Jul 8, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LA CLEMATIS SUPERBA

LA CLEMATIS SUPERBA

Clematis superba

Il genere Clematis, appartenente alla famiglia delle Ranuncolaceae, conta oltre 300 specie fra piante erbacee e legnose, delicate, rustiche e meno rustiche, sempreverdi e caducifoglie e, solitamente, rampicanti. Le specie a portamento rampicante mostrano un aspetto vigoroso per la presenza di fusti flessuosi e parzialmente lignificati. Il nome generico “Clematis”, attribuito da Dioscoride, deriva dal greco “κλείω”, “richiudere, circondare”, cioè “pianta volubile”, per indicare questo tipo di portamento della pianta. Per questo motivo preferisce crescere insieme ad altre piante alle quali si appoggia come sostegno. Le Clematidi sono piante cosmopolite: provengono dall’America, dalla Siberia, dalla Cina e sono presenti in Giappone, sull’Himalaya e in Europa. Le Clematidi erano piante ampiamente coltivate dai romani che ne ricoprivano i muri delle abitazioni confidando in un loro potere magico. Credevano di tenere lontani i fulmini e di scacciare gli spiriti maligni. In Inghilterra dagli inglesi furono soprannominate “traveller’s joy” ,“gioia del viandante” perché crescevano libere anche nei boschi e ai margini delle strade. Un nome, questo, davvero appropriato! Viaggiando attraverso l’Inghilterra, quando le Clematidi in primavera iniziano a fiorire, guardare il susseguirsi di queste esplosioni di colori è una vera gioia per lo spirito. Sono stati gli inglesi i primi a coltivare le Clematidi come piante ornamentali verso la fine del 1500 sotto lo scettro di Her Majesty Queen Elizabeth I°. Dopo tre secoli d’oblio, furono reintrodotte come piante esotiche decorative esclusivamente per la suggestione dei colori dei fiori. Pur essendo presenti da millenni nel territorio europeo, comparvero nei giardini italiani soltanto nel Medioevo, proprio al ritorno dei Crociati. In Italia esistono diverse specie di Clematidi che crescono spontaneamente dagli 800 ai 1900 metri d’altitudine. Nella villa comunale di Mistretta ha trovato il suo habitat favorevole, coltivata per renderlo ancora più bello, la “Clematis jackmanii superba”, l’“azzurra”, considerata da molti la regina di tutte le piante rampicanti. E’ veramente una delle più incantevoli creature che si coltivano nella villa. I suoi pregi sono innumerevoli: la bellezza del fiore, la velocità di crescita, la possibilità di averla fiorita per quasi tutto l’arco dell’anno, la grande capacità d’adattamento. La Clematis jackmanii superba è una pianta capricciosa perché, dopo una prima stagione di fioritura incoraggiante, muore all’improvviso ma rifiorisce quando lo ritiene opportuno. E’ una piccola pianta perenne attaccata al terreno mediante le radici fittonanti e sostenuta da un fusto lianoso legnoso, volubile, lungo qualche metro. E’ di colore verde bruno e liscio nella pianta giovane, poi diventa rossiccio e solcato longitudinalmente e a sezione esagonale nella pianta adulta. E’ rivestito da una corteccia fibrosa che si distacca in lamelle. Le foglie, di colore verde chiaro, decidue, romboidali, semplici o composte da tre foglioline, a margine seghettato o dentato, più o meno appuntite, sono sostenute da un picciolo lungo ed esile avente la funzione di cirro.

Clematis superba fiori

La struttura del fiore della “Clematide” è in una posizione intermedia tra quella del fiore “classico”, con calice e corolla ben distinta, e quella tipica delle Monocotiledoni, con un perigonio a tepali indistinti. Il fiore, secondo la specie, è di varia forma e presenta una vastissima gamma di colori: dal bianco, al rosso, al blu, all’azzurro, al viola, al rosa, al giallo e, qualche volta, è anche profumato. La Clematide mistrettese è di colore azzurro violetto. Il fiore è privo di corolla, ma provvisto di un vistoso calice formato, di solito, da 4, 5 sepali che hanno la funzione di proteggere gli organi sessuali quando il fiore è chiuso e la funzione di attirare gli insetti impollinatori quando il fiore è schiuso. Il calice, simile ai petali, ha la forma di campana o di coppa. Al centro del fiore si trovano degli elementi, chiamati petali staminoidali, derivanti dalla modificazione degli stami e riconoscibili da questi ultimi per la presenza di una nota di colore. L’impollinazione è anemofila, tramite il vento, ma il fiore è frequentato anche da diversi insetti che afferrano il polline, quindi non è esclusa anche l’impollinazione entomofila. La Clematide è molto decorativa proprio per i suoi fiori singoli, vellutati, di colore viola-blu e con le antere centrali di colore giallo oro. Fiorisce all’inizio dell’estate e la fioritura di prolunga per un lungo periodo.           

Clematis superba fruttiIl frutto è composto da numerosi acheni sormontati da un’appendice piumosa per favorire la disseminazione. Ogni frutto ha un solo seme. La riproduzione avviene per semina, per talea e per propaggine. La pianta di Clematide necessita di un terreno ricco di humus, piuttosto umido, ma ben drenato. Le Clematidi rampicanti dovrebbero avere la parte aerea esposta al pieno sole del mattino, mentre la base del fusto protetta dall’ombra. Tutte le Clematidi resistono bene a temperature minime invernali che scendono anche di diversi gradi sotto lo zero. Poiché le Clematidi amano un clima abbastanza umido, dalla primavera all’autunno è indispensabile annaffiare il terreno attorno ai loro piedi con regolarità. Dopo la fioritura, le Clematidi rampicanti non richiedono una vera e propria potatura, piuttosto una regolare ripulitura dai rami secchi o rovinati dal freddo.  Non tutte le Clematis si potano nello stesso periodo. In genere, vanno potate a fine inverno. In primavera nuovi germogli nasceranno dalle gemme presenti sui fusti. Le piante contengono varie sostanze: alcaloidi, anemonina e, in particolare, la saponina, che le rendono velenose. Questa pericolosa miscela di sostanze procura gravi irritazioni cutanee. Pianta molto amata nel Medioevo per non finire sul rogo delle streghe nella così detta età della Ragione! In fitoterapia, un tempo erano usate le foglie fresche in cataplasmi quale rimedio contro artriti, sciatiche e contusioni, ed essiccate con proprietà diuretiche e depurative. Anticamente, nella cura della scabbia si usava l’olio ricavato dalla macerazione delle foglie ma, a contatto della pelle, provocava fastidiose ulcere. Una volta era usato dai mendicanti per procurarsi delle dolorose ferite in modo da impietosire i passanti e indurli all’elargizione dell’elemosina, onde il nome popolare di ”erba dei cenciosi”. Se ingerite, le foglie rappresentano una potente tossina che agisce sul cuore.Oggi l’impiego di questa pianta in campo erboristico è stato completamente sostituito da piante con le stesse proprietà, ma con minori controindicazioni. In cucina si possono fare deliziose frittelle. I teneri germogli possono essere cotti e conditi con sale, olio, aceto e aglio, oppure cucinati a frittata. Le Clematidi che oggi crescono nei nostri giardini, che più nessuno usa per preparare frittate e per curare le ferite, sono soltanto ammirate per la loro bellezza ed eleganza. I rami della pianta, privati delle foglie, raccolti nel periodo autunnale e sfruttando la loro flessibilità, in passato erano usati per intrecciare panieri, cesti, coroncine. I fusti secchi erano usati come sigari che provocavano infiammazioni alle mucose della bocca e della gola. Le Clematidi hanno alcuni nemici naturali: le lumache che si nutrono dei germogli giovani. Le strisce argentee di muco indicano il passaggio o la loro permanenza sulla pianta. La Forbicina è un parassita tipico delle Clematidi e attacca i fiori. E’, comunque, considerato “insetto utile” perchè si nutre anche delle uova di altri parassiti. Altre malattie sono: il seccume, che comporta l’appassimento e la morte dei germogli, e il mal bianco, che si manifesta come una muffa biancastra sui fiori e sulle foglie.Nel linguaggio dei fiori, la Clematis indica “intelligenza limpida, onestà e bellezza interiore”. E’ il fiore adatto a chi sogna ad occhi aperti, a chi vive tra le nuvole, tra fantasie personali, a chi spera in un futuro migliore rispetto al realtà presente.

 

 

Jun 27, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LE ORCHIDEE LE PIANTE DAI FIORI ORIGINALI

LE ORCHIDEE LE PIANTE DAI FIORI ORIGINALI

anacamptis

Da febbraio a luglio la Natura manifesta la sua abbondanza con la fioritura delle bellissime orchidee.
Orchidea: è una parola magica che conduce con la mente nelle grandi foreste tropicali dove una lussureggiante vegetazione conserva gelosamente i segreti di una Natura non completamente violentata e non ancora svelata.
Le orchidee hanno sempre eccitato la fantasia dell’uomo per quella sensazione di esotico e di mistero che le circonda.
Già la loro bellezza era apprezzata nell’antica Grecia.
Una leggenda narra di un giovane di nome Orchide a cui, all’inizio dell’adolescenza, spuntarono due esuberanti seni.
Il suo corpo, man mano che cresceva, diventava sempre più sinuoso e gradevole nell’aspetto. Presentava evidenti caratteristiche ermafrodite. Orchide, tormentato dal disagio causato da questa ambiguità, ha mutato il suo carattere divenuto alcune volte timido e schivo, altre volte aggressivo e sensuale come quello del dio Pan.
Un giorno, scoraggiato, si gettò da un’alta rupe.
Il prato lo accolse esanime.
Subito là spuntarono tanti fiori, l’uno diverso dall’altro, ma simili nella loro sensualità.
Per questo motivo gli efebi ateniesi, con la fronte incoronata di orchidee, cantavano lodi agli dei.
Quante volte le abbiamo incontrate, raccolte a mazzetti, gettate poi lungo la strada, calpestate, senza riconoscerle!
Le nostre orchidee, rispetto a quelle tropicali, possono sembrare insignificanti, ma suscitano in ogni modo nell’osservatore naturalista fascino, curiosità, emozione.
In ogni stagione dell’anno è possibile incontrare specie di orchidee adatte a particolari ambienti.
Le orchidee costituiscono forse la più numerosa famiglia del regno vegetale ricca di oltre venticinquemila specie diffuse in quasi tutti gli ambienti della terra: dalle foreste equatoriali alla tundra, dalle foreste umide delle montagne tropicali alle regioni subdesertiche, dalla riva del mare al limite della vegetazione sulle alte montagne, con la sola esclusione dei deserti e dei poli, dimostrando elevate potenzialità di adattamento edafico e pedologico.
Sono talmente legate ai loro biotopi da non sopportare molti degli interventi dell’uomo tesi a piegare la Natura alle sue egoistiche esigenze.
La progressiva distruzione degli habitat delle orchidee, a causa dello sviluppo urbano, dell’uso indiscriminato delle tecniche agricole, dei diserbanti, del prosciugamento di luoghi umidi, della concimazione chimica, rischia di provocare l’estinzione di circa un quarto delle venticinquemila specie tanto da causarne la scomparsa.
Fortunatamente “l’Uomo” si è reso conto delle conseguenze della sua attività e oggi le orchidee sono fra le piante più protette del mondo.
Per preservare i fiori sono state emanate leggi che vietano la loro asportazione, la vendita e l’esportazione perché, oltre ad una grande bellezza e ad un’eccezionale varietà di forme e di adattamenti, molte orchidee sono rare.
Le specie da studiare e da scoprire sono ancora molte e, per essere comparse sulla terra nel Pliocene superiore, sono creature molto giovani.
Le orchidee rappresentano uno degli stadi evolutivi più recenti e complessi tra le piante da fiore superando notevolmente l’evoluzione degli animali come dimostrano le singolari strategie che alcune di esse adottano per prosperare e riprodursi.
La specializzazione comprende il meccanismo della fecondazione, la simbiosi con i funghi, l’assorbimento delle sostanze nutritive, la conservazione dell’acqua, il processo fotosintetico per la crescita.
I colori dei fiori, per lo più vellutati, la struttura ingannatrice dei labelli, così da farli assomigliare alle femmine di alcuni insetti, le complesse ripiegature che obbligano la proboscide dell’insetto a riempirsi di polline per raggiungere il nettare, sono appunto espedienti evolutivi che hanno consentito l’affermazione di queste piante che sono un vero tesoro della Natura.
Questi splendidi dispositivi nascono dal processo evolutivo mutante, definito da Darwin nell’800, secondo cui sopravvivevano gli esemplari migliori che riproducevano caratteristiche casuali (modificazioni di petali, di foglie, di altri organi) rendendoli stabili e più idonei ad un particolare ambiente.
Darwin, nell’“Origine delle specie” e nell’ “Origine dell’uomo“, ebbe occasione di scrivere anche “Sui vari espedienti attraverso i quali le orchidee vengono fecondate dagli insetti” (1862).
L’evoluzione ha costruito ciò che favoriva la selezione naturale, riutilizzando e modificando gli strumenti che casualmente aveva a disposizione. Ciò non solo è in perfetto accordo con la teoria evoluzionistica di Darwin, ma suggerisce anche che l’evoluzione non è guidata o orientata ad un fine predeterminato: è solo condizionata dall’ambiente e dagli organi disponibili.
Appartenenti alla famiglia delle Orchidacee, le Orchidee, per vivere, hanno adottato due comportamenti diversi che si adattano alle condizioni dell’habitat originario e che dividono la famiglia in due grandi categorie: le terricole e le epifite.
Le terricole crescono affondando le proprie radici nel suolo assorbendo l’acqua e i sali minerali.
Le epifite, invece, prosperano sugli alberi pendendo con le lunghe e intricate radici aeree avvinte alla loro scorza.
L’acqua, scorrendo lungo i rami, si arricchisce degli elementi nutritivi che alimentano la pianta.
Le foglie, alterne, disposte su due file e talvolta ridotte a squame, sono semplici, spesso carnose e guainanti.
Sono capaci di ridurre al massimo le perdite d’acqua e di favorire l’attività fotosintetica.
A causa delle difficili condizioni ambientali, molte epifite hanno sviluppato un tessuto capace di elevata attività fotosintetica anche nel fusto, nelle radici e perfino nel fiore.
Molte orchidee tropicali e subtropicali, sia terricole che epifite, possiedono particolari organi di riserva d’acqua e di sostanze nutritive, i “pseudobulbi” grandi quanto una capocchia di spillo o una mela.
Le radici presentano una particolare struttura, detta velamen, una specie di manicotto di cellule morte a più strati che avvolge la radice.
Serve per l’assorbimento dell’acqua e, soprattutto, per evitarne la perdita in situazioni di estrema aridità.
Molte specie delle foreste tropicali, epifite che vivono sui tronchi degli alberi, mostrano fiori inconsueti per forma e per colorazioni, mentre le specie che vivono in Europa, tutte geofite, crescono nel terreno e hanno fiori di piccole, ma anche di vistose dimensioni.
Il nome “Orchidea” proviene dal termine greco “όρχις”  “orchis“,  “testicolo” , genitali dell’uomo, per la radici tuberiformi, sferiche e appaiate che si presentano in alcune specie. Il nome “Orchidea” è stato usato per la prima volta da Teofrasto nel IV – III sec.a.C. convinto che le radici tuberizzate avessero prorietà curative contro l’impotenza maschile.
Plinio il Vecchio ha adoperato la stessa parola per indicare l’orchidea.
Linneo attribuì ufficialmente il nome “orchis” per indicare sia un genere, sia tutta la famiglia, nel suo lavoro “Species Plantarum” della metà del 1700. L’apparato radicale delle orchidee è costituito, almeno nel periodo della fioritura, da due tuberi di forma ovale-rotondeggiante rassomiglianti appunto ai genitali dell’uomo. Essi sono d’aspetto diverso. Un tubero è scuro e floscio, l’altro chiaro e turgido.
Il primo ha esaurito le sue energie dando origine al fusto dell’annata; l’altro, pieno di riserve nutritive, entrerà in azione l’anno successivo per dare vita ad una nuova fioritura.
Ecco perché le orchidee del genere ophrys e del genere orchis sono piante perenni.
Secondo la vecchia teoria della “segnatura“, l’aspetto esterno di una pianta o di un suo organo avrebbe indicato le proprietà medicinali.
Ai tuberi delle orchis, infatti, è stata attribuita dagli antichi greci la funzione di ricostituente del vigore sessuale.
Anticamente l’orchidea era considerata una pianta afrodisiaca capace di favorire  la fecondità.
I due tuberi, chiamati “salep” dall’arabo “sahlab”, della località khusa al-tha’lab, erano usati per produrre il “salep” ritenuto afrodisiaco.
Il salep è una polvere bianco – giallastra ottenuta da tuberi di diverse specie di orchidee raccolti in autunno, mondati, immersi per pochi minuti in acqua bollente, disseccati e ridotti in polvere. Contiene il 50% di una sostanza mucillaginosa, il 27% di acido, il 5% di zucchero, il 5% di sostanze proteiche, poche sostanze minerali di discutibile valore nutritivo.
Le analisi chimiche dei tempi moderni hanno spazzato via questa illusione del tutto infondata.
Tuttavia, in certe regioni dell’Asia minore questa usanza è causa della rarefazione e della scomparsa di alcune specie di orchidee.
Il salep era indicato anche contro le infiammazioni della mucosa del tubo gastro – enterico, nelle nefriti, nelle cistiti, nelle diarree dei bambini.
La mucillagine serve in farmacia come emolliente e come veicolo di sostanze attive.
Nell’industria si usa per dare l’appretto ai tessuti.
In Grecia serve per preparare bibite rinfrescanti; in Oriente i tuberi freschi sono utilizzati come sostanze commestibili.
I tuberi delle orchidee, di forma ovale, lunghi da uno a tre cm, duri, pesanti, grinzosi, di colore giallo – bruno e quasi inodori, sono le sole parti usate in medicina.
Quello delle orchidee è un affascinante universo costituito da forme e da colori meravigliosi.
All’interno di questo cosmo, la galassia delle orchidee spontanee italiane è uno scrigno all’aria aperta risplendente di gioielli sparsi sui prati della nostra penisola.
Cento circa sono le specie di orchidee selvatiche italiane.
Il mondo delle orchidee selvatiche è molto diverso da quello delle orchidee coltivate che, per la splendida bellezza dei colori e delle forme, sono donate in confezioni regalo avvolte in pellicole di cellophane: grandi, colorate, inodori, circondate da un alone di mondanità, sono adatte per messaggi di particolare significato simbolico.
Sono emblema di raffinatezza, di eleganza, di amore, di bellezza.
Le orchidee spontanee sono erbacee, piccole, dalla fioritura minuscola, dalle forme eccentriche e dai colori più o meno vivaci.
In montagna non pendono dagli alberi come le consorelle dei paesi lontani, ma spuntano dal terreno tra le altre piante che coprono le loro così modeste dimensioni; non si fanno notare di prepotenza, ma vogliono che chiniamo lo sguardo per cercarle, spesso in ginocchio, per ammirare tutta la loro meravigliosa bellezza.
Le  orchidee nostrane sono piante erbacee terrestri di statura piuttosto piccola, ma quasi tutte hanno fiori vellutati, belli, di forma strana e irregolare, intensamente profumati.
Se ancora non conosciamo questi fiori, passeggiando in campagna, troviamo lo spunto per cercare queste magnifiche creazioni della Natura.
Per l’osservazione degli esemplari trovati, aiutati dalle fotografie o dalle diapositive, facciamo partecipi del nostro entusiasmo parenti e amici! Ampliamo il cerchio di chi ancora ama e rispetta la Natura incondizionatamente!
L’occhio attento della mia macchina fotografica ha rilevato, nella montagna di Licata, la presenza di molte orchidee nascoste dalle altre erbe spontanee. La Barlia robertiana, l’Anacamptis pyramidalis, l’Orchis saccata, l’Orchis italica, l’Orchis papilionacea, l’Ophrys lunulata, l’Ophrys crabronifera, l’Ophrys sphegodes, l’Ophrys lutea, l’Ophrys apifera sono i nomi di alcune orchidee.
Nei boschi di Mistretta ha fotografato la Neottia nidus – avis.
Accoccolata a terra per poterle meglio fotografare, poco tempo fa ho sentito vicinissimo il fischio del piombo del fucile da caccia di un imprudente bracconiere. Sono stata scambiata per un coniglio selvatico. Impietrito, smisurata è stata la sua perplessità al mio grido di paura e di rabbia.
E’ senz’altro il fiore che caratterizza le orchidee e che le distingue da qualsiasi altra pianta.
Io esorto tutti a fermarci ad osservarlo attentamente.
E’ un fiore difficile, prezioso, effimero, come tutte le cose belle.
Ermafrodita è l’organo sessuale della pianta. Esso racchiude tutto: colore, profumo, forma, bellezza, funzione, accoppiamento, magia. Osservando con attenzione le sue parti, l’ovario e gli stami, si resta stupiti dalla meraviglia di un meccanismo naturale tanto stupefacente quanto semplice. Caratteristica è la torsione di 180° che ogni fiore subisce in conseguenza della quale alcuni elementi, come il petalo mediano, si dispongono anteriormente anziché posteriormente.
I fiori sono solitari o riuniti in infiorescenze a grappoli, a spighe, a racemi.
Il fiore, irregolare, le cui dimensioni possono variare dai 2, 3 centimetri fino a 7, ha il perigonio formato da sei elementi colorati, detti tepali, divisi in due verticilli di cui tre esterni simili tra loro verdi o colorati con aspetto petaloideo e tre interni, i petali, diversi tra loro e variamente colorati.  Il mediano di questi, il labello, dal latino “labellum,piccolo labbro”, sempre più grande e diverso dagli altri per struttura, per colore, per forma, è rivolto in basso e molte volte si prolunga alla base in uno sperone, una sorta di sacco con funzione nettarifera e conferisce al fiore l’aspetto caratteristico.
Non tutte le orchidee lo possiedono e non tutti gli speroni sono forniti di nettare.
Può modificare colore e forma in funzione dell’insetto che lo impollina.
Nelle ophrys somiglia al corpo di una femmina d’imenottero; per questo motivo i maschi di api, di vespe, di bombi sono invogliati ad avere i primi tentativi di accoppiamento.
La Natura sfrutta questa ingenuità per favorire l’impollinazione incrociata.
La fioritura avviene in genere tra febbraio e maggio, ma non mancano le varietà che continuano a fiorire fino a luglio.
Dal lato opposto del labello, sul verticillo fiorale, si trova una caratteristica formazione a colonna costituita da ambedue gli organi sessuali, femminili e maschili.
La superficie stimmatica è posta sotto gli stami sormontati dalle antere di cui solo pochi sono fertili.
Il polline è formato da microscopici granuli aggregati a formare masserelle polliniche viscose, spinose o farinose dette pollinii.
L’impollinazione entomofila avviene esclusivamente per opera degli insetti adescati dal nettare, dal colore, dalla forma, dagli odori dei fiori.
I pollinii pieni di polline, essendo vischiosi, urtando contro il corpo degli insetti, si attaccano al loro addome o alle loro zampe.
Volando da fiore in fiore l’insetto, ignaro veicolo trasportatore del polline, lo deposita sullo stimma di un altro fiore favorendo così la fecondazione.
Ecco perché le orchidee adattano diverse strategie per ingannare l’insetto impollinatore!
L’impollinazione avviene in modo completo.
Il fiore, che non è stato impollinato, aspetta anche un mese, presentando una fioritura di lunga durata, prima di sfiorire.
Le orchidee, per questo motivo, sono particolarmente gradite e usate come fiore reciso.
La forma, il colore, il profumo, l’apertura fiorale, la posizione dei nettari sono strumenti utili al fine della riproduzione.
Alcune ofridi emettono delle profumate sostanze chimiche, dette feromoni, che simulano nell’odore quelle emanate dalle femmine di alcuni insetti.
Avvenuta la fecondazione, l’ovario fecondato si trasformerà in frutto maturo, una capsula, che rimarrà in quiescenza anche per lunghi periodi, da due a diciotto mesi, per consentire la maturazione del seme.
I frutti variano notevolmente. Possono essere stretti e lunghi, solitari o a grappoli con tante piccole capsule simili all’uva.
Fessurandosi longitudinalmente, consentiranno la fuoriuscita di una miriade di microscopici semi dal peso di centesimi di milligrammo che, portati dal vento anche lontano, germineranno e si svilupperanno solo se verranno a contatto col microscopico fungo in un ambiente adatto. Occorreranno altri 4 anni perché il ciclo vitale sia completo.
Essendo i semi così leggeri, non possiedono riserve nutritive.
Per germogliare hanno bisogno dell’aiuto del fungo col quale instaurano una speciale relazione di simbiosi.
Traggono dalle ife le sostanze plastiche ed energetiche indispensabili alla germinazione, allo sviluppo e alla crescita dell’embrione.
Il fungo riceve in cambio altre sostanze delle quali si serve per accrescersi.
Poiché l’incontro con il fungo è solo probabile, allora la Natura provvede producendo un gran numero di semi.
Da allora in poi la pianta è in grado di svilupparsi da sola.
La prima fioritura avverrà dopo un numero di anni variabile da specie a specie.
Alcune orchidee non hanno foglie verdi, ma vivono a spese di altri organismi una vita saprofitaria o parassitaria.
Del profumo vi sono ampie variazioni: esistono fiori assolutamente inodori, fiori delicatamente o intensamente profumati, fiori che, invece, emanano odori anche molto sgradevoli.
La vaniglia è il frutto della Vanilla, un bastoncino bruno molto profumato che, col suo profumo, serve per aromatizzare gelati e dolciumi.
E’ un’orchidea scoperta proprio dagli Atzechi.
La pianta della vaniglia in realtà è originaria dalle foreste dell’America tropicale. Per molti anni il Messico è stato l’unico depositario del segreto del suo aroma usato, insieme al miele, per insaporire la “reale” bevanda del cioccolato.
In realtà esistono più di 110 varietà di orchidee vaniglia, ma solo la Vanilla planifolia è quella che fornisce il 99% della produzione mondiale.
La polvere bianca e cristallina si estrae appunto dalle capsule, seccate e fermentate, di Vanilla planifolia coltivata su larga scala in molti paesi tropicali.
Solo dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli, i baccelli di vaniglia furono importati in Spagna per essere coltivati poi nelle isole vulcaniche delle Reunion nell’Oceano Indiano.
Attualmente è coltivata in Indonesia, in Messico, a Tahiti, in Asia, in Africa, ma il Madagascar è il maggior produttore mondiale di vaniglia fornendo un prodotto di alta qualità.
La Vanillia planifolia è una pianta lianosa, dotata di radici avventizie, ha foglie carnose e un fiore che non è né profumato né appariscente, di colore giallo – verde, simile alla tonalità cromatica delle foglie.
I generi più comuni di orchidee sono: l’Ophrys e l’Orchis. L’ophrys è il gruppo di orchidee più evolute e sorprendenti. I fiori sono simili a quelli di Orchis, ma privi di sperone.
Queste orchidee sono proprie dell’Europa meridionale e dell’area mediterranea in particolare. Sono tra le più belle e ricercate dagli amatori e presentano alcune delle fioriture più elaborate e singolari. Non sono facili da vedere a causa delle ridotte dimensioni dei fiori, tali da mettere a dura prova un occhio non allenato a trovarle.
Ciò ha forse contribuito a salvaguardarle e a sottrarle ai facili appetiti dei mietitori domenicali di mazzetti floreali, tanto graziosi al momento, quanto effimeri, poiché non durano più dello spazio di una passeggiata. ll genere “Ophrys” ha fiori singolari, curiosi e misteriosi: un punto d’incontro tra il mondo degli insetti e il mondo vegetale.
Ha infiorescenze a spiga rada e con pochi fiori, rosa o gialli, brunastri, un labello molto appariscente, poco carnoso, vellutato che ricorda forma, colore e villosità degli insetti impollinatori.
Spesso somiglia straordinariamente alla femmina della particolare specie d’insetto maschio che tenta di accoppiarsi impollinando il fiore. L’insetto maschio si posa sul fiore credendo di aver trovato una femmina da fecondare e invece è “costretto”, dall’anatomia stessa delle parti fiorali, a caricarsi dei sacchi pollinici che depositerà involontariamente su un altro fiore.
L’insetto ingannato è stato usato, suo malgrado, per far riprodurre la pianta.
Le foglie, molto numerose, si sviluppano sia su tutta la lunghezza del fusto sia solamente alla base della pianta.
Il genere “Orchis” è formato di elementi di piante che si affidano all’offerta di nettare per attirare gli insetti destinati all’impollinazione incrociata.
Il labello, pur essendo più grande delle altre parti del perigonio, non è molto sviluppato e porta alla sua base una formazione conica, lo sperone, ricca di nettare.
Presenta un fusto eretto, semplice, coperto da foglie ovali appuntite all’estremità e molte infiorescenze a spiga più o meno densa e variamente colorata.
I fiori sono composti di cinque petali di solito uguali e da un labello prominente. L’aspetto bizzarro e attraente dei fiori di orchis, che invita ad una raccolta eccessiva, unitamente alla pulizia del terreno mediante l’aratura, ha portato quasi all’estensione di diverse specie. Alcune non sintetizzano la clorofilla, ma assorbono il nutrimento direttamente dalle sostanze organiche in decomposizione saprofiticamente; un esemplare è la Neottia nidus avis, detta Orchidea Nido d’Uccello, che vive nei territori collinari e montuosi.
La Barlia robertiana deve il suo nome generico “barlia” a Joseph Baptiste Barla botanico e micologo, nato a Nizza e direttore del Museo di Storia Naturale di Nizza, e il suo nome specifico “robertiana” a G. Robert, botanico francese (1776- 1857), autore di una florula dei dintorni di Tolone. E’ un’orchidea diffusa nella gariga arida distribuita nel Mediterraneo, in Turchia, in Marocco, in Tunisia e in Algeria.
Bella da vedere e da annusare, evoca la “sensazione di pulito“.
Io l’ho scoperta sotto i miei pini.
E’ una pianta bulbosa molto robusta, con un fusto eretto, cilindrico, foglioso alla base, alta fino a 60 cm.
L’infiorescenza è densa di grandi fiori dal delicato profumo d’iris. Il labello è di colore roseo intenso. E’ possibile, nel periodo della fioritura, ammirare magnifiche colorazioni delle aree interessate. Predomina il colore verde – porporino dei tepali. Si estende fino a 1500 metri d’altitudine.
Nell’Anacamptis pyramidalis il nome “Anacamptis” deriva dal greco “άνακάμπτειν” “incurvare, ripiegare” per la forma dei tepali incurvati verso l’alto e all’infuori, “pyramidalis” per l’aspetto globale dell’infiorescenza che all’inizio della fioritura è conica, piramidata.
E’ una pianta erbacea perenne, tuberosa, ampiamente diffusa in Europa. E’ presente anche in Inghilterra, in Scandinavia, nel Nord Africa, in Asia Minore, in Siria, in Israele, nel Libano.
Si estende fino a 800 metri d’altezza. L’orchidea sbocciata è alta 30- 40 cm. Fiorisce tra maggio e giugno. La spiga fiorita è così ricca di fiori da apparire piramidale.
I fiori, di media grandezza, belli, appariscenti, fragranti, con un lungo sperone pieno di nettare, hanno un colore che va dal rosa al viola – cobalto. Il labello è trilobo, variabile nella forma.
L’impollinazione avviene per opera delle farfalle che, attratte dai profumi emessi dai fiori, penetrano con la loro proboscide all’interno dello sperone in cerca dei succhi zuccherini. Alla proboscide si attaccano i pollinii, carichi di granuli di polline pronto per essere depositato sullo stimma durante la successiva visita ad un altro fiore.
L’Orchis saccata è la più precoce delle orchidee.
Fiorisce da gennaio fino alla fine di giugno.
Il nome specifico “saccata” si riferisce all’aspetto dello sperone corto, grosso, a forma di sacco, di colore roseo, diretto verso il basso.
E’ una rara specie della regione mediterranea. Il suo areale si estende dalla Spagna, alla Turchia, all’Italia peninsulare e insulare.
La pianta, erbacea, perenne, tuberosa, è alta circa 20 cm. Presenta un fusto eretto, robusto, foglioso, una spiga fiorifera allungata, povera, con 4- 15 fiori di colore purpureo – violaceo, un labello rosato con sfumature verdastre.
L’Orchis italica, contrariamente al nome, non vive esclusivamente in Italia, ma è distribuita in tutto il bacino del mediterraneo dal Portogallo, alla Spagna, all’Africa settentrionale, alla Turchia, alla Sardegna, alla Corsica, alla Sicilia.
Pianta erbacea perenne, fiorisce tra marzo e maggio.
Il fusto è alto 20 – 50 cm e le foglie sono verdi, strette, lanceolate.
I fiori, riuniti in una spiga densa, cilindrica, sono caratteristici per la presenza di un labello che simula un uomo stilizzato appeso.
I 5 tepali, riuniti a baschetto, hanno un colore rosa – lilla, rosa – viola con venature rosso – porporine.
L’orchis papilionacea, dal latino “papilio“, “farfalla”, per la disposizione a ventaglio degli elementi fiorali, del labello, simili all’ala di una farfalla, è una pianta erbacea, tuberosa, perenne, tipica del bacino del Mediterraneo presente in tutta Italia spingendosi fino a 1500 metri d’altitudine.
Ha il fusto robusto, alto da 15 a 20 cm, rigido, le foglie verdi lanceolate, acute e le foglioline guainanti più piccole salendo verso la sommità.
L’infiorescenza è formata da 3 – 5 fiori moderatamente grandi. Sepali e petali formano un casco allungato, dal colore variabile dal roseo vivo al violaceo al rosso porporino con strisce longitudinali più scure. Il labello, aperto a ventaglio, più lungo che largo e con il margine ondulato e dentellato, è di colore bianco roseo o rosso porporino pure con nervature più scure. Fiorisce già a febbraio dando luogo a stupende fioriture soprattutto nelle zone aperte e soleggiate.

