’oro e cuciva la seta;

passò il Signore con la Vergine Maria

e le disse: <Che hai, Lucia?>

<Mi fa male l’occhio>.

Entra nel mio orto,

c’è una pianta di finocchio:

con la mano lo piantai

con il piede lo calpestai:

Alzati,Lucia, perché niente hai!>

                                                        B

Lucia è la Santa che si celebra nei giorni in cui anticamente si svolgevano i rituali per festeggiare il 21 dicembre, il giorno in cui cade il solstizio d’inverno. In Sicilia, e a Mistretta in modo particolare, si dice:

Ri Santa Lucia a-Nnatali

criscinu i jorna quantu m-passu ri cani;

ri Natali m-pui

criscinu i jorna quantu m-passu ri ui”.

Traduzione:

Da Santa Lucia a Natale

crescono i giorni quanto un passo di cane

Da Natale in poi

crescono i giorni quanto un passo di bue”.

Secondo l’astronomia questo detto non è esatto perché il 13 dicembre è ancora nell’equinozio d’autunno e il dì continua ad accorciarsi. Dal 21 dicembre, giorno che inizia il solstizio d’inverno, le ore di luce aumentano perché ci si avvia verso l’equinozio di primavera.

C

A Mistretta e in molti altri paesi della Sicilia resiste ancora la tradizione di consumare come unico alimento per tutta la giornata la “Cuccia”, il frumento bollito che si consuma per devozione esclusivamente il 13 dicembre, data della ricorrenza del martirio di Santa Lucia.
Quel giorno sono banditi dalla tavola dei mistrettesi e di alcuni siciliani tutti gli alimenti che contengono carboidrati: pane, pasta, biscotti e si mangia solo la cuccia accompagnata da legumi e da verdure.
Una leggenda racconta che nel 1646 la Sicilia e la città di Siracusa in particolare durante la dominazione spagnola furono colpite da una grave carestia. Il popolo siciliano, lungamente provato dalla fame, sperando nella provvidenza divina e invocando Santa Lucia, vide giungere nel porto di Siracusa per alcuni, nel porto di Palermo per altri, una nave carica di frumento che affondò. Quel prezioso carico, fuoriuscito dalla stiva della nave, ben presto si allargò nel mare e le onde lo trasportarono fino a riva.
La gente ne ha potuto prendere in gran quantità e, poiché era necessario molto tempo per trasformare il grano in farina e in pane, mangiò direttamente il frumento già macerato dalla permanenza in acqua. Secondo un’altra narrazione la tradizione popolare racconta che, appena il grano fu scaricato nel porto di Siracusa, la gente dispose le caldaie nelle piazze, bollì il prezioso alimento e lo distribuì.
Il frumento bollito da allora si chiama “cuccia” da “còcciu” “cosa piccola, chicco”.
Il piatto originale è la cuccia condita con un pizzico di sale e con un filo d’olio d’oliva. Oggi la cuccia è diventata un dolce perché si condisce con la crema al cioccolato, con la crema di ricotta fresca, col vino cotto, con pezzi di cannella e di frutta candita, con granelli di pistacchio, col miele, col latte. L’uso di mangiare la cuccia nella ricorrenza della festa di Santa Lucia probabilmente era collegato alla festa di Cerere per la raccolta del grano. Nella tradizione cristiana la festa alla dea Cerere, divinità pagana, è stata sostituita da quella a Santa Lucia con l’usanza di mangiare la “cuccia”, il grano di nuova raccolta.
Una certa iconografia raffigura la Santa che sostiene un mazzo di spighe e un vassoio dove sono appoggiati gli occhi. A volte il vassoio reca una fiaccola, ed è per questo motivo che viene accostata alla dea greca Demetra o alla romana Cerere rappresentate con un mazzo di spighe e con una fiaccola.
Auguro Buon onomastico a tutti coloro i quali portano il nome di Lucia e di Lucio.

 

LA PARROCCHIA DI SANTA LUCIA, LA CHIESA MADRE A MISTRETTA

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La Chiesa Madre di Mistretta è la chiesa di Santa Lucia elevata a parrocchia il 12 maggio del 1790.
La sua costruzione, antica e non datata con precisione, con molta probabilità risalente al XII secolo, è avvenuta su un precedente tempio pagano. Recentemente, è stata sottoposta ad un nuovo necessario restauro che ha portato alla luce parte degli splendori nascosti.
Le prime notizie sull’origine della chiesa risalgono al 1170, anno in cui il Vescovo di Cefalù  la donò con tutti gli arredi e con i suoi patrimoni ad uno dei canonici della sua Cattedrale.
Dell’antica struttura e del suo arredo non è rimasto nulla e non esistono documenti interpretativi.
Si nota, comunque, un’alta sovrapposizione di stili di diverse epoche come testimoniano le date che si leggono all’interno e all’esterno del monumento che si inserisce armonicamente nel dignitoso scenario urbano di Mistretta in grado di rappresentare la grandezza e l’ambizione della società amastratina.
Il monumento è stato eretto grazie alla fede del popolo, alla generosità dei nobili, del clero e al gusto estetico delle anonime maestranze locali.
La chiesa, fondata a ridosso delle mura della città, nel 1169 fu danneggiata da un violento terremoto. Originariamente era a navata unica ed orientata all’opposto rispetto ad oggi e vi si accedeva dall’ingresso di via Numea.
Tra il XIII e il XV secolo la chiesa ha subìto diversi interventi migliorativi che la trasformarono in basilica a tre navate. Nel XVII sec., per intervento  del vescovo De Muniera, fu ulteriormente ampliata con la costruzione del transetto con tiburio di forma ottagonale regolare e del presbiterio pensile, su un arco che sovrasta la via Numea. Molto bello è il rivestimento del tiburio, la cupola realizzata alla fine del XVII, di forma ottagonale, fregiato con maioliche cristalline colorate nere, verdi e gialle.

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Contemporaneamente furono costruite le due cappelle mariane del presbiterio poste una di fronte al’altra, quella della Madonna dei Miracoli e quella dell’Odigitria, la nuova zona absidale, il coro e le due cappelle laterali del SS.mo Sacramento e di Santa Lucia.
Si accede alla chiesa Madre tramite tre portali: quello laterale, esposto a Sud, dedicato a San Gaetano, datato 1626, che ha davanti a sé il terrazzino dell’archivio parrocchiale, che custodisce l’anagrafe dal 1512 ed atti amministratvi dal 1494 ad oggi, protetto da un’alta ringhiera in ferro battuto, e il monumento ai Caduti.
E’ contraddistinto dal primo stile barocco come dimostrano le lesene con motivi a mascheroni nei basamenti ed edicola con volute e statuetta marmorea di Santa Lucia,

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 quello in marmo bianco che si apre nella piazza Unità d’Italia,

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 e quello principale, maestoso, trionfale, degno della grande chiesa, realizzato in seguito all’ampliamento della chiesa.

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Il vecchio ingresso della via Numea, dopo gli ultimi restauri della chiesa, consente l’accesso al piccolo museo istituito nel 2000 nei locali seminterrati della chiesa.

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Il portale marmoreo laterale della piazza Unità d’Italia porta incisa nella trabeazione la data del 1494, probabile periodo dell’inizio della costruzione.

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Questo portale, esposto a Nord, è un raffinatissimo documento dell’arte rinascimentale siciliana realizzato in marmo bianco. Attribuito a Giorgio da Bregno, detto “da Milano”, esso reca sull’architrave i medaglioni rotondi raffiguranti i Santi Pietro e Paolo posti ai lati dello stemma aragonese con i simboli della città di Mistretta.

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Nella lunetta sovrastante, la Vergine col Bambino, che raffigura l’Annunciazione,  si trova tra le Sante siciliane Lucia a destra e Agata a sinistra e  il Pantoktatore  benedicente sopra l’Annunciazione.

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L’elegante figurazione marmorea, in cui lo spirito religioso si fonde con la tenerezza umana, rappresenta uno dei maggiori documenti della scultura rinascimentale in Sicilia. I due pilastri colonnari, posti lateralmente alla porta d’ingresso, sono finemente scolpiti con vasi di fiori e terminano in basso con un rettangolo dove alloggia una bellissima faccia di angelo bambino.

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La torre campanaria di sinistra, l’unica delle due torri completata che avrebbero dovuto serrare la facciata principale della chiesa, fu innalzata negli anni dal 1521 al 1562 da maestranze locali e palermitane, come è documentato dalla data incisa sulla base di una finestra. Ha la forma di un parallelepipedo a base quadrangolare alto circa 38 metri e largo 9 metri, presenta cinque ordini sovrapposti con finestre monofore nei primi ordini a partire dal basso e termina con quattro finestre bifore con capitelli ed eleganti colonnine. In essa è inserito l’orologio rivolto verso la Piazza Vittorio Veneto e la meridiana. La torre di destra non è stata mai terminata per motivi di stabilità.

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Al periodo contemporaneo risalgono l’apertura del portale meridionale e del ricchissimo portale principale, entrambi realizzati da scalpellini locali in pietra arenaria. Questo fastoso portale principale, realizzato tra il 1646 e il 1648, scolpito in pietra arenaria estratta dalle cave della montagna vicino a Mistretta, adorna tutta la facciata della chiesa. La nuova dedicazione della chiesa ebbe luogo nel 1775.

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Classico esempio di stile barocco siciliano, il portale è delimitato da due colonne che sorreggono un frontoncino ad arco ribassato interrotto al centro e vivacizzato dalle statue di Santa Lucia nella parte centrale e di quelle laterali della Speranza e della Carità.

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Lungo la colonna di sinistra, nel primo terzo, è effigiata l’aquila, simbolo di potenza e di vittoria, raffigurante lo stemma della Città Imperiale. L’aquila è scolpita con il becco spalancato, con le ali ampiamente distese nell’impeto gagliardo di volare e con la corona regale.

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In ciascun lato dell’arco, nella parte interna del portale, sono effigiati due medaglioni. Nel medaglione di sinistra, adiacente al capitello, è raffigurato Re Davide con la cetra, simbolo di sapienza e di giustizia che, giovanetto, vinse la forza bruta di Golia, successo ottenuto per intervento di Dio.

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Nel medaglione di destra è raffigurato re Ferdinando d’Aragona, detto il Cattolico. Il re Ferdinando d’Aragona nel 1492 sconfisse in Spagna i musulmani ostili alla fede cristiana. E’ raffigurato con il braccio sinistro piegato sulla spalla destra che stringe con la mano lo scettro col giglio dei re aragonesi, simbolo del trionfo della fede e della purezza nel comando.

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La realizzazione del tondo si deve al vicerè Ugo Moncada che lo ha ordinato per ricordare il re cattolico, famoso come patrono della religione e del sapere, morto nel 1516, quando era cominciata la costruzione del portale della chiesa Madre, e per celebrare il trionfo della fede.
Nella parte interna dello stipite del portale sono incisi alcuni medaglioni che rappresentano: la faccia diritta e la faccia al rovescio di monete di epoca greca e romana, enigmatiche divinità pagane e figure femminili di tocco rinascimentale.
Domina l’architrave il tempietto dove le statue di San Pietro a sinistra e di San Paolo a destra sono slanciate verso l‘alto, simbolo dell’elevata religiosità.

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L’interno della chiesa, a croce latina, con transetto, abside  e cupola, è suddivisa in tre navate separate da otto colonne monolitiche allineate poggianti su base a una gola e doppio toro e sormontate dal capitello corinzio e dal dado brunelleschiano unendo elementi rinascimentali e ornamenti barocchi. Le colonne sorreggono ampie arcate di stile romanico.

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Dopo il suo ampliamento, la chiesa subì un incendio che, oltre a distruggere le opere d’arte e gli arredi, annerì le superfici delle colonne. Nel 1875 l’Arciprete don Giuseppe Salamone, per cancellare il nerofumo, le fece rivestire con un impasto granitico.
Inoltre fece rivestire le parti lapidee e lignee ove con marmi e misture marmoree, ove con stucchi ed oro zecchino.

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 Le arcate e le pareti furono intonacate e vi si inserirono stucchi e decorazioni in oro.

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Nel Rinascimento, la presenza nel tempio di Santi, di piante e di animali simbolicamente significava la pace con tutti gli esseri della Terra, quindi, tutti, nel loro linguaggio, celebravano la gloria del Signore. Ecco il motivo per cui nei capitelli si mescolano insieme piante e animali.

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  Nel presbiterio si deve ammirare l’altare maggiore neoclassico, opera del marmista palermitano Angelo Gabriele,

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che accoglie nel paliotto in bassorilievo, dalla forma di un cerchio, il medaglione marmoreo raffigurante La Pietà, ovvero la Deposizione di Gesù, opera di Vincenzo Gagini secondo alcuni, di Francesco Ignazio Marabutti (1761) secondo Giovanni Travagliato che ha condotto studi più approfonditi. Questo medaglione, circondato da  una cornice dorica, ricalca l’iconografia nordica del Cristo deposto a terra davanti ai piedi della Madonna  ed evidenzia la sensibilità dell’autore nella soavità dei toni sfumanti, nell’ineffabile dolcezza e nella espressiva purezza di stile. Assistono gli angeli e il popolo, testimoni di questo dramma.

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Sull’altare, realizzato intorno al 1775, l’artista pone  4 tasselli che raffigurano i 4 evangelisti con i loro simboli. Procedendo da destra verso sinistra incontriamo l’evangelista Giovanni con l’aquila e il libro.

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Segue il tassello, con intrecci di giglio, simbolo della purezza, e di palma, simbolo del sacrificio e della vittoria del bene sul male, facendo riferimento a Santa Lucia, la vergine alla quale è intitolata la chiesa.

