Nov 4, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MARE NEGLI OCCHI

IL MARE NEGLI OCCHI

Questo racconto, dal titolo “Il mare negli occhi” è stato scritto da me alcuni anni fa per richiamare alla memoria l’evento indimenticabile del terremoto del 31 ottobre del 1967 che ha interessato Mistretta e per spiegare il motivo del mio primo arrivo nella città di Licata.

IL MARE NEGLI OCCHI

 Quella sera del 31 ottobre del 1967 Lilia era appena ritornata a casa sua, a Mistretta, da Palermo, dopo aver superato brillantemente gli esami di Botanica e Zoologia all’università, per commemorare i suoi cari defunti.
Erano circa le ore 22,08 quando la terra tremò all’improvviso.
Un forte boato risuonò nell’aria, l’eco si diffuse nelle strade, fra le case, rimbombò nel campanile della chiesa di San Sebastiano che crollò.

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Foto di Sebastiano (Tatà) Lo Iacono

Furono momenti terribili.
Dopo qualche minuto il paese fu avvolto da un silenzio tombale.
Pioveva a dirotto e imperversava un vento impetuoso.
La gente, atterrita, correva, correva, ancora vestita o in abbigliamento notturno e in ciabatte, portando in braccio i piccoli addormentati e ignari. Lilia, entrata nella stanza da letto della sorella Anna, che aveva cullato la figlioletta Lucia per farla addormentare, nel cielo scuro della notte vide le stelle.
La parete, dove era appoggiato il letto, era crollata verso l’esterno, la culla colma di calcinacci, la bimba miracolosamente illesa.
Con cappotti e con coperte, afferrati in fretta, cercavamo di difenderci dal freddo intenso della notte in montagna.
I bagliori dei falò erano visibili anche da lontano. Le fiamme alte, rosse e bordate di giallo, liberavano tanta energia termica e luminosa che rischiarava la notte buia senza luna e riscaldava i corpi intirizziti delle persone che, negli ampi spazi lontani dal paese, dove minore era il pericolo di crolli e di frane, si erano riunite a gruppi per trascorrere insieme la notte all’addiaccio. Disposte a cerchio intorno al fuoco, raccontavano con emotività la traumatica esperienza appena vissuta.

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 Foto di Sebastiano (Tatà) Lo Iacono

 Per alimentare la pira, ciascuno collaborava portando sacchi di carbone, pile di vecchi giornali, sedie e tavoli sbilenchi, raccogliendo rami secchi degli alberi nel boschetto della Neviera, smontando ponteggi lignei dei muratori. Ogni materiale era utile per produrre calore che riscaldava l’organismo e incoraggiava il cuore.
C’era tanta solidarietà anche nel portare acqua da bere, viveri e, soprattutto, la radiolina che trasmetteva le ultime, aggiornate notizie.
Il papà di Lilia era andato a visitare la sua mamma novantenne che non aveva capito niente dell’accaduto.
La mamma di Lilia, capricciosa e testarda, quella sera era voluta rimanere nella casa di campagna, in contrada Scammari, insieme a Rosa, una donna che aiutava i genitori di Lilia nella raccolta delle olive.
Gran parte della popolazione amastratina, fiduciosa e devota, si era anche rifugiata nella chiesa Madre, davanti all’altare della Madonna dei Miracoli, per pregarLa, con ardente fede cristiana, di proteggerla sotto il Suo manto. Quindi fu portata in processione.
I mistrettesi, in seguito, Le hanno offerto un medaglione d’oro in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo causato dal recente sisma.

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 Il terremoto, che aveva devastato gran parte dei palazzi di Mistretta, la “regina dei Nebrodi”, splendida cittadina costruita su uno sperone di roccia, non aveva procurato nessun ferito: nessun morto, solo un mulo, dentro una stalla, vide finire i suoi giorni coperto dai detriti del tetto crollato.