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 L’Ophrys lunulata, dal latino “lunula” per avere il labello a mezzaluna, è una piantina perenne con rizotuberi sotterranei, endemica in Sicilia, anche se è stata segnalata in altre isole italiane.
Fiorisce nei mesi di marzo e di aprile.
E’ impollinata da un apide solitario che nidifica nel terreno o su vecchi nidi di altri insetti.
Si estende fino a 600 – 700 metri. Il fusto è alto 30 cm e l’infiorescenza porta da 4 a 8 fiori distanziati. I tepali hanno colorazione rosea tendente al lilla, mentre il labello è colorato di bruno quasi scuro con le corna della mezzaluna rivolte in avanti.
Ha un disegno a forma di H o di U.
L’Ophrys crabronifera, dal latino “crabro” “calabrone”, è una pianta robusta, alta 20 – 40 cm, con foglie ovali, acute, di colore verde. L’infiorescenza è rada, allungata, composta di 3 – 8 fiori relativamente grandi.
I sepali, sono di colore bianco rosati, più raramente verdi, con una nervatura centrale verde; i tepali, di colore roseo più o meno intenso, sono triangolari.
Il labello è ampio, convesso, bruno-rossiccio, scuro o bruno-giallastro, vellutato, circondato da uno stretto margine glabro più chiaro.
Ha una macchia grigia con riflessi metallici a forma di U o di H.
Fiorisce tra marzo e aprile. Ha scelto il suo areale in Toscana, in Campania, nel Lazio, in Puglia, in Sicilia.
L’Ophrys sphegodes deve il suo nome al termine greco “σφήν” “vespa”, e “εĩδος” “aspetto” per la supposta somiglianza del labello all’insetto.
Si trova in Portogallo, in Francia, in Inghilterra del Sud, in Belgio, in Germania, in Italia, dalla Toscana alla Puglia alle isole comprese, in Turchia, in Romania, in Ungheria.
E’ una pianta erbacea perenne, tuberosa, che fiorisce tra marzo e aprile. Il fusto è alto da 10 a 45 cm.
I tuberi sono sotterranei, le foglie sono verdi lanceolate, l’infiorescenza è povera di fiori. I tepali esterni sono verdi, gli interni di colore variabile dal giallo al rossiccio e con bordo ondulato. Il labello, intero, è di colore bruno – rossastro o nerastro e, al tatto, vellutato per la presenza di una peluria di rivestimento. Nella sua parte centrale ha un disegno a forma di H, sviluppata, di colore cinerino bluastro o giallo opaco, lucida, glabra. L’Ophrys lutea, dal latino “lutea”, “gialla”, per il colore del labello, lutea ok

è una pianta erbacea perenne, tuberosa, dell’area mediterranea estesa anche in Portogallo, in Spagna, in Corsica, in Grecia, in Turchia, in Marocco.
In Italia è molto comune al Sud e nelle grandi isole perché richiede condizioni calde e asciutte e terreni calcarei e sabbiosi.
Rara in Liguria, nel Lazio, nelle Marche, in Toscana.
E’ impollinata da un imenottero che nidifica nel terreno ed ha la capacità di bottinare fiori a corolla corta mediante un organo breve e acuto.
Si trova fino a 400 metri d’altezza.
Il fusto è alto 15 – 20 cm e porta un’infiorescenza con pochi fiori giallognoli il cui labello, trilobo, bruno, papilloso, finemente vellutato, ha una macchia bruna centrale e il margine di colore giallo.
I tepali esterni sono di colore verde chiaro.
Le foglie sono sparse, rade nella parte superiore della pianta. La fioritura avviene a partire dal mese di aprile.
Tutte queste orchidee prosperano in ambienti aperti, in terreni incolti, sassosi, aridi o erbosi, calcarei della gariga e della macchia mediterranea dove è rilevante la presenza di insetti impollinatori grazie alla forte insolazione e alla bassa vegetazione.
Una delle più belle orchidee spontanee italiane è di certo l’Ophrys apifera, il Fior d’Ape o Vesparia.
Anche se non è molto comune, cresce nei prati, nelle radure boschive su terreni calcarei, nelle garighe e nei cespuglietti.
A dispetto del nome, questa splendida orchidea manca di un insetto impollinatore preferito; ricorre di solito all’auto impollinazione, favorita dallo scuotimento del vento che permette al polline di cadere sullo stimma subito dopo l’apertura fiorale.
Ciò contribuisce all’assenza di variabilità di forme e colori.
E’ una pianta erbacea tuberosa, alta da 20 a 50 cm. Presenta foglie basali lunghe, infiorescenza lassa, tepali esterni bianchicci. Il labello, trilobato, di colore bruno – nerastro, ha il mediano munito di un’appendice gialla ricurva verso il basso, lo specchio pure di colore giallo – bruno con due macchie tondeggianti giallognole. Fiorisce tra marzo e maggio.

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Un’orchidea particolare è la Neottia nidus-avis, comune sui monti dei Nebrodi e delle Madonie fino a 2000 metri d’altezza.
L’ho scoperta a Mistretta, nascosta all’ombra del sottobosco vicino al laghetto Urio Quattrocchi.
È una piantina saprofita non in grado di ottenere le sostanze nutritive perché, priva di parti verdi, non sintetizza la clorofilla.
In parte le assorbe dal terreno e in parte attraverso il fungo che cresce sulle sue radici.
Il groviglio delle radici, capaci di sfruttare le sostanze organiche in decomposizione nel terreno, assomiglia ad un nido d’uccello, da cui il nome volgare, d’origine greca “εοττία” appunto, di “Nido d’Uccello”.
Le radici, ingrossate e polpose, sono rivestite da una fitta rete di ife fungine che sopravvivono e si sviluppano anche sulla superficie della radice assimilando la cellulosa; quando penetrano all’interno sono degradate dagli enzimi prodotti dall’orchidea la quale compensa in questo modo l’incapacità fotosintetica.
Una volta che l’orchidea diventa verde e in grado di svolgere la fotosintesi, la simbiosi s’interrompe rapidamente.
Non si tratta di un’orchidea particolarmente appariscente poiché il colore, sia dello stelo sia dell’infiorescenza, è un giallo bruno sbiadito.
Il fusto è eretto, senza foglie.
Il labello, bilobo, è lungo quasi il doppio degli altri petali. Fiorisce da metà maggio a metà agosto in boschi e macchie.
I fiori, in spiga densa, emanano un profumo debole e delicato che attira gli insetti per l’impollinazione, anche se spesso la pianta è autogama.
La sua distribuzione geografia è il bacino del Mediterraneo, dalla Grecia, alla Spagna, alla Francia, in Tunisia, in Algeria spingendosi in Norvegia e in Finlandia.
Gli esemplari descritti sono solo alcuni esempi di orchidee presenti nel territorio di Licata e di Mistretta e che ho avuto la gioia di scoprire e di osservare.
La varietà delle forme e delle tinte e la loro relativa rarità, fanno delle Orchidacee una famiglia di fiori per i quali si accendono le passioni degli amanti della Natura.
Questi singolarissimi fiori, sorprendenti per la ricchezza cromatica, abbelliscono i boschi, colorano i prati, migliorano la gariga e la macchia mediterranea e sono da sempre oggetto di curiosità, di interesse e di studio da parte di naturalisti di tutto il mondo.
Apprezziamo, conosciamo, proteggiamo le orchidee!
Garantiamo la loro sopravvivenza non raccogliendone nessuna!
Solo così potremo assistere ogni anno allo spettacolo della fioritura di questi stupendi fiori che continueranno a sorriderci tra il verde dell’erba e le discontinue ombre dei boschi.
Nei mesi di maggio e di giugno rappresentano un momento di rigoglio vegetale intensissimo.
Uno degli aspetti peculiari delle orchidee è la possibilità di essere facilmente ibridate non solo fra specie, ma anche fra generi diversi, fenomeno questo che saltuariamente accade quando vivono allo stato naturale e che è stato largamente sfruttato dall’uomo.
La persona romantica, innamorata dei fiori e della vita che essi rappresentano con il loro sbocciare profumato, sa bene che ogni fiore possiede un proprio linguaggio.
Attraverso il fiore si esprime qualsiasi umano sentimento.
Volendo regalare il “fiore del sorriso“, com’è chiamato in Tailandia il fiore dell’orchidea, nella scelta delle piantine o del fiore reciso, bisogna tener conto della freschezza, della brillantezza e della consistenza del fiore e, nonostante le convinzioni comuni, va considerato il numero dei fiori aperti e non la lunghezza dello stelo.

Jun 13, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LA VIOLA TRICOLOR E LA VIOLA MAMMOLA

LA VIOLA TRICOLOR E LA VIOLA MAMMOLA

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 Nella villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta a riempire e a rallegrare le aiuole sono fiorite le viole tricolor e le viole mammole. La Viola è sempre stata una delle fioriture più apprezzate dai popoli di tutti i tempi per l’aspetto estetico e per la delicata profumazione. Tradizionalmente la “Viola tricolor” viene anche chiamata “Viola del pensiero” perché legata all’idea dell’amore. “Ecco la viola che sta per il pensiero” scrive Shakespeare nell’ ”Amleto”. La viola, “In sogno di una notte di mezz’ estate”, è la chiave di tutta l’opera. Shakespeare racconta che Oberon, il re delle fate e degli elfi, il nano capace di grandi cose, ha strizzato il succo di una viola del pensiero negli occhi di Titania per indurla ad innamorarsi di Bottom mostratosi sotto le sembianze di un asino. La viola ha stimolato la fantasia di molti importanti uomini. La mitologia greca associa la Viola del pensiero alla bellissima ninfa Io, la figlia del dio fiume Inaco della quale Giove si è perdutamente innamorato suscitando la gelosia di Giunone. Per volere di Giunone, Giove è costretto a trasformare la ninfa Io in una mucca bianca della quale Giunone si impadronisce per affidarla ad Argo, il mitico mostro dai cento occhi. Il dio Mercurio, per incarico di Giove, la sottrae ad Argo. Allora Giove, per amore suo, crea il fiore della Viola perché la sua amata si possa nutrire di questo profumato e gustoso alimento. Nel mito di Attis si racconta che Attis, il bellissimo giovane pastore frigio, conteso da Cibele e da Agdistis, reso pazzo da Agdistis, non potendo sposare l’amata principessa Atta, si uccise evirandosi sotto un pino. Il suo corpo fu reso incorruttibile da Giove, i suoi capelli continueranno a crescere, un dito mignolo rimarrà vivo per sempre e dal suo sangue cresceranno viole dai petali rosseggianti. Disperata per la sua morte, anche Atta si uccise. Dal suo sangue nacquero altre viole.  Nella Roma Imperiale il 22 marzo si celebrava il culto in nome di Attis. Nel giorno della viola, in processione, si trasportava un tronco di pino adorno di viole. Si narra che i cavalieri della tavola rotonda consultassero le viole per conoscere il loro destino. Quando Josèphine Beauharnais incontrò Napoleone, gli offrì proprio un mazzetto di viole col quale adornava le sue vesti. Napoleone fece uso di questo fiore offerto in omaggio all’amante Maria Walewska. I Bonapartisti ne fecero poi il loro fiore simbolo contrapponendolo al giglio dei Borboni. Il termine latino “tricolor”, riferito alla specie, allude al fatto che le viole possono essere di color giallo, blu, viola, rosa e, molto spesso, una combinazione di più colori compare contemporaneamente nello stesso fiore. Questa capacità di produrre fiori di vari colori ha sollecitato l’immaginazione degli orticoltori che hanno prodotto le diffusissime e grandi viole da giardino ibridando le specie spontanee. La Viola tricolor è distribuita nei prati montani, su suoli fertili e freschi e anche nei luoghi sassosi e soleggiati. D’origine europea, la pianta è stata introdotta nell’America settentrionale e nell’Africa meridionale dove si è rapidamente diffusa. Nella sua poesia “Rondini e Viole” il sig. Vito così recita:

Sotto gli archetti delle tegole antiche

Che vi videro bimbe e vi vedranno mamme,

Al compleanno della primavera

Siete arrivate! Siete tornate!

Oh! Gaie rondini!

E’ di nuovo più allegro l’azzurro.

Che caroselli spericolati al mattino.

Che garriti di giubilo.

Che semplici turisti.

Che semplice menu.

Intento tra le aiuole

A ripulir dalle erbacce le viole,

tra divini miscugli di colori

e delicati profumi, alzo ogni tanto

gli occhi e guardo il cielo.

Ore 6,30, uno spettacolo solo per me”!

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La Viola tricolor è una delicata pianticella erbacea alta circa 20 centimetri che appartiene alla famiglia delle Violaceae.  E’ la forma orticola derivante da quella selvatica presente nei sottoboschi di tutta Italia. Ha un portamento gracile, una caratteristica morfologica che fa sì che da sempre la viola è il simbolo della modestia e della discrezione, dei sentimenti profondi ed intensi che sono racchiusi nel segreto del cuore. Ha il fusto eretto, ascendente, con numerose ramificazioni angolose, cave. Le foglie, di un bel verde scuro lucido, partono tutte dalla radice e sono sostenute da lunghi peduncoli. Sono ovate, alterne, oblunghe, crenate, con margine leggermente dentato, carnose e con una superficie tra il vellutato e il sericeo. I fiori, numerosi, semplici, solitari, grandi, hanno petali lobati e a margine liscio, vellutati e multicolori: giallo, bianco sfumato, rosso, violetto, malva. L’epoca della fioritura è fra la primavera e l’estate. Le meravigliose corolle, che si schiudono in un ricco mazzo al centro del fogliame, durano a lungo sulla pianta schiudendosi lentamente sino all’ultimo bocciolo. La moltiplicazione avviene per divisione dei cespi, per talea e per semi. Originale è la tecnica attuata dalla pianta per la diffusione dei suoi semi: il frutto, una capsula che si apre in tre valve, genera all’interno una pressione che fa schizzare, uno per volta, i semi maturi lanciandoli lontano dalla pianta madre. E’ una pianta facile da coltivare e poco esigente. Predilige un’esposizione a pieno sole o lievemente ombreggiata in una zona di terreno umida dove, durante l’estate, le annaffiature dovranno essere abbastanza frequenti e tali da mantenere la terra sempre fresca, ma non bagnata. Gradisce la compagnia degli alberi che la proteggono dal sole, dalla pioggia, dal vento e da qualche gelata. In medicina la Viola del pensiero è usata nelle malattie cutanee croniche per curare: l’acne, gli eczemi, i foruncoli e la psoriasi. In infuso o in decotto ha azione curativa anche per i disturbi delle vie respiratorie. La poltiglia di foglie fresche serve per curare piccole ferite. Gli antichi romani e le popolazioni arabe erano soliti aggiungere alle bevande fiori di viola, oppure estratti della stessa, al fine di rendere più delicata e più gradevole la consumazione.  Da millenni la fragranza della viola evoca il profumo dell’amore. Quale fiore di Afrodite, dea dell’amore, la viola affascinò talmente i greci che ne fecero il simbolo di Atene. Nei sentimenti la viola simboleggia “l’amore vivissimo, la fedeltà, l’eleganza, ma anche la modestia e le virtù nascoste, l’onestà ed il pudore” proprio per il portamento dei suoi fiori che tendono a guardare verso il basso. Come non ammirare anche il cuscino delle piccole, semplici, odorose Viole? viola mammolaLa Viola mammola è una pianta erbacea perenne alta da 10 a 15 centimetri. E’ sostenuta da un rizoma breve da cui partono gli stoloni che radicano nel terreno. Le foglie, riunite in una rosetta basale e sorrette da lunghi piccioli, sono cuoriformi le adulte, reniformi o leggermente arrotondate le giovani e con margine crenato. I fiori, solitari, profumati, hanno la corolla formata da cinque petali di cui quello inferiore è prolungato posteriormente in un piccolo sperone dello stesso colore viola cupo. La fioritura avviene nei mesi di marzo e di aprile. I semi sono molto piccoli. Tutte le parti della Viola mammola sono utili in fitoterapia perché hanno proprietà ematiche, emollienti, espettoranti, purgative e sedative. La Viola mammola è coltivata nella Francia meridionale per l’estrazione dell’olio esenziale ricavato dai fiori e usato in profumeria per la produzione del liquore “crême de violette”. In genere, la Viola mammola è immune dalle malattie. Nel linguaggio dei fiori la Viola mammola simboleggia “pudore, modestia”.

 

Jun 7, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

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 La villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è l’ex orto botanico dei frati Cappuccini annesso al convento della chiesa di San Francesco. Fondato nel 1568, lo coltivavano fin dal 1656. Avevano scelto proprio questo sito per la fertilità del suolo ricco di acqua.Con grande dedizione, nell’orto i frati coltivavano ortaggi e alberi da frutta per soddisfare le loro necessità alimentari. Coltivavano anche piante esotiche, portate da loro stessi anche da luoghi lontani, per abbellire lo spazio intorno al convento.
In un secondo tempo la stessa superficie fu trasformata in “giardino all’italiana” e le piante furono sostituite da altre molto più belle e ornamentali.