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Nelle nicchie ci dovevano essere delle piccole staute. Segue l’evangelista Matteo col libro e con l’angelo perché il simbolo è l’angelo.

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Nella parte centrale  c’è l’altarino, un tempietto neoclassico che ribatte l’atmosfera barocca dell’ambiente, circondato dalle colonne e dalla trabeazione sormontata  dal triangolo simbolo della trinità.

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Segue l’evangelista  Marco con il vangelo e il leone, che è il suo simbolo.

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Nuovamente si ripetono i simboli della palma e del giglio.

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Segue, infine, l’evangelista  Luca, che ha come simbolo il bue.

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Nella parte posteriore dell’altare maggiore fanno bella mostra la cantoria con pannelli dipinti di figure di Santi racchiuse in cornici lavorate ad intarsio dei secoli XVIII-XIX, opera del maestro Paolo La Cristina del 1657,

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e il maestoso organo a canne risalente ai secoli XVI-XX. L’organo, formato da 1000 canne sonore molto ornamentali, è costituito da una lega di piombo, di alluminio e d’argento. E’opera di Onofrio La Gala, 1656-1664, e di Giuseppe Lugaro, 1874-1888.
Nel corso dei secoli ha subito numerosi interventi di restauro ed è stata variata anche la sua collocazione all’interno della chiesa.
L’organo presentava la tipica composizione fonica formata da 10 registri comprendenti due Principali,  l’ottava, due Flauti, e il file ripieno. Ma, nel 1978 è stata modificata radicalmente la sua impostazione: la trasmissione da meccanica divenne elettrìca,fu abolita la consolle inserita nel corpo dell’organo, fu eliminato l’originale somiere maestro a tiuro. Un altro radicale intervento è stato necessario nell’anno 2002 per ripristinare lo strumento divenuto manchevole. Il lavoro di recupero e di ampliamento dell’organo è stato affidato ala ditta “Fratelli Cimino” di Agrigento che ha adoperato le canne efficienti, ha inserto  le canne nuove, ha aggiunto altri registri. La trasmissione della consolle al corpo è di tipo elettronico seriale, mentre il funzionamento dei sonnieri a pistone e l’azionamento del registro è di tipo elettropneumatico. Nove mantici indipendenti forniscono la giusta quantità d’aria alle varie parti dell’organo. (Notizie di Sebastiano Zingone).

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L’organista e concertista americana, la signora Gail Archer, di levatura internazionale,  la sera del 22 luglio 2019,nel concerto d’organo, ha  suonato questo possente strumento musicale della chiesa Madre regalando agli ascoltatori presenti un eccezionale momento musicale al suono di melodiose esecuzioni.

Il coro ligneo, opera delle botteghe dei Li Volsi (ante 1598), di Ranfardi di Leonforte, del 1671, di Allò di Mirto, 1685-1710, di Giovanni Biffarella, del 1742, di Antonino Azzolina da Mistretta, 1712-1726, di Ciro Bagnasco del 1803, con i 71 sedili circonda l’altare. Raro esemplare di grande abilità artigiana, è scolpito fastosamente con eleganti e armoniose figure allegoriche di angeli, con fregi e con rilievi ornamentali. Sono scolpite anche  le facce dell’arciprete, del vicario, del cappellano. I sedili di legno rossiccio sono eleganti, con larga spalliera e con alti braccioli finemente intagliati. Il leggio centrale è di Angelo Messina per Carmelo Barone, del 1809; al centro del coro la lapide raffigura il sac.Giacomo Scaduto, sec. XVI.
Nei  71 scanni, realizzati  nel 1641, si sedevano i sacerdoti.  La fede  era garantita da 150 sacerdoti che operavano nell’ambiente amastratino e qui si radunavano per cantare le lodi al Signore. IL loro canto era accompagnato dall’organo .
Uno scanno era riservato alle visite pastorali del vescovo e si evince dai simboli: la chiave cristiana e lo stemma di qualche vescovo . Le cariatidi sono  simboli di potenza e  di ricchezza.
Il vescovo sedeva sullo canno di destra; l’arciprete vicario sedeva sullo scanno di sinistra. L’arciprete diventa titolare nel 1792. La chiesa di Mistretta ha un suo arciprete titolare nel 1792 mentre dai normanni e fino a questa data è arciprete vicario. In alto c’è la scritta “CORO”. Si devono immaginare questi sacerdoti che sedevano qui  e a una certa ora intonavano i canti e, quando intonavano i canti,  la chiesa si riempiva di molta gente.

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Sempre dietro l’altare maggiore  c’è il leggio bifronte. E’ realizzato ad intarsio e sostiene  un libro molto grande dove erano scritti i canti. I sacerdoti che sedevano sulla destra potevano seguire il canto mentre quelli seduti sulla sinistra leggevano dall’altra parte.

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Modernissimo è l’altare usato dal celebrante durante le funzioni religiose e rivolto alla platea. E’ stato realizzato in pietra arenaria locale. Il piano d’appoggio è sostenuto da un puttino per ogni lato e al centro è stata incastonata una croce a bracci uguali circondata da disegni dorati. Della stessa pietra arenaria è il leggio utile per appoggiare il libro sacro del Vangelo.

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Alla destra dell’altare maggiore si può visitare la cappella del SS.mo Sacramento, contrapposta a quella di Santa Lucia, dove i settecenteschi altorilievi di marmo bianco, del 1750, raffigurano l’Ultima Cena e la cena di Simone il Fariseo, opera di autori ignoti. La cappella fu costruita in seguito all’ampliamento della chiesa nel 1630 e mette in evidenza tutto il suo splendore caratterizzato dal tempietto centrale in stile barocco e realizzato con l’utilizzo di ricchi marmi policromi. La decorazione della volta è dei secolii XVII-XVIII.

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Per accedere all’altare maggiore, alla cappella del SS.mo Sacramento e alla cappella di Santa Lucia bisogna superare le balaustre realizzate da Domenico Battaglia dopo il 1750 utilizzando la tecnica ad intarsio dei marmi policromi.
Ancora a destra è obbligatorio fermarsi davanti al grande altare della Madonna dei Miracoli. Con lo splendido effetto decorativo dei marmi policromi ad intarsio l’altare rappresenta un felice episodio del barocco siciliano. La marmorea statua, datata 1495, è attribuita a Giorgio da Milano. Le decorazioni a commesso marmoreo, gli altorilievi e la balaustra sono sempre di Domenico Battaglia realizzati nel 1732.

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Rosario della Madonna dei Miracoli

Nei grani del Gloria al Padre si recita:

“Tu puoi quest’anima felicitare,

tutto o Gran Vergine, tutto puoi fare.

Tu sei l’Augusta consolatrice

tu il miserabile rendi felice,

anche quest’anima tu puoi consolare

tutto o Gran Vergine, tutto puoi fare”.

Nei grani dell’Ave Maria si recita:

“Sei potentissima dall’alto impero,

Quanto desidero da te lo spero”.

Si conclude con la Salve Regina.

Lateralmente ci sono: la statua di Sant’Agata e la statua di Santa Cecilia

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Padre Michele Giordano in preghiera

I coniugi Teresa e Liborio Lo Prinzi ringraziano la Madonna dei Miracoli per avere potuto festeggiare insieme i  50 anni del loro matrimonio.

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Oggi, 16 gennaio 2018, i coniugi Sebastiano Lo Iacono e Mariella Di Salvo,  stretti sotto il Manto benevolo della Madonna dei Miracoli, nel santuario di Mistretta hanno ricevuto la benedizione di padre Giuseppe Capizzi  per  i 25 anni del loro matrimonio festeggiati dai figli Francesca e Mattia.
Auguri a tutti i membri della famiglia Lo Iacono, persone a me molto care!

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La lapide ricorda l’affidamento alla Madonna dei Miracoli da parte dei sodalizi della città.

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Alla  destra dell’altare si ammira il monumento funerario del barone Pietro Scaduto autore delle lodi che ancora oggi vengono cantate alla Madonna dei Miracoli e che raccontano i benefici ricevuti dai mistrettesi per Sua intercessione. L’opera è stata realizzata da  Giuseppe Musca negli anni 1639-1646.

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Nella lapide è scritto: “Spectabilis Petrus Scaduto, baro Amestrati, urbis pro conservator civiumque protector, animi virutibus onustus, fortuna foelix, aeternum hoc sibi suisque erexit sepulcrum. Anno D.NI 1616

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  “Pietro Scaduto, insigne barone della città di Amestratus,  come salvatore protettore dei cittadini, pieno di doti morali, facoltoso grazie alla buona sorte, eresse per sè e per i suoi familiari questo perenne sepolcro. Nell’anno del Signore 1616”.

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Il cinque dicembre del 1619 un violentissimo terremoto investì Mistretta e il suo territorio senza provocare morti fra la popolazione. In quella occasione fu attribuito il titolo ”dei miracoli” alla Madonna che originariamente si chiamava di Loreto. Alla base della statua marmorea c’è l’iscrizione “Sancta Maria di Loreto 1495”. Nel giuramento  del clero e dei giurati della città di Mistretta, risalente al 16 febbraio 1783, in presenza del notaio Francesco Pedevillano,  atto pubblico  conservato nella chiesa madre, si legge:” La statua, il 5 dicembre 1619 dopo vespro mandò fuori per lo spazio di 3 ore con stupore e commozione di tutta la città tanto umore da tutte le parti che se ne poterono riempire caraffe e inzuppar bambagie e tovaglie”.
La protezione contro i ripetuti violenti terremoti del 1693, del 1793, del 1967 e contro le tante altre avversità, che si sono verificate a Mistretta negli anni senza causare danni, hanno rafforzato la devozione dei mistrettesi alla Madonna dei Miracoli che ancora oggi, dopo tanti secoli, continua a raccogliere preghiere e onori dal popolo amastratino per essere protetto da simili calamità. La Madonna dei Miracoli ha saputo trionfare sulle conseguenze avverse della forza della Natura.
L’undici gennaio di ogni anno è un’importante ricorrenza proprio per ricordare questi eventi. Una coinvolgente cerimonia religiosa si svolge nella chiesa Madre alla quale partecipano: i sacerdoti, mons. Michele Placido Giordano e il rev. Giuseppe Capizzi, il notaio, il sindaco, il capo dei servizi militari, le associazioni, una grandissima folla di fedeli per rinnovare il giuramento alla Madonna per avere protetto i mistrettesi dai terremoti.

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 Foto di Salvatore Piscitello

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Il Sac. Giuseppe Capizzi legge la formula del giuramento alla Madonna dei Miracoli

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Da six: il sindaco Iano Antoci – il maresciallo Giuseppe Mammano – il notaio Filippo Porracciolo – l’arciprete Michele Giordano

FORMOLA
Del Voto fatto del Rev.do Clero e Magistrato di questa Città di Mistretta, a nome di tutto il Popolo, di solennizzare il dì 11 Gennaio, redatto ad Atto pubblico per Notaro Don Francesco Pedevillano
sotto lì 16 Febbraio – prima indizione dell’anno 1783.

SEMPRE NOI MISTRETTESI
Abbiamo riconosciuto di essere stati liberati da tutti i mali e da ogni sciagura per la protezione di Maria SS. dei Miracoli e massimamente dalla domenica 15 Dicembre dell’anno 1619, quando questo Sacratissimo Simulacro, dopo Vespro, per lo spazio di tre ore, con stupore e commozione di tutta la Città, mandò fuori tanto umore da tutte le parti che se poterono riempire caraffe e inzuppare bambagia e tovaglie. D’allora si accese in tal modo la fiamma della devozione a questa venerabile Immagine che par che ognuno, sin dalle fasce, non respiri he devozione, confidenza, tenerezza, ed amor filiale verso Maria dei Miracoli.
Ad Essa Mistretta ricorre nei bisogni, nei pericoli, nelle angustie.
Essa ringrazia dei favori e delle grazie che da Dio riceve, e non attende, o spera di ricever dono, o crede d’averne impetrato, e di essergliene stato conceduto alcuno, se non per questo efficace e dolce Mezzo.
Ad Essa ascrive, con tutto il cuore, non avere il mercoledì 5 Febbraio di quest’anno 1783, ad ore 19 circa, rovinato sin dalle fondamenta per la terribile lunghissima scossa di terremoto. E per varie altre che susseguentemente se ne sono intese.

PER RICONOSCENZA
e gratitudine del quale favore, noi Arciprete Vicario e Clero, Capitano, Giurati e Sindaco qui sottofirmati, a nome e parte di tutto il Popolo di questa Città Imperiale di Mistretta,

PROMETTIAMO
A Dio Onnipotente, con pubblico comun Voto, di celebrare, con pompa e solennità il dì 11 Gennaio di ogni anno in infinito, ed in perpetuo, consacrandolo agli onori, ed alle glorie della nostra Liberatrice, e nostra Speranza, secondo il voto fatto dai nostri predecessori, quando, nell’anno 1693, il dì predetto, furono liberati dal terremoto;

OBBLIGANDOCI
E promettendo di sentir Messa in questo giorno, come siamo obbligati in altri dì festivi, potendo solo i poveri farsi dispensare ogni anno in particolare dal Curato, o dal Confessore l’obbligo di sentir Messa; niuno però obbligandosi all’astinenza dalle opere servili.