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Sotto le macerie della sua casa Lilia aveva perso gli oggetti più cari e, in particolare, tutti i suoi libri che gelosamente custodiva.
Con il sostegno delle zie Giuseppina e Maria, dopo alcuni mesi Lilia è potuta ritornare a Palermo per riprendere gli studi universitari bruscamente interrotti a causa del terremoto.
Il 15 gennaio del 1968 Lilia a Palermo, seduta a tavola per l’ora di pranzo, avvertì un leggero tremolio sotto la sua sedia.
Poiché nessuno dei commensali lo percepì e nessuna voce si udì fuori, da parte della gente che abitava in una traversa della via Libertà, Lilia si convinse che era influenzata dalla prima esperienza.
Era il primo segnale di un altro importante movimento sismico.
Verso la mezzanotte un violentissimo terremoto scosse la città di Palermo e distrusse i paesi della Valle del Belice: Montevago, Salaparuta, Gibellina.
Carmelo, il grande e caro collega/amico licatese, subito si precipitò a raggiungere Lilia.
Lilia, da sola nella notte,  era già fuori in mezzo alla strada.
La paura, il disagio, la responsabilità per la perdita di tempo sottratto allo studio, sollevarono grande confusione e molta perplessità ai due giovani studenti!
La soluzione? Andare  a Licata.

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 Lilia arrivò a Licata alle tre di notte, col treno proveniente da Palermo e diretto a Siracusa.
Era la prima volta che veniva a Licata.
Fu ospite di Salvatore e di Dorotea, gli splendidi genitori di Carmelo a cui Lilia era legata dal sentimento dell’amore e dalla passione per lo studio delle Scienze Naturali che li aveva fatti incontrare nell’ateneo di Palermo.
Ad aspettare il treno, per l’arrivo del figlio e della sua ragazza, c’era il papà Salvatore che, durante il tragitto a piedi, dalla stazione ferroviaria di Licata fino a casa, in Via San Francesco di Paola, nel quartiere della Marina, dove le case si abbracciano strettamente l’una all’altra, si era sostituito alla più preparata guida nell’illustrare le bellezze della città: i corsi principali, i palazzi signorili, le chiese, la villetta “Garibaldi”, il Palazzo di Città, il Coso Vittorio Emanuele I, la via Sant’Andrea.
Mamma Dora aspettava paziente a casa l’arrivo dei giovani.
I larghi corsi della città impressionarono favorevolmente Lilia abituata a percorrere le strette e contorte stradine del suo paese.
L’affettuosa accoglienza dei licatesi, socievoli e cordiali, facilitò gli incontri, consentì il confronto di idee.
Poi, con la sua permanenza stabile a Licata per motivi di famiglia e di lavoro, Lilia riuscì ad unire la sua vita alla loro integrandosi nel contesto sociale e culturale della città.
Era affascinata dalla conoscenza del nuovo mondo etnografico e paesaggistico.
Le ragazze licatesi avevano la pelle abbronzata e nera per le  ore passate sulla spiagga sotto il sole cocente della lunga estate.
Lilia, invece, aveva la carnagione bianchissima e trasparente, da montanara.
La gente l’accolse offrendole semplici ma espressivi doni: tre dalie violacee raccolte nel vaso del balcone, un centrino lavorato all’uncinetto, un piatto di pesci appena pescati, un segnalibro, una cartolina antica, un variopinto cardellino domestico dal gradevole canto.
Lilia avrebbe voluto regalargli la libertà aprendo la gabbia ma, incapace di procurarsi il cibo e maldestro nel volare, sarebbe stato sicuramente un boccone prelibato per qualche gatto affamato. Lilia gli si era subito affezionata.
Lo aveva chiamato Fragolino per una macchia rossa sull’ala sinistra.
Al ritorno dal suo lavoro di insegnante lo chiamava: Fragolinooooo! Fragolino un giorno non rispose. Non saltellò.
Lilia lo ricorda ancora con nostalgia e affetto.
Lilia era un’attenta osservatrice dei comportamenti di un popolo diverso dal suo.
Ammirava la generosità di quella famiglia che, imbandendo la tavola sulla strada, fuori della porta del basso dove abitava, la invitava a condividere la cena e a bere un bicchiere di vino rosso locale.
La penuria d’acqua fu, per Lilia, la vera esperienza negativa a Licata: non era abituata a risparmiare quel liquido prezioso che vedeva scorrere dai rubinetti in media una volta ogni venti giorni.
U zza’Saru”, un furbo vecchietto, passava per le vie della Marina a vendere l’acqua, a caro prezzo, prelevandola da qualche pozzo.
Il suo carretto, sormontato dalla botte e trainato dallo stanco e malconcio cavallo, con il rumore delle ruote e con lo scalpitio degli zoccoli dell’animale, rivelava la sua presenza in strada.
Le donne gridavano: “a vutti c’è, a vutti c’è”.
Le massaie, dal balcone, fermavano il mezzo.
L’acqua, misurata con le “lancedde”, era trasportata nei piani alti delle case attraverso le scale. Che fatica!
Per Lilia, nata e vissuta in montagna, trapiantarsi a Licata fu un’emozione meravigliosa: il cielo, dal colore del lapislazzuli, di solito limpido e trasparente, era un elemento di diversità rispetto al suo paese, dove la nebbia avvolge, nasconde e rende tutto invisibile, anche se non è inverno.
Il mare fu la sua principale attrazione.
Il mare, con le sfumature dell’azzurro e del verde. Il mare che, in un amplesso di tenerezza, lambisce le larghe spiagge dalla sabbia fine e chiara, dove s’insinua con dolcezza regalando emozioni degne di un paesaggio caraibico.