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La villa nasce il 17 novembre del 1866 allorché il consiglio comunale di Mistretta, presieduto dal sindaco dott.Salvatore Marchese, spinto dalle sollecitazioni popolari, applicando la legge sulla soppressione degli enti ecclesiastici, dovette affrontare il problema della confisca dell’orto e della sua destinazione ad uso pubblico e col preciso obiettivo di realizzare un giardino all’italiana progettato e realizzato dell’architetto D’Onofrio nel 1868.
Il consiglio così deliberava: ”[…] che vi sian dei dati locali onde poter convenire la popolazione nei festivi, ed i forestieri a passarvi il tempo da leciti, onesti e sobri intrattenimento e ciò come sono i pubblici giardini, ed i gran viali e grandi larghi, e questi oltre di ritornare d’utile adorno alla città sono grandemente necessarie per l’interesse igienico per la pubblica salute, e per la qual cosa nelle grandi città si vedono tuttodì abbattere case, palagi, chiese ed interi quartieri, tornan altresì utili nell’interesse economico ed influente alla conservazione dell’ordine pubblico distogliendo la massa plebea di frequentare le orge del vizio nelle bettole e nei lupanari e del chè ne derivan la miseria, i delitti ed i crimini, come altresì è necessario che lo spirito ed il corpo stanchi abbian un giorno ed un locale anche rinfrancare i corpi e sollevarsi con i pubblici sobri ed onesti intrattenimenti di un lieto paesaggio”.

 

 

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La villa comunale di Mistretta racchiude un piccolo mondo fatto di fiori colorati, di erbe profumate, di aiuole cromatiche, di arbusti, di piante ad alto fusto. Per la sua espressività architettonica, per la diversità delle piante, rappresenta uno dei preziosi tesori di Mistretta.

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Situata nel punto centrale della città, essa è una luogo di riferimento per i mistrettesi.  La villa ospita tutti coloro i quali vogliono ammirare il verde delle foglie, il giallo dei girasoli, il bianco del fiore della magnolia, i frutti carnosi, sentire il profumo dei fiori, ascoltare il cinguettio degli uccelli, il frinire delle cicale tra le fronde degli alberi, osservare il lavoro delle formiche, godere del silenzio e della tranquillità in solitudine, respirare l’aria pulita o solamente sopportare il caldo estivo all’ombra di un generoso albero. Il giardino è, quindi, luogo di pace e di piacere, denso di profumi e di fecondità.

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Fin dai tempi antichi l’Uomo ha sempre cercato di ricreare questo mitico Paradiso. La parola stessa “paradiso”, dal greco “παράδεισος”, significa “giardino, villa “. Costruito con materiali viventi, parla evidentemente della Natura, ma dove si incrociano anche contenuti mitici, religiosi, filosofici, storici, geografici, simbolici.
Le piante della villa convivono sfruttando le risorse del proprio ambiente e sufficienti al loro sopravvivere e tramandarsi. Come l’Uomo e gli animali, anche le piante vivono soltanto là dove esistono condizioni ambientali favorevoli. Sono necessari: l’aria, l’acqua, la luce, il calore del sole, la fertilità del terreno e tanta cura. In questo spazio limitato l’Uomo riesce a realizzare il suo sogno di una vita in intimità con la Natura dove può trovare protezione al riparo di fitte siepi, fermarsi a riposare, dare libero sfogo al suo istinto ludico, placare, osservando i fiori e gli alberi, la sua sete di bellezze naturali. Ecco il giardino “G.Garibaldi”, il gioiello naturalistico di Mistretta.
La villa è sempre bella: per gli ampi spazi, per la piazza centrale, per i viali che la circondano, per la disposizione delle aiuole geometricamente sagomate che, in tutte le stagioni dell’anno, mostrano una vegetazione floreale e arbustiva ricca, verdeggiante, ridente, che conquista lo sguardo. La flora del giardino è la sintesi di una sorprendente biodiversità che caratterizza l’ambiente naturale del parco. Si tratta di un “unicum” ambientale e naturalistico di grande valore, un giardino all’italiana di eccezionale e rara bellezza, un polmone verde nel cuore della città. Sono presenti specie vegetali autoctone quali il bosso, il ligustro, il tasso, esemplari scelti per la resistenza alle periodiche potature dell’ars topiaria, tecnica giardiniera fondamentale in un contesto nel quale architettura e composizione del giardino all’italiana sono intimamente legate a piante arboree perenni quali sequoie, cedri, abeti, pini, cipressi, magnolie, faggi, betulle, platani mescolate armonicamente alle piante erbacee annuali. Gruppi isolati di alberi fungono da punti focali per la loro bellezza e imponenza. Ogni pianta mostra il proprio cromatismo stagionale.

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Il giardino diventa pittura e offre al visitatore una serie di vedute di aiuole, definite e costruite proprio per essere pittoresche, unite alle vedute panoramiche del paesaggio. La componente vegetale dentro il giardino non conserva la sua individualità ma, insieme all’acqua, alle sculture, agli arredi produce una scena paesistica stupenda che l’Uomo ammira e che gli altri animali utilizzano.
Le aiuole delle piante annuali cambiano continuamente fisionomia perché ogni pianta esaurisce il ciclo vegetativo nella propria stagione. Nella loro composizione si manifesta la creatività del giardiniere che diventa spesso arte. Tutte le piante, annuali e perenni, sono egualmente curate dall’amore, dall’attenzione e dalla fantasia del giardiniere signor Vito Purpari (con la maglietta bianca nella foto)

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collaborato dal signor Orazio Scilimpa che spendono le proprie energie al loro servizio. Il giardino, sito lungo la Via Libertà, si trova a 950 metri s.l.m. Di forma trapezoidale irregolare, su una superficie di un ettaro, quindici are, sette centiare, equivalenti a 11507 m2,  si estende su un pendio che è più accentuato nella parte superiore, più attenuato in quella inferiore. Al centro forma una depressione, di notevole effetto paesaggistico, superando così un dislivello di 15 metri fra il balcone – belvedere e lo spiazzo centrale.
Il giardino è circondato dal muro di cinta sormontato da un’inferriata in ferro battuto lunga circa 108 metri. Le 28 colonnine, pure in ferro battuto, distanziate di circa 3,85 metri l’una dall’altra, irrobustiscono la cancellata. Altrettante lampade di opalina diffondono la loro luce bianca che illumina l’oscurità della sera.
Quattro sono i punti d’accesso all’interno del giardino: il più frequentato è l’ingresso principale che si apre in piazza San Felice da Nicosia, un altro si affaccia nella Strada Scalinata, un altro si apre dietro il palazzo del Tribunale e, infine, un altro in Vico degli Orti. Questi ultimi, sempre chiusi, non sono agibili. Il cancello dell’ingresso principale, spalancato fino a tarda ora, soprattutto nelle sere d’estate, illuminato dai 25 lampioni disposti lungo i viali, invita i passanti, residenti e villeggianti, ad entrare nella villa per ammirare in tutte le stagioni dell’anno la bellezza delle sue piante, per passeggiare o solamente per riposare. Subito, già appena viene varcata la soglia del cancello, la villa mostra il suo fascino. Appoggiati alla ringhiera di ferro del balcone-belvedere per una veduta d’insieme, i visitatori spaziano lo sguardo dalla vasca, alle aiuole, ai fiori, agli alberi, al cielo ora turchino, ora coperto di nuvole. Visibile è il mare lontano, le torri campanarie della chiesa di San Sebastiano e della chiesa Madre con l’orologio della piazza e il castello normanno. Superato l’ingresso principale, dallo spiazzo-belvedere si biforcano due viali: uno che volge a sinistra e l’altro a destra fiancheggiando, in direzione opposta, i confini del giardino, ma, entrambi, si collegano al centro circoscrivendolo.
I viali sono delimitati dalle siepi di bosso, pettinato e tagliato a mano a diversa altezza e adattate alla naturale morfologia del luogo. I viali separano le aiuole e il laghetto. Le siepi di bosso, circondando anche i bordi delle aiuole, hanno la funzione di proteggere dal vento le delicate piante.  Sotto il balcone–belvedere un doppio rettangolo di bosso è modellato, secondo l’arte topiaria, in modo tale da leggere “VILLA COMUNALE”, scrittura esistente già dal 1906. Richiama l’attenzione del visitatore il laghetto blu ricoperto di microrganismi acquatici vegetali dove i pesciolini rossi, neri e argentati ora guizzano graziosamente ora si nascondono fra le piante acquatiche o dentro le loro tane. Anche la tartaruga ha eletto nel lago il suo domicilio.
Attorno alla vasca esiste una vegetazione intricata e straordinaria: una pianta di Tasso modellata secondo l’arte topiaria, un gruppo di Cordyline, il Viburnum, l’Alloro e due piante di Bambù. L’arte topiaria, nata nell’epoca dell’antica Roma, ha trovato il suo massimo impiego fra il sedicesimo ed il diciottesimo secolo come elemento portante nella costruzione di giardini oggi denominati “all’italiana”. Consiste proprio nel sottoporre siepi, arbusti ed alberi a metodiche e costanti potature di sagomatura, a scopo ornamentale, per realizzare sculture vegetali molto fantasiose. Le piante assumono forme geometriche che, altrimenti, non avrebbero mai in maniera naturale.
Le piante più comunemente impiegate per la lavorazione topiaria sono: il taxus baccata, il buxus sempervirens, il buxus rotundifolia, il ligustrum, il cupressus sempervirens, il laurus nobilis, la magnolia grandiflora e altre ancora.

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Sotto l’aspetto edifico, il giardino è collocato in un’area dove il terreno profondo poggia su un substrato di argilla scagliosa e umida che trattiene l’acqua in profondità rendendolo fertile. L’abbondante riserva idrica del sottosuolo ha permesso alle piante provenienti da tutti i continenti di trovare un ambiente favorevole. Il giardino gode di condizioni ambientali e di clima che hanno consentito lo sviluppo di una rigogliosa vegetazione delle essenze tipiche della fascia mediterranea che predomina in questa parte dei Nebrodi.

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Per garantire un humus sostanzioso è necessario, in ogni caso, arricchire periodicamente il terreno di sostanze minerali. Su questo terreno sono presenti: 9 aiuole perimetrali, 16 aiuole centrali di diverse dimensioni che ospitano una vegetazione di fiori variabili e dipendenti dalle stagioni, e una flora cespugliosa e arbustiva, di notevole pregio e rarità, che rispecchia un ambiente prettamente montano. Sono coltivate piante di conifere che hanno raggiunto notevoli altezze e che ben sopportano il clima rigido invernale rivestite, per brevi periodi dell’anno, dalla neve.
Le Palme ornano la parte del giardino dove sono concentrati i busti monumentali. Una forte impronta scientifica è offerta alla villa dalla presenza di diversi esemplari di Cycas revoluta.
Simili alle Palme nell’aspetto, in realtà, i Cycas sono molto differenti dal punto di vista evolutivo poiché risalgono al Giurassico e, dunque, sono testimoni di quell’antica flora. Le precipitazioni nevose sono più rare a causa dell’innalzamento della temperatura terrestre per l’effetto serra. Variazioni stagionali della Natura si possono osservare e che, forse, domani non si coglieranno più per i gravi cambiamenti climatici causati dall’incessante saccheggio del pianeta Terra.
Per l’orientamento del giardino a Nord-Ovest, il regime climatico è quasi sempre relativamente fresco. Allietano lo sguardo diversi tipi di fiori: tagetes, zinnie, viole, clematis, convolvoli, crisantemi, cosmee, bocche di leone, speronelle, tulipani, narcisi, corone imperiali, bergenie, ortensie, girasoli, rose, hemerocallis e tanti altri coltivati con la migliore esposizione al sole.

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Stupisce poi la varietà degli alberi: betulle, faggi, olmi, ontani, platani, tigli, querce, magnolie, aceri, abeti, cedri, carrubi. Le etichette apposte ad ogni pianta e riportanti il nome in latino, secondo le indicazioni di Linneo, il nome locale e, talora, anche qualche cenno sull’origine della specie, sulle sue caratteristiche sistematiche e sulle esigenze di vita, guidano l’osservatore attento.
Il cuore di questo antico salotto amastratino all’aperto è la piazza centrale, di forma quasi circolare, adorna di sedili in pietra e di lampioni, luogo d’incontro ideale per intessere buoni rapporti sociali. I bambini, particolarmente, nella loro naturalezza, sanno instaurare facili rapporti di amicizia e sanno tranquillamente dare sfogo alla loro vivacità. Vecchi sedili di ferro battuto, posti lungo i viali, si sono quasi arresi all’implacabile azione del tempo e alle avverse condizioni climatiche ed hanno ceduto il posto alle 12 scomode panchine di pietra rosata. Numericamente esigue, delimitano il perimetro circolare dello spiazzo centrale della villa e non offrono a tutti gli utenti, piccoli e grandi, la possibilità di un distensivo relax.

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In un momento di solitudine, dentro la villa, seduta sotto la grande magnolia, mi facevano compagnia: il lieve mormorare del vento che soffiava piano, il fruscio delle foglie che cantano da sempre una rapsodia che non comprendo, ma che lo stesso mi allietava e mi rassicurava e che, staccatesi dal ramo, volteggiando dolcemente, come se stessero planando, finalmente si adagiavano sull’aiuola di zinnie, le tante formiche che camminavano velocemente su un sasso bianco e levigato seminascosto dall’erbetta, i rintocchi dell’orologio sul campanile della vicina chiesa.
Osservavo! Qualche formica, più temeraria, si allontanava e, sperando di trovare cibo da conservare per il lungo inverno, si arrampicava sullo stelo di un fiore. Qualche altra, decisa, si introduceva sotto il sasso diretta al formicaio parzialmente riempito di insetti accumulati. Altre, in fila, ordinatamente, si allontanavano dal sasso per tentare di aumentare il già pingue bottino. La cicala friniva tra le foglie della magnolia nel silenzio del parco illudendosi, come sempre, di cantare con la sua voce melodiosa. Una lucertola se ne stava immobile a godersi l’ultimo raggio di sole. Sono emozioni che ricevo nel trovarmi dinanzi al sublime e vivo scenario della Natura. Entrare nel giardino mi fa sentire a casa mia, come se avessi ritrovato me stessa e il senso delle mie origini: mi guardo attorno e sento che una profonda calma m’invade. Entro in una zona dove sogno e realtà finiscono per confondersi e provo delle sensazioni dolcissime. Mi viene in mente Giacomo Leopardi con la sua sottile poesia “L’Infinito”:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento


Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Dal colle solitario, dove spesso andava a passeggiare, circondato da una fitta siepe che gli impediva di allargare lo sguardo sull’orizzonte lontano, ma non sul cielo, il poeta s’immergeva nell’immaginazione di spazi immensi e di silenzi che gli generavano un sentimento di angoscioso annullamento e di dolcissimo piacere insieme.Leopardi, traendo spunto dalla contemplazione della Natura, rende partecipi anche noi di un’intensa esperienza spirituale.
La piazza centrale della villa comunale “G.Garibaldi” è l’agorà delle statue! I busti storici, impettiti, di Giuseppe Garibaldi, di Vincenzo Salamone e di Noè Marullo sono stati sistemati attorno al perimetro della piazza. Sembra che custodiscano la villa attenti a tutte le attività ludiche, ricreative, socializzanti.
La prima statua moderna che si incontra, scendendo dal viale di sinistra, è quella della dea Astante. Isolata dagli altri monumenti, sembra accogliere e dare il benvenuto a tutti i visitatori della villa. La scultura, opera dell’artista Domenico Pappalardo, raffigura Astarte, la divinità femminile siro-palestinese. Simboleggia mitologicamente la città di Mistretta.
E’ la gran madre venuta dal mare, dea dell’amore e della vita strettamente legata al ciclo vegetativo, dea dei boschi, quindi anche dei Nebrodi. Il suo volto, asimmetrico, rappresenta il sole e la luna insieme. Il più antico monumento dei personaggi illustri è quello di Giuseppe Garibaldi.
Il monumento marmoreo a Giuseppe Garibaldi (Nizza 04/07/1807 – isola di Caprera 02/06/1882), collocato dietro il Quercus ilex, è stato eretto il 02/06/1889; promotore dell’iniziativa è stato il Municipio di Mistretta. La villa comunale è stata a lui intitolata. Lo scultore Noè Marullo, uomo sensibile e raffinato, autore dell’opera, raffigurò, con lo sguardo penetrante e con gli occhi rivolgenti lo sguardo lontano, sotto la fronte corrugata, il fascino del generale Garibaldi, condottiero e patriota italiano, denominato l’eroe dei due mondi per le imprese militari compiute in Europa e in America meridionale e che aveva suscitato nelle folle la fiducia nei moti insurrezionali.
I concittadini mistrettesi memori ricordano il benefattore comm. Vincenzo Salamone, ( Mistretta, 1851-1925), con un busto bronzeo realizzato dallo scultore Balistreri ed  eretto il 25/11/ 1956. Promotrice di questa iniziativa è stata la Società Operaia di M.S. di Mistretta collaborata da altri sodalizi presenti nel territorio e da alcuni cittadini che hanno risposto con sollecitudine alla sottoscrizione per la raccolta dei fondi destinati alla realizzazione del busto.
Sensibile ai problemi sociali, l’on. Vincenzo Salamone è ricordato per aver migliorato le condizioni di vita dei paesani. Ricco proprietario terriero, durante i freddi inverni mistrettesi offriva il calore del fuoco del suo cuore e del suo palazzo e, poichè la fame e la miseria erano molti diffuse, metteva a disposizione dei poveri una cucina economica che, giornalmente, in capienti pentoloni, preparava numerosi pasti caldi. Aiutava anche economicamente le classi sociali meno abbienti per affrontare le loro primarie necessità. Ha fatto realizzare l’acquedotto urbano, ha istituito il servizio automobilistico Mistretta – Santo Stefano di Camastra, ha creato la centrale elettrica a carbone che forniva energia elettrica continua. Cercò di sistemare il verde pubblico e fece piantare diversi alberi.
I mistrettesi, riconoscenti, gli donarono una medaglia d’oro di benemerenza il giorno 08/12/1907. La Società Operaia di M.S.di Mistretta, con il contributo del Banco di Sicilia, il 12/11/2000 ha fatto erigere il busto di bronzo con l’effigie dell’artista amastratino Noè Marullo.   Nato il 13/11/1857, morto il 05/05/1925 a Mistretta, Noè Marullo è stato un uomo generoso e dal carattere sensibile, pacato e, nello stesso tempo, irascibile, allegro e malinconico, cordiale e scontroso, artisticamente isolato nel suo mondo. Fu un maestro sensibile e raffinato, capace di pure, autentiche e geniali creazioni d’arte. Fu costretto a lottare per l’intero corso della sua esistenza con le durezze della vita che lo oppressero e, talvolta, soffocarono la sua capacità di esprimersi, di dare concretezza alle spinte creatici che in lui si sviluppavano.
Chiuso nei ristretti confini di un ambiente provinciale culturalmente limitato, non ha potuto rifulgere della luce che gli era propria. Il consiglio comunale di Mistretta lo ha aiutato economicamente per il raggiungimento del diploma di scultore e per la frequenza in Accademia di un corso biennale di perfezionamento. Studiò alla “Scuola tecnica serale per gli operai” a Palermo e,  uccessivamente, all’istituto di belle arti “San Luca” a Roma. Dopo i vani tentativi di inserirsi a Roma nel mondo dell’arte e del lavoro, impiantò la sua bottega a Mistretta, in vicolo Gullo N° 6, nel piano basso della casa dove era nato, e là iniziò ad ideare i suoi fantasmi artistici dandovi anima e corpo. In seguito ai buoni successi di mercato, per merito di committenti amastratini e di confraternite di paesi vicini, espleta i suoi filoni dell’arte: quello laico,  in cui in piena libertà ha la possibilità di comunicare i suoi stati d’animo, e quello sacro in cui, con senso oggettivo, raffigura ciò che il popolo sente e desidera.
E’ interessante sapere che l’inizio della grande attività di scultore in Marullo coincide con gli anni di dolore personale per la morte dei congiunti, in particolare dell’amata figlia Giustina, e per l’incomprensione con i rapporti sociali che gli hanno ostacolato la vita. L’arte diventa per lui il rifugio dello spirito, la rivincita ideale sulle delusioni della realtà. Una via cittadina intitolata al suo nome lo ricorderà per sempre alle generazioni future. Quali altri buoni motivi posso aggiungere per entrare dentro il giardino di Mistretta per osservare, sempre con migliorata attenzione, le sue innumerevoli bellezze?

May 29, 2013 - Senza categoria    Comments Off on MISTRETTA IL MIO BEL PAESE

MISTRETTA IL MIO BEL PAESE

castello

 Carissimo Stefano,
benvenuto a Mistretta. Ti farò da guida per mostrarti tutte le bellezze che Mistretta possiede.
Ti mostrerò la sua particolare struttura urbanistica, le stradine e  i vicoli, le chiese, i palazzi signorili, le ville. Dalle parti più alte del paese ti farò ammirare le montagne, i monti boscosi, il mare Tirreno, le Isole Eolie. Ti accompagnerò alle famose Cascate incantate.
Parteciperai alle feste religiose di San Sebastiano, il patrono della città e della Madonna della Luce con i Giganti. Sicuramente trascorrerai un piacevole soggiorno.
Innanzitutto i racconterò un po’ della storia del suo glorioso passato.

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Le origini di Mistretta sono antichissime, risalenti probabilmente all’età del bronzo.
Nella fascia occidentale della catena montuosa dei Nebrodi, insellata a 950 metri d’altezza, svetta Mistretta, una ridente cittadina che, per questa particolare forma di sella di cavallo, è soprannominata la “Sella dei Nebrodi“.

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La città di Mistretta è posta a metà strada tra Palermo, dalla quale dista 120 Km, e Messina, la sua provincia, dalla quale dista 170 Km, distanze che si sono accorciate con l’apertura dell’autostrada A 20. Dista dalla costa tirrenica siciliana circa 12 km percorribili in breve tempo e, man mano che si scende verso Santo Stefano di Camastra, si ammira uno splendido paesaggio ricco di montagne, di mare e delle bellissime isole Eolie, le perle del mar Tirreno e che si fanno osservare soprattutto durante le giornate limpide.

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Percorrendo la strada per Nicosia, dalla Sella del Contrasto, a 1120 metri di altezza, si ammira l’imponente cima del vulcano dell’Etna spesso innevata e sovrastata da una bianca nube. Le alte montagne che circondano il territorio sono rivestite dai folti boschi che, durante la stagione invernale, si coprono della candida neve.

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Mistretta, estesa per una superficie di 127 Km2, è un’antica città che vanta una notevole ed intensa storia per aver subito tante civiltà che hanno lasciato testimonianze del loro passaggio visibili all’interno del centro storico.
Secondo l’archeologo, il prof. Vincenzo Tusa, la città fu edificata dai fenici, spinti da una tempesta nella sottostante costa tirrenica, i quali, sul monte della Vallata del torrente Santo Stefano, innalzarono il tempio dedicato alla dea Astarte, la divinità fenicia dei boschi, dalla quale la città prese il primo nome di “Am-Asthart o Meté Ashtart” ,popolo o uomini di Astarte.
Successivamente le sono stati assegnati i nomi: Amestratos, Mestraton, Mitistratos, Amastra, Mitistratum, Amestratus, come la città è citata negli scritti di Cicerone e di Stefano Bizantino e, in epoca medievale, fu denominata Mistretta.
Molto probabilmente, però, secondo lo storiografo Bordone Pagliaro, le sue origini risalgono ai Sicani, il primo popolo che abitò la parte orientale della Sicilia, e ai Siculi che sconfissero i Sicani. La loro presenza è stata dimostrata dalle antiche costruzioni in pietra e dagli oggetti di ceramica ritrovati nel territorio nei pressi della città molto simili ai reperti della civiltà sicana ritrovati nell’Asia Minore. Era gente che praticava la pastorizia e l’agricoltura e adorava la dea Cerere. Anche i Greci, Ioni e Dori, abitarono a Mistretta giungendo, intorno al 700 a.C,. sulla costa tirrenica siciliana e cominciando ad insediarsi verso l’interno. Si narra che un gruppo di greci, guidato dal condottiero Leukaspis, fu ben accolto a Mistretta tanto che lo stesso condottiero fu venerato come un dio.
I greci, a Mistretta, divennero sempre più numerosi e la città fu “ellenizzata” pacificamente.
La conseguenza della colonizzazione fu la civilizzazione degli abitanti del luogo.
Questo periodo fu fiorente per la Sicilia, anche per Mistretta, e produsse benessere e ricchezza. Presto furono innalzati templi (la Chiesa di San Giovanni Battista fu edificata sul tempio dedicato a Dioniso), furono allestiti ginnasi e teatri e fu avviata anche una necropoli per il culto dei morti.
La sua posizione geografica fece di Mistretta una fortezza inespugnabile, di cui hanno parlato Polibio e Tucidide, tanto che le aggressioni furono più volte respinte dalla frenetica opposizione dei cittadini. In epoca romana Mistretta ebbe tutti i privilegi comunali diventando “municipio” e centro di raccolta delle decime pagate da varie città durante la pretura dell’ingordo Verre. Marco TullioCicerone, nelle “Verrine“, narra dei soprusi commessi dal governatore Caio Verre ai danni di svariate città siciliane, tra le quali anche Mistretta, città sfruttata per l’enorme produzione di grano.
Tiberio Cazio AsconioSilio Italico, nelle sue “Storie“, descrisse Mistretta come un importantissimo centro che forniva ai romani oltre al grano, anche soldati ben addestrati. Per questo motivo apparteneva alle città federate che avevano il privilegio di pagare le tasse solo in minima parte compensando con uomini e con frumento. In effetti, Mistretta, con i romani, acquistò notevole importanza per la raccolta del suo frumento, prevalentemente di qualità dura, che facilmente si poteva conservare anche per lunghi periodi di tempo e per la sua posizione dominante divenendo punto di riferimento per chi viaggiava tra il cuore della Sicilia ed il Mar Tirreno.
Mistretta ha subìto alternativamente periodi di prosperità e periodi di crisi economica.
Sotto Cesare Augusto Mistretta, come moltissimi altri centri della Sicilia, iniziò ad impoverirsi e di essa non si ebbero più tracce storiche fino all’epoca imperiale, quando la popolazione riprese ad aumentare e a progredire nella pastorizia, nell’agricoltura e nel commercio.
Dopo il dominio dell’impero romano d’oriente, la conquista dei musulmani, guidati da Ibrahim Ibn Ahamed, rappresentò un momento di incontro con le culture e con le economie dell’Africa settentrionale. Fu la premessa per una nuova abbondanza per i mistrettesi perché i nuovi arrivati, mercanti e coltivatori, volevano valorizzare gli splendidi territori ereditati dai loro predecessori.
Dopo la caduta dell’impero romano, all’epoca delle invasioni barbariche, la Sicilia, e, quindi, anche Mistretta, fu preda dei Vandali, nel 468 d.C., e invasa dai Goti, da Teodorico, nel 491 d.C. Con la dominazione bizantina Mistretta ritornò ad acquisire i domini imperiali poiché i bizantini, al tempo di Giustiniano, nel 535 d.C., durante le guerre gotiche in Italia conquistarono l’intera Sicilia e ne fecero la loro base principale. Il predominio bizantino durò ininterrottamente per tre secoli e mezzo, dalla metà del VI fino all’IX secolo, e non fu favorevole all’isola sottoposta ad una dura dittatura militare e ad un intenso sfruttamento delle risorse.
Mistretta dovette sostenere una forte fiscalizzazione e il suo territorio fu sottoposto a ruberie e a saccheggi da parte islamica, tuttavia riuscì ad arricchirsi di opere d’arte. Meta di continue scorrerie saracene, l’isola fu conquistata dagli Arabi a partire dall’827 per merito della dinastia degli Aghlabiti d’Africa. Retta da un emiro, con capitale Palermo, gli Arabi fecero della Sicilia il loro epicentro commerciale nel Mediterraneo.
La conquista araba, anche se violenta, portò all’isola notevoli benefici. Gli Arabi incrementarono notevolmente l’agricoltura arricchendola di nuovi metodi e di altre forme di coltivazione. Furono loro ad introdurre le colture di arance, di limoni, di frutti squisiti come la pesca, l’albicocca, di ortaggi delicati come gli asparagi ed i carciofi. Importarono anche le coltivazioni del cotone, del carrubo, del riso, del pistacchio, delle melanzane. Persino il leggiadro e odorosissimo gelsomino e le spezie come lo zafferano, il garofano, la cannella, lo zenzero sono stati importati dagli Arabi.
Insegnarono a produrre le paste alimentari, il pane con la “guigiulena“, il sorbetto, “u turruni“, un dolce preparato con le mandorle tostate e amalgamate con lo zucchero. A Mistretta gli arabi dominarono la città tra l’827 e il 1070. Costruirono il nucleo originario del castello.
In seguito si insediarono i normanni che ristrutturarono e abbellirono l’originario castello edificato nel punto più alto della città.