PROMETTIAMO INOLTRE
Di rinnovare pubblicamente ogni anno nel dì medesimo 11 Gennaio questo Voto innanzi la Medesima Sacra Immagine di Maria dei Miracoli uniti Magistrato e Popolo, affinché fosse in Noi perpetua la memoria di tutti i benefici, e di questo singolarmente di non essere restati seppelliti sotto le pietre il dì memorato 5 Febbraio ed acciocchè Iddio, per la Intercessione potente della Divina Sua Madre, ci sottragga in avvenire da tutti i pericoli e mali, e ci conceda tutte le Grazie per ben servirLo e poi goderlo eternamente in Paradiso.
OGGI, IN MISTRETTA, Lì 16 FEBBRAIO, PRIMA INDIZIONE 1783
PROT. APOST. MICHELE PEDEVILLANO ARCIPRETE;
GASPARE GALLEGRA – VICARIO FORANEO;
GIUSEPPE MARIA GALLEGRA DEI BARONI DI SAN GIUSEPPE;
REGIO CAPITANO;
BIAGIO LOMBARDO – GIURATO;
GIUSEPPE TITA – GIURATO;
IGNAZIO MATTIA SCADUTO – GIURATO;
PIETRO NICOLA DI MARCO, BARONE DI TERRANOVA – GIURATO;
ANTONIO CAMPO – SINDACO

https://www.youtube.com/watch?v=R0JbHyUWPNE&feature=youtu.be

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In seguito al violentissimo terremoto del 31 ottobre del 1967, poiché non si sono verificati danni alla popolazione grazie all’interposizione della Madonna, il popolo La ringraziò donandoLe un medaglione d’oro che la Madonna dei Miracoli porta al collo. Questo medaglione porta la scritta:
IL POPOLO DI MISTRETTA, GRATO ALLA MADONNA DEI MIRACOLI PER AVER SALVATO LA VITA DEI SUOI FIGLI IN OCCASIONE DEL TERREMOTO DEL 31 OTTOBRE 1967 “.
L’11 Gennaio 1968 fu solennemente portato in processione il Simulacro della Vergine dei Miracoli.
Il 31 ottobre dl 2016 la parrocchia di Santa Lucia è stata elevata a Santuario della Madonna dei Miracoli.
La lampada votiva rimane sempre accesa.

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La chiesa Madre di Mistretta custodisce una preziosa opera d’arte: il telone quaresimale. E’ una tela artistica, di circa 80 metri quadrati di superficie, ottenuta cucendo insieme parallelamente 14 rettangoli di lino e realizzata dal pittore Matteo Mauro di Trapani nel 1823 su commissione del sacerdote don Paolo Di Salvo.
E’ unica ed eccezionale e rappresenta il mistero, la rivelazione della santità di Cristo.
Il telone è l’ombra che  cade per rivelare la Redenzione.
La scena della tela rappresenta il primo processo di Gesù.
L’evangelista Matteo  racconta che Gesù, dopo essere stato  arrestato, è stato portato davanti ai sacerdoti Caifa e Anna.  Erano presenti anche gli scribi e un folto pubblico.
I sacerdoti chiedono ai presenti testimonianze contro Gesù, ma nessuno risponde.
Ad un certo momento si presentano due persone che dicono che Gesù si era vantato di ricostruire in tre giorni il tempio che era  stato distrutto.  L’evangelista Giovanni (2, 18-22) così scrive: ” Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: << Quale segno ci mostri per fare queste cose?>>.  Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei:  < < Questo tempio è stato costruito in quarantesei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?>>.
Ma Egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi Gesù fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla Sua parola”.
Questa frase fa adirare Caifa che è raffigurato nella tela con l’aspetto di persona molto arrabbiata.
Anna, invece, punta il dito contro Gesù e un sodato alza la mano come per dare lo schiaffo a Gesù.
Matteo racconta che Gesù è condotto nel palazzo-fortezza.
Gesù sarà bastonato  e poi  crocifisso.
Nel primo piano della tela è raffigurata l’autorità religiosa mentre in alto è raffigurata l’autorità politica con la scritta “ Senato e Popolo romano”.
In  Gesù c’è la luce mentre  gli scribi e i sacerdoti sono quasi in penombra.
Quindi Gesù rappresenta la luce, mentre chi accusa rappresenta l’ombra.
In primo piano c’è la colonna. Il telone narra una storia che è venuta prima, una storia reale nel presente, una storia di quello che avverrà dopo.
Il telone quaresimale è stato sottoposto a restauro per tre volte. Alla base della colonna ci sono le date degli avvenuti restauri e i nomi dei committenti.
Il primo restauro è avvenuto  nel 1893 con l’arcipretura di don Francesco Portera, il secondo restauro nel mese di luglio del 1961 con l’arcipretura di don Arturo Franchina,  il terzo restauro,  nel 2009, eseguito dalla ditta Rimedi SAS di Bolzano, con l’arcipretura di Mons. Michele Placido Giordano.
La cornice del telone richiama foglie di cardo, di alloro e di quercia.
La notte del Sabato Santo si verifica uno spettacolare evento: “a caruta r’u tiluni”.
Questo maestoso telo quaresimale è fatto cadere dal tetto durante la veglia di Pasqua dopo le letture e dopo il GLORIA intonato da mons. Michele Placido Giordano.
Il telone quaresimale era stato issato con le corde nel tetto della chiesa davanti all’altare maggiore del presbiterio con la base arrotolata il mercoledì delle ceneri per coprire tutta la navata centrale.
Il venerdì santo il telone è completamente srotolato e nella parte inferiore si possono osservare i simboli della Passione di Gesù: la scala, la corona di spine,  i chiodi della crocifissione, le catene, i dadi, la coppa, il bastone con spugna, il martello, la  croce, le tenaglie, la lancia,  il tamburo. I simboli della Passione sono rappresentati nella collana portata addosso da mons. Michele Placido Giordano.
Questo fenomeno della “ caruta r’u tiluni” genera nei fedeli che partecipano alla funzione religiosa una grande gioia.
E’ un modo scenografico per rappresentare il passaggio dal buio della morte alla luce della vita.
Cominciano a suonare le campane,  si accendono tutte le luci,  nell’altare appare Cristo con la bandiera del trionfo.
E’ finito il tempo della passione e del dolore, inizia il tempo della gioia.

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Continuando la visita della chiesa, alla sinistra dell’altare maggiore si può visitare la cappella di Santa Lucia.
Nel 1552 un marmorario di scuola gaginiana, probabilmente Antonio Gagini, nel 1552 scolpì la “cona” raffigurante l’Annunciazione, il Risorto, i Santi Pietro e Paolo.
Nel 1561 Bonifazio Gagini, su commisisone di don Filippo Pizzuto e per volontà dei giurati della città, realizzò la statua marmorea di Santa Lucia accolta nella cona fra gli apostoli San Pietro, a sinistra, e San Paolo, a destra. Nella parte superiore il Padre Eterno è posto tra gli angeli.
I panneli laterali e la volta risalgono ai secoli XVIII-XIX.

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Lateralmente, i due medaglioni in bassorilievo raffigurano l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria nell’Annunciazione. Alla base dell’altare, in altorilievo, sono raffigurati gli Apostoli e Gesù durante l’ultima cena. Le decorazioni marmoree delle pareti, del XIX secolo, e i dipinti della volta sono di Salvatore e Giovanni La Cugnina, nel1875.  La balaustra di Ambrogio Schillaci, del 1667.

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Nell’altare di destra, accanto alla porticina che permette l’accesso alla sagrestia, si ammira la cappella dell’ Odigitria, della Madonna dell’Itria. L’altare è stato realizzato dagli artisti Giuseppe Musca, Luigi Geraci e Bartolomeo Travaglia dal 1649 al 1654 usando la tecnica dei marmi mischi. I lavori sono stati commissionati con i lasciti del sacerdote Filippo Mongiovì e con l’aiuto di alcune famiglie amastratine. Lo scultore palermitano Pietro Mischì ha realizzato il bassorilievo della Madonna. Anche le colonne, le fiaccole, gli stemmi sono stati realizzati a Palermo e poi portati a Mistretta da Antonio Buscetta o Buscitta. E’ stato un lavoro di gruppo eseguito dalle maestranze palermitane.
L’altare presenta un’immagine in marmo bicromo compresa tra due colonne corinzie e sotto un arco spezzato con angeli recanti mazzi di fiori e Dio Padre benedicente al centro.
Nel primo piano del bassorilievo della Madonna dell’Odigitria sono scolpiti due vecchioni, due monaci basiliani, che sorreggono una cassa. Rappresenta la casa dove è stata nascosta l’icona dell’immagine della Madonna che è stata trasportata in Sicilia da Costantinopoli.  Sopra i vecchi, quasi seduta, c’è l’immagine della Madonna che presenta al popolo dei cristiani il Bambin Gesù. Sopra c’è la colomba che rappresenta l’immagine di Dio.  Sopra l’altare c’è la statuetta dell’Immacolata Concezione e, ai due lati, due angeli che portano due corone simbolo della glorificazione della Vergine Maria.

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Un pò di storia: nell’altare bizantino della Madonna dell’Odigitria il bassorilievo centrale è una imitazione dell’icona” la Madonna col Bambino dell’Odyghítria” dipinto da San Luca.
Raffigura la Madonna che presenta Gesù Bambino al popolo.
L’icona di San Luca fu esposta nel monastero della Panaghia Hodegetria a Costantinopoli.
Trasportata in Italia, è custodita nel santuario della Madonna di San Luca a Bologna.
Quando gli arabi, tra il 717 e il 718 per terra e per mare, durante il secondo assedio attaccarono Costantinopoli,la capitale dell’impero romano d’Oriente, le persone si inginocchiarono di fronte all’icona della Madonna dell’Itria per ottenere la protezione durante tale oppressione.
La fanteria araba, comandata da Maslama b. ʿAbd al-Malik, fu sconfitta sulle mura inespugnabili di Costantinopoli e dagli attacchi dei bulgari, mentre la flotta navale fu sconfitta dal micidiale fuoco greco subendo notevoli perdite in un naufragio.
Poiché erano perseguitati coloro che veneravano le sacre immagini, l’imperatore vietò l’esposizione di qualsiasi quadro.
Molti monaci basiliani fuggirono da Costantinopoli. Alcuni sono stati gettati in mare mentre altri approdarono anche in Sicilia protetti dalla Madonna. Trasportavano l’icona della Madonna dell’Itria dentro una cassa. Da quel momento l’icona è la Madonna del Buon Cammino, Colei che indica il cammino, protettrice del viandante.

Ancora alla destra di questo altare è esposta la vecchia statua di San Sebastiano della metà del XVI sec. Era la statua  che prima veniva portata in processione.
La peste del  1575 in Sicilia, in Italia, in Europa e anche a Mistretta ha causato tanti danni.
Nel portale della chiesa di sant’Antonio c’è scritto “1575 LA PESTE”.
I mistrettesi, durante questo grave morbo, si rivolsero a San Sebastiano e alla Madonna dei Miracoli portandoli in processione per le vie della città.
Come ringraziamento per il miracolo della scampata epidemia della peste, gli amastratini  hanno ritenuto opportuno contattare qualche artista che potesse realizzare la statua che rappresentasse San Sebastiano in modo da portarla in processione.
Si sono rivolti alle maestranze  palermitane.
L’artista ripropose il soggetto già espresso da Antonello da Messina.
San Sebastiano si  presenta vigoroso, atletico, bello come lo aveva disegnato Antonello da Messina. Ha  le braccia legate dietro la schiena.
Nove frecce trafiggono il suo corpo, ma  non nelle parti vitali. Otto frecce erano d’argento, una di bronzo. Queste frecce non ci sono più.
San Sebastiano è stato rappresentato come un uomo maturo, dai lineamenti plastici e quindi non si accordava con il fercolo che è di stile barocco.  I confrati ritennero opportuno cambiare la statua di San Sebastiano con quella realizzata da Noè Marullo. Ed è la statua che è portata in processione durante le feste di gennaio e di agosto.

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Questa statua lignea di San Sebastiano, della fine della seconda metà del ’500 e chiamata “viecchiu”, è tornata a occupare il Suo fercolo, anche se per un breve periodo di tempo. Infatti è stata sostituita con la nuova statua di San Sebastiano realizzata da Noè Marullo nei primi anni del 1900. Poiché la statua di San Sebastiano del Noè Marullo nel mese di giugno del 2018 è stata sottoposta a un delicato restauro eseguito dalla dott.ssa Sebastiana Manitta la vecchia statua di San Sebastiano, collocata nella magnificenza della Sua vera, dalla chiesa Madre è stata trasportata ed esposta alla venerazione dei fedeli nella chiesa di San Sebastiano.
La Vara, realizzata nel 1611 dai fratelli Li Volsi, fu adattata alle dimensioni della statua di San Sebastiano del ‘500 che vi rimase fino al 1908.
La vecchia statua di San Sebastiano è stata collocata sui fori di fissaggio alla base della vara corrispondenti esattamente a quelli predisposti dai fratelli Li Volsi. Il corpo del Santo patrono di Mistretta è perfettamente in asse con la cupola.

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Nell’ultimo altare della navata nord, sullo sfondo di marmo giallo risalta la figura del Crocifisso ligneo, di Vincenzo Genovese, datato 1866, messo in Croce e ai lati, in altorilievo, di Domenico Battaglia, ante 1750,  Maria e la Maddalena. Questo Crocifisso è chiamato dai mistrettesi “Il Padre della Provvidenza”.
L’artista ha voluto evidenziare l’espressione dolorosa dell’Uomo morente illuminata dal raggio del soprannaturale, proprio dell’Uomo-Dio.

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Tutti gli altari sono rivestiti da lastre di marmo lavorate con la tecnica a intarsio di marmi policromi.
L’altare dell’Ecce Homo custodisce la statua lignea del Cristo alla colonna, del XVII secolo, opera del Li Volsi.