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Dopo la mareggiata, Lilia, appassionata di malacologia, andava a raccogliere le conchiglie abbandonate sulla spiaggia. Ama tuttora passeggiare sulla banchina del porto di levante, che profuma di sale e puzza di alghe putride; osserva, preoccupata per l’inquinamento, il gasolio che nuota a ventaglio fra le barche, miraggio dell’uccello negli abissi.

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Cominciò a praticare il mare, a partecipare alle battute di pesca subacquea con Carmelo e con gli altri amici del “Centro Attività Subacquee”, ad organizzare gare di pesca subacquea e con la canna, a frequentare il porto, a parlare con i pescatori, a conoscere il mondo di chi il mare lo affronta ogni giorno e che del mare vive da sempre.

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Negli occhi, nel cuore, nell’anima d’ogni marinaio Lilia ha visto sempre il mare, una realtà difficilmente condivisa con gli altri, fatta di fatica, di ansia, di speranza.
Il mare vive in ogni cellula del loro corpo mentre, tra i capelli, il vento attorciglia storie che sembrano fantasie come quelle che le raccontavano quando le avverse condizioni meteorologiche costringevano le barche a rimanere inattive dentro il porto e i marinai sul molo intenti a riparare gli strappi delle reti.

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I pescherecci, le barche, i pescatori, con i pantaloni arrotolati alle ginocchia, con il torso nudo, levigato e bruciato dal sole, i pesci esposti nei piatti, le urla dei venditori, la gente che contrattava sul prezzo, la vendita all’asta del pescato, prove d’autentica vita marinara, i ragazzi, esperti nuotatori, che si tuffavano dalla banchina del Cuore di Gesù, usando la forza delle loro gambe e delle loro braccia, suscitavano la sua curiosità e il suo stupore.

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Quadri di Salvatore De Caro (di mia proprietà)