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Conosciuto già in epoca romana, Polibio definì il castello “vetustissimo”. Le prime notizie sulla fortezza si hanno da un privilegio del 1101 con il quale il conte Ruggendo donò Mistretta e il suo castello al Demanio Regio. Le macerie dell’antica fortezza sono riconoscibili nella campagna antistante il monte castello presso il quale alcuni scavi hanno portato alla luce reperti archeologici di grande valore storico come le monete.

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 Dal castello ebbe inizio il primo fulcro del paese. Dalle pendici della montagna le primitive piccole abitazioni, dai tetti muschiosi e rossicci, abbracciate le une alle altre, separate da strette, tortuose e accidentate stradine, estendendosi a poco a poco, costituirono il primo nucleo abitativo del popolo amastratino che, tranquillamente, cominciò la vita dedicandosi al lavoro nei campi, nei boschi e alla pastorizia.

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Il lungo dominio arabo è testimoniato dai numerosi termini dialettali, dalle diverse usanze ricorrenti nell’artigianato, nell’agricoltura, nel commercio e dalla toponomastica di alcuni agglomerati urbani del centro storico. Il centro dell’amministrazione era, allora, la “rabbica araba”, sita in via Canova, una costruzione con due ampi balconi a semicerchio e che serviva per la raccolta del grano.

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 I Siciliani subirono la dominazione araba, ma non l’accettarono e non si rassegnarono mai, come lo provarono le cinque successive insurrezioni del 849, del 912, del 936, del 989, del 1038 che fecero traballare la potenza musulmana. Nel sentimento e nel linguaggio popolare gli Arabi detti “Saraceni“, dal nome di una loro tribù, erano considerati nemici. Alla dominazione araba successe la dominazione normanna.Verso la metà dell’XI secolo, alla fine di un periodo di lotte tra signori arabi, fu chiesto l’intervento dei Normanni, da “North-man” “uomo del nord” che, venuti a gruppi, si insediarono nell’Italia meridionale. I normanni furono presenti dal 1060 al 1195. Il gruppo che si era distinto per il numero di uomini e per l’abilità militare fu quello guidato dalla famiglia degli Altavilla alla quale appartenevano i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero. Roberto il Guiscardo operò nell’Italia meridionale e formò il ducato di Puglia e di Calabria. Ruggero, conquistata tutta la Sicilia, costituì la “Contea di Sicilia” sostenuto dai papi che attribuirono ai prìncipi normanni il titolo di legati apostolici. Alla morte di Ruggero, avvenuta nel 1130, gli succedette il figlio Ruggero II che unì la Sicilia ai possessi normanni dell’Italia meridionale perché si era estinta la dinastia di Roberto il Guiscardo, ottenendo il titolo di Re di Sicilia e di Puglia. Ruggero II riorganizzò l’amministrazione dell’isola dandole un saldo potere centrale e facendone il fulcro della potenza mediterranea della stirpe normanna. Creò un regno assai prospero riuscendo, con una saggia tolleranza religiosa, a conciliare la fede araba con quella cristiana. Da allora il regno normanno di Sicilia ebbe parte di primo piano sia nei conflitti tra il Papato e l’Impero, appoggiando la causa guelfa, sia nelle vicende mediterranee e nella lotta contro i Turchi. A Ruggero II successe la figlia Costanza andata in sposa, nel 1186, ad Enrico VI, il figlio di Federico Barbarossa. Nel 1190 Enrico VI, alla morte del padre, fu eletto imperatore del Sacro Impero Germanico (Regno di Germania e Regno d’Italia) e Re di Sicilia. La conquista normanna sostenne a Mistretta la nascita di un nuovo borgo che si strutturò a cerchi concentrici attorno e fino alle falde del castello.
Una possente cinta muraria, con torri e con almeno quattro porte ortogonali: porta Palermo, porta Messina, porta della Piazza, poi del “Muru ruttu”, e Pusterla, di cui è ancora in situ solo porta Palermo, difendeva l’ingresso e l’uscita della città. Un terzo nucleo fu quello costituito dal quartiere ebraico inizialmente isolato ed equidistante dagli altri due. Con i Normanni, i grandi latifondi, divisi dagli Arabi, si ricostituirono e si rafforzò ancora di più il baronaggio.
Il conte Ruggero d’Altavilla fece ampliare ancora il castello di Mistretta, di cui oggi rimangono solo pochi ruderi che sovrastano la città, che fu più volte al centro di operazioni militari.
Nel 1082 Giordano, il figlio illegittimo di Ruggero, approfittando dell’assenza del padre che si era recato in Calabria, tentò di usurpargli il potere con la complicità di alcuni cortigiani. Ruggero d’Altavilla, nel 1101, donò Mistretta in feudo, con tutti i suoi splendori e con tutto il suo territorio, al fratello Roberto, Abate del Monastero della Santissima Trinità in Mileto Calabro. Dall’atto di donazione emergono notizie storiche sul paese che in quel periodo si stava ampliando estendendosi lungo i fianchi del monte del castello e dentro le mura di difesa.
I resti sono visibili nel Vico Torrione e lungo la Strada Numea, esattamente dove si apre la Porta Palermo, una delle due antiche porte della città.
Oltre all’insediamento urbano circondato dalle mura, vi erano numerosi “bagli“, aggregati sociali e produttivi circondati da orti.
Proprio a partire dagli antichi “bagli” si sono formati i quartieri medioevali di Mistretta che si possono ammirare ancora oggi nell’attuale tessuto urbano del centro storico.

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Il centro della città conserva ancora oggi  il suo primitivo impianto di origine medievale, anche se nel suo tessuto si sono armonicamente fuse costruzioni rinascimentali, barocche, liberty con l’uso di pregevole materiale edilizio e con la perizia e l’abilità delle maestranze locali.
Un altro avvenimento storico del 1160 riguarda la cessione del territorio da parte di Guglielmo il Malo a Matteo Bonello che, ottenuta l’investitura della città, si fece promotore del complotto contro il re e che si concluse con l’uccisione del ministro Maione di Bari.
Con Enrico VI ebbe inizio la dominazione sveva durante la quale la Sicilia fu al centro delle trame politiche e diplomatiche dell’Europa. Egli voleva completare i grandi progetti del padre, ma non ebbe neanche il tempo di iniziare perché la morte lo colse a Messina dopo pochi anni di regno.
Assunse la reggenza dell’Impero la Regina Costanza, ma la morte colse anche lei dopo che ebbe affidato al papa Innocenzo III la reggenza del Regno e la protezione del figlio
. Sotto l’impero di Federico II di Svevia, (1197-1250), la città di Mistretta, nel 1233, occupava il XXXII posto al Parlamento Siciliano con il titolo di “Urbis imperialis”, qualifica che mantenne per molto tempo. Successivamente fu assoggettata a Federico d’Antiochia e poi a suo figlio Corrado.
In questo periodo fu realizzato l’attuale stemma della città di Mistretta raffigurante un’aquila imperiale con la croce in petto, ad ali aperte, con la testa rivolta a destra, su uno scudo sorretto da due ramoscelli di quercia e di alloro, il tutto sottostante ad una corona  simbolo di potenza e di redenzione. E’ lo stemma degli Hohenstaufen nel Regno di Sicilia.

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Alla dominazione sveva successe l’occupazione angioina che fu una vera e propria dominazione militare.
Carlo I d’Angiò impose alla Sicilia un tipo di feudalesimo che danneggiò l’economia di molti centri, tra cui anche la città di Mistretta che fondava la sua economia sull’agricoltura e sul commercio. Le prevaricazioni francesi, le prepotenze dei feudatari, la mancanza di sensibilità verso i problemi del popolo e i soprusi operati dalla classe dirigente avevano reso ostile l’intera popolazione e provocarono la guerra dei Vespri, o i “Vespri Siciliani“, nel 1282, conclusa con l’intervento di Pietro d’Aragona che aveva sposato Costanza, la figlia di Manfredi, e avanzava, pertanto, alcuni diritti sul Regno di Sicilia.
Gli Angioini ripristinarono la politica del latifondo, tipica dei romani, ma soppressa dagli arabi, ed affermarono lo strapotere dei feudatari. Impoverita dagli insostenibili prelievi fiscali, anche la città di Mistretta insorse contro gli Angioini e, nel 1282, i mistrettesi si unirono alla rivolta partecipando anche loro ai “Vespri Siciliani”. I mistrettesi si levarono contro i francesi che impedivano il commercio del legname dei propri boschi, del carbone e dei prodotti della pastorizia. La piazza davanti alla chiesa di San Giovanni si chiama “Piazza dei Vespri” appunto per ricordare che quello fu il luogo dove si radunarono i rivoltosi armati. Per il prezioso contributo apportato nella lotta contro i francesi, la città fu inserita tra quelle demaniali ed accolta nel Parlamento del Regno di Sicilia con capitale Palermo. La guerra durò venti anni e terminò con la pace di Caltabellotta nel 1302.
La Sicilia fu così affidata agli Aragonesi.
La signoria feudale su Mistretta continuò in età aragonese dal 1285 al 1415. Diversi sono stati i feudatari tra cui bisogna ricordare Gregorio Castelli, conte di Gagliano, a cui la città di Mistretta fu ceduta dal re Filippo IV che, spinto dall’esigenza di avere del denaro necessario per sostenere le spese della guerra in Italia, gliela vendette per la modica somma di 80.000 scudi.
Il popolo amastratino, al prezzo di enormi sacrifici, riscattò la città e saccheggiò il castello divenuto il simbolo di un potere sgradito.
Nel 1447 il regime del re Alfonso d’Aragona segnò un momento storico di splendore per la città. Mistretta conseguì il titolo di “Città demaniale”.
Il ceto artigiano, entrato a far parte del governo della città, si adoperò a far fiorire le lettere e le arti con la costruzione di molti palazzi gentilizi e chiese. Cominciò, finalmente, una lenta ma progressiva ripresa economica.
E gli anni passavano!
Il Settecento fu un periodo di floridezza economica per i mistrettesi dovuta allo sfruttamento dei materiali boschivi e alla commercializzazione dei prodotti agricoli perché, per la sua posizione geografica, Mistretta fu luogo di passaggio per mercanti e per soldati poiché univa il massiccio centrale della Sicilia alle coste del Mar Tirreno.
La presenza di una classe borghese agiata consentì il fiorire di attività artigianali le cui maestranze furono molto brave nel saper lavorare la pietra, il ferro e il legno. L’epoca spagnola si protrasse per circa due secoli e mezzo a conclusione del periodo di guerre europee suggellato dalla pace di Utrecht nel 1713.
Nel 1713, secondo il Trattato di Utrecht, la Sicilia toccò a Carlo VII del Sacro Romano Impero e, successivamente, a Carlo III di Borbone e, come regno nuovamente indipendente, a Vittorio Amedeo II di Savoia.
Cinque anni dopo, con il trattato di Cockpit, l’isola fu consegnata agli Asburgo d’Austria. Si aprì un’altra breve fase contrassegnata dal pesante fiscalismo austriaco e dai contrasti con il personale spagnolo e chiuso con la guerra di successione polacca quando Carlo III di Borbone riportò la Sicilia sotto il dominio spagnolo. L’arrivo del nuovo sovrano in Sicilia fu accolto con molto entusiasmo, ma tale clima si placò visto che la permanenza siciliana di Carlo III durò solo pochi giorni. La Sicilia perdette parte del fasto ottenuto durante la dominazione normanna, sveva ed aragonese ed assunse un ruolo marginale nella politica europea. Questo fu anche il periodo di quel processo riformatore con il quale si voleva abbattere il forte potere baronale e sminuire il vecchio ordinamento feudale ancora presente in Sicilia. Arrivarono i borboni.
Durante la dominazione borbonica Mistretta fu totalmente amministrata dai baroni locali. La borghesia locale si preoccupò di abbellire e di ampliare la città oltre le mura e, per questo motivo, fu urbanizzata l’area attorno alla Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria. Furono costruiti altri palazzi, furono arricchite le chiese con numerose opere d’arte, fu aperta la biblioteca comunale. La Chiesa Madre costituì il fulcro dell’espansione di numerosi quartieri. Nello stesso periodo furono edificati l’Ospedale e la Casa dei Pellegrini. La presenza a Mistretta, alla fine del 1800, dell’Architetto Basile, progettista anche del cimitero monumentale, influenzò il nuovo assetto urbanistico con la costruzione di fontane, di larghi, di piazze e fu ampliata la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.

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Altri personaggi che hanno saputo abbellire la città sono stati: l’architetto Silvestre Marciante e lo scultore Noè Marullo.

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La città riacquistò l’antica importanza e divenne il punto di riferimento commerciale e culturale anche dei centri vicini. Il regime poliziesco di Ferdinando II, detto Francischiello perchè dotato di intelligenza limitata e di scarsa energia, cheabolì ogni forma di autonomia dell’isola, che non volle concedere riforme liberali, che manifestò il disprezzo verso la cultura, che derideva i letterati definendoli “pennaioli“, che accrebbe il malcontento generale diffusosi tra i siciliani e il popolo amastratino, soprattutto presso la nascente classe media costituita da professionisti, da artigiani, da massari, fece sì che Mistretta fosse una delle prime città ad insorgere contro i borboni.Tra i siciliani che più calorosamente si adoperarono per la loro terra furono Francesco Crispi, (Ribera, 4 ottobre 1818 – Napoli, 12 agosto 1901), e Rosolino Pilo, (Palermo, 15 luglio 1820 – San Martino delle Scale, 21 maggio 1860). Giuseppe Garibaldi, sollecitato a venire in aiuto della Sicilia, si dichiarò pronto ad intervenire con una spedizione di volontari se sull’isola fosse scoppiata la rivoluzione.

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 Il 4 aprile del 1860 la rivolta scoppiò a Palermo, presso il monastero della Gancia. Nelle campagne perdurava la guerriglia guidata da Rosolino Pilo il quale aveva confermato il prossimo intervento di Garibaldi. La situazione precipitò e le forze borboniche non riuscirono a fronteggiare il movimento popolare. Anche Mistretta diede il suo contributo alla lotta per l’Unità d’Italia di cui si festeggiano quest’anno i 150 anni.
E’stata innalzata la bandiera tricolore sul castello.

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All’interno del palazzo di città è  esposta la lapide

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 Nella facciata del palazzo di città di Mistretta, lateralmente al portone d’ingresso, due lapidi commemorative ricordano personaggi che si sono distinti per particolari azioni politiche. In una di esse si legge: ” Pietro Daidone, muratore, nella notte dell’8 Aprile 1860 inalberò sul castello il Tricolore che atterrato dalla polizia borbonica Egidio Ortolani Delmo, calzolaio, issò la sera del 10. Data dell’istallazione della lapide il 13-5-1960”.

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Fra le personalità amastratine che si adoperarono per la causa nazionale si devono ricordare: il sac. Giuseppe Salamone, il frate Vincenzo da Catania, il sac. Giuseppe Marciante. All’alba del 5 maggio del 1860 partì la spedizione dei Mille. Due vaporetti, Lombardo e Piemonte, salparono dallo scoglio di Quarto con poco più di 1000 uomini, che indossavano la camicia rossa, comandati dal generale Giuseppe Garibaldi. Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio comandavano le due navi. L’11 maggio i due vaporetti giunsero a Marsala e, da Marsala, Garibaldi si diresse verso Salemi dove lanciò un proclama ai siciliani e dove fu proclamato dittatore della Sicilia con le parole d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”.
Garibaldi puntò su Palermo, ma un esercito borbonico, accampato sulle alture di Calatafimi, gli sbarrò la strada. La battaglia fu lunga ed aspra. La vetta del colle di Calatafimi fu conquistata mentre i borboni si ritiravano su Palermo. La battaglia per la conquista di Palermo durò quattro giorni. Vi parteciparono anche i mistrettesi. Nell’altra lapide, esposta nella facciata del Palazzo di città, si legge: ”Partecipò all’epopea garibaldina un drappello d’armati mistrettesi che sotto il capo guerriglia Domenico Cardinali entrando in Palermo il 27 maggio 1860 pagavano il loro tributo di sangue. Data d’istallazione della lapide il 13-5-1960”.

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  Il 30 maggio i soldati borbonici, asserragliati in città, chiesero l’armistizio; il 6 giugno sgomberarono Palermo. Garibaldi formò un governo provvisorio con a capo Francesco Crispi mentre la rivolta si era estesa a tutta l’isola. Nuove schiere di volontari accorrevano dal Continente e dalle province. Il 20 luglio i Mille sconfissero definitivamente i Borboni nella battaglia di Milazzo e, nei giorni successivi, ottennero la resa di Messina, avendo così il passaggio aperto per continuare le battaglie contro il Regno delle Due Sicilie nel continente. Molti siciliani si arruolarono nell’Esercito meridionale di Garibaldi. La Sicilia, conquistata per intero, fu pronta per l’annessione al Piemonte.
I modi in cui avvenne l’assimilazione della Sicilia al Piemonte, entrando a far parte del Regno d’Italia, dopo la spedizione garibaldina dei Mille, frustarono nuovamente le attese autonomistiche dell’isola la cui economia a base feudale e latifondista non fu in grado di risollevarsi in conseguenza dell’unificazione venendo anzi a costituire una componente sostanziale della cosiddetta “questione meridionale”, la disastrosa situazione economica e sociale del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell’Italia unificata. Intanto gran parte dell’aristocrazia locale, che mal aveva sopportato il regime borbonico, sicuramente aspettava il momento favorevole per modificare l’ordine esistente nell’intento di ricavare benefici economici.
Il popolo mistrettese che versava in condizioni precarie, nella rivoluzione vide l’occasione per conseguire miglioramenti sociali, per avere maggiore giustizia e per poter disporre della terra. L’ordine pubblico non esistette più, le autorità borboniche scomparvero, molti si fecero giustizia da sé, i furti e le estorsioni erano in continuo aumento.
Nacque un “Comitato per il governo di questo comune“ nominato dal popolo. Peculiare caratteristica fu la preoccupazione di salvaguardare la proprietà privata con l’ausilio di una organizzazione di pubblica sicurezza. All’inizio del 1900 Mistretta si preoccupò di fare migliorare il livello economico, artigianale, artistico e culturale ma, dietro alla costruzione dei palazzi nobiliari, alla nascita dei circoli culturali, alle feste di paese, si celavano ancora le sorti infauste che segnarono la storia della Sicilia dopo l’unità d’Italia.
L’abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, il regime di occupazione militare, la mancanza di lavoro, che non riusciva a sfamare la popolazione a causa di una economia asfittica, crearono nel meridione un forte malcontento che sfociò nel brigantaggio, nella mafia e nell’emigrazione verso gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina.
Le statistiche affermano che tra il 1871 e il 1921 quasi un milione di siciliani si allontanarono dalla Sicilia. Tramite i registri di sbarco di New Jork, dove venivano annotati i nomi degli emigrati, è stato calcolato che, nell’arco di tempo che va dal 1897 al 1924, sbarcarono nella metropoli americana ben 3714 nativi di Mistretta. Anche mio nonno materno fu coinvolto dal flusso dell’emigrazione all’estero. Il nonno Salvatore Lorello (Mistretta 25/12/1886 – Mistretta 25/02/ 1966), sposatosi con la signora Anna Spinnato il 20 ottobre del 1908, subito dopo la nascita del primo figlio Filippo, avvenuta a Mistretta il 15/12/1009, partì per l’America. Là nacque Charles, il secondogenito.
La famiglia, ritornata in Italia perché le condizioni climatiche erano sfavorevoli alla vita della donna, si accrebbe nel numero con la nascita di altri tre figli. Maria Grazia, mia mamma, Antonino e Alberto morto in tenerissima età.
Il giovane Charles all’età di 16 anni sentì la necessità di ritornare in America.
Partì da solo. Il lungo viaggio nell’immenso mare, durato un mese, le frequenti tempeste, che minacciarono la vita di tutti i viaggiatori, lo stress psicologico lo scoraggiarono a tal punto da impedirgli di ritornare in Italia magari per un viaggio turistico.
Non è ritornato mai più.
Il rapporto con la famiglia è stato soltanto epistolare. Filippo Lorello, richiamato dal fratello Charles, partì per gli Stati Uniti nel 1967 con la moglie, la signora  Lucia Porrello, e con tre figlie: Graziella, Pippa e Liria.
Altri tre figli: Annina, Totò e Nino sono rimasti in Italia. Dopo un quinquennio di permanenza in terra lontana, Filippo ritornò con la moglie Lucia a Mistretta. Le sue ossa riposano nel cimitero monumentale di Mistretta dal 30/04/1978. In America sono rimaste le figlie Pippa e Liria, che vivono in America,  Graziella è deceduta da molti anni. Una famiglia unita dall’amore, ma divisa  dall’emigrazione.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, della “Grande Guerra”, avvenuto il 28 luglio 1914, che richiamò alle armi i giovani siciliani, smembrò gli affetti familiari, lasciò nell’incuria i campi, privò i parenti di ogni mantenimento.
Il conflitto si concluse quattro anni dopo, l’11 novembre del 1918.
Al termine della prima guerra mondiale, da un’eterogenea commistione di arditi, di sindacalisti, di rivoluzionari, di futuristi, di nazionalisti, il 29 ottobre del 1922 nacque il movimento politico chiamato “Fascismo” che durò circa un ventennio. Il Fascismo ebbe un ruolo molto importante nelle vicende del Mezzogiorno. Lo stato fascista, ansioso di allargare il proprio consenso e interessato ad una crescita economica che sostenesse la sua politica espansionista, prese seriamente in carico il problema dello sviluppo del Meridione.
In quel periodo anche mio padre Giovanni Seminara, (Mistretta 24/06/1009 – Mistretta 2/05/1990), ha dato il suo piccolo contributo all’Italia. Apparteneva all’Arma dei Carabinieri. Andò a Trieste, a Caporetto e a Fiume. In una lettera indirizzata alla mamma scrisse: Cara mamma il giorno 15 Aprile del 1929 fui promosso carabiniere. Voi non potete immaginare quale gioia io provassi per tale promozione. Dopo sei lunghi mesi di istruzione, ecco finalmente raggiunto lo scopo. Il primo ambìto desiderio è perciò raggiunto con tutta soddisfazione.
Vi assicuro che compierò sempre il mio dovere non solo ma spero con qualche sacrificio e con lo studio di poter migliorare la mia posizione e continuerò senz’altro nella mia carriera. Sono ora in attesa di essere destinato alla nuova legione. Vi terrò infornata della mia partenza e vi farò conoscere appena possibile la mia nuova residenza. Vi giungano intanto affettuosi saluti dal vostro aff.mo figlio Giovanni
”.