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L’altare di San Gaetano da Thiene custodisce il dipinto olio su tela di Giuseppe Tomasi da Tortorici (1651).
La tela raffigura San Gaetano che porge  alla Madre il più bambino del mondo che tiene fra le braccia.
San Gaetano è l’antico protettore degli studenti.
C’è un coro di angeli e quest’orchestrina di angeli rappresenta il mondo infantile.
In alto ci sono il Padre Eterno e la colomba che rappresenta lo Spirito Santo. In basso è raffigurata la città di Mistretta nel diciassettesimo secolo. Probabilmente l’artista ha visto questo paesaggio percorrendo la strada per Motta d’Affermo.
Molto belli sono i colori: il colore rosso del mantello del Padre Eterno rappresenta la carità.
Il mantello azzurro della Madonna rappresenta la volta celestiale.

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Nell’altare delle Anime Purganti il dipinto è un olio su tela di Giuseppe Tomasi da Tortorici, del 1651, commissionato dalla confraternita.
La tela raffigura la Redenzione del Mondo dove l’artista presenta Gesù risorto mentre separa i giusti dai peccatori.
Cristo risorge dalla tomba.
Accanto al Risorto ci sono: Santa Lucia, protettrice della chiesa e Sant’Agata, le due vergini martiri siciliane.
Gli angeli festeggiano con le anime del purgatorio, che hanno ottenuto il perdono di Dio, per portarle in Paradiso.
In prima fila ci sono le anime di coloro che espiano le proprie colpe e che aspettano la salvezza eterna.
I fedeli pregano affinchè, con le loro preghiere, le anime purganti possano salire in cielo.
Il sacerdote, che prega durante la celebrazione della santa messa, aiuta l’anima purgante a guadagnare il paradiso.
Questo dipinto ha tre dimensioni: la parte umana, la parte celestiale, la parte spirituale.
Nel dipinto sono visibili: la firma dell’artista e le immagini dei due committenti della tela.

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Durante la visita della chiesa bisogna pregare la Madonna di Pompei custodita nell’altare di marmo della piccola cappella.
Il dipinto è un olio su tela circondato dalla cornice neogotica, del 1922. Nel suo insieme la cappella, stile classico, è stata realizzata per volontà delle famiglie Seminara – Ortoleva.
La volta è abbellita da medaglioni di stucco bianco con figure apotropaiche.

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Nella navata sinistra si ammira l’altare dei Santi Ausiliatori. Il dipinto, olio su tela, raffigura l’albero della Croce con il Cristo in Croce tra i Santi Ausiliatori, opera di Benedetto Berna da Capizzi, del 1692.
La tela rappresenta una perfetta simmetria in evidente moto ascensionale verso l’alto. Si distinguono due piani: un piano terreno, con paesggio marino e isole, e un piano celeste perchè l’atmosfera dove sono posti gli umani è più luminosa .

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Nell’altare di Sant’Anna si ammira il dipinto olio su tela che raffigura la Sacra Famiglia con San Giovannino e i santi Gioacchino ed Anna, opera di  Antonio Manno del 1771.

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L’altare del Cristo Risorto accoglie la statua marmorea del Cristo, opera del maestro Antonino Gagini, del 1552.

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L’altare della Deposizione o delle “cinque piaghe” accoglie il dipinto olio su tela di Antonino Manno, del 1771. L’artista ha impresso ai volti della Vergine e della Madonna intenso dolore mentre nel corpo di Cristo già deposto ha mostrato un abbandono rilassato e sereno.

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Arredano la chiesa Madre la statua, posta su piedistallo,  che raffigura la Madonna di Lourdes con Santa Bernardette

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e la statua del Cuore di Gesù, pure su piedistallo.

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La chiesa Madre possiede una meravigliosa opera d’arte commissionata all’argentiere Annibale Gagini, o Nibilio, come egli preferiva farsi chiamare, e realizzata tra gli anni 1601 – 1604 dietro pagamento di 400 onze. E’ L’ostensorio argenteo, che arreda la cappella del Santissimo Sacramento. E’ una delle ultime opere di questo abilissimo seguace della scuola del Gagini.
L’ostensorio, alto 110 cm, porta nel piede lo stemma della città di Mistretta accanto al quale il Gagini oppose l’iscrizione: “Imperialis Mistrecte Nibilio Gagini arginter fecit”. Lo stupendo ostensorio è fregiato di statuette di angeli nella parte superiore e dei dodici apostoli nella parte inferiore.
Le numerose guglie, con le figure a rilievo di Angeli e di Apostoli, completano la decorazione a sbalzo e a cesello dell’importantissimo arredo sacro.
Questa importante opera d’arte è stata restaurata grazie al dono di padre Giuseppe Capizzi, il prete che ha svolto parte del tuo sacerdozio in questa chiesa.
La sua attenzione al restauro dell’ ostensorio è stata un gesto di grande sensibilità per l’arte e un tangibile generoso ricordo per la comunità amastratina. Grazie!

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Il 20 aprile 2019, la sera del Sabato Santo, è stato benedetto il portacero, opera che l’artista scultore amastratino Sebastiano Leta ha donato alla comunità amastratina in memoria del padre Filippo.
Il titolo dell’opera è: “Io sono la luce del mondo”.
L’artista Sebastiano Leta è di Mistretta, ma vive e lavora a Pietrasanta, in provincia di  Lucca, nella città natale di Giosuè Carducci.
Il portacero è collocato a fianco dell’ambone all’interno del Santuario della Madonna dei Miracoli a Mistretta.
L’opera marmorea esprime un grande messaggio di fede.
La simbologia della scultura è il sacrificio dell’agnello. L’agnello sacrificale che è sulla roccia, rappresenta Cristo, la certezza delle fede. Il ramo d’ulivo è il simbolo della pace.
Le mani intrecciate di Gesù,  rivolte verso l’alto, che hanno i segni dei chiodi, in quella posizione proiettano l’ombra di una colomba in volo.  Rappresentano  lo Spirito Santo.
Fra i due pollici delle mani poggia il portacero in ottone dorato che conterrà il cero pasquale quale simbolo della fiamma della fede in Cristo.
La scultura poggia su un piedistallo realizzato con la pietra dorata di Mistretta dai fratelli Judicello della ditta SEPAM.
E’stato realizzato in marmo di Carrara, oro e bronzo e l’artista ha impiegato due mesi di tempo per la lavorazione. Il blocco di marmo, dal peso di 310 Km, è stato estratto  dalla stessa cava da dove ha attinto Michelangelo per realizzare la Pietà.
L’opera ha raccolto l’applauso dei fedeli commossi.

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Dal Vangelo di (Gv 8,12-20): «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

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Importante è anche il reliquario argenteo.

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Prezioso è il fonte battesimale, opera seicentesca realizzata in legno scolpito e rivestito d’oro zecchino. Al suo interno nasconde le custodie degli Oli Santi che si possono ammirare aprendo le porte.
Il fonte marmoreo, realizzato con marmi di Carrara,  è opera di Vincenzo Gagini, del 1575, su commissione dell’Arciprete don Filippo Pizzuto. La bussola lignea è opera di Giovanni Biffarella, del 1731, insieme al gruppo del Battesimo di Gesù nel Giordano, con cui culmina.
Dopo lunghi mesi di assenza, perché sottoposto ad un necessario restauro, è ritornato nella sua cappella della chiesa Madre.

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Il battesimo di Nicola. Mistretta 03/09/2017

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Da ammirare, inoltre, sono: la composizione del pavimento, a forma stellare, all’ingresso della chiesa realizzata con marmi policromi e le acquasantiere marmoree barocche, di Ambrogio Schillaci, del1667.

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 In conclusione, l’esterno e l’interno della parrocchia di Santa Lucia a Mistretta offrono un itinerario artistico irripetibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nov 26, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA SALSOLA OPPOSITIFOLIA DAI FIORI GIALLO – DORATI NEL TERRITORIO DI LICATA

LA SALSOLA OPPOSITIFOLIA DAI FIORI GIALLO – DORATI NEL TERRITORIO DI LICATA

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Frequento assiduamente il cimitero di Marianello, a Licata, per andare a trovare i miei cari e mai, prima d’ora, avevo visto questa meravigliosa pianta che ho notato durante la mia visita per la Commemorazione dei Defunti.
I molti cespugli coprono tutta la parete frontale del cimitero davanti al mare. I fiori sembrano creati con la fine porcellana di Capodimonte.
E’ la Salsosa oppositifolia.

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 Salsola è un genere  piuttosto controverso all’interno della tribù Salsoleae comprendente attualmente circa 100 -130 specie e sottospecie. Numerose indagini hanno evidenziato che si tratta di un genere molto incerto sotto il profilo tassonomico e filogenetico la cui corretta circoscrizione è ancora lungi dall’essere ben definita. Le analisi filogenetiche effettuate da Pyankov & al. nel 2001, da Akhani & al. nel 2007, da Wen & al. nel 2010 mostrano chiaramente che Salsola è un genere polifiletico.
In base ai dati di letteratura, questo genere riunisce piante succulente, almeno nelle foglie e nei rami giovani, generalmente caratterizzate dalla presenza nel perianzio fruttifero di ali scariose utilizzate per la dispersione anemocora dei semi e di embrioni spiratati. Pertanto, sulla base delle attuali conoscenze, le Salsoleae in Italia sono rappresentate da sette specie.
Le Salsole sono piante erbacee e arbustacee appartenenti alla famiglia delle Chenopodiaceae originarie dell’Africa,  dell’Asia, dell’Europa e diffuse anche in America. Hanno unadistribuzione steno-mediterranea.
La Salsola oppositifolia in particolare in Italia è presente in Calabria, in Sicilia, nel territorio di Agrigento, nelle isole Eolie, le sette perle del mar Tirreno, nellarcipelago delle Pelagie, sul bianco litorale di Lampedusa, sulla nera Linosa e forse qualche esemplare sullo sperduto isolotto di Lampione.
La flora di Lampione è stata oggetto di studio da parte di numerosi botanici i quali, per le difficoltà di attracco e di permanenza, spesso hanno limitato le loro osservazioni a brevi periodi di tempo. Sicuramente, successive ricerche, effettuate in diversi periodi dell’anno, permetteranno la segnalazione di ulteriori taxa soprattutto sulla presenza delle Salsole i cui semi potrebbero essere trasportati là dal vento per la vicinanza con Lampedusa. Ora vi nidificano grandi popolazioni di gabbiani che provocano notevoli alterazioni sulla vegetazione dell’isola.

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I nomi italiani con i quali la Salsola è conosciuta sono: Salsola oppositifolia e Salsola verticillata, Altri sinonimi sono: Salsola longifolia, Darniella verticillata, Salsola deschaseauxiana, var. oppositifolia, Seidlitzia opositifolia.
Etimologicamente il termine Salsola deriva da latino “salsus” “salato”, con riferimento sia al suo habitat lungo le coste marine e su altri ambienti salmastri, sia al suo sapore salato.  Il termine oppositifolia  deriva pure dal latino “oppositus” “opposto, posto dirimpetto” e “folium” “ foglia” col significato di “con foglie opposte”.
La Salsola oppositifolia è un cespuglio legnoso alto fino a 2 metri e molto ramificato. Il fusto è cilindrico e lineare. Le foglie, carnose, opposte, filiformi, lunghe da 4 a 10 mm, trigone, scanalate di sopra, sono di colore verde-glauco.
I fiori, piccoli, ermafroditi, raccolti in infiorescenze a spiga, sono di colore giallo e rosa con perianzio ad ali membranose ben sviluppate costituito da cinque parti sepaloidi. L’androceo possiede cinque stami. L’ovario è supero. Il periodo della fioritura si estende da giugno ad ottobre e, se l’inverno è mite, la stessa pianta fiorisce quasi tutto l’anno così come avviene a Licata.
Il frutto è un achenio. La dispersione dei semi è anemocora, cioè favorita dal vento.

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  Gli habitat preferiti dalla Salsola oppositifolia sono i terreni sabbiosi e calcarei delle regioni calde di tutto il litorale e le colline argillose prospicienti sul mare. A Licata un’altra numerosa vegetazione di Salsola oppositifolia si fa ammirare attorno al muro che costeggia la banchina del porto di levante sfidando le alte onde durante le forti mareggiate, la salsedine, il sole caldo anche nel mese di novembre, la scarsità d’acqua dolce.
Per la bellezza e la signorilità della pianta la Salsola è un vegetale che necessariamente deve essere protetto!

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Tuttavia potrebbero esistere gravi minacce alla conservazione dei cespugli della Salsola a causa dell’erosione costiera, della presenza di molti bagnanti autoctoni e non che frequentano la spiaggia di Marianello durante la stagione della balneazione e che potrebbero calpestarla, del vandalismo di alcuni giovani che si divertono a danneggiare, a bruciare, ad avvalersi di altre azioni distruttive.
La Salsola oppositifolia non è un vegetale usato per scopi culinari e nemmeno per scopi fitoterapici. Probabilmente possiede qualche azione efficace sulla cura del carcinoma polmonare e prostatico.
Il suo contenuto di alcaloidi è tossico per capre. Ha adottato, comunque, un gradevole espediente per diffondere la sua specie: il cespuglio si stacca dalle radici e forma una “palla” vegetale che, sospinta dal vento, rotola lontano, percorrendo anche notevoli distanze, permettendo la dispersione dei suoi semi. Questa curiosa formazione vegetale, chiamata rotolacampo, tumbleweed in lingua inglese, è tanto diffusa da essere diventata quasi un simbolo dei deserti centro e nord americani nei quali la Salsolaoppositifolia è una presenza costante del paesaggio nelle giornate ventose autunnali.
Una curiosità: le Salsole in generale sono piante cosmopolite importate fino a quando, nel secolo scorso, l’industria vetraria estrasse la soda col metodo Le Blanc per la produzione del carbonato di sodio Na2COmediante incenerimento delle piante.
Pietro Arduino, docente di Agricoltura all’Università di Padova, negli anni 1728-10805 fu l’unico ad avere intuito che dalla Salsola si poteva ottenere dalla cenere la soda di qualità superiore a quella che sino ad allora era utilizzata. Il vetro di Murano da sempre è un vetro ricco di sodio proveniente dalle ceneri della Salsola soda. La magistratura dei Signori Censori ed Aggiunti sopra l’Arte Vetraria il 1 aprile del 1780 pubblicava “Istruzione dei modi da praticarsi per coltivare il Kali maggiore, ossia la Salsola Soda”.