 Un giorno, dall’isolotto della Rocca di San Nicola, Lilia perdeva lo sguardo tra cielo e mare nella linea dell’orizzonte quando si accorse che, in lontananza, la superficie s’increspava stranamente. Erano due delfini che, con il loro movimento sinuoso, la ondulavano. Comparivano e scomparivano, si tuffavano e riemergevano. Utilizzando un potente canotto a motore, Carmelo, Cesare e Lilia li seguirono fino a Punta Bianca, navigando sotto costa. Poi i delfini presero il largo.
I vecchi marinai licatesi chiamano ancora questi cetacei “A fera, u malu pisci” perché, seguendo la scia delle barche, con i loro denti strappano il sacco delle reti per rubare il pesce. I pescatori al porto parlano sempre degli incontri con i delfini.
Nelle sere d’inverno alcuni pescatori avevano l’abitudine di recarsi nella sede sociale del circolo sportivo “Centro Attività Subacquee”, vicino al porto, dove discutevano su fatti avvenuti in mare.
I delfini erano i principali protagonisti delle storie.
Lilia intratteneva i marinai, esponendo le sue conoscenze storiche, mitologiche, antropiche che si riferivano a questo splendido cetaceo.
Tutti ascoltavano attenti, mentre raccontava, “ripescando” dai testi antichi le mitiche immagini del delfino, da sempre “signore dei mari”, animale particolarmente intelligente, dotato di un’elevata capacità d’apprendimento, sensibile alla musica, socievole, compagno dei marinai ai quali preannuncia acque calme e rotte sicure, “complice” dei pescatori, caro agli Dei, simpatico agli uomini, che lo hanno considerato amico anche per il notevole senso ludico.
Da Aristotele conoscevano la credenza secondo la quale i delfini sorvegliavano i giovani bagnanti per evitare loro calamità; se accadevano, essi si prodigavano per riportare pietosamente le vittime a riva.
Capivano che i delfini erano ben visti dai navigatori che interpretavano i loro fischi come presagi propizi.
Ogni sera Lilia aveva una storia diversa da raccontare.
Simili ai grani del rosario, le leggende scorrevano affascinando i marinai, che, come “bambini curiosi”, le commentavano animatamente.
Li meravigliava spiegando che i Cretesi adoravano i delfini perché ritenuti traghettatori delle anime dei morti alle isole dei Beati, nell’oltretomba, ai limiti del mondo.
Nella religione egiziana il delfino è attribuito ad Iside, protettrice dei defunti, capace di risuscitarli.
Nella cultura dei Fenici e nella mitologia dei Greci il delfino era simbolo di rigenerazione e di salvezza.
Anche l’iconografia cristiana aveva adottato i delfini come emblema della virtù, della carità e della purezza; la loro effigie è stata impressa anche su qualche fonte battesimale.
Il delfino è associato spesso all’àncora perché simbolo di salvezza.
Due delfini rivolti nella stessa direzione simboleggiano l’equilibrio di due forze uguali; due delfini, posti in posizioni opposte l’una all’altra, simboleggiano le due forze cosmiche contrarie.
Durante le sere d’estate i pescatori, seduti all’esterno dei bar di via Principe di Napoli, dove gli ultimi raggi di sole intiepidivano le sedie dove si riposavano, si incontravano con gli altri marinai per parlare di lavoro, di mare, di qualità del pescato, di povertà, di provvidenza, di tempeste, di naufragi, di venti dei quali sono esperti conoscitori.
Sciroccu chiaru e tramuntana scura mettiti a mari senza paura” recita un antico proverbio licatese.
Raccontavano che il marinaio più anziano, appena avvistata la “ddraunara”, la terrificante tromba marina, cercava di esorcizzarla e di allontanarla tagliandola con un coltello appuntito, facendo con le braccia una grande croce e recitando in silenzio un’orazione.
Nessun altro membro dell’equipaggio doveva ascoltarla.
L’esorcismo altrimenti sarebbe stato nullo!

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Ogni racconto, arricchito da molta fantasia, era ascoltato con superstizioso silenzio perché ricordava il terrore di un’esperienza vissuta o, nell’immaginario, creava l’incubo di un probabile  incontro.
Spesso Carmelo e Lilia aspettavano al porto il rientro dell’ultima barca accompagnata dal sole che moriva.
Si fermavano a guardare il mare con le barche illuminate dalle lampare che davano loro la sensazione di uno sciame di lucciole che si muovevano nel buio, mentre la luce del faro spezzava l’oscurità con una sventagliata di luminosità sfiorando i pescatori che, a quel fascio di luce inafferrabile sicuramente affidavano un volto, una preghiera per coloro che dal mare sono stati inghiottiti.

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Sono lontani ricordi, nostalgie, tristezze per tutto ciò che non c’è più che aiutano, però, il percorso della vita di Lilia, anche se hanno le ali e spesso volano!
Ogni ricordo è un tornare indietro nel percorso della labile memoria.
Essa è lo strumento per l’agire nel presente e nel futuro.
Le pagine tratte dalla realtà diventano col tempo  semplici barlumi e frammenti del vissuto.
Lilia contempla ancora con occhi incantati il mare il Licata rilucente sotto il sole del mattino o sotto la scia luminosa della luna.                                        21ok

 Sulla sponda della costa licatese viene sempre ad ascoltare il respiro del mare, a sentire l’odore, ad udire il mormorio delle onde che lo animano come una piacevole melodia, a scrutarlo quando è calmo e quando è arrabbiato e a lasciarsi sfiorare dagli spruzzi d’acqua salata.
Carmelo, purtroppo, non c’è più, ma la vita…continua.

 

 

                                           

 

 

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