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Il 19 luglio del 1943 segnò un altro importante momento storico. Iniziò la seconda guerra mondiale. Dal balcone di Piazza Venezia Mussolini annunciò: “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria, l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli Ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. […] La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano indiano: vincere! E vinceremo”!
La guerra ha interessato la mia famiglia paterna. Lo zio Vincenzino Seminara, (Mistretta 11/11/1913- Mistretta 5/04/ 1974), fratello di mio padre, fu prigioniero in Albania. Un militare, arrivato a Mistretta a piedi e con mezzi di fortuna, portò la notizia che Vincenzino si era fermato a Santo Stefano di Camastra perché, stremato, non aveva più la forza per continuare a camminare. Mio padre, dopo aver chiesto in prestito al cav. Enzo Tita il calesse, con tale mezzo, sul quale fece salire la madre, la sorella Maria, mia madre ed io bambina, partì alla volta di Santo Stefano di Camastra per andare a recuperare il fratello che tornava dalla guerra. Era scarno, sporco, affamato.
Spesso a noi nipoti, che amava tanto, parlava della guerra, descriveva i disagi e la fame. Raccontava che assieme agli altri militari andava a rovistare nella spazzatura nella speranza di trovare le bucce delle patate con le quali potere smorzare i morsi della fame.
Il fratello Giuseppe Seminara, lo zio Peppino, (Mistretta 13/02/1919), non ha fatto mai più ritorno in Patria.
E’ stato dichiarato disperso in Russia il 14/11/1951.

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La lettera alla sua mamma, la signora Sebastiana Isabella:

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 Sua madre, mia nonna, lo ha atteso invano. Fino al 1946 l’Italia era una monarchia costituzionale basata sullo Statuto albertino. Dopo la seconda guerra mondiale il 18 giugno del 1946 nacque la Repubblica Italiana. Si trattò di un passaggio di evidente importanza per la storia dell’Italia contemporanea dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale.
La transizione si svolse in un clima di esasperata tensione e rappresentò un controverso momento della storia nazionale assai ricco di eventi, di cause, di effetti e di conseguenze, registrate anche a Mistretta, ed è stata considerata una rivoluzione pacifica dalla quale derivò una forma di stato poco differente da quello attuale.
Il 10 giugno, alle ore 18,00, nella Sala della Lupa a Montecitorio, la Corte di Cassazione lesse i risultati del referendum inviati dalle prefetture.
I voti favorevoli alla repubblica furono 12.717.923, mentre quelli favorevoli alla monarchia furono 10.719.284.
La nascita della Repubblica fu accompagnata da polemiche di una certa consistenza circa la regolarità del referendum che la sancì. Da questo momento, molto lentamente ricominciò lo sviluppo sociale ed economico dell’Italia.
Negli anni ‘60 e ‘70 le aree industrializzate del Nord dell’Italia vissero un periodo di sviluppo economico, chiamato miracolo “italiano”, incentrato sull’esportazione di prodotti finiti.
Il fenomeno importò dal Meridione altra manodopera. L’emigrazione, per combattere la disoccupazione, provocò un grave danno a tutta la Sicilia che assistette allo svuotamento dei suoi paesi. Pure Mistretta riscontrò questo problema, anche se riuscì a mantenere un certo numero di abitanti evitando il dannoso spopolamento del paese grazie alla “salvaguardia” delle attività agro-silvo-pastorali.
Nell’Ottocento Mistretta contava circa 20.000 abitanti, ma, secondo l’ultimo censimento, registra 5076 abitanti di cui 2372 maschi e 2704 donne.
Attualmente questi numeri sono ancora diminiuti.
In mezzo secolo Mistretta ha subìto la fuga di tanti nuclei familiari e di tanti giovani che, per motivi di studio e di lavoro, si sono allontanati dal centro nebrodeo alla ricerca di migliori condizioni di lavoro. Da sempre la pastorizia e l’agricoltura sono state le attività prevalenti a Mistretta.
In molti documenti degli antichi romani è menzionata come una delle più fertili città della Sicilia e considerata il granaio di Roma.
L’economia cittadina, purtroppo molto magra, si basa, tuttora, principalmente sulla pastorizia e sull’agricoltura con la coltivazione di oliveti, di vigneti, di agrumeti, di orti.
Pascolano armenti, un tempo assai numerosi, che danno una buona produzione di prodotti caseari di indiscussa qualità e genuinità. Tuttavia, oggi il mondo agricolo-pastorale, prima binomio di forza dell’economia locale, oggi è attanagliato da una certa crisi economica per la stesura di leggi europee che impongono l’adozione di moderne tecnologie.
Gli allevamenti producono carni pregiate e formaggi ritenuti tra i migliori della Sicilia, ma sottoposti a rigide regole di mercato. I boschi assumono una grande rilevanza soprattutto sul paesaggio montano purtroppo deturpato dalle ingombranti pale eoliche che non si armonizzano per nulla con l’ambiente.

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Anche l’artigianato locale, che prima abbracciava settori fiorenti come quello dei fabbri, dei falegnami, degli scultori della pietra, che tanto hanno impreziosito gli edifici cittadini con le loro opere, oggi si sono notevolmente ridotti. Le poche botteghe artigiane presenti a Mistretta sono a conduzione familiare. Non esistono industrie. Da una montagna si estrae una pietra dura rosata che, per il suo particolare colore, prende il nome di “pietra dorata”, ma che ha modificato la naturale forma della montagna.
Sono stati soppressi il Tribunale nel settembre 2013, il carcere nel 2014, è stato depotenziato l’ospedale a causa della Spending Review.
Le scuole hanno ridotTo il numero degli alunni. Un’importante fonte di reddito per l’economia cittadina potrebbe essere l’incremento del turismo incoraggiato dall’importante patrimonio storico e artistico, dalla suggestiva bellezza del paesaggio boschivo, dall’attrazione delle numerose feste folcloristiche locali, dalla degustazione dei prodotti locali.
Caro Stefano, dopo averti raccontato la sua storia, adesso ti descrivo Mistretta che possiede un patrimonio naturale a volte aspro e selvaggio composto di un’infinità di luoghi d’eccezionale interesse paesaggistico – ambientale di straordinaria bellezza.
Flora, fauna, mare, monti, fiumi danno un quadro pressoché completo al territorio. Le alte montagne, 1503 metri il monte Castelli, 1120 metri la Sella del Contrasto e, nelle vicinanze, 1847 metri il monte Soro, diventano ancora più suggestive sotto la coltre della candida neve.

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I ripidi pendii, fino a valle, sono rivestiti dai boschi nebrodensi fitti e rigogliosi. Querce, lecci, faggi, olmi, frassini, cerri, castagni, e il raro Abies nebrodensis

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 formano una ricca flora che ospita conigli, volpi, donnole, istrici, lepri, rettili, anfibi, uccelli, invertebrati e regalando abbondanti funghi mangerecci raccolti durante le piacevoli escursioni.
Nel laghetto “Urio Quattrocchi”, ai piedi del monte Castelli, la Natura ancora incontaminata mostra un’atmosfera primitiva, pacifica, silenziosa. Là si sente palpitare la vita tra le diverse piante acquatiche, è numerosa la fauna selvatica ed è probabile incontrare la graziosa tartaruga palustre. Sui Nebrodi è tornato a volare il grifone introdotto dalla Spagna.

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Inoltre nella ricca vegetazione del laghetto “Urio Quattrocchi” spuntano tantissime varietà di funghi che io preferisco fotografare e non mangiare.

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Il boschetto “La Neviera”, sulla strada per Castel di Lucio, incoraggia a piacevoli passeggiate a piedi lungo i sentieri e a soste con amici per i picnic.
La villa comunale “Giuseppe Garibaldi”, una macchia verde nel centro del paese, ospita numerose ed importanti essenze vegetali provenienti da diverse parti del mondo.

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Sostare dentro la villa è trascorrere momenti di osservazione, di distensione, di piacevole conversazione. La visita del paese deve necessariamente cominciare dal castello, primo fulcro dell’insediamento urbano da dove le case, costruite con la locale pietra ocra – rosata- dorata, addossate l’una all’altra, danno una pittorica uniformità cromatica.
Il centro storico è formato da un dedalo di viuzze “vanedde” che si intersecano interrotte di tanto in tanto da piccoli slarghi. Molte sono le chiese, grandi e piccole, anche rurali, a testimonianza dell’intensa religiosità popolare. Sono proprio queste che individuano i quartieri cittadini. Sono le chiese di: San Nicola, San Pietro, Santa Caterina, San Biagio, Santa Rosa, Santa Maria, SS. Rosario, San Giuseppe, San Vincenzo, San Cosimo e Damiano, Madonna del Carmelo, San Francesco, Madonna dei Miracoli, Sant’Antonio, l’Annunziata, Madre Tagliavia, Matri Rivinusa. Sulla colonna stile corinzio del portale della Chiesa Madre è scolpita l’aquila sveva, dalle ali ampiamente distese nell’impeto gagliardo di volare, stemma di Mistretta e simbolo di potenza e di vittoria.

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 All’interno della chiesa la statua marmorea della Madonna dei Miracoli ricorda la scuola gaginiana.

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La Chiesa di San Sebastiano, patrono della città, custodisce il prezioso fercolo ligneo barocco cupuliforme con la statua del Santo realizzata dall’artista amastratino Noè Marullo nel 1906.

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Alla Chiesa di San Giovanni si accede mediante due scalinate laterali, curvate che la raccordano alla piazza dei Vespri e conferiscono all’insieme un notevole aspetto scenografico arricchito dai leoni di pietra posti lateralmente all’ingresso della porta principale.
I palazzi signorili mostrano le decorazioni a rilievo in pietra intagliata da maestranze locali.

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Le figure allegoriche e le divertenti e grottesche maschere hanno la funzione magica di allontanare o annullare, con il linguaggio figurativo, le influenze malefiche dai loro padroni.

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Le stesse propiziano abilmente il benessere, la bellezza  per la vita delle personalità che abitavano realmente nel palazzo.
Altre maschere manifestano atteggiamenti di gioia, di collera, di meraviglia, di stupore, di abbondanza.

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Rappresentano, inoltre, l’allegoria della cultura che era un privilegio della classe nobile e della nuova aristocrazia e, riproposte in bassorilievo sul portale della Chiesa Madre e della Chiesa di Maria SS.ma del Rosario, sono simbolo di corruzione e di frivolezza.

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Caratteristici sono anche tutti i lavori in ferro battuto delle ringhiere dei balconi. L’itinerario deve continuare con la visita al Museo delle Tradizioni Silvo – Pastorali, al Museo della Fauna e dello Scòpennino, al Museo civico, alla Biblioteca comunale, questi ultimi ospitati presso il palazzo della cultura Mastrogiovanni –Tasca,  e al Cimitero Monumentale nelle cui cappelle gentilizie si legge l’estro artistico dell’architetto Giovan Battista Basile. Adiacente al cimitero è la chiesa della Madonna della Luce. Il suo simulacro è accompagnato, durante la festa, da due giganti “ i Gesanti”, Cronos e Mitia, figure di guerrieri ritenuti i fondatori della città.

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Altri scorci visitabili sono rappresentati da archi, da scale esterne, da anditi, da ballatoi, da balaustre. Luoghi d’incontro e di vita sociale sono: la Piazza Unità d’Italia e le sedi delle Società di mutuo soccorso dove i mistrettesi si raccolgono in gruppi, si scambiano le opinioni, gli auguri, i saluti!
A Mistretta anche il clima è gradevole. Ogni stagione dell’anno riserva magnifiche sorprese e mostra bellissimi paesaggi naturali.
In primavera c’è il risveglio della Natura e le piante perenni escono dal lungo letargo invernale per riprendere il nuovo ciclo vegetativo.
E’ particolarmente affascinante per l’esplosione di colori e di fiori, ma ha il torto di essere breve e non dà la possibilità di gioire dell’incanto della Natura che sboccia a nuova vita. La nebbia, presente molto spesso, offusca il paesaggio. L’estate mite della montagna favorisce sì lo sbocciare dei fiori, i cui colori si mescolano bene come nella tavolozza del pittore, fa respirare un’aria fresca, ossigenata e salubre, ma è poco durevole.
In autunno comincia il declino perchè alcune piante annuali hanno completato il loro ciclo riproduttivo. Arriva quasi all’improvviso, regala le tonalità pastello del rosso e del giallo delle foglie, ma non ha il tempo di inserirsi che è quasi subito sostituito dai rigori invernali. In inverno è emozionante osservare le curiose ramificazioni degli alti alberi di pini, di cedri, di abeti ricoperte di neve, suggestivo fenomeno che si osserva più raramente viste le mutate condizioni climatiche.
Caro Stefano,venendo a visitare Mistretta hai trovato una meritevole accoglienza nel sorriso dei residenti, nella cordialità, nell’affabilità, nel fascino di un’ospitalità, in una cultura antica e in una natura stupenda e incontaminata.

 

 

May 19, 2013 - Senza categoria    Comments Off on RITA LA SANTA DELLE ROSE

RITA LA SANTA DELLE ROSE

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Margherita nacque a Roccaporena, a pochi chilometri di distanza da Cascia (PG), da Antonio Lotti e da Amata Ferri probabilmente nel mese di ottobre del 1381. I genitori, ormai avanti negli anni, volevano un figlio maschio, ma diedero la vita alla loro unica figlia Rita allevandola nell’educazione religiosa. Piissima, pur desiderando di consacrarsi a Dio fin dalla sua giovane età, tuttavia, di indole mite, Rita, per accontentare i suoi genitori, accettò di sposare, a soli sedici anni, Paolo di Ferdinando Mancini, un giovane di carattere violento e a cui Rita era sottomessa. Doveva chiedergli il permesso anche di recarsi in chiesa!
Pur sopportando umiliazioni di ogni genere, Rita cercò di aiutarlo a convertirsi e a condurre una vita onesta e laboriosa.
Nacquero i gemelli Giacomo Antonio e Paola Maria.
Rita guidava la sua famiglia conducendo una vita semplice colma di preghiera e di rettitudine.
Una notte qualcuno, spinto dall’odio per aver subìto qualche cattiva azione, uccise barbaramente Paolo.
Rita, coerente con le parole del Vangelo, perdonò l’assassino del marito.
Le sue prove di perdono e di mitezza non riuscirono a far cambiare idea ai figli che covavano nei loro cuori sentimenti di odio e di vendetta.
Rita, piuttosto che saperli assassini, pregò Dio perché li prendesse con Sé.
Morirono entrambi in giovane età poco tempo dopo la morte del loro padre.
Rimasta sola e con il cuore straziato dal dolore, Rita si adoperò in opere di carità cercando di essere accolta nel monastero.
Per ben tre volte bussò alla porta del Monastero Agostiniano di Santa Maria Maddalena a Cascia.
Le agostiniane la respingevano perché era donna, ma vedova.
Solo nel 1417 vi fu accolta per intercessione dei suoi protettori San Giovanni Battista, San Nicola da Tolentino e Sant’Agostino che, miracolosamente, la introdussero nel monastero dove visse per quaranta anni servendo Dio ed il prossimo con una generosità allegra e attenta agli eventi del suo ambiente e della Chiesa di quel tempo.
La Madre superiora mise alla prova la sua ferrea volontà affidandole il compito di annaffiare ogni giorno un cespuglio di rose ormai appassito.
Tutti i giorni l’ubbidiente Rita annaffiava la pianta con amore.
La pianta rifiorì dando bellissime rose.
Ancora oggi si può visitare a Cascia il famoso roseto di Santa Rita che è coltivato e rinnovato.
Devotissima alla Passione di Cristo, un Venerdì Santo, mentre pregava davanti al Cristo in croce, una spina si staccò dalla corona del Salvatore e si conficcò sulla sua fronte. Rita sopportò con grande forza il dolore della ferita sulla fronte per quindici anni, fino al termine della sua vita terrena.
Morì il sabato del 22 maggio del 1457. La campana suonava da sola.
Fu venerata come Santa.

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Dal 18 maggio del 1947 le ossa di Santa Rita da Cascia, che non hanno ricevuto sepoltura, riposano nel Santuario dentro un sarcofago.
Molti sono i prodigi che sono stati attribuiti a Santa Rita.
Il prodigio delle Rose e dei fichi in inverno è stato raccontato da diverse attendibili testimonianze raccolte nel processo per la sua beatificazione nel 1626.
Nel più aspro rigore dell’inverno, essendo ogni cosa ricoperta di neve, una buona donna, cugina di Rita, va a visitarla.
Nel partire, le chiese se da casa sua voleva cosa alcuna.
Rispose Rita che avrebbe desiderato una rosa e due fichi dell’orto della casa paterna.
Sorrise, la buona donna, credendo che ella delirasse per la violenza del male e se ne andò.
Giunta a casa sua ed entrata ad altro fine nell’orto, vide, su le spine spoglie di ogni foglia e cariche di neve, una bellissima rosa e, sulla pianta, due fichi ben maturi.
Meravigliata per la contrarietà della stagione e per la qualità di quel freddissimo clima, veduti il fiore e i frutti miracolosi, li colse e li portò a Rita
“.
L’orto di Santa Rita, dove la cugina raccolse la rosa e i fichi sotto la neve, si trova a Roccaporena.
La rosa è il simbolo ritiano per eccellenza. Rita, come la rosa, ha saputo fiorire nonostante la sua vita sia stata carica di molte spine.

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I due fichi, probabilmente rappresentano i suoi figli.
Caratteristica è la tradizionale benedizione delle rose, che avviene ogni anno, dopo la Messa Pontificale del 22 maggio, sul sagrato della Basilica e in tutte le altre chiese.
Il 22 maggio del 2000, il giorno riservato alla venerazione di  Santa Rita, è morta un’indimenticabile persona a me molto cara: Il prof Carmelo De Caro, mio marito.

  Il nome “Rosa” deriva dal sancrito “vrad o vrod”, che significa “flessibile”, oppure dal “rhood o rhuud”, che significa “rosso”, oppure dalla lingua originaria iranica “vareda” che significa semplicemente “fiore”, cioè, appunto, la Rosa, “il fiore” per eccellenza.
Appartenente alla famiglia delle Rosaceae e comprendente circa 150 specie e numerose varietà con infiniti ibridi, la rosa si pensa che sia originaria dell’Asia Minore.
Il più regale dei fiori spuntò come una semplice specie selvatica a cinque petali.
Lunghi anni di coltivazione e di ibridazione l’hanno trasformata nel sontuoso ed elegante fiore di oggi.
Le “Georgiche” di Nicandro dicono che la Rosa è originaria esattamente del monte Bermios, nel Caucaso orientale, dove le famiglie, in primavera ed in autunno, si recavano alla ricerca delle sue talee. Nel V sec.
Erodoto parlò già della rosa a cento petali come di un fiore comune e riferì come fosse coltivata con successo in Macedonia nei giardini di Mida, il mitico re che trasformava in oro tutto ciò che toccava.
Raccontò che presto Mida lasciò la città di suo padre e si stabilì in Tracia, poi nell’Edonia e nell’Emazia, sempre con le sue rose sotto il braccio, fino a fissare la propria dimora e soprattutto a creare i suoi prestigiosi giardini ai piedi del monte Bermios.
Ancora oggi nel Kurdistan la rosa cresce spontanea.
Quindi è stata introdotta in Grecia, in Mesopotamia, nella Siria, nella Palestina.
Intorno al 1100 furono i Crociati, al ritorno dalle guerre, a portare in Francia ed in Inghilterra le rose asiatiche e quelle di Damasco.
Dopo i Crociati, dall’Europa le rose viaggiarono verso il Nuovo Mondo con i colonizzatori i quali scoprirono che già gli Indiani d’America amavano piantare la rosa selvatica.
I greci attribuirono l’origine della rosa all’isola di Citera, chiamata anche Cerigo, al largo del Peloponneso e mitica patria di Afrodite.
Una leggenda racconta che Chloris, la dea greca dei fiori, durante una sua passeggiata ha rinvenuto nel bosco il corpo senza vita di una ninfa, uccisa dalle punture delle api, contenuto nel tronco di un albero. Allora trasportò la ninfa sul monte Olimpo.
Chiese aiuto ad Afrodite, la dea della bellezza, e a Dionisio, il dio che insegnò agli uomini la coltivazione della vite, affinché le donassero l’immortalità.
Afrodite le donò la bellezza, Dioniso le aggiunse il nettare per donarle un dolce profumo e, infine, le tre Grazie le diedero fascino, gioia e luminosità.
Chloris portò la ninfa anche da Apollo, il dio del sole, affinché con i suoi raggi potesse riscaldarla e permetterle di fiorire.
Zephir, il dio del vento dell’est, spazzò via le nuvole.
Rinata, la ninfa divenne la Rosa, la regina dei fiori.
Fu la poetessa greca Saffo, nel IV secolo a.C., a definire la Rosa la  “regina dei fiori,- regina, grazia delle piante,- orgoglio dei pergolati,- rosso dei prati, occhio dei fiori,- la sua dolcezza schiude l’alito d’amore,- fiore favorito di Citera”.
Anacreonte rispose: “ La rosa è l’onore e la bellezza dei fiori – la rosa è la cura e l’amore della primavera – la rosa è il piacere delle potenze celesti .- Il figlio della bella Venere, prediletto della Citera, –  avvolgeva il suo capo di ghirlande di rose, –  quando andava a danzare nel giardino delle Grazie”.
Dall’inizio della storia la rosa è sempre stata  il fiore di Afrodite, “con serti di rose e mirto si cingevano le sue statue” e, secondo le antiche fonti, era di colore bianco.

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Divenne di colore rosso per intervento divino.
Sono dell’antica Grecia dei miti le leggende che narrano perché le rose, dapprima tutte candide, successivamente si colorarono.
Venere si era follemente innamorata di Adone.
Marte, l’amante ufficiale, poiché suo marito era Vulcano, furioso e ingelosito, si trasformò in un cinghiale per uccidere il bellissimo Adone.
Il suo sangue, per volere di Venere, colorò le pallide rose e il suo corpo si trasformò in un fiore di anemone.
I greci credettero che la rosa fosse nata dal sangue fluito dalla ferita di Venere la quale, bella sopra ogni altra divinità dell’Olimpo, mentre correva incontro al suo innamorato Adone, mettendo un piede su un cespuglio, sarebbe stata graffiata dalle spine di un roseto spoglio e scolorito. Subito le rose bianche, mescolando la linfa terrena al sangue divino, per la vergogna di aver causato molto dolore alla dea, arrossirono e rimasero rosse per sempre.
Un’altra leggenda racconta che durante un convivio dell’Olimpo, Cupido, il dio dell’amore, trascinando una schiera di danzatori, ha lasciato cadere alcune gocce di nettare sui mazzi di rose bianche che adornavano le tavole imbandite.
Le rose, allora, si sarebbero tinte del colore dell’aurora.
Un altro antico mito racconta che quando Venere uscì dalle acque nella sua conchiglia Gea, la Terra, si ingelosì e decise di creare qualche cosa di altrettanto  bella: la rosa, appunto, perfetta nella forma e finemente profumata.