 

 

 

Nov 20, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

 

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Il 25 Novembre ricorre la festa in onore di Santa Caterina d’Alessandria.

Caterina d’Alessandria è un’importante figura femminile che raccoglie molti aspetti del culto popolare e religioso più genuino. E’ venerata, come santa, dalla Chiesa cattolica, dalla chiesa ortodossa e da tutte le Chiese cristiane che ammettono la venerazione dei Santi. La Sua venerazione si diffuse in Europa e altrove dal X al XII secolo continuando ad espandersi nei secoli successivi, fino ai nostri giorni, quando, con la nuova riforma del calendario liturgico del 1969, la sua festa è ceduta solo ai culti locali. Invocata nelle Litanie dei Santi, è titolare di molte chiese e parrocchie.
A Mistretta la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, edificata alla periferia del paese, indica un intero quartiere, appunto quello di Santa Caterina.
Santa Caterina d’Alessandria, vergine e martire, è la Patrona di molti paesi dell’Italia peninsulare e insulare. In Sicilia è venerata a Santa Caterina Villarmosa ed è compatrona di Grammichele insieme a San Michele Arcangelo. Insieme a San Marco Evangelista è compatrona del comune di Cellino San Marco.
Oltre alla incerta data di nascita ed al fatto che fu sottoposta al martirio ad Alessandria d’Egitto nel 305 circa, della vita di Caterina d’Alessandria si sa poco ed è difficile distinguere la realtà storica dalle leggende popolari.
Probabilmente nacque nel 287 d.C. ad Alessandria d’Egitto, morì nel 305 d.C., ad Alessandria d’Egitto.

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La Leggenda Aurea racconta che Caterina era la figlia del re Costa, una bella giovane egiziana rimasta orfana dei genitori in tenera età. Cresciuta indipendente e capace di gestire la propria vita, sostenuta da sapienti ed eruditi tutori, fin da piccola si dedicò allo studio istruendosi soprattutto nella filosofia e nella religione.
Per questo motivo è stata eletta patrona dell’Università di Parigi e, in particolare, della facoltà di Filosofia.
Per la sua naturale bellezza era chiesta in sposa dagli uomini più rilevanti della città d’Alessandria. Ancora adolescente, nel sonno ebbe una visione: le sembrò che nel Cielo, in mezzo agli Angeli e ai Santi, il Bambino Gesù, in braccio alla Vergine, prendesse un prezioso anello che Gli porgeva la Vergine Maria e lo inserisse nel suo dito.
Quando Caterina si svegliò trovò nel suo dito lo stesso anello che aveva ricevuto dal Cielo. Era diventata per sempre la sposa di Cristo. la leggenda del martirio racconta che nel 305 l’imperatore romano Massimino Daia, essendo stato nominato governatore dell’Egitto e della Siria, giunse ad Alessandria a capo di un forte esercito.
In suo onore furono organizzati grandiosi festeggiamenti con il corollario del sacrificio di centotrenta buoi alle divinità pagane. Inoltre egli ordinò che ogni persona presente alla festa portasse un animale, un uccello, un torello, da sacrificare al tempio con lo scopo di indirizzare alla religione pagana le popolazioni passate al cristianesimo.
Anche Caterina, allora diciottenne, si presentò al palazzo durante i festeggiamenti per impedire il sacrificio degli animali e per esortare i molti cristiani, che temevano le persecuzioni, a desistere dall’adorare gli dei. Caterina si rifiutò di offrire i sacrifici alle divinità e chiese all’imperatore Massimino di riconoscere in Gesù Cristo l’unico redentore dell’Umanità spiegando la sua tesi con profondità filosofica.
Massimino, conquistato dalla grazia e dalla cultura di Caterina, pensò di indurla al silenzio seguendo un certo logico ragionamento, ma presto si accorse che non poteva competere con l’intelligenza della giovanetta.
Irritato, decise di condurre Caterina davanti ad una commissione di cinquanta retori e filosofi affinché la convincessero ad onorare le loro divinità pagane. Durante l’incontro splendette ancor più la dialettica intelligente di Caterina che, oltre a contraddire i loro ragionamenti, li convertì tutti al Cristianesimo.
L’imperatore, molto infastidito, ordinò la condanna al rogo di tutti i retori e cercò di sedurre la giovanetta proponendole il matrimonio che, naturalmente, rifiutò. Condotta in prigione per la sua disobbedienza, Caterina ricevette la visita dell’imperatrice accompagnata dal tribuno Porfirio che rimase incantato dalla bellezza della giovane.
Anche Porfirio si convertì al Cristianesimo convincendo tutta la coorte ad accogliere e a divulgare la nuova dottrina cristiana. L’imperatore Massimino, ancora più adirato, ordinò che Caterina fosse dilaniata dalle ruote dentate.  Questo anormale supplizio doveva essere comune in una città operosa e ricca come Alessandria dove, per la lavorazione della lana e della canapa, si usavano grandi cardatoi costituiti con ampie ruote, affrontate e munite di uncini, le quali, girando l’una dentro l’altra, cardavano la materia tessile. La ruota della tortura si spezzò.
Gli uncini e le lame si piegarono sulle tenere carni di Caterina. Le ruote s’infransero, Caterina rimase indenne. Le grandi ruote stritolarono i carnefici. Massimino, arrabbiato, ordinò la decapitazione della giovane. Rinchiusa in una tetra prigione, fu tenuta per lungo tempo a digiuno. Una bianca colomba, entrando attraverso le sbarre della prigione, le portava ogni giorno da mangiare e da bere.
L’imperatore, ostinato, ordinò la sua decapitazione. Al primo colpo di spada dalle ferite recise sgorgò del candido latte, simbolo di purezza e di nutrimento spirituale, segno che Caterina era pura ed immacolata.
La leggenda continua a raccontare che alcuni angeli, scesi dal Cielo, raccolsero le spoglie mortali della fanciulla e, ricomposte, le sollevarono in volo per andarle a deporre sul monte Sinai dove successivamente trovarono asilo nella grande chiesa che fece costruire Sant’Elena, madre di Costantino. Là si conservano quelle che sono ritenute le sue reliquie e là è ancora venerata.
Nel VI secolo in questo luogo l’imperatore Giustiniano fondò il monastero che porta il nome della vergine martire. Si dice che dal suo sepolcro stillassero latte e olio, liquidi guaritori di qualunque malattia.
Per il supplizio della ruota Santa Caterina è protettrice di chi pratica quelle attività che hanno a che fare con ruote, con congegni, con ingranaggi: mugnai, carrozzieri, filatrici, arrotini,tornitori, vasai.
Per essere vissuta da sola e indipendente è protettrice delle donne che vivono da sole e sostenute dal proprio lavoro: sarte, modiste, caterinette, cestaie, domestiche.
Per il matrimonio con Cristo è protettrice delle donne nubili e delle giovani in età da marito.
Per la sua grande dottrina, per la quale è raffigurata con in mano un libro, è protettrice delle università, delle scuole superiori, delle biblioteche e dei bibliotecari, degli studenti,
degli insegnanti, dei filosofi, dei giuristi.
Per avere subito il taglio della testa è protettrice delle balie, dei lattanti, delle puerpere, dei sofferenti d’emicrania.
Per l’assistenza avuta dalla colomba in prigione è protettrice gli avicultori e dei prigionieri. Inoltre a lei si raccomandano barbieri, naufraghi, fabbricanti e venditori di pasta, linaioli, lavoranti della canapa, funai.
Da Caterina deriva il termine francese “caterinette” per indicare le giovani donne in età da marito. In Italia e in Francia erano chiamate “caterinette” spesso soggette a corteggiamenti da parte degli studenti universitari. “Catherinettes” erano le tesi di laurea degli studenti di teologia alla Sorbona.
A Forlì il 25 novembre è tradizione regalare alle bambine dei biscotti a forma di bambola, o bambole di cenci, chiamate “caterene” e ai maschietti un biscotto a forma di galletto.
Caterina rappresenta la donna coraggiosa e intrepida, capace di opporsi con la determinazione della sua fede e del suo sapere, valori che utilizza nella ricerca della verità, di Dio, della libertà, della salvezza altrui.
L’iconografia di Santa Caterina d’Alessandria ha diversi attributi: la ruota dentata, simbolo dello strumento del martirio, il libro che tiene in mano, simbolo di sapienza, su cui talvolta è scritto: Ego me Christo sponsam tradidi (mi sono data sposa a Cristo), la spada, simbolo della decapitazione, l’anello, simbolo delle sue nozze mistiche, la corona in testa, simbolo dell’origine principesca, la palma del martirio, il globo del firmamento o altri strumenti scientifici che indicano la sua sapienza.

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Santa Caterina d’Alessandria  è un quadro, olio su tela di 173 x 133 cm, dipinto da Caravaggio negli anni 1595-1596. È conservato al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. Il dipinto faceva parte della pinacoteca del cardinale Francesco Maria Del Monte. Fu dipinto in memoria del processo e della condanna della parricida Beatrice Cenci. Nelle sembianze della Santa Caravaggio ha ritratto Fillide Melandroni, nota prostituta romana della quale si era innamorato.

ORIGINI STORICO-ARTISITICI DELLA CHIESA DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A MISTRETTA

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La chiesa di Santa Caterina, a Mistretta, costruita tra il XIII ed il XIV secolo, è la chiesa dedicata a Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto per la quale i cristiani amastratini hanno un culto particolare. D’impianto rinascimentale è, con la chiesa Madre, il luogo di culto più importante di Mistretta e sede parrocchiale dal 25 novembre del 1945. Anticamente era una piccolissima chiesa rurale ubicata all’estremità sud-ovest dell’abitato e costruita, pertanto, fuori dalle mura della città in contrada “Neviera”.
Tracce della prima edificazione due-trecentesca sono state trovate durante i lavori di restauro negli anni ’90 del secolo scorso compiuti con i fondi dell’Unione Europea, e con i criteri delle più moderne teorie. Sono le strette aperture sormontate da archi a sesto acuto di una finestra e di un portale e la parte superiore di un catino absidale.

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Una leggenda racconta che un ricco commerciante genovese, grato a Santa Caterina per averlo salvato da un naufragio, La ringraziò facendo costruire una piccola chiesa in suo onore.
La chiesa impone il nome al quartiere omonimo, oggi sufficientemente popolato, e che si divide in rioni. Data la sua estensione, dal punto di vista parrocchiale il parroco padre Giovanni Lapin ha diviso il quartiere in cinque rioni: il rione dell’Acqua Ramata, della Neviera, di San Francesco, della Fontana Pia, di Gramsci. Da un enorme piazzale antistante la chiesa si ammira parte del paesaggio mistrettese e la lunghissima strada di Santa Caterina.
L’attuale impianto basilicale, a tre navate separate da colonne,  risale alla prima metà del XVI sec. e fu completato nel 1547.
La riedificazione e l’ampliamento della chiesa maturano in un periodo di grande fervore religioso durante il quale si commissionarono il prezioso simulacro marmoreo di Santa Caterina,  opera di Giorgio da Milano (Bregno) o Andrea Mancino e Antonio Vanella (1493), e la guarnizione della “cona” commissionata allo scultore Baldassarre da Massa nel 1572.
Si accede all’interno della  chiesa dopo aver superato pochi gradini esterni. Presenta la facciata a capanna dove si aprono tre portali con mostre in arenaria. Il portale principale in pietra, a due ordini, aperto nel 1576, è riccamente scolpito lateralmente con motivi floreali e con scanalature, mentre l’architrave nella sua parte centrale porta il monogramma IHS circondato da volti di angeli alati.

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 IHS è il simbolo, chiamato monogramma di Gesù, che, fin dal Medioevo, è stato ampiamente usato nell’arte figurativa della Chiesa cattolica. Comparve per la prima volta nel III secolo fra le abbreviazioni adottate nei manoscritti greci del Nuovo Testamento, oggi chiamate Nomina sacra, e divulgato da San Bernardino da Siena (1380 – 1444). Rappresenta le prime tre lettere greche del nome Gesù: “IHSYS”. Secondo un’altra interpretazione, le tre iniziali delle parole latine significano: “Iesus Hominum Salvator”,“Gesù salvatore degli Uomini”. In ebraico, infatti, “Jehosua”, “Gesù”, vuol dire: “Dio è salvezza”.
La lunetta sovrastante riproduce scene di vita di Santa Caterina. Lo scultore Baldassarre di Massa, su commissione del procuratore Tommaso Valenti e dei confrati Paolo Di Marco, Pietro Ribaudo e Giovanni Antonio Lo Papa, si impegnò a realizzare “ una guarnitioni di marmora bianca di Carrara  iuxta la forma di lo disigno con soi istorii per la figura di Nostra Donna con san Marco et san Barnabà tutti detti figuri et storii di menzo relevo iuxta la forma di lo disigno”.

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Nel lato destro della chiesa si erge il campanile, edificato nel 1547, che anticamente terminava con una guglia conica formata da cunei di terracotta smaltati e di diverso colore e che negli anni cinquanta fu sostituita da un’inutile terrazza.
Attualmente il campanile, formato da quattro ordini, ha la forma di un parallelepipedo e in ogni faccia si apre una finestra bifora.

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Gli ingenti interventi di ampliamento, attuati nel XVI secolo, hanno modificato l’aspetto esterno ed interno della chiesa determinando il delinearsi della configurazione definitiva della chiesa a pianta basilicale con tre navate, con transetto e abside caratterizzata dalla forma poligonale con cinque vele triangolari separate da costoloni. Al 1547 risalgono le ampie arcate a tutto sesto sostenute da colonne monolitiche con capitelli in pietra, di chiaro stile romanico, e impostate su alti basamenti istoriati che alludono alla lotta fra il bene e il male.

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Nel Presbiterio si nota l’abside poligonale costolonata, con affreschi di autore ignoto, della prima metà del sec. XVIII, restaurati da Sebastiano Milluzzo nel 1956.
Nell’altare maggiore,  a commesso marmoreo, della bottega catanese – Domenico Battaglia?, ante 1750, è alloggiata la statua marmorea di Santa Caterina in preghiera. Nel 1572 lo scultore Baldassarre di Massa scolpì la Cona marmorea, che accoglie la statua di Santa Caterina, scolpita nel 1493 e attribuita da alcuni a Giorgio da Bregno, meglio conosciuto come “Giorgio da Milano”, mentre da altri ad Andrea Mancino e ad Antonio Vanella, scultori che ripetono, in forme più o meno fedeli, i modi formali del maestro Domenico Gagini.

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Santa Caterina è posta tra i santi Antonio e Marco Evangelista nelle nicchie laterali.

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Grandi conchiglie coronano le teste dei due Santi come raggiere luminose.

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 L’opera presenta finezza e tecnica incomparabili nei contorni e negli ornamenti, eleganza e morbidezza nell’espressione. Nel basamento della statua sono rappresentati gli elementi iconografici della Santa: la ruota chiodata, la sega e la spada. Sono gli strumenti del martirio di Santa Caterina prima torturata con la ruota dentata del carro, che Le ha attraversato il corpo lasciandolo illeso, poi decapitata con la spada al tempo dell’imperatore Massenzio.
La corona rappresenta il segno della regalità, il libro aperto il segno della saggezza con la quale convertì al cristianesimo i filosofi convocati per discutere con Lei. Nei sette dischi, inscritti in un cerchio, sono incise le iniziali delle arti del trivio e del quadrivio che formano le “artes liberales”: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia, musica. Le otto formelle disposte a cornice in sequenza verticale ed una in sequenza orizzontale superiore raccontano anch’esse episodi del martirio della Santa.
In senso orario sono: Gesù Bambino, in braccio alla Madonna, porge a Caterina il mistico anello nuziale, Caterina si presenta davanti dell’imperatore Massenzio, apparizione di Cristo a Caterina mentre si trovava in prigione, a digiuno, a pane e acqua, Caterina disputa con i filosofi, Caterina in prigione, Caterina condannata dall’imperatore,  Caterina sottoposta al supplizio della ruota, il corpo di Caterina trasportato dagli angeli sul monte Sinai. Nell’altorilievo soprastante è raffigurato l’Eterno Padre benedicente tra l’angelo Gabriele e la Madonna Annunziata.

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 Vito D’Amico, nel “Dizionario topografico della Sicilia”, scrive: “Nella maggior chiesa di questa città merita attenzione una macchina marmorea di buonissima scuola del Gagini coi dodici Apostoli a mezzo rilievo, le statue dei Santi Pietro e Paolo e di Santa Lucia e di sopra quella dell’Eterno Padre”.
La cupola dell’abside è adornata da affreschi di autore ignoto della prima metà del sec. XVIII e restaurati da Sebastiano Milluzzo negli anni 1956- 1958  che raffigurano il Pantocratore, gli angeli musici e i quattro evangelisti: Marco con il leone, Luca con l’angelo annunziante, Giovanni con l’aquila, Matteo che dipinge.

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L’Altare Maggiore, realizzato con marmi misti policromi, è arricchito anteriormente da un paliotto ricamato in oro, argento e seta policroma, datato della prima metà del Settecento e attribuito a Cosimo Cannizzaro, della prima metà del sec. XVIII. Il tabernacolo, di marmo bianco e policromo, con la porticina cesellata di argento e avorio, è circondato da angeli marmorei posti in posizione orizzontale e verticale.

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Alla base delle colonne dell’abside sono scolpite nella pietra arenaria i simboli eucaristici del calice con l’Ostia e il vaso col fascio di spighe.

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Secondo la simbologia medievale gli animali: la tartaruga, i pesci, il leone, il vitellino, l’aquila, i pellicani, scolpiti alla base delle colonne centrali, rappresentano le tentazioni dell’uomo.

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Gli altri attributi iconografici quali: il volto dell’uomo con la mano sinistra alzata e rivolta all’interno, la fanciulla, l’uomo con l’animale col bicchiere, simboleggiano il mondo immerso nel peccato.

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La figura col libro aperto sul banchetto e l’angelo raffigurano la sapienza e la fede.

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Le due tele dell’abside, ai lati della cona marmorea, raffigurano il martirio della ruota dentata di Santa Caterina e Santa Caterina davanti ai filosofi.

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Le due opere sono state realizzate nel 2003 dagli artisti Antonio Trifiletti ed Enzo Germanà su commissione del parroco don Gaetano Farina.
Le altre tele della chiesa raffigurano: il Crocefisso con le dolenti donne, posto sopra il tabernacolo ligneo nella cappella del SS.mo Sacramento,  la Discesa dello Spirito Santo su Maria e sugli apostoli, di autore ignoto, del XVIII sec., San Giuseppe con Gesù adolescente, olio su tela, di ignoto pittore siciliano del sec. XIX.

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La via Crucis, quadri realizzati dl maestro Mario Biffarella negli anni 1996-1999

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Le statue raffigurano: San Vito martire, statua lignea, probabile opera di Fra’ Macario da Nicosia, del seconda metà del sec. XVII.

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L’Ecce Homo, è la statua in legno di Picea excelsa, l’abete rosso, realizzata ad Ortisei Gardena dallo scultore Giuseppe Obletter nel XX sec.

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Santa Rita è la statua in cartapesta realizzata da Carmelo Bruno da Lecce, del 1932,  su commissione della signora Liboria Lombardo e che si porta in processione per le vie di Mistretta.

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Sant’Isidoro è la statua lignea, di ignoto scultore, realizzata all’inizio del ‘900. Sant’Isidoro  è il protettore degli allevatori di bestiame.

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La Madonna che allatta è la statua marmorea, della metà del sec. XX, collocata nella cappella della Madonna delle Grazie. L’opera è stata realizzata tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 su commissione della famiglia Insinga per grazia ricevuta. Nella stessa cappella è collocato il fonte battesimale realizzato in marmo rosso nel 1680.

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Una piccola statua raffigura Sant’Antonio da Padova

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San  Felice da Cantalice è la statua reliquiario realizzata in argento cesellato con parti lignee nel XVIII sec. E’ opera di un  argentiere messinese del 1773.

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Interessante è il piccolo Crocefisso ligneo benedetto l’8 aprile del 2005 davanti alle spoglie di San Giovanni Paolo II, il giorno antecedente alla funzione funebre del Santo Padre.

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La statua di Giovani Paolo II,  di recente fattura, arricchisce l’interno della chiesa di Santa Caterina. La comunità di Mistretta accolse la statua lignea di San Giovanni Paolo II, realizzata in Polonia dagli artisti Dorota e Andrzej Walijewski, su commissione del parroco sac. Giovanni Lapin e col contributo dei mistrettesi, il 31 agosto del 2014.

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Il reliquario di San Giovani Paolo II

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Interessante è l’acquasantiera marmorea rinascimentale.La scena scolpita nel bordo racconta un momento del martirio di Santa Caterina.
Il prezioso bassorilievo è caratteristico della scuola gaginiana.

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Il Fonte battesimale è opera di ignoto scultore siciliano, del 1680.
Nella chiesa di Santa Caterina il 22 di maggio di ogni anno si festeggia Santa Rita da Cascia il cui culto è molto forte fra la popolazione amastratina.

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Si racconta che a Mistretta è avvenuto un miracolo attribuito all’intercessione della Santa degli impossibili. Era l’anno 1931. Il signor Portera Antonino, colpito da una paresi facciale, pur affrontando lunghi viaggi della speranza a Palermo e nell’Italia settentrionale e pur sottoponendosi a dolorose e a costose cure mediche, non guariva. Non riusciva ad accettare la nuova situazione di malattia e di malessere che gli causava un enorme disagio. Tutti gli specchi della casa furono eliminati dall’affettuosa moglie che avrebbe voluto nascondergli l’evidente verità. Una notte, in sogno, Santa Rita apparve alla moglie, alla signora Liboria Lombardo, e le disse: “Perché non mi porti a Mistretta”?
Non era un avvenimento che si poteva risolvere in poco tempo e soprattutto senza mezzi economici. Le signora Liboria non si arrese, chiese aiuto ai paesani che contribuirono secondo le loro possibilità. La statua di Santa Rita, commissionata allo scultore Carmelo Bruno, giunse a Mistretta, proveniente da Lecce, il 19-11-1932. Il signor Antonino miracolosamente guarì. Era il 1934.
Per esprimere gratitudine alla Santa, per la grazia ricevuta, la famiglia Portera fece esporre nella facciata della propria abitazione, sita nella strada Santa Caterina al numero civico 43, l’edicola votiva dedicata a Santa Rita da Cascia. Ogni anno i familiari del signor Antonino, devoti a Santa Rita, dal Piemonte giungono a Mistretta per onorarLa.
Due volte all’anno, l’otto maggio, perché è il mese di Maria, e il sette ottobre, perchè è la festa della Madonna di Pompei, i fedeli si recano in pellegrinaggio alla piccola chiesetta “ra Matri Tagliavia” per festeggiare la Madonna del Rosario. I fedeli si riuniscono nello spiazzale della Parrocchia di Santa Caterina d’Alessandria e, accompagnati dal parroco Sac.Giovanni Lapin, preceduti dall’icona con l’immagine della Vergine effigiata su una lastra di maiolica, si avviano verso la chiesetta a piedi e anche scalzi per venerare la Madonna e ringraziarla per grazie ricevute.

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Dalla comunità di Corleone questa icona è stata regalata ai fedeli amastratini quando, alcuni anni fa, si sono recati a visitare la grande chiesa dedicata alla Madonna di Pompei nel feudo di Tagliavia, luogo da dove è iniziato Il desiderio di costruire la chiesetta “ra Matri Tagliavia”, dedicata alla Madonna del Rosario, anche a Mistretta.

 LA CONFRATERNITA DI SANTA CATERINA

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La Confraternita di Santa Caterina fu costituita nel secolo XIV. L’atto della fondazione non esiste più perchè tutti i documenti sono stati distrutti da un incendio sviluppatosi verso la fine del secolo XVII. Lo scopo della confraternita era quello di amministrare, per mezzo della deputazione, i beni e le rendite della chiesa e di mantenere vivo il sentimento morale e religioso tra i confrati. Essa era amministrata da un Superiore e da otto Deputati che duravano in carica quattro anni.
I confrati dovevano mantenere un contegno dignitoso sia in chiesa, sia fuori, sia durante le processioni e dovevano confessarsi almeno una volta al mese. Chi trasgrediva tali norme e si assentava per tre volte consecutive dalle riunioni era cancellato dall’elenco dei confrati, questo avveniva anche se qualcuno osava bestemmiare contro Dio e contro i Santi. La divisa era formata da un camice bianco, da un’ampia mantella bianca orlata di rosso, da una visiera bianca. Essa era indossata durante la processione del Venerdì Santo in segno di lutto.

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Lo statuto, approvato nella riunione del tre aprile del 1898 dai confrati, era composto da dodici capitoli che trattavano dei diritti e dei doveri di tutti i confrati. Don Calcedonio Bavisotto, allora cappellano della parrocchia, venne incontro alle esigenze della Confraternita che, in quell’epoca, contava circa cento fratelli. Il primo giugno del 1944, in seguito a molte riunioni, la Confraternita fu esentata da qualunque attività e l’amministrazione fu affidata ad una commissione composta dall’Arciprete monsignor Giuseppe Caputo, dal parroco Antonino Caputo e dal maresciallo Antonino Ortoleva. Ciò fu deciso il 28 maggio del 1944 dal vescovo di Patti mons. Angelo Ficarra che aveva considerato caotica la situazione in cui la confraternita era venuta a trovarsi, nonostante la buona fede di moltissimi elementi. Da quel giorno la Confraternita non si convocò più e si sciolse.

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Dopo sessantasette anni, nel febbraio del 2011, un gruppo di fedeli e di giovani della parrocchia, coadiuvati dal parroco Giovanni Lapin, decisero di ricostituire la vecchia Confraternita con la stessa divisa e con gli stessi principi della vecchia Confraternita.

Queste notizie sono state fornite dal segretario Fabrizio Marchese.

 

Nov 4, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MARE NEGLI OCCHI

IL MARE NEGLI OCCHI

Questo racconto, dal titolo “Il mare negli occhi” è stato scritto da me alcuni anni fa per richiamare alla memoria l’evento indimenticabile del terremoto del 31 ottobre del 1967 che ha interessato Mistretta e per spiegare il motivo del mio primo arrivo nella città di Licata.