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Anche Anacreonte racconta che la rosa è la stessa Afrodite che emerge dalle onde del mare Egeo gocciolante d’acqua. Una goccia, fissata sulla pelle nuda della Dea, cadendo a terra, fece spuntare la prima rosa.
Non si esaurisce mai il discorso sulla rosa.
L’isola di Rodi era detta “l’isola delle Rose”; essendo la terra natale di Minerva.
La rosa era il fiore sacro anche alla dea della saggezza.
Nelle feste di Dioniso gli antichi greci erano soliti cingersi con corone di rose poiché credevano che avessero la virtù di calmare i fumi dell’alcool. Il governo dell’isola di Rodi coniò monete con impresso il simbolo della rosa.
La più antica testimonianza storica sull’origine della rosa risale al re di Accad, Sargon I, che si pensa sia stato il primo a promuovere la coltivazione delle rose nel 2300 a.C.
Un’iscrizione attesta che, tornando da una spedizione, “portò ad Ur viti, fichi e alberi di rose“.
Già il pensatore cinese Confucio, che viveva in mezzo alle rose, per esse compose un gran numero di poesie.
Fra i 18.000 volumi della biblioteca dell’imperatore della Cina, 1800 sono trattati di floricoltura e di essi 600 riguardano la coltivazione delle rose nonostante che, allora, erano conosciute solo due qualità: la Rosa bianca e la Rosa giallo-paglierina.
La rosa è nata, in realtà, oltre quaranta milioni di anni fa, come risulta dai reperti fossili di questo fiore ritrovati nel Colorado e nell´Oregon.
Dal 1790 al 1824 sono state introdotte dall’Oriente in Europa molte varietà spontanee con portamento cespuglioso, con foglie e con rami rossicci allo stato giovanile, con fioritura abbondante dalla primavera all’autunno, costituite da rose singole come fiori da recidere e da rose a mazzetti che formavano variopinte macchie di colore dal profumo intenso.
Oggi le varietà di rosa sono tantissime.
La rosa è il fiore più  cantato dai poeti, menzionato dagli antichi scrittori e disegnato dagli artisti.
E’ stata descritta nella mitologia, nella letteratura, nella poesia, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella storia, nella Bibbia.
Omero racconta che Aurora, la dea del mattino, con “dita di rosa” dipinge di colore il mondo ad ogni alba.
Saffo, Catullo, Anacreonte, Virgilio, Ovidio, Erodoto, Plinio, Ippocrate sono stati incantati dal suo fascino.
Dante paragonava l’amore paradisiaco al centro di una rosa.
In tempi più recenti Lorenzo il Magnifico, Shakespeare, D’Annunzio, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco non hanno saputo resistere alla tentazione di usarla nelle loro opere.
La rosa è sempre stata un elemento indispensabile anche nelle cerimonie religiose e laiche ed è passata indenne dai pagani ai cristiani sempre con lo stesso significato di “perfezione”.
La rosa è la regina dei fiori, il roseto il re del giardino.
Da sempre considerata simbolo di riservatezza, di eleganza, di bellezza, di fragilità e, soprattutto dell’amore, è stata diffusamente coltivata già nell’antichità sia come pianta ornamentale sia per le proprietà officinali ed aromatiche.
Il re di Babilonia Nabucodonosor coltivava le rose per adornare il suo palazzo e per estrarre dai petali l’olio profumato.
Gli imperatori el Kashmir coltivavano dei meravigliosi roseti poiché enormi quantità di petali erano gettate nel fiume per accogliere il loro ritorno a casa.
Ammirare la soavità e la bellezza della rosa, attingere alle sue innumerevoli proprietà è merito di Bacco, il dio del vino.
Bacco, invaghitosi di una ninfa, tentò di possederla.
Per sfuggire ai suoi desideri, correndo precipitosamente, la ninfa inciampò in un cespuglio che Bacco trasformò in un roseto dal quale spuntarono splendidi fiori di un delicato colore rosato, il colore delle guance della sua ninfa.
Ebrei ed Egiziani conobbero la rosa relativamente tardi, in Egitto, però, divenne una vera passione al tempo di Cleopatra.
Cleopatra portava sempre al collo un cuscinetto ripieno di profumatissimi petali di rosa.
Faceva cospargere di petali il pavimento, i mobili e i letti.
Invitava Cesare e Antonio a fare il bagno in uno strato di petali di rosa alto mezzo metro. Petali di rosa erano sparsi lungo il percorso dei vincitori.
Poiché gli antichi romani erano grandi consumatori di rose e farle venire dall’Egitto, dove esistevano enormi coltivazioni, costava una fortuna, furono creati vivai nell’Italia meridionale.
Nella Roma imperiale le rose divennero anche sinonimo di vizi e di eccessi.
I nobili patrizi e gli imperatori costringevano i plebei ad una super-produzione di rose a scapito della coltivazione di generi alimentari necessari alla loro esistenza.
Amavano, infatti, colmare le piscine e le fontane di acqua di rose e sedere su morbidi tappeti di petali di rosa.
Seneca racconta che Nerone, appassionato di rose, per addobbare una delle sue feste, ne ordinò una tale quantità, pagata quattro milioni di sesterzi, spargendo i petali sopra i suoi invitati.
Marco Aurelio Antonino, detto Eliogabalo, in onore del dio Sole, durante una cena fece scendere da un finto tetto dei suoi saloni un’abbondante pioggia di petali di rosa che ha sommerso i propri convitati tanto che alcuni di loro perirono soffocati.
Egli si bagnava solo nel vino di rose.
Verre, un politico romano del I secolo a.C., propretore della Sicilia dal 73 al 71 a.C., sulla lettiga giaceva disteso su un materasso di rose e con esse si cingeva la testa e il collo.
Marco Valerio Marziale, il più importante epigrammista in lingua latina, diceva “Egiziani inviateci il grano, noi vi manderemo rose“.
Ancora nell’antica Roma, testimoniate fin dal I secolo d.C., tra l’11 maggio e il 15 luglio si tenevano le Rosalie, la festa delle Rose, che rientravano nel culto dei morti.
Durante questa festa le tombe erano guarnite di rose e di viole.
In Cina l’essenza di rosa può essere usata solo dai membri della famiglia imperiale e dagli alti dignitari.
Un sacchetto pieno di foglie di rosa era considerato un talismano contro i geni del male, contro le malattie e i brutti sogni.
Per fare sogni d’oro si consigliava di dormire su un cuscino imbottito di petali di rose, di aroma di limone, di menta e di chiodi di garofano.
In Thailandia è credenza popolare che il genio del bene è nato in un boschetto di rose, mentre il genio del male in un boschetto di cipressi.
La rosa è simbolo di “rigenerazione” perciò veniva portata sulle tombe degli avi offerta ai Mani dei defunti.
Nella religione romana i Mani erano le anime benevole dei defunti e le divinità dell’oltretomba.
Veramente, in principio, certi lussi furono un poco limitati, nessuna esibizione di corone, nessun letto di rose e persino qualche critica all’abitudine di ornare di fiori le tombe, perché, come osservò Minuzio Felice “se i morti sono in pace, non sanno che cosa farsene e, se sono dannati, non possono gioirne“.
Ecate, dea degli inferi, era talvolta rappresentata con corone di rose a cinque petali: il cinque indica la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. Questo uso si è conservato in alcune regioni d’Italia dove la domenica di Pentecoste è detta “Pasqua delle Rose”.
Nell’antica festa di Pentecoste dei primi cristiani la rosa rappresentava la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e, durante la ricorrenza, petali di rose erano fatti cadere sui fedeli dal lucernaio della cupola dell’antico Pantheon, diventato Santa Maria dei Martiri, a simboleggiare le lingue di fuoco della sapienza.
Sempre petali di rose bianche erano fatti cadere il 5 agosto sui fedeli radunati in Santa Maria Maggiore a Roma per ricordare la nevicata miracolosa che indicò il luogo dove, per volere della Madonna, si sarebbe dovuta costruire la chiesa.
Anche oggi dai balconi dei palazzi si gettano ceste di petali di rosa sui simulacri dei Santi.
Nei tempi lontani, nella quarta domenica di quaresima, a San Pietro si svolgeva una cerimonia risalente al 1096.
In quell’anno, alla fine del Concilio di Tours, papa Urbano II° benedisse per la prima volta una rosa donandola al principe che si era maggiormente distinto nei confronti della chiesa.
Si trattava di un ramo che portava molte rose d’oro e dove erano incastonate pietre preziose. Il ramo rappresentava il Cristo.
Questa ricorrenza, denominata Domenica a Latere o Domenica delle Rose, era considerata un passaggio verso l’ultimo periodo della quaresima. Metà della penitenza era ormai superata, c’era una pausa di riposo che, simbolicamente, corrispondeva  alla partenza degli Ebrei verso Gerusalemme.
Dopo il 1759 questo prezioso “omaggio” fu riservato alle regine.
Le ultime rose d’oro furono donate nel 1923 a Vittoria Eugenia di Spagna, nel 1925 ad Elisabetta del Belgio, nel 1937 ad Elena di Savoia, regina d’Italia.
Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, una grande appassionata di rose fu Giuseppina  Beauharnais, prima moglie di Napoleone Bonaparte, che fece arrivare dall’Inghilterra e da altri continenti rose dalle diverse varietà da coltivare nel giardino della Malmaison.
Nemmeno le guerre napoleoniche, grazie a speciali permessi, la fermarono.
I suoi giardinieri erano abilissimi nel creare nuovi ibridi.
In questo modo incrementò l’esiguo numero delle specie allora coltivate.
Il suo fiore preferito era la Rosa spinosissima.
Ai nostri giorni splendide rose sono state donate a personaggi illustri: a Rita Levi Montalcini, a Lady Diana, ad Ornella Muti, a Sofia Loren, a Marella Agnelli, a Luchino Visconti, che collezionava rose color pastello.
La rosa è il fiore più disegnato dagli artisti.
Nel quadro di Botticelli, “la nascita di Venere“, la dea sorge dalle acque accompagnata da una pioggia di rose.
Esse celebrano colei che è la manifestazione della bellezza divina, ma anche il sacro sposalizio tra cielo e terra.
Marcel Uzè scrisse che un dio, passando un giorno dinanzi ad un umile cespuglio che sembrava attendere un poco di vita, gridò: “Che la rosa sia”.
Immediatamente nacque dal cespuglio un fiore luminoso e bianco, la prima di tutte le rose.
E’ difficile trovare in letteratura un altro fiore più famoso della rosa celebrata come il simbolo della grazia femminile.
Rosa è la prima parola con la quale inizia il celebre “contrasto” di Cielo D’Alcamo:

Rosa fresca aulentis[s]ima  ch’apari inver’ la state,

le donne ti disiano,  pulzell’ e maritate:

tragemi d’este focora, se t’este a bolontate;

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di  voi, madonna mia.”

E’ messo in risalto il contrasto amoroso fra il gabelliere innamorato e la donna che lo rifiuta.

Nell’ode “All’amica risanata”, dedicata ad Antonietta Fagnani Arese guarita da una brutta malattia che l’aveva colpita nell’inverno del 1801-1802 e da cui uscì sul cominciare della primavera:

“[… ] Fiorir, sul caro viso

Veggo la rosa, tornano

I grandi occhi al sorriso

Insidiando; e vegliano

Per te in novelli pianti

Trepide madri, e sospettose amanti [… ] “

Ugo Foscolo decanta il rifiorire della sua primitiva bellezza che la rende oggetto di trepida ammirazione da parte di tutti.

Ne “Il sabato del villaggio”:

“La donzelletta vien dalla campagna,

in sul calar del sole,

col suo fascio dell’erba; e reca in mano

un mazzolin di rose e di viole,

onde, siccome suole,

ornare ella si appresta

dimani, al dì di festa, il petto e il crine  [… ] “

Giacomo Leopardi fa intuire che l’unica forma di felicità consiste nello sperare, non nel vivere.

Anch’egli s’immerge nelle gioie di questo piccolo mondo, le gioie del sabato che preludono la domenica.
Come scrive il Vossler “E’ gioia di un giorno specchiata in eterno dolore”.

Nel racconto di Antoine di Saint-Exupéry”Il piccolo principe“, il principe viveva sul suo minuscolo pianeta insieme ad una rosa che egli pensava essere unica. Quale non fu la sua infelicità quando, scendendo sul pianeta terra, s’imbatté in un giardino fiorito di rose.
Una volpe gli spiegò il mistero. Il piccolo principe capisce: gli uomini “coltivano cinque mila rose in un unico e medesimo giardino, e non vi trovano ciò che cercano.
E pensare che quel che cercano lo possono trovare in un’unica rosa. Ma gli occhi sono ciechi. Con il cuore bisogna cercare
“.
E. Dean Hole affermò: “Chi vuole avere rose belle nel giardino, deve avere rose belle nel cuore”.
Questi discorsi non sono per nulla esaurienti e riferimenti alla rosa ne esistono in abbondanza.
Nelle 74 fitte pagine del “Deutsches Worterbusch” i fratelli Grimm, alla voce “Rosa“, si esprimono con derivati ed espressioni ad essa attinenti: “roseo, rosetta, balsamo di rosa, sangue di rosa, colori rosa, labbra rosate, velo di rose, gote rosate, tempo delle rose”.
La Rosa c’è anche nella Bibbia.
In Siracide, come “attributi della Sapienza” si legge: “[…] come le palme in Engaddi, come le piante di rose in Gerico […]” (Siracide 24,1-4).
Nel passo “il sapiente letterato”, dello stesso Siracide, che esorta a lodare Dio, è scritto: “[…] Ascoltatemi figli santi, e crescete come una pianta di rose su un torrente […]” (Sir. 39,25).
Con l’inizio del cristianesimo la rosa rossa è coltivata perché le sue spine ricordano la passione di Cristo.
Il culto, un tempo tributato a Venere, ora è giustamente riservato alla Madonna il cui cuore è raffigurato trafitto da spine di rosa.
Secondo un’antica leggenda la rosa era priva di spine e la Vergine è detta “Rosa senza spine” perché non è stata sfiorata dal peccato originale. San Domenico di Guzman sogna che le preghiere dei mortali salgono alla Madonna sotto forma di rose e ne discendono piene di grazie.
È la nascita del Rosario: la preghiera più popolare adatta alla recita singola e collettiva che si trasforma in un potente mezzo d’intercessione.
San Bernardo, in uno dei suoi sermoni (vol. III p.1020), dice: “Maria è stata una Rosa, bianca per la sua verginità, vermiglia per la carità“.
La rosa è presente nella simbologia cattolica. La Rosa mistica è la Vergine; la Rosa alba raffigura i misteri gaudiosi del rosario che simbolicamente rappresentano ”la nascita”, la Rosa rubra i misteri dolorosi, “la morte”, la Rosa lutea i misteri gloriosi, ”la resurrezione”.
Il temine di “Rosario” si lega alla visione delle rose.
Se le spine sono il simbolo del peccato, la rosa è, appunto il simbolo, della redenzione.
Così canta il poeta provenzale Pierre de Corbiac:

Roza ses espina

Sobre totes flors olens

rosa senza spine,

la più odorosa dei fiori”.

Gli angeli e le anime benedette del Paradiso sono spesso dipinti con corone di rose che circondano la testa.
Cespi di rose incoronano il capo delle Sante.
Santa Rosa da Lima cambia il proprio nome e, da Isabella, diventa Rosa ed è la “Rosa del Nuovo Mondo”.
Nei secoli XVIII e XIX sul cassettone delle case di un certo pregio era in bella mostra una statuetta di cera del Bambino Gesù incorniciata da un serto di roselline doppie d’organza di colore rosa della varietà Pompon de Bourgogne.
Simbolo di riservatezza, una rosa stilizzata a cinque petali fu spesso utilizzata per ornare i confessionali con la scritta “sub rosa” posta sotto il sigillo del silenzio e della discrezione per garantire il segreto della confessione. L’espressione “sub rosa” significa “in confidenza”.
La rosa è entrata anche nella storia.
In Inghilterra una rosa rossa divenne il simbolo del casato Lancaster.

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Mentre una rosa bianca divenne il simbolo del casato York.
Fra questi due casati fu combattuta la guerra dei trent’anni, (1455-1485), nota come “la guerra delle Due Rose”.Come simbolo, è tra i più usati negli stemmi sia di casate sia di città.
In Svizzera le persone assolte avevano il diritto di portare la “Rosa dell’innocenza“.
Il teologo tedesco Lutero, il padre spirituale della Riforma protestante, aveva una rosa nel suo sigillo.
La rosa bianca era il movimento tedesco di opposizione al nazismo. La rosa bianca è l’ordine finlandese creato nel 1919 per ricompensare chi reca servizi utili al Paese.
La rosa è stata da sempre un fiore molto amato.
Gli affreschi e i tessuti scoperti nelle tombe egiziane, databili intorno al III – IV secolo a.C. e nelle case di Pompei (79 a.C.) documentano la presenza della rosa coltivata.
Virgilio attesta l’esistenza a Paestum di roseti che fiorivano due volte l’anno.
Il Medioevo fu un’epoca buia per la rosa.
Carlo Magno emise inutili decreti per valorizzarla tanto che ne impose la coltivazione anche nelle ville private.
Nella stessa epoca i monaci benedettini si affezionarono a questo fiore e lo coltivarono.
Roland A. Brawne scrisse: “Io non so se le brave persone tendono a coltivare rose, o se coltivare le rose rende brave persone”.
Con la caduta dell’impero romano il fascino della rosa subì un forte arresto.
Alberto Magno di Bollstädt (1200-1280) ), vescovo domenicano di origini tedesche, conosciuto come Sant’Alberto il Grande, il santo protettore degli scienziati, consigliava la sua coltivazione “sicut ruta, salvia et basilicon“.
I suoi precisi riferimenti testimoniano  fin da allora nell’Europa continentale la presenza di quattro specie di rosa: Rosa canina, Rosa alba, Rosa rubiginosa, Rosa arvensis.

Pare che si debba risalire a San Medardo per ritrovare l’origine del simbolo della corona di rose come ricompensa della virtù.
Si narra che Medardo, vescovo di Vermandois, nato a Salency e morto a Noyon nel 545, uomo molto solidale verso i poveri, abbia stabilito un premio di 25 franchi da regalare ogni anno alla più virtuosa fanciulla e, contemporaneamente, le si cingeva la fronte con un serto di rose.
Il vocabolo rosa è ancora molto usato nel discorso figurativo: il mese delle rose è il mese di maggio, la stagione delle rose è la primavera, un bocciolo di rosa è una giovane bella e fiorente, essere in un letto di rose è trovarsi in una situazione favorevole, essere fresco come una rosa è mostrare un aspetto rilassato e indifferente, non c’è rosa senza spine indica che anche la gioia può essere contrastata da qualche dispiacere, all’acqua di rose sono le azioni superficiali e poco impegnative, vedere tutto rosa è essere ottimisti.
La rosa è un tema sempre ricorrente.
La mitologia, la storia, la poesia cedono il posto alla scienza.
La Rosa è un alberello alto da 20 centimetri a diversi metri, dall’aspetto cespuglioso, sarmentoso, rampicante e anche strisciante. Le foglie, alterne, picciolate, imparipennate, caduche, composte da 5-9 foglioline, ovali, sono dentate e a margine seghettato. La pagina superiore è verde, mentre quella inferiore è pallida e glabra. I rami sono numerosi, eretti nella parte inferiore, ricurvi nella porzione superiore.
Sul tronco e sui rami numerose foglie, trasformate in spine, difendono la pianta dal morso degli erbivori.
I fiori possono essere grandi o piccoli, a mazzetti, solitari, semplici o doppi e fioriscono tra maggio e giugno e, quando fioriscono le rose, cantano gli usignoli che, nella poesia persiana, dichiarano il loro amore per la regina dei fiori.
Firdousi, nel XI sec., canta: “I giardini arrossiscono per lo splendore delle rose. Le colline sono coperte di tulipani e giacinti; nei boschetti piange e si lamenta l’usignolo; la rosa risponde sospirando al suo canto”.
I frutti sono piccoli acheni bruno-giallastri racchiusi nel falso frutto ovale di colore rosso vivo, lucido, carnoso chiamato cinorrodo.
La moltiplicazione avviene per seme, ma Plinio descrive, con vivezza di particolari, la coltivazione della rosa tramite la talea, un metodo più facile e più rapido.
La rosa è una pianta colonizzatrice che vive anche sulla roccia.
Le piante sono solitamente coltivate in piena terra nei giardini e dentro le aiuole poste su un terreno argilloso fresco, fertile e ben drenato. Prediligono un’esposizione in pieno sole o in luoghi molto luminosi e sopportano bene temperature sia alte sia basse.
Passando dalla rosa selvatica a quella coltivata, le cure necessarie per una buona fioritura aumentano perché, appunto, si desidera produrre un fiore di colore, di dimensioni, di profumo diversi da quelli originari.
Il roseto, con le sue caratteristiche foglioline tondeggianti, alcune trasformate in spine, resta sempre una pianta rustica.
Greci, Romani e Persiani impiegavano diverse varietà di rosa a scopo terapeutico.
Il medico arabo Eissa Ibn Massa riconosce ai petali di rosa rossa una virtù al tempo stesso fortificante e rinfrescante che si rivela miracolosa nelle affezioni cerebrali.
Ishac Ibn Amram consiglia il decotto di petali di rosa per rafforzare lo stomaco ed il fegato.
Razès lo usa come febbrifugo. Nel 77 d.C.
Plinio citava ben 32 disturbi che potevano essere curati con preparati a base di rose.
La famosa acqua di rose fu inventata da Avicenna, celebre medico persiano vissuto tra il IX e il X secolo, che la considerava anche efficace contro la nausea, contro le infiammazioni degli occhi e delle orecchie.
La rosa, in farmacopea, è un eccellente tonificante ed astringente e anche oggi è riconosciuto il suo valore nella cura delle emorragie e dei tumori della pelle.
Nell’antichità l’olio di rose era usato sia per imbalsamare i morti, sia per lucidare il legno pregiato con cui erano costruiti molti idoli.
Per ottenerlo, si faceva bollire del giunco aromatico in olio d’oliva, si agitava bene e si versava sui petali di rosa opportunamente seccati.
Si lasciava in infusione un giorno ed una notte e si filtrava il tutto conservandolo in vasi prevalentemente unti di miele.
Dai petali opportunamente seccati si ricavava, inoltre, una polvere deodorante, chiamata “diapasma “, usata come talco dopo il bagno caldo e prima di quello freddo.
Plinio parla di un profumo ottenuto mescolando in olio d’oliva fiori di rosa, di zafferano, di cinabro e di giunco.
In realtà non era un profumo, ma un unguento profumato, infatti non si sapevano ancora distillare le essenze.
Oli, unguenti e profumi ricavati da questo fiore erano usati in tutto il mondo antico.
Infatti, Omero, nell’Iliade, canto XXIII, verso 186, parlò della rosa, anzi di olio di rose per i massaggi.
Afrodite usò olio di rose per preparare alla sepoltura il corpo di Ettore ucciso dal pelide Achille che minacciava di gettarlo in pasto ai cani, ma non avvenne perché

“[…] i cani li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite

di giorno e di notte, l’ungeva con olio di rose,

ambrosio, perché Achille non lo scorticasse tirandolo […]”

Le spade dei due contendenti recavano inciso sull’elsa il fiore di rosa.
Gli alchimisti persiani del XVI secolo producevano un’essenza superiore per distillazione. L’essenza è un prodotto costosissimo; per produrre 300 grammi d’olio servono circa 1000 Kg di petali. Per questo motivo oggi è largamente sintetizzata.
Circa il 96% dei profumi femminili e il 46% di quelli maschili contengono essenza di rosa.
La rosa, pur nella sua bellezza, è causa di fastidiose allergie.
Lusitanicus racconta di un sacerdote ”[…] tamquam mortuus, humi prostratus iacebat, proinde a medicis consulebatur, ut eo tempore, quo rosae vigebant, domi maneret, nec extra prodiret, ut tantum malum fugeret[…]”  “Lo sfortunato era costretto a non uscire di casa finché fiorivano le rose nei dintorni, sotto pena di rimanere a terra, come morto”. Già, fin dal tempo di Galeno (129-199), le rose godevano di questa fama negativa.
Come scrive Serafini, sofferenze vaghe e malesseri non ben precisabili colpivano molti individui fra quelli che si trovavano in presenza di fiori di rosa.
Fra i secoli XVII e XVIII s’incominciò a parlare di una strana forma di “raffreddore da rose”. Scrive Johannes Pierius Valerianus che fu il cardinale Oliviero Caraffa a sperimentare involontariamente la perfidia nascosta nelle rose. Egli era tanto sensibile da essere costretto ad ordinare alle guardie di servizio del suo palazzo di impedire l’ingresso a chiunque recasse con sé questi fiori.
Le rose, essendo entomofile, impollinate per mezzo degli insetti, liberano nell’aria il poco, ma nocivo polline responsabile delle fastidiose allergie.
La rosa è apprezzata anche nell’arte culinaria.
In cucina si faceva grande uso di insalate di rose,soprattutto come “intermezzo” fra una portata e l’altra quando si beveva un po’ troppo.
Gli Assiri, pare, furono i primi a scoprire le sue virtù.
In età romana si usavano i petali per fare “il piatto di rose con cervella, uova, vino e salsa di pesce“.
Marco Gavio Apicio, nato intorno al 25 a.C. e morto verso la fine del regno di Tiberio, famoso buongustaio romano, ha saputo creare saporite ricette utilizzando i petali di rosa come è scritto nel “De re coquinaria”, “L’arte culinaria”, lasciando ai posteri la ricetta del pudding di rosa.
La rosa canina ha avuto un ruolo importante nella fornitura di vitamina C ai bambini britannici durante la seconda guerra mondiale.
I suoi frutti, detti “arance del nord”, sono stati usati in sostituzione della fonte normale degli agrumi allora difficili da reperire.
Alla rosa erano attribuiti anche molti significati magici. Apuleio, nella favola dell’Asino D’oro, racconta che Lucio, stanco di essere condannato a restare nel corpo dell’animale,  invoca Iside che, per fargli riprendere le sembianze umane, gli consiglia di mangiare una corona di rose.
Nella favola “ La Bella e la Bestia”, Bella chiede “solo una rosa” al padre che parte per un lungo viaggio. Al suo ritorno Bella riceve una rosa magica, che non appassirà mai, cresciuta nel giardino della Bestia. Bella s’innamora della Bestia.
Nella favola “La bella addormentata nel bosco“, la protagonista è custodita nel suo sonno verginale da una tenace barriera di rose selvatiche in grado di conservarla intatta per cento anni fino all’incontro del vero amore. La ragazza si chiama Rosaspina.
Più spesso la rosa continua a mantenersi casta, anzi diviene simbolo di castità tanto che in Germania era proibito l’uso di corone di rose alle fanciulle che avevano perso la virtù, mentre le donne regolarmente maritate potevano portare corone, ma poste sul cappello.
Nel Medioevo solo le vergini potevano indossare ghirlande di rose.
Molto tempo fa, in diverse parti dell’Europa, le ragazze, la vigilia del giorno di San Giovanni, usavano gettare alla luce della luna petali di rosa.
Alla mezzanotte, recitando una particolare orazione, avrebbero visto apparire l’uomo che le avrebbe sposate.
In Persia una ragazza poteva far tornare l’innamorato perduto bollendo la sua camicia in acqua di rose e di spezie.
La rosa, come regina dei fiori, ha meritato un’intera gamma di significati diversi a seconda del colore e della forma.
Nel linguaggio dei fiori alla rosa si attribuisce un doppio significato: “delicatezza e piacere”, ma anche “sofferenza e dolore fisico”.
Il piacere è quello che si prova nel guardarla e nel sentire il profumo, il dolore è quando si tenta di coglierla.
Ogni colore di rosa evoca un particolare significato: la rosa bianca, legata alla Madonna, simboleggia il “silenzio e la segretezza”, ma anche il “candore, l’innocenza e la verginità”; indica “amore eterno e puro, libero dalla passione terrena, ma è anche simbolo di morte”.
La rosa variegata simboleggia “l’amore tradito”. La rosa tea la “gentilezza della donna amata”. La rosa rossa è simbolo di “passione, di pegno di un amore fedele, dell’amore che sopravvive alla morte” e, unita al mirto, è una vera e propria richiesta di “matrimonio”.
Se l’amata è una fanciulla, allora è meglio scegliere il colore rosa tenero simbolo di “serenità”. La rosa gialla simboleggia la “vergogna, l’infedeltà, la gelosia”.
Una leggenda narra che il profeta Maometto, essendo dubbioso sulla fedeltà della sua favorita Aisha, chiese all’Arcangelo Gabriele di aiutarlo a scoprire la verità.
L’Angelo gli disse di bagnare le rose e, se avessero cambiato colore, i suoi dubbi sarebbero stati fondati.
Di ritorno a casa, Maometto ricevette da Aisha alcune rose rosse.
Maometto le ordinò di lasciarle cadere nel fiume.
Diventarono gialle!

May 13, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LO SBARCO DEGLI ALLEATI A LICATA

LO SBARCO DEGLI ALLEATI A LICATA

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 A Licata, al Porto Turistico Marina di Cala del Sole,  l’approdo di Finzia, dal 10  al 12 maggio 2013 si è svolto il I° Forum turismo provinciale promosso dalla provincia Regionale di Agrigento. La manifestazione ha avuto lo scopo di concentrare in un ampio spazio espositivo l’offerta turistica del territorio provinciale al fine di favorire l’incontro degli operatori del settore e di presentare le proposte ai consumatori turisti.Ha ospitato la manifestazione per tutta la durata degli eventi, e in forma assolutamente gratuita, il dott. Luigi Geraci, titolare di Marina di Cala del Sole. Sul tavolo dei relatori si sono succedute personalità delle province di Agrigento, di Caltanisetta, della Regione Sicilia e alcuni operatori turistici i quali hanno saputo intrattenere piacevolmente il pubblico presente coniugando Storia e Turismo.Fra le tante attività della manifestazione, di grande rilievo sono stati: il convegno sullo sbarco degli alleati in Sicilia e la mostra fotografica sullo sbarco a Licata allestita dal Gruppo Archeologico D’Italia “Finziade”. Lo sbarco degli alleati avvenne alle prime luci dell’alba del 10 luglio del 1943. Dopo una dura e faticosa campagna i soldati americani, francesi, inglesi, australiani, neozelandesi, polacchi liberarono la Sicilia dal fascismo. L’operazione Husky (nome in codice dello sbarco) è stata una delle più imponenti operazioni anfibie di tutta la Seconda Guerra Mondiale con la presenza nel Mar Mediterraneo di oltre 2600 navi. Più di cinquecento mila soldati hanno combattuto in Sicilia per un tempo lungo oltre un mese. La Campagna di Sicilia, che iniziò con l’occupazione da parte degli americani di Licata, di Gela, di Scoglitti, e con l’occupazione da parte dei britannici e dei canadesi di Pachino, di Augusta e di Marzamemi, fu conclusa in 37 giorni avendo come tappa finale la città di Messina conquistata dagli americani il 17 agosto del 1943.Lo sbarco degli americani a Licata è raccontato animatamente da Totò Scinà, il caratteristico banditore di Licata, protagonista del racconto “Sintiti, Sintiti” tratto dal libro pubblicato postumo “Sintiti, Sintiti” di Carmelo De Caro. 

Al baluginante lume della lanterna schermata, Totò Scinà trovò il posto buono quasi subito e sedette sistemandosi al meglio sull’erba seccata dal sole. Dall’alto della collina, con le spalle contro la scabra superficie calcarea, spenta la lanterna e abituati gli occhi  all’oscurità, riuscì a intravedere nel paesaggio illune il mare un tantino più scuro dellaspiaggia sottostante. Ma, più che vederlo, il mare lo sentiva. L’uomo rimase soddisfatto del posto scelto che, come aveva previsto, gli consentiva di spaziare con lo sguardo su un vasto orizzonte. Guardò l’ora nel vecchio orologio da taschino un po’ ammaccato, regalo dell’animuzza buona del precedente podestà e vide che era quasi l’una di notte. Gli venne appetito e si ricordò che non mangiava dal mezzogiorno. Sciolse allora i nodi alle cocche della mappina che aveva con sé e ne cavò il pane, il formaggio, i fichi secchi e un quarto scarso di vino: voleva trattarsi bene quella notte! Se li dispose accanto e cominciò a mangiare con gusto. Ricontrollò poi l’efficienza della lanterna a petrolio, di quelle che si appendevano sotto i carretti e si dispose ad aspettare. Era l’una e un quarto del mattino e tempo ne aveva. Attutito solo un poco dalla distanza, il rumore aspro dell’onda rivoltata con violenza sul basso fondale, sordo e sempre diverso, lo guidava a riflettere sulle circostanze che l’avevano portato in quel posto e in quel momento, determinato com’era a passarvi la notte perché convinto di voler assistere allo sbarco. Per Scinà i segni, nei giorni precedenti, c’erano stati e numerosi anche. Quelli che praticavano l’intrallazzo, trafficanti di borsa nera che giravano come anime del purgatorio per paesi e campagne e tutto sapevano; lo andavano dicendo da tanto tempo che lo sbarco gli americani lo avrebbero fatto proprio su quelle spiagge. Qualcuno affermava con sicurezza che si sarebbe trattato di uno sbarco per finta, che quella voce l’avevano messa in giro le stesse autorità alleate per distogliere dal vero obiettivo.Sarebbe stata solo quella che molti chiamavano una manovra diversiva per distogliere l’attenzione dal luogo dello sbarco effettivo, la testa di ponte. Forse la Sardegna o la Francia. Intanto dalla radio clandestina continuavano a uscire esortazioni a non resistere, che se i militari avessero deposto le armi non sarebbero stati avviati ai campi di concentramento. E poi c’erano state le notizie della perdita di Pantelleria e di Lampedusa, “perché sennò -ragionava Scinà – tanto interesse per quelle  isolette”? In una così gran confusione Scinà si era fatta la sua idea. E ciò che lo convinse definitivamente confermando la sua opinione fu la confidenza, ascoltata per caso e senza volerlo, che don Matteo Lojacono, il padrone di mezza Licata, fece all’amico presidente del circolo dei cappelli, il professore Filì. Don Matteo Lojacono era l’unico proprietario della più prosperosa raffineria di zolfo di tutta la costa meridionale e, malgrado le feste da ballo che regolarmente organizzava nei saloni liberty del suo palazzo e alle quali partecipavano volentieri gerarchi fascisti e ufficiali italiani e tedeschi, era considerato da molti filoamericano. Qualcuno addirittura si spingeva fino ad affermare che, intoccabile per le amicizie influenti e altolocate che coltivava, il Lojacono fosse in realtà una spia degli americani con tanto di radio a onde corte nascosta in casa. Esagerazioni per Turi Scinà che comunque era convinto che don Matteo, da quel buon affarista che era, aveva fiutato il girare del vento e si preparava a passare sul carro del vincitore. Quella luminosa mattina di luglio di cinque giorni prima Lojacono e Filì, nella loro quotidiana passeggiata sul lato in ombra del corso, si erano fermati a parlare di fronte alla casa del fascio, proprio dietro il vespasiano. Tanto assorti nei loro discorsi a bassissima voce da non accorgersi che le orecchie di Scinà erano a pochi centimetri dalle loro bocche, ma perfettamente invisibili dal momento che si trovava dentro il vespasiano, dietro la sottile parete di lamiera, a fare il suo bisogno. E non poteva non ascoltare l’inconfondibile voce di don Matteo: “E’ stato deciso, professore, sarà per la fine di questa settimana, forse venerdì o forse sabato; sbarcheranno proprio qua, all’alba e faranno vedere al Duce quant’è inviolabile il suo bagnasciuga! Ma anche noi dobbiamo andar via perché presto inizieranno i bombardamenti a tappeto della linea di costa e degli obiettivi. Sarebbe proprio da ridere se dovessimo lasciarci le penne proprio ora! E non venite a dirmi che non vi avevo avvertito, caro Filì. Non useranno di sicuro il guanto di velluto quelli!” E così fu. Preceduti dal suono delle sirene, i grossi bombardieri arrivavano altissimi con quel rumore possente di motori, scaricavano bombe e spezzoni, seminavano morte e distruzione nel cercare di colpire il porto, le raffinerie, la stazione ferroviaria e si allontanavano indisturbati e apparentemente tranquilli e noncuranti a dispetto della spetezzante contraerea che faceva fiorire invano, nel metallo del cielo estivo, sbuffi di nuvolette grigie. « Se sbarcheranno -ragionò tra sè Turi Scinà- lo faranno di certo all’alba come aveva detto don Matteo, per avere tutta la giornata davanti. E non andranno latini nel porto, con tutte quelle mine in giro. E’ molto più ragionevole che scenderanno sulle spiagge a levante e a ponente per entrare poi in paese per via di terra». Ma quel Venerdì non accadde niente, nessuno parlò di sbarco mentre gli aerei, con esasperante puntualità, tornarono a bombardare mirando, in verità con poca precisione, al porto, alla stazione ferroviaria e ai generatori di corrente della locale società elettrica, la Forza e Luce. Quegli americani erano diventati i padroni del cielo, ormai, e bombardavano anche in pieno giorno. L’ultimo bombardamento l’avevano fatto poche ore prima di quel venerdì e molte bombe avevano colpito anche le case della gente. Un bombardamento così intenso e violento da far mettere i piedi in culo a quei pochi paesani che fino a quel momento avevano caparbiamente rifiutato di abbandonare casa e beni intrasportabili. Per Totò Scinà quelle ultime bombe avevano lasciato il chiaro messaggio, se ancora ce n’era bisogno, che lo sbarco era imminente. E fu allora che gli venne l’idea, apparsa subito realizzabile, di assistere alla scena dello sbarco da un posto sicuro. Di quella collina, dove andava a fare capperi d’estate e vavaluci d’inverno, conosceva tutti i viottoli. La scelse perché in faccia al mare ma abbastanza lontana dalle postazioni di difesa costiera e dal paese da non correre il rischio di essere colpito per errore. Appena cessato l’allarme vi si recò in bicicletta, con lanterna a petrolio e truscia col mangiare. Il respiro possente del mare poco lontano e la pancia piena, gli conciliavano il sonno. Per resistere alla voglia di dormire si mise a rimuginare della sua vita e di quello che aveva fatto fino a quel momento, ai tempi buoni e a quelli tristi, al suo lavoro che gli aveva dato tante soddisfazioni. Perché in paese Turiddu Scinà non era una persona qualunque. Tutti lo conoscevano ed era stimato e rispettato perché era lui il banditore ufficiale del comune, colui che leggeva e spiegava in dialetto, per coloro che non potevano leggere perché ignoranti e analfabeti, le ordinanze e i bandi del podestà, gli avvisi e le comunicazioni di raduno del segretario locale del fascio. Per questo lavoro ci voleva una voce come la sua, potente, alta e sonora, straordinario dono di madre Natura. Ma quello che lo inorgogliva maggiormente era il tamburo: un bel tamburo con la cassa d’ottone decorata dello stemma civico che portava appeso alla bandoliera di cuoio, opera di un sapiente mastro sellaio, arricchita di lustrini e lucidissime borchie d’ottone come e meglio dei finimenti dei carretti parati a festa il giorno del Patrono Sant’Angelo. Quando il segretario comunale gli consegnava la copia del manifesto, egli tirava fuori da un armadio nella stanza degli uscieri l’adorato tamburo e si poneva per le strade. Giunto a un incrocio di strada, iniziava un lungo rullo seguito da tre doppi colpi secchi e con quella voce tonante cominciava: «Sintiiti! Sintiiti! Omini e fimmini, vecci e picciotti, l’ordini di sua eccellenza u potestà di sta bella città». E con aria importante si poneva a leggere e a spiegare e a tradurre. Arrotondava poi il salario del municipio bandendo anche per i privati che avevano informazioni da trasmettere alla comunità come l’arrivo di vino nuovo e speciale nella tale dispenza o del  ommerciante che ribassava i prezzi. Durante le grandi feste poi erano due gli avvisi più frequenti che gli commissionavano: l’annuncio di portafogli smarriti tra la calca e di bambini persi. Quando andava in giro per chiedere chi aveva trovato un portafogli puntualizzava sempre che i soldi potevano tenerseli, purché restituissero i documenti. Quanta angoscia provocava invece nelle mamme la frase: «Oh cò ha asciatu un picciliddu.» Ma spesso era solo una scarpa di bambino ad essere smarrita. In tutti i casi la ricompensa era assicurata dal legittimo proprietario che ordinava la grida. Scinà era insomma la radio e la televisione e il giornale e l’ufficio degli oggetti smarriti messi assieme: un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa e l’unico e il solo per la povera gente del paese. Tra un bando e l’altro faceva poi il cameriere nel circolo dei cappelli, così detto perché frequentato dai benestanti e maggiorenti del posto che andavano sempre a capo coperto, contrariamente a quanto faceva la gente comune. Puliva i locali, teneva a posto i giornali e andava a fare qualche commissione. Quando i bombardamenti si fecero frequenti, costituendo grave pericolo anche e soprattutto per i civili, mandò moglie e figlioletta a Mazzarino dai suoceri e da quel giorno intraprese una vita da scapolo ell’appartamentino a primo piano di tre stanze con balcone. Turiddu Scinà si era appisolato e quando si svegliò, di soprassalto, gli parve di sentire un lontano motore d’aereo. L’orologio faceva le tre e dieci, era ancora buio e dello sbarco neanche un segno. Era giunta l’ora dello sconforto. Per tutti i cristiani, che vegliano aspettando qualcosa che accada o qualcuno che deve venire e arrivano a quell’ora del mattino prima dell’alba, è quello il momento della mestizia e dello sconforto, a volte perfino dell’angoscia che assomma dalla parte più oscura e insondabile dell’anima. Quel tempo sospeso tra le tenebre e la luce, linea di demarcazione tra notte e giorno, induce chiunque a perdere la fiammella della speranza fino ad allora covata con tanta fede, porta a pensare che quel fatto non si avvererà più o che chi è aspettato non verrà mai. Così era anche per Scinà che cominciò a riflettere su ciò che aveva fatto quella notte e che in quel momento gli apparve assurdo e inverosimile. Messo lì, in cima a quella collinetta ad aspettare che accadesse un fatto che si era solo immaginato, gli apparve in quel momento la più stupida cosa che avesse mai fatto in vita sua. Si sentì estremamente ridicolo e stupido «Sbarcheranno in Sardegna, -pensò irritato con se stesso- oppure in Francia. Qui no di sicuro. Quei grandi generali inglesi e americani non sanno nemmeno che esiste un paese chiamato Licata!» E decise di tornare non appena ci fosse stata luce sufficiente. Sarebbe stato veramente imbarazzante spiegare ad altri la sua presenza lassù! E con l’animo più sereno, per quella decisione presa, il pensiero più saggio di tutta quella nottata balorda, si riappisolò, tanto lo avrebbe svegliato il primo sole. Lo svegliò invece un martellante rombo d’aerei che il cielo a levante, verso Gela, trascolorava appena diffondendo un grigio lucore sul paesaggio ammollurato dall’umidità notturna. Il mare era un po’ meno agitato e una sorta di nebbiolina leggera alitava sull’acqua in movimento. Nessun segno di sbarco. “Saranno i nostri” – pensò- “che vanno a bombardare La Valletta” e si apprestò a muoversi ancora impasturato dal sonno. Raccolse le poche cose e si diresse dove teneva nascosta la sua preziosa bicicletta. Era ancora molto presto e contava di rientrare in paese prima che i pochi paesani rimasti uscissero per le vie. Fu allora che con la coda dell’occhio vide un movimento sul mare. Era una nave scura, bassa e irta di strane torrette: una nave da guerra che emergeva dal grigiore perlaceo dell’orizzonte. E mentre Scinà guardava, a quella nave se ne affiancò un’altra verso levante e un’altra seguita da un’altra e poi da un’altra e un’altra ancora. Turi Scinà lasciò cadere a terra la truscia e la lanterna che mandò un sinistro rumore di vetri infranti a cui l’uomo non prestò attenzione poiché stava accadendo qualcosa di straordinario. Vedeva l’orizzonte marino cambiare lentamente di colore, farsi grigio ferro fin dove l’occhio poteva vedere, il colore di migliaia di navi. Navi grandi e piccole, navi di tutte le dimensioni erano schierate a meno di dieci chilometri dalla costa e avanzavano lentamente. Navi tra Licata e Gela, navi oltre Gela fino a dove il suo sguardo poteva spingersi, ora che c’era molta più luce, navi fino a capo Scalambri. Un lungo doloroso tremore percorse il corpo dell’uomo. Si rese conto che lo spettacolo dinanzi ai suoi occhi voleva dire una cosa sola: era cominciato lo sbarco, ma non quello che si era immaginato; questo, pur essendo reale, esulava da qualsiasi delirante fantasia e la sopravanzava. Come gli antichi abitanti di Tauromenio assistevano dall’alto del loro anfiteatro a spettacoli di naumachia, così Scinà incredulo, timoroso, pieno di brividi non solo per la frescura umida del primo mattino, assistette al più imponente dispiegamento di forze che si fosse mai realizzato in una guerra moderna. Sei navi da battaglia, venti incrociatori, sei portaerei, cento cacciatorpediniere e mezzi da sbarco per un totale di duemila e ottocento natanti si affacciarono quell’alba del 10 luglio del ‘43 alla costa meridionale siciliana tra Licata e Pachino. Di questi, poco meno della metà erano sotto gli occhi strabiliati dell’uomo. Pensò ai pezzi d’artiglieria posti a difesa del paese, quasi tutti molto vecchi, non tutti funzionanti e qualcuno di legno dipinto per intimidire il nemico e gli sorse irrefrenabile una gran risata. Mentre le truppe alleate si disponevano per lo sbarco del 10 luglio 1943 in Sicilia, Scinà rideva; rise tanto, piegato in due, da doversi poi asciugare le lacrime col dorso della mano. Sibilo di proiettili navali alti di poco sulla sua testa, scoppi di cannone e crepitio lontano di mitragliere gli misero le ali ai piedi mentre un grappolo di tozzi e minacciosi mezzi da sbarco si dirigeva risolutamente sulla spiaggia sottostante. Tre giorni dopo Turi Scinà stava seduto sul balconcino di casa sua, triste e sconsolato, cosciente com’era di aver perduto per sempre il suo impiego più importante, disorientato e frastornato dal precipitare degli eventi susseguitisi con ritmo incalzante e imprevisto né immaginabile. Il pomeriggio del giorno prima aveva visto i militari americani tradurre in un campo di concentramento, allestito in quattro e quattr’otto alla villa comunale, tutti o quasi i detentori dell’agonizzante potere politico e militare. Aveva visto portarvi il podestà e il segretario del fascio, il segretario comunale e alcuni ufficiali italiani: quelli che non erano fuggiti al momento dello sbarco. Sentiva una profonda tristezza per la morte inutile e atroce dello scemo del paese, Angelo detto «a moscia», che era un buon cristiano e aveva perso la vita, la sua misera esistenza, il suo unico vero bene, per una guerra che non avrebbe mai potuto capire. Era rimasto piantato a muro schiacciato contro le cantoniere di un palazzo dal muso di un carro armato che aveva svoltato l’angolo troppo largo. Un momento prima era lì che si sbracciava a salutare gli americani della torretta del mezzo con grandi gesti delle braccia scarne, nella speranza di farsi lanciare sigarette e chewing-gum, e l’attimo dopo era a terra simile a una truscia di roba vecchia. La chiazza di sangue aveva intriso la pietra del palazzo e sarebbe rimasta visibile chissà ancora per quanto tempo: epitaffio per un idiota. La tristezza e il risentimento si trasformavano in angoscia quando cercava inutilmente notizie della moglie e della figlia. L’avanzata degli alleati si era arenata nei pressi di Mazzarino dove tedeschi e italiani avevano riorganizzato una valida opposizione che contrastava l’avanzata travolgente delle truppe del generale Patton e questo gli impediva di ricevere nuove da coloro che si trovavano ora al di là della linea del fronte. Poi c’erano i marocchini arrivati assieme agli americani con quelle lunghe vestine bianche che insidiavano le donne a tal punto da non poter più uscire di casa neanche accompagnate o restare in casa da sole perché quei diavoli si arrampicavano anche sulle grondaie e li trovavi dentro senza accorgertene. Una gran preoccupazione da non dormirci la notte per mariti, fidanzati, fratelli e padri. E in campagna era ancora peggio! Quelli non si accontentavano affatto di andare con le sei buttane arrivate chissà come a rinforzare i ranghi delle tre che normalmente stavano nel bordello vicino al fiume e che ora aveva sempre una coda di militari davanti alla porta, notte e giorno. Il comportamento di molti suoi paesani, all’arrivo degli americani, lo aveva sconcertato. Avevano tributato smodatamente, esageratamente, onori e gloria al nemico di ieri. D’accordo, gli alleati stavano facendo risplendere la parola libertà, si comportavano, tutto sommato, bene e onestamente, affermavano di voler combattere il fascismo e non gli italiani, ma era contro gli italiani che combattevano, e sul suolo italiano, sempre invasori erano. E se italiani e tedeschi, in un supremo sforzo, fossero riusciti a ricacciare in mare gli alleati, per quanto remota e improbabile gli era questa possibilità, non avrebbero forse quegli stessi individui osannato il ristabilimento dell’ordine sotto quel regime che li aveva oppressi per tutti quegli anni? Anche il suo bel tamburo era fonte di preoccupazione: forse era finito nelle mani di qualche soldataccio americano, forse lo avevano già sfasciato, magari con un calcio o si sarebbero divertiti a sparargli contro. Chissà! In quel terzo giorno di occupazione Turi Scinà cominciava a cambiare idea sugli americani che tanto scompiglio avevano portato nella vita del paese e nella sua. Mentre girava e rigirava i tristi pensieri di uno che a quarantotto anni si vede crollare attorno tutto, notò una di quelle buffe e rumorose auto militari con la grossa stella bianca dipinta sul cofano svoltare bruscamente l’angolo della via e fermarsi, con gran stridore di gomme, sotto il suo balcone. A bordo due militari in divisa, quella divisa strana di colore e di forma a cui non si era ancora abituato e che contribuiva non poco a disorientarlo, e con loro c’era nientemeno che l’usciere del comune, Peppino Incorvaja, che si sbracciava a far ampi cenni nella sua direzione: «Scinà, oh! Turiddu Scinà! Scendi presto, chè ti vuole parlare il signor maggiore mericano. Vieni!» «A me? E perché? Non ho fatto niente io. Neanche la tessera del partito avevo!» «Ma non è per arrestarti, stupido! Vieni e vedrai»  Fu così che Scinà si ritrovò sul mezzo militare lanciato per il corso a velocità folle verso il palazzo comunale affacciato sulla bella piazza e che, a scanso di equivoci, portava sulla facciata a lettere di bronzo la scritta: PALAZZO DI CITTA’. Mentre una lunga fila di carri armati e camion cingolati risaliva il corso in direzione della strada per Agrigento, l’ex banditore comunale, con la morte nel cuore, si avviava su per la scalinata liberty in compagnia di un militare che portava sulla manica una fascia con due lettere dipinte: M P. Si fermarono davanti a una delle porte che davano nel Salone del Consiglio e mentre il militare diceva qualcosa di incomprensibile alla sentinella che vi stava davanti, il banditore, sempre più allocchito, si domandò che significato avessero le lettere A.M.G.O.T. scritte su un cartello attaccato alla porta con puntine da disegno e gli sorse spontanea la constatazione che non era solo il regime fascista ad amare gli acronimi. Quando lo introdussero nell’aula stentò a riconoscerla. La prima impressione fu di un gran disordine, poi di pena. Gli occupanti si comportavano da perfetti invasori non curanti degli oggetti di quella sala, preziosi non solo per il valore venale quanto per quello affettivo. Un lungo filo telefonico era attorcigliato al collo dell’antica statua di marmo della Madonna quattrocentesca per finire all’apparecchio su un tavolo pieno di carte topografiche circondato da militari. L’altorilievo dell’aquila sveva scolpito nel legno, superbo simbolo della città, era diventato un attaccapanni per cinturoni, giubbotti e berretti. Zaini, elmetti e tazzine di caffè stavano dappertutto. Altri uomini in divisa entravano e uscivano dal gabinetto del segretario. Sotto l’enorme quadro di Giovanni da Procida ai Vespri Siciliani, che Turi era convinto trattarsi di Cristoforo Colombo, dietro il gran tavolo di legno intagliato attorno al quale per tanti secoli si erano seduti i Giurati della città, comodamente sprofondato nell’antico seggiolone in cui solo il podestà sedeva, stava un militare graduato, in tranquilla conversazione con don Matteo Lojacono, in candido vestito di lino, il panama sulle ginocchia, il padrone della raffineria e di mezzo paese. Rimase lì, vicino alla porta, impietrito dallo stupore a sentire i due conversare tranquillamente in inglese, proprio come due amici di vecchia data. Appena don Matteo lo vide lo chiamò: «Ah! Turiddu, vieni, avvicina, il maggiore ti vuole parlare». E il maggiore parlò in italiano, un italiano strano ma comprensibile. E quando finalmente Turi Scinà si decise a sollevare gli occhi sul viso dell’ americano, si accorse di aver davanti un volto noto. Ormai non si stupiva più di niente e come in un sogno, con distacco, sentì la voce, vide le movenze, la faccia, i capelli che erano di quel venditore ambulante di cose smesse venuto in paese qualche mese prima dello sbarco chissà da dove e che andava sempre ovunque e, ora che ci pensava, faceva strane domande a tutti. Il maggiore dell’A.M.G.O.T., che aveva momentaneamente assunto l’impegno di amministrare il paese, stava dicendo a Scinà che doveva avvisare la popolazione, indistintamente, tutta la cittadinanza, di alcune importanti regole da rispettare d’ora in avanti, quali il coprifuoco e il divieto assoluto di detenere armi. L’onnipotenza tecnologica dell’esercito alleato si era arenata di fronte a un imprevisto: come far arrivare il suo proclama anche agli analfabeti. Gli era venuto in aiuto don Matteo spiegandogli che quel problema la città lo risolveva da tempo immemorabile coi banditori, nella fattispecie, il problema del maggiore sarebbe stato facilmente risolto da Turi Scinà. «Paisà, hai capito, quello deve fare?» Ma Scinà era troppo stupìto di tutto quanto aveva visto e sentito negli ultimi dieci minuti per rispondere e allora don Matteo glielo ripeté. Disse che poteva tornare al suo lavoro di banditore perché, finché ci fossero stati cristiani analfabeti e ignoranti tra la popolazione, c’era ancora bisogno di lui e della sua voce straordinaria e della sua capacità di tradurre in parole semplici concetti complessi. Quando finì di parlare gli mise in mano un pacchetto di Chesterfield ancora sigillato. Scinà aveva capito, ma c’era ancora un punto da definire: «E il tamburo, posso usarlo il mio tamburo?» Don Matteo scoppiò in una fragorosa risata e, con le lacrime agli occhi, porgendogli un foglio dattiloscritto rispose: «Ma certo che puoi! Anzi dovresti cominciare subito, qui c’è scritto quel che devi leggere e spiegare. Fa’ sentire al maggiore che sai fare. Va’, va a prendere il tuo tamburo.» Era da poco passato mezzogiorno quando Turi Scinà scese nella piazza intitolata al duce. Un mezzogiorno che ormai da diversi anni arrivava e trascorreva in silenzio, senza l’armonioso suono delle campane della torre dell’orologio, il cui bronzo antico era finito in una fabbrica di armi, sacrificato inutilmente al folle dio della guerra. L’orologio a torre scandiva anche i quarti, mentre alle sette, a mezzogiorno e a mezzanotte intonava un festoso «carillon» per sottolineare i momenti significativi della giornata. A causa del forzato mutismo dell’orologio, anche Angelo l’orbo aveva perso la sua popolarità. Quell’uomo infatti si era ritagliato un cantuccio di celebrità sedendo su una panchina di fronte alla torre e dicendo con esattezza l’ora a chi gliela chiedeva. Non potendo più ascoltare e contare i tocchi ogni quarto, aveva perso la sincronia, nessuno più gli chiedeva l’ora e quell’uomo appariva sempre triste. Anche in quel momento Angelo l’orbo era lì, si era solo spostato ai piedi del monumento ai caduti per cercare un po’ d’ombra. Solo e silenzioso, le spalle al marmo dello zoccolo, apparve a Scinà come una propaggine del monumento stesso, vittima anche lui di una guerra. Un pensiero e un desiderio attraversarono la mente del banditore: «Chissà se gli americani potevano procurarci le campane?» Ma adesso toccava a lui e al suo tamburo. L’amato strumento lo aveva ritrovato integro nell’armadio dove egli stesso lo aveva riposto l’ultima volta. Aspettò che si allontanassero sferragliando alcuni Sherman e, quando tornò quel silenzio quasi assoluto che ricordava le dolci giornate estive dell’anteguerra, attaccò un lunghissimo rullio di tamburo seguito da tre doppi colpi secchi, magistrali, belli come mai. In un momento di cambiamenti epocali che avrebbero riempito migliaia di pagine di storia, si stava instaurando un ponte sul profondo solco tra il vecchio e il nuovo e quel ponte era lui. Turi Scinà rappresentava il tratto d’unione, la continuità, il punto fermo. La coscienza di ciò lo rese felice e dimentico di tutte le sue preoccupazioni che gli apparvero all’improvviso ben misera cosa. Volle riascoltare il suono del suo tamburo, riprovare la dolce carezza delle vibrazioni sul diaframma e ripetè la sequenza delle percussioni imprimendogli quel timbro imperioso e di urgenza come sapeva lui. Quasi fossero in attesa di sentire la voce di quel tamburo, molti licatesi facevano capolino nella piazza e altri ancora ne arrivavano, chi camminando e chi correndo. La frotta di ragazzini che sempre lo aveva seguito nei suoi giri per strade e piazze, vicoli e piani gli si stava assembrando attorno; proprio come ai bei tempi! Si assicurò con la coda dell’occhio che il maggiore americano e don Matteo fossero affacciati al balcone del podestà e riempì i polmoni d’aria. Un attimo dopo la sua voce potente esplose ancora una volta nel silenzio di quel luogo che presto avrebbe dovuto cambiare nome, riverberò tra le facciate degli antichi palazzi, salì verso il cielo di cobalto: «Sintiiti! Sintiiti! Omini e fimmini, vecci e picciotti…»