IL MARE NEGLI OCCHI

 Quella sera del 31 ottobre del 1967 Lilia era appena ritornata a casa sua, a Mistretta, da Palermo, dopo aver superato brillantemente gli esami di Botanica e Zoologia all’università, per commemorare i suoi cari defunti.
Erano circa le ore 22,08 quando la terra tremò all’improvviso.
Un forte boato risuonò nell’aria, l’eco si diffuse nelle strade, fra le case, rimbombò nel campanile della chiesa di San Sebastiano che crollò.

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Foto di Sebastiano (Tatà) Lo Iacono

Furono momenti terribili.
Dopo qualche minuto il paese fu avvolto da un silenzio tombale.
Pioveva a dirotto e imperversava un vento impetuoso.
La gente, atterrita, correva, correva, ancora vestita o in abbigliamento notturno e in ciabatte, portando in braccio i piccoli addormentati e ignari. Lilia, entrata nella stanza da letto della sorella Anna, che aveva cullato la figlioletta Lucia per farla addormentare, nel cielo scuro della notte vide le stelle.
La parete, dove era appoggiato il letto, era crollata verso l’esterno, la culla colma di calcinacci, la bimba miracolosamente illesa.
Con cappotti e con coperte, afferrati in fretta, cercavamo di difenderci dal freddo intenso della notte in montagna.
I bagliori dei falò erano visibili anche da lontano. Le fiamme alte, rosse e bordate di giallo, liberavano tanta energia termica e luminosa che rischiarava la notte buia senza luna e riscaldava i corpi intirizziti delle persone che, negli ampi spazi lontani dal paese, dove minore era il pericolo di crolli e di frane, si erano riunite a gruppi per trascorrere insieme la notte all’addiaccio. Disposte a cerchio intorno al fuoco, raccontavano con emotività la traumatica esperienza appena vissuta.

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 Foto di Sebastiano (Tatà) Lo Iacono

 Per alimentare la pira, ciascuno collaborava portando sacchi di carbone, pile di vecchi giornali, sedie e tavoli sbilenchi, raccogliendo rami secchi degli alberi nel boschetto della Neviera, smontando ponteggi lignei dei muratori. Ogni materiale era utile per produrre calore che riscaldava l’organismo e incoraggiava il cuore.
C’era tanta solidarietà anche nel portare acqua da bere, viveri e, soprattutto, la radiolina che trasmetteva le ultime, aggiornate notizie.
Il papà di Lilia era andato a visitare la sua mamma novantenne che non aveva capito niente dell’accaduto.
La mamma di Lilia, capricciosa e testarda, quella sera era voluta rimanere nella casa di campagna, in contrada Scammari, insieme a Rosa, una donna che aiutava i genitori di Lilia nella raccolta delle olive.
Gran parte della popolazione amastratina, fiduciosa e devota, si era anche rifugiata nella chiesa Madre, davanti all’altare della Madonna dei Miracoli, per pregarLa, con ardente fede cristiana, di proteggerla sotto il Suo manto. Quindi fu portata in processione.
I mistrettesi, in seguito, Le hanno offerto un medaglione d’oro in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo causato dal recente sisma.

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 Il terremoto, che aveva devastato gran parte dei palazzi di Mistretta, la “regina dei Nebrodi”, splendida cittadina costruita su uno sperone di roccia, non aveva procurato nessun ferito: nessun morto, solo un mulo, dentro una stalla, vide finire i suoi giorni coperto dai detriti del tetto crollato.

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Sotto le macerie della sua casa Lilia aveva perso gli oggetti più cari e, in particolare, tutti i suoi libri che gelosamente custodiva.
Con il sostegno delle zie Giuseppina e Maria, dopo alcuni mesi Lilia è potuta ritornare a Palermo per riprendere gli studi universitari bruscamente interrotti a causa del terremoto.
Il 15 gennaio del 1968 Lilia a Palermo, seduta a tavola per l’ora di pranzo, avvertì un leggero tremolio sotto la sua sedia.
Poiché nessuno dei commensali lo percepì e nessuna voce si udì fuori, da parte della gente che abitava in una traversa della via Libertà, Lilia si convinse che era influenzata dalla prima esperienza.
Era il primo segnale di un altro importante movimento sismico.
Verso la mezzanotte un violentissimo terremoto scosse la città di Palermo e distrusse i paesi della Valle del Belice: Montevago, Salaparuta, Gibellina.
Carmelo, il grande e caro collega/amico licatese, subito si precipitò a raggiungere Lilia.
Lilia, da sola nella notte,  era già fuori in mezzo alla strada.
La paura, il disagio, la responsabilità per la perdita di tempo sottratto allo studio, sollevarono grande confusione e molta perplessità ai due giovani studenti!
La soluzione? Andare  a Licata.

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 Lilia arrivò a Licata alle tre di notte, col treno proveniente da Palermo e diretto a Siracusa.
Era la prima volta che veniva a Licata.
Fu ospite di Salvatore e di Dorotea, gli splendidi genitori di Carmelo a cui Lilia era legata dal sentimento dell’amore e dalla passione per lo studio delle Scienze Naturali che li aveva fatti incontrare nell’ateneo di Palermo.
Ad aspettare il treno, per l’arrivo del figlio e della sua ragazza, c’era il papà Salvatore che, durante il tragitto a piedi, dalla stazione ferroviaria di Licata fino a casa, in Via San Francesco di Paola, nel quartiere della Marina, dove le case si abbracciano strettamente l’una all’altra, si era sostituito alla più preparata guida nell’illustrare le bellezze della città: i corsi principali, i palazzi signorili, le chiese, la villetta “Garibaldi”, il Palazzo di Città, il Coso Vittorio Emanuele I, la via Sant’Andrea.
Mamma Dora aspettava paziente a casa l’arrivo dei giovani.
I larghi corsi della città impressionarono favorevolmente Lilia abituata a percorrere le strette e contorte stradine del suo paese.
L’affettuosa accoglienza dei licatesi, socievoli e cordiali, facilitò gli incontri, consentì il confronto di idee.
Poi, con la sua permanenza stabile a Licata per motivi di famiglia e di lavoro, Lilia riuscì ad unire la sua vita alla loro integrandosi nel contesto sociale e culturale della città.
Era affascinata dalla conoscenza del nuovo mondo etnografico e paesaggistico.
Le ragazze licatesi avevano la pelle abbronzata e nera per le  ore passate sulla spiagga sotto il sole cocente della lunga estate.
Lilia, invece, aveva la carnagione bianchissima e trasparente, da montanara.
La gente l’accolse offrendole semplici ma espressivi doni: tre dalie violacee raccolte nel vaso del balcone, un centrino lavorato all’uncinetto, un piatto di pesci appena pescati, un segnalibro, una cartolina antica, un variopinto cardellino domestico dal gradevole canto.
Lilia avrebbe voluto regalargli la libertà aprendo la gabbia ma, incapace di procurarsi il cibo e maldestro nel volare, sarebbe stato sicuramente un boccone prelibato per qualche gatto affamato. Lilia gli si era subito affezionata.
Lo aveva chiamato Fragolino per una macchia rossa sull’ala sinistra.
Al ritorno dal suo lavoro di insegnante lo chiamava: Fragolinooooo! Fragolino un giorno non rispose. Non saltellò.
Lilia lo ricorda ancora con nostalgia e affetto.
Lilia era un’attenta osservatrice dei comportamenti di un popolo diverso dal suo.
Ammirava la generosità di quella famiglia che, imbandendo la tavola sulla strada, fuori della porta del basso dove abitava, la invitava a condividere la cena e a bere un bicchiere di vino rosso locale.
La penuria d’acqua fu, per Lilia, la vera esperienza negativa a Licata: non era abituata a risparmiare quel liquido prezioso che vedeva scorrere dai rubinetti in media una volta ogni venti giorni.
U zza’Saru”, un furbo vecchietto, passava per le vie della Marina a vendere l’acqua, a caro prezzo, prelevandola da qualche pozzo.
Il suo carretto, sormontato dalla botte e trainato dallo stanco e malconcio cavallo, con il rumore delle ruote e con lo scalpitio degli zoccoli dell’animale, rivelava la sua presenza in strada.
Le donne gridavano: “a vutti c’è, a vutti c’è”.
Le massaie, dal balcone, fermavano il mezzo.
L’acqua, misurata con le “lancedde”, era trasportata nei piani alti delle case attraverso le scale. Che fatica!
Per Lilia, nata e vissuta in montagna, trapiantarsi a Licata fu un’emozione meravigliosa: il cielo, dal colore del lapislazzuli, di solito limpido e trasparente, era un elemento di diversità rispetto al suo paese, dove la nebbia avvolge, nasconde e rende tutto invisibile, anche se non è inverno.
Il mare fu la sua principale attrazione.
Il mare, con le sfumature dell’azzurro e del verde. Il mare che, in un amplesso di tenerezza, lambisce le larghe spiagge dalla sabbia fine e chiara, dove s’insinua con dolcezza regalando emozioni degne di un paesaggio caraibico.

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Dopo la mareggiata, Lilia, appassionata di malacologia, andava a raccogliere le conchiglie abbandonate sulla spiaggia. Ama tuttora passeggiare sulla banchina del porto di levante, che profuma di sale e puzza di alghe putride; osserva, preoccupata per l’inquinamento, il gasolio che nuota a ventaglio fra le barche, miraggio dell’uccello negli abissi.

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Cominciò a praticare il mare, a partecipare alle battute di pesca subacquea con Carmelo e con gli altri amici del “Centro Attività Subacquee”, ad organizzare gare di pesca subacquea e con la canna, a frequentare il porto, a parlare con i pescatori, a conoscere il mondo di chi il mare lo affronta ogni giorno e che del mare vive da sempre.

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Negli occhi, nel cuore, nell’anima d’ogni marinaio Lilia ha visto sempre il mare, una realtà difficilmente condivisa con gli altri, fatta di fatica, di ansia, di speranza.
Il mare vive in ogni cellula del loro corpo mentre, tra i capelli, il vento attorciglia storie che sembrano fantasie come quelle che le raccontavano quando le avverse condizioni meteorologiche costringevano le barche a rimanere inattive dentro il porto e i marinai sul molo intenti a riparare gli strappi delle reti.

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I pescherecci, le barche, i pescatori, con i pantaloni arrotolati alle ginocchia, con il torso nudo, levigato e bruciato dal sole, i pesci esposti nei piatti, le urla dei venditori, la gente che contrattava sul prezzo, la vendita all’asta del pescato, prove d’autentica vita marinara, i ragazzi, esperti nuotatori, che si tuffavano dalla banchina del Cuore di Gesù, usando la forza delle loro gambe e delle loro braccia, suscitavano la sua curiosità e il suo stupore.

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Quadri di Salvatore De Caro (di mia proprietà)

 Un giorno, dall’isolotto della Rocca di San Nicola, Lilia perdeva lo sguardo tra cielo e mare nella linea dell’orizzonte quando si accorse che, in lontananza, la superficie s’increspava stranamente. Erano due delfini che, con il loro movimento sinuoso, la ondulavano. Comparivano e scomparivano, si tuffavano e riemergevano. Utilizzando un potente canotto a motore, Carmelo, Cesare e Lilia li seguirono fino a Punta Bianca, navigando sotto costa. Poi i delfini presero il largo.
I vecchi marinai licatesi chiamano ancora questi cetacei “A fera, u malu pisci” perché, seguendo la scia delle barche, con i loro denti strappano il sacco delle reti per rubare il pesce. I pescatori al porto parlano sempre degli incontri con i delfini.
Nelle sere d’inverno alcuni pescatori avevano l’abitudine di recarsi nella sede sociale del circolo sportivo “Centro Attività Subacquee”, vicino al porto, dove discutevano su fatti avvenuti in mare.
I delfini erano i principali protagonisti delle storie.
Lilia intratteneva i marinai, esponendo le sue conoscenze storiche, mitologiche, antropiche che si riferivano a questo splendido cetaceo.
Tutti ascoltavano attenti, mentre raccontava, “ripescando” dai testi antichi le mitiche immagini del delfino, da sempre “signore dei mari”, animale particolarmente intelligente, dotato di un’elevata capacità d’apprendimento, sensibile alla musica, socievole, compagno dei marinai ai quali preannuncia acque calme e rotte sicure, “complice” dei pescatori, caro agli Dei, simpatico agli uomini, che lo hanno considerato amico anche per il notevole senso ludico.
Da Aristotele conoscevano la credenza secondo la quale i delfini sorvegliavano i giovani bagnanti per evitare loro calamità; se accadevano, essi si prodigavano per riportare pietosamente le vittime a riva.
Capivano che i delfini erano ben visti dai navigatori che interpretavano i loro fischi come presagi propizi.
Ogni sera Lilia aveva una storia diversa da raccontare.
Simili ai grani del rosario, le leggende scorrevano affascinando i marinai, che, come “bambini curiosi”, le commentavano animatamente.
Li meravigliava spiegando che i Cretesi adoravano i delfini perché ritenuti traghettatori delle anime dei morti alle isole dei Beati, nell’oltretomba, ai limiti del mondo.
Nella religione egiziana il delfino è attribuito ad Iside, protettrice dei defunti, capace di risuscitarli.
Nella cultura dei Fenici e nella mitologia dei Greci il delfino era simbolo di rigenerazione e di salvezza.
Anche l’iconografia cristiana aveva adottato i delfini come emblema della virtù, della carità e della purezza; la loro effigie è stata impressa anche su qualche fonte battesimale.
Il delfino è associato spesso all’àncora perché simbolo di salvezza.
Due delfini rivolti nella stessa direzione simboleggiano l’equilibrio di due forze uguali; due delfini, posti in posizioni opposte l’una all’altra, simboleggiano le due forze cosmiche contrarie.
Durante le sere d’estate i pescatori, seduti all’esterno dei bar di via Principe di Napoli, dove gli ultimi raggi di sole intiepidivano le sedie dove si riposavano, si incontravano con gli altri marinai per parlare di lavoro, di mare, di qualità del pescato, di povertà, di provvidenza, di tempeste, di naufragi, di venti dei quali sono esperti conoscitori.
Sciroccu chiaru e tramuntana scura mettiti a mari senza paura” recita un antico proverbio licatese.
Raccontavano che il marinaio più anziano, appena avvistata la “ddraunara”, la terrificante tromba marina, cercava di esorcizzarla e di allontanarla tagliandola con un coltello appuntito, facendo con le braccia una grande croce e recitando in silenzio un’orazione.
Nessun altro membro dell’equipaggio doveva ascoltarla.
L’esorcismo altrimenti sarebbe stato nullo!

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Ogni racconto, arricchito da molta fantasia, era ascoltato con superstizioso silenzio perché ricordava il terrore di un’esperienza vissuta o, nell’immaginario, creava l’incubo di un probabile  incontro.
Spesso Carmelo e Lilia aspettavano al porto il rientro dell’ultima barca accompagnata dal sole che moriva.
Si fermavano a guardare il mare con le barche illuminate dalle lampare che davano loro la sensazione di uno sciame di lucciole che si muovevano nel buio, mentre la luce del faro spezzava l’oscurità con una sventagliata di luminosità sfiorando i pescatori che, a quel fascio di luce inafferrabile sicuramente affidavano un volto, una preghiera per coloro che dal mare sono stati inghiottiti.

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Sono lontani ricordi, nostalgie, tristezze per tutto ciò che non c’è più che aiutano, però, il percorso della vita di Lilia, anche se hanno le ali e spesso volano!
Ogni ricordo è un tornare indietro nel percorso della labile memoria.
Essa è lo strumento per l’agire nel presente e nel futuro.
Le pagine tratte dalla realtà diventano col tempo  semplici barlumi e frammenti del vissuto.
Lilia contempla ancora con occhi incantati il mare il Licata rilucente sotto il sole del mattino o sotto la scia luminosa della luna.                                        21ok

 Sulla sponda della costa licatese viene sempre ad ascoltare il respiro del mare, a sentire l’odore, ad udire il mormorio delle onde che lo animano come una piacevole melodia, a scrutarlo quando è calmo e quando è arrabbiato e a lasciarsi sfiorare dagli spruzzi d’acqua salata.
Carmelo, purtroppo, non c’è più, ma la vita…continua.

 

 

                                           

 

 

Oct 27, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’INULA VISCOSA O DITTRICHIA VISCOSA NELLE ZONE DI LICATA

L’INULA VISCOSA O DITTRICHIA VISCOSA NELLE ZONE DI LICATA

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Qualche giorno fa, passeggiando lungo il viale dentro il porto turistico Marina di Cala del Sole a Licata, la mia attenzione è stata attratta da una grande quantità di piante fiorite che adornavano, riempiendolo, un pezzetto di terreno. Osservando attentamente altri luoghi ho notato che questa pianta è molto diffusa e quasi invadente non solo all’interno del porto turistico, ma cresce rigogliosa anche nei piazzali incolti, sotto i marciapiedi, ai bordi delle strade, sui muri, lungo le sponde del fiume Salso, ai margini delle spiagge di Mollarella, della Poliscia, della Rocca di San Nicola. Sembra che resista all’intensa forza delle mareggiate.

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In un’aiuola all’interno dello spiazzo del rifornimento di carburante Agip di via Gela, sempre a Licata, moltissime di queste piante splendono per il colore giallo brillante dei fiori. La mia macchina fotografica è sempre pronta a registrare qualsiasi particolare evento!
In un pugno di terreno, disposto ad accoglierla, là  c’è!

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La mia curiosità nel chiamare col proprio nome scientifico questa meraviglia che la Natura mi regala con premurosa solerzia è stata subito soddisfatta dal gentile prof. Alfonso La Rosa.
La Sua nobile e preziosa disponibilità a guidarmi nell’identificazione delle piante spontanee è per me un grandissimo incoraggiamento ad aggiornare il mio blog.  Grazie Alfonso!
E’ l’Inula viscosa.

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L’Inula viscosa proviene dalle regioni costiere del Mediterraneo, ma, per la sua rusticità e per la sua capacità di adattamento, si spinge molto lontano naturalizzandosi anche in altre regioni dell’Europa e del Nordamerica. In Italia è presente in tutte le regioni della penisola e nelle isole tranne che in Val d’Aosta e nel Trentino-Alto Adige. Vegeta bene dal mare alla montagna ad un’altitudine da 0 fino ad 800 metri s.l.m. E’ rigogliosa in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, nel Friuli-Venezia Giulia, in Liguria, in Emilia-Romagna, in Toscana, nelle Marche, in Umbria, nel Lazio, in Abruzzo, in Molise, in Campania, in Puglia, in Basilicata, in Calabria, in Sicilia, in Sardegna.  Sui colli Euganei è molto rara ed è stata rinvenuta solo sui monti sopra Monselice.

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Per la sua notevole distribuzione nel territorio nazionale, la pianta è conosciuta con i sinonimi più noti quali: Enula cepittoni vischiosa, Enula bacicci, Cupularia viscosa, Dittrichia viscosa. Il nome “Dittrichia” è stato scelto per omaggiare il botanico tedesco Manfred Dittrich (1934-) noto studioso delle Asteraceae. Il nome volgare dialettale è Brucara, Erva maisa.

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In Italia altri sinonimi noti sono: Ceppica, Ceppula, Prucara, Pruteca. Il popolo di ogni regione italiana conosce la stessa pianta con sinonimi diversi e più appropriati. In Toscana, a seconda delle località, è chiamata: Ceppita, Ceppitone, Cespita, Erba puzza, Erba vischio, Melacciola, Melajola, Melangola, Scepita, Tignamica. In Campania è chiamata: Erba della Madonna, Erba di Ciucci, Mastirascia, Paparacchio, Pruteca, Putica. In Liguria è chiamata: Erba da Pruxe, Gnasca, Nasca, Pulegara. Sarzana. In Emilia-Romagna: Scarafazzen. In Basilicata: Piscia pantone. Nelle Marche: Bistorno. In Abruzzo: Cote de volpe. In Calabria: Arangella, Arzunella, Canta Canta, Crizza, Erba per i tagli, Pulicara. In Sicilia: Brucara, Erva di maisi, Prucarà, Pulicara majuri, Pulicaria, Vulcara. I mistrettesi la chiamano Pulicarra. In Sardegna, a seconda della zona, è chiamata: Frissa, Frisa, Frisia, Erba da Mosca. Certamente non ci sono limiti alla fantasia popolare!

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 L’Inula viscosa è una pianta generalmente sempreverde appartenente alla famiglia delleAsteraceae. La denominazione scientifica Inula è stata adoperata nella pubblicazione Species Plantarum del 1753 da Carl von Linné, nome italianizzato in Linneo, (Rashult, il 23 maggio 1707 – Uppsala, 10 gennaio 1778). Biologo e scrittore svedese, Linneo è considerato il padre della sistematica metodologica per la classificazione tassonometrica degli esseri viventi.
Il nome del genere “Inula” potrebbe derivare anche dal termine latino “inŭla” usato dai Romani per indicare proprio ”l’erba”. Un’altra ipotesi sull’etimologia del termine probabilmente lo fa derivare dal vocabolo greco “ίναι” “purgare” per le proprietà terapeutiche contenute nelle radici di varie specie di Inula. Oppure origina dal greco “ελένη” “splendore, bagliore, luce” per lo splendore del piccolo cestino dei capolini. Il termine “viscosa” deriva dal latino “viscosus” in riferimento alla viscosità della specie.
L’Inula viscosa è una piccola pianta suffrutescente, legnosa alla base, vigorosa e abbondantemente ramificata. Dalle radici rizomatose ipogee si ergono i fusti, a sezione cilindrica, eretti, allungati, alti da 50 a  80 cm e che, eccezionalmente, possono raggiungere i 150 cm di altezza. Il fusto è circondato dalle foglie vischiose e dai germogli pubescenti, glandolosi e vischiosi, che emanano uno sgradevole odore resinoso che tiene lontani gli animali erbivori. Le foglie, sessili, irregolarmente alterne o sparse, quelle cauline con lamina lanceolata e semiabbraccianti, per avvolgere il fusto, hanno il margine intero o irregolarmente dentato e seghettato e l’apice acuto.  In genere le foglie persistono sulla pianta.

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I fiori, simili a margheritine, sono dei capolini molto vistosi. I fiori periferici,femminili, disposti a raggiera, a linguette lunghe quasi il doppio dell’involucro, sono di colore giallo dorato. I fiori interni, ermafroditi, tubulosi sono dotati di una corolla colorata di giallo intenso terminante con cinque denti. La fioritura è scalare protraendosi per un tempo piuttosto lungo che si estende da agosto a novembre. Per la scalarità della fioritura si hanno sulla stessa pianta contemporaneamente fiori e frutti. L’impollinazione è entomogama.
Il frutto, un achenio lungo circa 3 mm, è provvisto di un pappo piumoso, biancastro e morbido, con peli riuniti alla base che permettono la disseminazione anemocora dei piccoli semi lunghi.

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 L’Inula viscosa è una pianta tipicamente eliofila, ruderale, rustica e poco esigente. Colonizza, comportandosi da infestante, terreni poveri, siccitosi, calcarei, argillosi, pietrosi e soprattutto incolti e abbandonati.
Cresce anche nei luoghi erbosi ed umidi, nei luoghi boscosi, nelle località aride. Si adatta a vegetare anche nelle scarpate dove, con il suo apparato radicale profondo, riesce a trattenere il terreno.
Evita i terreni seminativi e lavorati. Non è molto esigente in fatto di temperatura e resiste bene ai climi invernali. Anche se il suo aspetto è inelegante, la pianta è di facile coltivazione ed ha un notevole sviluppo vegetativo. L’utilità della pianta di questo genere si estende anche al giardinaggio e alla decorazione tramite il fiore reciso.

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L’Inula viscosa, pianta molto comune nel bacino mediterraneo, è conosciuta per il suo ruolo nel ciclo degli insetti ausiliari che controllano la Bactrocera oleae, la mosca olearia,uno dei principali parassiti degli uliveti. La pianta è attaccata dalla Myopites stylata, un dittero Tefritide che depone le uova sui fiori dell’Inula.
La larva di Myopites stylata stimola la formazione di galle. Le larve di Myopites stylata possono a loro volta essere parassitate dagli insetti parassitoidi, in particolare dall’Eupelmus rozonusu, un parassita polifago degli Imenotteri Calcidoidi. l’Eupelmus rozonusu attacca da parassita la mosca delle olive generando ogni anno almeno 2-3 generazioni. Riassumendo: poiché l’Eupelmus rozonusu è l’antagonista naturale della mosca delle olive, la presenza delle piante di Inula nei terreni coltivati ad oliveti è fondamentale perché può contribuire al controllo del fitofago nei programmi di lotta integrata.

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 Il genere Inula comprende specie con proprietà officinali. Infatti, nei vari testi di medicina naturale si trova un ricco elenco di proprietà attribuite alle “Inule” quali: stomachiche, vermifughe, toniche diuretiche, balsamiche e calmanti della tosse, risolutive in generale. Tuttavia all’Inula viscosa non si attribuiscono proprietà medicinali, anche se in passato, in qualche regione, è stata utilizzata nella medicina popolare. In alcune regioni della Sardegna sarebbe stata usata come analgesico per i dolori reumatici. In Sicilia le foglie verdi pestate o tritate, applicate sulle ferite, sono un buon rimedio per la loro cicatrizzazione.
Fatte aderire esternamente risolvono problemi di eczemi della pelle, di herpes delle labbra  e di punture di insetti. In Liguria le foglie essiccate erano utilizzate dagli indigenti quale surrogato del tabacco.
La pianta di Inula contiene piccole quantità di olio etereo e di inulina. Il contatto con alcune sostanze di questa pianta potrebbe causare dermatiti allergiche. L’assunzione di elevate quantità di queste sostanze potrebbe causare vomito e diarrea.
In campoalimentare l’Inula è una pianta mellifera frequentemente visitata dalle api, soprattutto quando le altre fioriture sono limitate, per l’abbondante produzione di polline e per la lunga durata della fioritura. Essa contribuisce, pertanto, nella tarda estate e in autunno, alla produzione di miele millefiori e, nelle zone dove è abbondante la sua presenza, alla produzione di miele monoflora.Il miele di Inula è poco apprezzato nel mercato commerciale per il sapore e per la cristallizzazione irregolare. Infatti, avendo un’umidità più alta rispetto agli altri mieli, è meno stabile per la conservazione perché, a temperature moderatamente alte, facilmente va incontro a fermentazioni. L’Inula viscosa è utile per la costituzione di famiglie di api che generano sciami numerosi nella primavera successiva.

Curiosità: in passato, creando una specie di scopa, un fascio di fusti era utilizzato per pulire il piano di cottura del forno a legna perché, grazie alla viscosità delle foglie vischiose e alla resistenza al fuoco, la cenere e la polvere  venivano facilmente eliminate.
Nelle campagne l’Inula è stata un prezioso aiuto grazie al suo potere insettifugo; l’odore forte della parte verde è stato sfruttato per conservare le granaglie e i legumi. I contadini usavano poggiare fasci di Inula sopra i sacchi che contenevano legumi e  cereali per allontanare i pidocchi.