                                                                                                                                   maggio ’95

Apr 25, 2013 - Senza categoria    Comments Off on L’ARBUTUS UNEDO, “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE PRESENTE NELLA VILLA COMUNALE”GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ARBUTUS UNEDO, “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE PRESENTE NELLA VILLA COMUNALE”GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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ll 25 Aprile è una festa civile della Repubblica Italiana. E’ l’Anniversario della liberazione  dell’Italia dal nazifascismo.
E’ chiamato anche Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente il 25 Aprile. E’ un giorno importantissimo per la storia d’Italia. E’ la fine dell’occupazione nazista nel nostro paese avvenuta esattamente il 25 aprile del 1945.Durante la seconda guerra mondiale, l’Italia era divisa in due: al nord Benito Mussolini e i Fascisti avevano costituito la Repubblica Sociale Italiana vicina ai tedeschi e al Nazismo di Hitler. Al sud, in opposizione, si era formato il governo Badoglio in collaborazione con gli Alleati americani e inglesi.
Per combattere il dominio nazifascista i Partigiani programmarono la Resistenza. I partigiani erano uomini, donne, giovani, meno giovani, sacerdoti, militari, di diverse estrazioni sociali, di differenti ideologie politiche e religiose, ma tutte persone spinte dalla volontà di lottare con gli ideali di conquistare la democrazia, il rispetto della libertà individuale, l’unione e l’uguaglianza del popolo italiano.
Il 25 aprile del 1945 i Partigiani, supportati dagli Alleati, entrarono vittoriosi nelle principali città italiane. Esattamente il 25 aprile ricorda la liberazione di Torino e di Milano da parte dei partigiani al termine della seconda guerra mondiale. In seguito furono liberate altre città dell’Italia settentrionale: Bologna il 21 aprile, Genova il 26 aprile, Verona il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.
La fine della guerra per l’Italia intera avvenne i primi giorni del mese di maggio. Il 25 aprile del 1945, alle 8:00 del mattino, attraverso la radio, dall’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, formato da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marazza, fu proclamata ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti.
Mussolini fu fucilato tre giorni dopo. La Liberazione mise fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra. Rappresentò, pertanto, l’inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno del 1946 per la scelta fra la Monarchia e la Repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana fino alla stesura definitiva della Costituzione Italiana. Il primo governo provvisorio, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”), confermò la data del 25 Aprile dal 1946 giorno di festa nazionale. L’articolo 1, infatti, così recita: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale“.
La Legge n. 260 del 27 maggio 1949 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”) rese definitiva la giornata festiva della Liberazione.
Il 25 Aprile è festa nazionale! Osservano il giorno festivo le scuole, gli uffici, le attività commerciali e artigianali con la sospensione delle attività lavorative su tutto il territorio nazionale.In molte città italiane ogni anno si organizzano manifestazioni, cortei e commemorazioni.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Pertini, a Roma, recatosi all’Altare della Patria, ha onorato il Milite ignoto deponendo una corona d’alloro. Durante la cerimonia di commemorazione ha detto che “la Resistenza insegna che nei momenti cruciali servono coraggio, fermezza, unità”.
A Licata, il sindaco Angelo Graci, accompagnato dai rappresentanti dell’Amministrazione Comunale, ha deposto una corona d’alloro sul monumento dei caduti della I° e della II° guerra mondiale sito in Piazza Progresso. Una corona d’alloro è stata anche deposta ai piedi del monumento sito dentro la villetta Garibaldi per ricordare il coraggioso soldato e partigiano Raimondo Severino, nato a Licata il 22/02/1923, torturato e trucidato pubblicamente dagli aguzzini repubblichini nella piazza di Borzonasca il 21/05/1944. Anche la Natura omaggia l’Italia con la coltivazione della pianta di Arbutus unedo.

L’Arbutus unedo è una pianta della famiglia delle Ericaceae originaria dell’Irlanda e diffusa nei paesi del Mediterraneo. In Italia l’Arbutus unedo è l’unica specie del genere Arbutus diffuso in tutte le regioni centrali della penisola dove spesso forma piccoli boschetti; è assente in Val d’Aosta, in Piemonte, in Lombardia, nel Trentino Alto Adige e nel Friuli Venezia Giulia. Cresce dal livello del mare fino a 1000 metri di quota.

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La leggenda vuole che fu proprio il Corbezzolo ad ispirare i colori della bandiera nazionale. E’ chiamato “l’albero d’Italia” poiché la presenza contemporanea del verde delle foglie, del bianco dei fiori e del rosso dei frutti  diede origine ai colori del tricolore italiano tanto da diventare, durante il Risorgimento, il simbolo dell’ Unità Nazionale. Virgilio, nelle “Georgiche”, indica questa pianta semplicemente col nome “Arbutus”,Arbusto”, mentre Plinio il Vecchio la denomina “unedo”, da “unus”, “uno” ed “edo”, “mangio”, vale a dire ne “mangio uno solo” per indicare che il frutto, sebbene buono da mangiare, non è gradevolissimo e l’assunzione eccessiva, per la presenza di un alcaloide nella polpa, potrebbe causare probabili inconvenienti a persone ipersensibili, quindi è consigliabile “mangiarne uno solo”.
Dall’unione di questi due antichi termini deriva il nome scientifico della specie Arbutus unedo attribuito dal naturalista Linneo nel 1753. Volgarmente è chiamato “Corbezzolo”.
Il Corbezzolo ha dato il nome al monte Conero, il promontorio più importante del medio Adriatico alto 573 metri a sud della città di Ancona. Il nome Conero deriva dal greco “Кόμαρος”, che vuol dire “Corbezzolo”. Il Corbezzolo, chiamato anche “Ciliegio di mare”, è un arbusto molto diffuso nei boschi del Conero e che produce frutti molto apprezzati localmente. Il Corbezzolo nelle diverse regioni d’Italia ha tanti altri nomi. In Calabria si chiama “Cucummaràra, Mbriacunedi, Cacùmbaru, Chùmma”, in Campania “Accummaro, Soriva pelosa”, in Liguria “Armôn” è l’albero e il frutto, “murta” sono le foglie, in Umbria “cerasa marina, lallarone”, in Toscana “albatro”, in Sardegna “Alidone, Arbòsc, Cariasa, Ghilisoni, Lidone, Mela de Lidone, Olidone, Olidoni, Olioni, Orioni, Ulioni”, in Sicilia “Per’i ruggia,” e “ ‘Mbriacula” perché fa ubriacare. Altri nomi comuni sono:“Fragolon, Pomino rosso, Elioni, Urlo, Tirosetto, Cerosa marina, Musta”. In francese si chiama “Arbousier”, in  inglese ”Strawberry tree fruits”, in spagnolo “Madroño”, in tedesco “Westliche Erdbeerbaum ”.
L’Arbutus unedo è un arbusto compatto, elegante, molto ramificato, pollonifero, a crescita lenta. Presenta il fusto alto circa 2 metri, ma può raggiungere anche i 12 metri, dritto, tendente ad inclinarsi e a contorcersi, rivestito dalla scorza sottile, rossiccia, vellutata nei rami giovani, successivamente finemente e regolarmente desquamata in lunghe e strette placche verticali di colore bruno. Le foglie, molto decorative, addensate all’apice dei rami, semplici, alterne, di consistenza coriacea, glabre, brevemente picciolate, hanno la lamina lanceolata con apice acuto e con margine seghettato, la pagina superiore lucida e di colore verde scuro, la pagina inferiore opaca, di colore verde chiaro e presenta anche nervature prominenti rossastre nelle giovani foglie.
La chioma è densa, tondeggiante e, a volte, un po’ disordinata. La bella peculiarità è la presenza dei fiori delicati ed ermafroditi. Piccoli racemi penduli portano da 15 a 35 fiori presenti da ottobre a marzo dell’anno successivo nella parte terminale dei rami dell’anno. Il fiore è formato da un piccolo calice e da una corolla di colore bianco-avorio, lucida, orciolata, ristretta all’orlo e rigonfia nel centro, appunto come un otre, che termina con cinque denti rivolti verso l’esterno. Fiorisce nei mesi di marzo-aprile.

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Alla fioritura segue la maturazione dei frutti che maturano tra settembre e novembre dell’anno successivo contemporaneamente alla nuova fioritura di modo che la pianta ospita contemporaneamente fiori, frutti immaturi e frutti maturi, fenomeno che la rende particolarmente ornamentale. I frutti, chiamati “corbezzole”, commestibili, sono bacche carnose quasi rotondeggianti, con la superficie rugosa, irta di numerosi e piccoli tubercoli. La polpa, ambrata, succosa e di sapore dolciastro, è ricca di vitamina C.
Le bacche sono divise in loculi e ciascun loculo racchiude numerosi minuscoli semi ellittici di colore brunastro-chiaro lunghi 2-3 millimetri, spigolosi, caratterizzati da una scarsa germinabilità.

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In autunno si possono osservare il fiore bianco ed il frutto nelle varie fasi di maturazione: di colore verdastro quando è acerbo, di colore giallo in una fase intermedia e di colore rosso-arancio quando è completamente maturo. I corbezzoli possono essere consumati crudi, cosparsi di zucchero o con l’aggiunta di un vino liquoroso e in confettura.
E’ importante mangiarli al giusto punto di maturazione, troppo immaturi o troppo maturi possono non essere gradevoli al sapore. A Mistretta i frutti si chiamano “ ‘miriacoli” perchè si sospetta che, mangiandone molti, fanno ubriacare.I Greci amavano molto consumare i frutti perché l’uso abbondante creava un piacevole stato di ebbrezza.
Ogni anno organizzavano la festa del Corbezzolo durante la quale si ubriacavano e socializzavano più facilmente tra loro. La propagazione avviene per seme in primavera o per talea semilegnosa in inverno, ma anche per margotta, per propaggine o per divisione di polloni.
La potatura va eseguita con molta attenzione poiché, per tutto l’arco dell’anno, la pianta presenta fiori e frutti, pertanto si eliminano le parti secche o danneggiate e i rami disarmonici.
La fronda recisa con i frutti immaturi è utilizzata per decorazioni floreali.
La pianta ha uno spiccato potere pollonifero dovuto ad un ingrossamento ipogeo del fusto che funge da riserva nutrizionale per cui, anche se soggetta a continui tagli o all’aggressione degli incendi, riesce sempre a sopravvivere riemettendo numerosissimi getti dopo il passaggio del fuoco e ricostituendo, in tempi relativamente brevi, la vegetazione delle aree colpite e imponendosi sulle altre specie.
L’Arbutus unedo possiede un legno rossastro che è particolarmente dolce e può essere utilizzato per realizzare arnesi per alimenti e per piccoli lavori artigianali. In Sardegna i pastori lo utilizzano per realizzare “su pilìsu“, il particolare strumento impiegato per rompere la cagliata; è anche un ottimo combustibile e, non emettendo odore durante la combustione, è molto apprezzato come legna da ardere.
Il Corbezzolo esprime il suo valore ornamentale non solo per la bellezza del fogliame, ma, soprattutto, per la contemporanea presenza sulla pianta di fiori e di frutti a diversi stadi di maturazione.
Nel giardino il Corbezzolo dà altre gradite sorprese: ospita molti uccelli, insetti e mammiferi, che si cibano in gran quantità delle sue bacche mature preparandosi ad affrontare il lungo e freddo inverno, e la Charaxes jasus, la bellissima farfalla dai colori meravigliosi, chiamata la “farfalla del Corbezzolo” perché vive esclusivamente sulle foglie di questa pianta.Il Corbezzolo è una pianta facile da coltivare.
Predilige le aree soleggiate, ma tollera molto bene anche una parziale ombra posto su terreni acidi, anche se si adatta su quelli argillosi, ricchi di materia organica e ben drenati. Può resistere a temperature minime molto basse, ma mal sopporta le gelate precoci o tardive e non gradisce i venti freddi e secchi.
Non richiede grandi quantità d’acqua ed è opportuno interrare del buon concime organico ai piedi della pianta in primavera per favorire lo sviluppo ottimale. Teme anche alcuni parassiti. Gli eccessi d’umidità possono provocare attacchi da parte di alcuni funghi: l’Alternaria causa sulle foglie delle aree necrotiche circolari con alone rossastro; il Septoria unedonis causa maculature tra le nervature e sui lembi fogliari. L’Elsinoe matthiolianum aggredisce solitamente le foglie più giovani formando dapprima piccole macchie traslucide e, in seguito, bollicine di colore bruno che, al loro disseccamento, bucano il lembo.
Tra gli insetti sono principalmente riscontrabili: l’Otiorrynchus sulcatus, la cui presenza si nota per le erosioni sulle foglie; l’Afide verde del Corbezzolo, il Wahlgreniella nervata arbuti, che vive sulla pagina inferiore delle foglie più giovani. Varie specie di tripidi causano malformazioni dei fiori e dei frutti.
La pianta, già conosciuta ed usata in tempi antichi, da Dioscoride e da Galeno era ritenuta nociva per la testa e per lo stomaco. In età medioevale la peste era combattuta mescolando la polvere di “osso di cuore” di cervo con l’acqua distillata dalle fronde di Corbezzolo. Era annoverata tra le cosiddette “Erbe di S. Giovanni“, ricorrenza che cade nel solstizio estivo.
A tale proposito, davanti alle chiese si allestivano mercati delle erbe dove anche il Corbezzolo faceva bella mostra di sè insieme con altre essenze: aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, lavanda, mentuccia, salvia, rosmarino, biancospino, artemisia, ruta.
Era considerata anche “erba cacciadiavoli e cacciastreghe” perché si credeva che diavoli e streghe viaggiassero, per partecipare ai loro convegni, proprio nella notte di S. Giovanni. In fitoterapia le parti usate sono: i fiori, i frutti, le foglie, la corteccia e le radici. Con le foglie e i frutti si ricavano tisane, infusi ed estratti. I fiori hanno azione sudorifera e diaforetica. Le foglie contengono l’arbutoside, un principio attivo che conferisce loro proprietà diuretiche e antisettiche del tratto uro-genitale, dell’apparato gastrico ed epato-biliare.
I frutti, consumati nella giusta quantità, hanno azione astringente e quindi possono essere utilizzati come antidiarroici. Il decotto della radice, della corteccia, delle foglie e del frutto è utilizzato come antinfiammatorio, antiarteriosclerotico, diuretico e nei disturbi renali in generale. Nell’industria alimentare il Corbezzolo ha numerosi impieghi. Specie mellifera, molto visitata dalle api, offre il famoso miele amaro della Sardegna e della Corsica che ha notevoli proprietà curative nelle affezioni bronchiali di tipo asmatico. Dalla fermentazione dei frutti si ricava il “Vino di corbezzolo” consumato soprattutto in Sardegna, in Algeria e in Corsica. In alcune regioni italiane è consuetudine utilizzare i frutti del Corbezzolo per preparare sciroppi, gelatine, frutta candita, marmellate, il “vino albatrino”, bibite molto dissetanti, una buonissima acquavite (il medronho portoghese), e perfino un tipo d’aceto.
Il frutto entra volentieri anche nei piatti di carne sotto forma di salse. Nei tempi passati le foglie del Corbezzolo, essendo ricche di tannini, erano usate per la concia delle pelli. I romani attribuivano al Corbezzolo poteri magici. Virgilio, nell’Eneide, racconta che i parenti del defunto depositavano sulla sua tomba rami di Corbezzolo.
Un’orsa, appoggiata ad un albero di Corbezzolo, è il simbolo della città di Madrid. Nella tradizione ligure è usato, assieme all’Alloro, nel carro del “Confuoco“, il carro che portava al podestà doni per dare, con i suoi frutti maturi, una nota di colore. Sempre in Liguria si usava mettere sul portale della propria casa un ramo di Corbezzolo con tre frutti maturi come segno di benvenuto quando si dovevano ricevere ospiti importanti.
I vecchi liguri trattavano il Corbezzolo con un certo riguardo tanto da attribuirgli un notevole valore affettivo, chiamandolo, secondo la zona, “armuin, ermuin”, e perfino “ermelin”, cioè “ermellino” per indicare la sua preziosità. Nel linguaggio dei fiori la bianca campanula è sinonimo “di ospitalità e di stima”.
Nella tradizione popolare il frutto simboleggia “l’amore”, sempre raffigurato di colore rosso, non disgiunto dalla gelosia che ha il colore giallo: il frutto maturo ha, infatti, la peculiarità di essere rosso fuori e giallo dentro; per tale motivo agli innamorati gelosi era maliziosamente regalato dagli amici intimi un ramo di Corbezzoli.

Apr 17, 2013 - Senza categoria    Comments Off on I TULIPANI

I TULIPANI

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 In primavera i fiori sbocciano abbondantemente in tutte le aiuole. Quella posta davanti   al distributore di benzina ENI, a Mistretta, nel mese di aprile regala un meraviglioso spettacolo per la presenza dei numerosi tulipani rossi e gialli. Il gestore, il signor Lirio, è molto premuroso nel deporre annualmente i bulbi di tulipani nella sua aiuola ed è molto rigido nell’impedire che sia calpestata da un qualsiasi corpo estraneo che possa interrompere la bellissima continuità dell’aiuola fiorita dove poggia l’occhio umano. Grazie per questo meraviglioso regalo della Natura! “Tulipa” è il nome di un genere di piante appartenenti alla famiglia delle Liliaceae che comprende specie bulbose, tra cui alcune spontanee, note col nome comune di Tulipano. ???????????????????????????????

Il tulipano è una pianta dai fiori variopinti, carnosi. Esistono circa 300 specie. Il tulipano ancora non possiede caratteri stabili, quindi è considerato di formazione relativamente recente dal punto di vista evolutivo. La pianta di Tulipa praecox, ad esempio,è stata classificata per la prima volta non oltre 100-150 anni fa e scoperta negli ambienti naturalidelle coste mediterranee, dalla Costa Azzurra alla Grecia. Il tulipano è originario della Turchia, suo simbolo nazionale floreale, dove nasce spontaneamente e dove iniziò ad essere coltivato circa 1000 anni fa. Ebbe la sua massima popolarità sotto il regno di Solimano il Magnifico, nel XVI secolo, che lo volle coltivare, in numerose varietà, ovunque in Turchia. Da sempre tutti i giardini d’Oriente sono gremiti di tulipani e, nel mese di aprile, a Costantinopoli si celebra la festa del tulipano. Dalla Turchia si è diffuso nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nell’Asia Orientale e Centrale. In Europa è stato importato per la prima volta agli inizi del Cinquecento da Ogier Ghislin de Busbecq, ambasciatore di Vienna alla corte turca e appassionato botanico. Questi, che aveva visto i tulipani in fiore e si aspettava dai botanici europei approfonditi studi ed efficaci metodi di coltivazione nei giardini, inizialmente vide deluse le sue aspettative perché i tulipani non furono adeguatamente coltivati. I primi bulbi, forniti al famoso botanico italiano Clusio, furono utilizzati una parte in un’aiuola, per le prove orticole, e un’altra parte sopra i fornelli di un droghiere viennese che li lessò scambiandoli per cipolle. In Germania, il commerciante, che li aveva ottenuti senza conoscere la loro destinazione, li propose fritti e conditi in insalata. Nel 1559 una piccola quantità di bulbi di tulipani giunse nelle mani del ricercatore austriaco Konrad Gessner che avviò gli studi e fece nascere, a livello internazionale, un crescente interesse botanico per la pianta. Prima dell’inizio del seicento, la diffusione dei tulipani, almeno tra gli studiosi del Regno Vegetale, si era già estesa in Germania, in Inghilterra, in Francia. L’Olanda è stato il paese europeo dove i tulipani hanno avuto maggior successo. Nel diciassettesimo secolo, l’alta popolarità e l’interesse per i tulipani hanno creato una specie di “Tulipamania” e, in Olanda, è ancora una parte importantissima dell’agricoltura nazionale.  Dal 1600, infatti, i tulipani divennero ricercatissimi e costosissimi al punto che il governo olandese, nel 1637, dovette approvare una legge per controllare il prezzo. Il tulipano è diventato l’emblema degli olandesi, chiamati affabilmente “Tulipani“, a causa degli studi compiuti per migliorare la specie. Il termine “Tulipano” in turco deriva da “Tulbend”,copricapo, turbante”, oppure dal greco “Тύρβαν” per la forma del fiore simile a quella del suddetto copricapo, oppure è la correzione del francese “Tulipan”, una parola creata nel 1600 come libera interpretazione del termine persiano thoulyban e di quello turco tulbend, sempre con il significato di “turbante”. Il tulipano, dunque, è “il fiore a forma di turbante”. In Francia il vocabolo “tulipe” ha un altro significato. Sotto l’Ancien Regime, “La tulipa” era il soprannome dato ai soldati allegri e pieni di buon umore, e la “Fanfan la Tulipe” è una specie di eroe popolare nazionale. La corolla dei tulipani, per la sua forma aggraziata, ha sempre destato, anche in Italia, l’attenzione di pittori e di stilisti che hanno preso come modello il fiore di tulipano per imprimerlo nei quadri, negli affreschi, nei pannelli, nelle stoffe. Il tulipano è la più popolare fra le bellissime piante bulbose e considerato il re dei bulbi.

Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta alcuni variopinti tulipani circondano il busto di Noè Marullo.

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Il tulipano è dotato di un bulbo sotterraneo, a base allargata e appuntito all’apice, e di un fusto robusto ed eretto. Le foglie, di colore verde brillante, che declina al grigio e all’azzurro, sono grandi, carnose, ovali e allungate, largamente lanceolate, ondulate, glabre e, nel mezzo delle quali, si erge lo stelo. In primavera, da aprile a giugno, in cima allo stelo si forma il fiore, solitario, formato da sei tepali tutti uguali e dalle diverse tonalità di bianco, di giallo, di arancio, di viola e con sfumature delicate ed eleganti secondo le numerose coltivazioni. L’altezza dello stelo varia da specie a specie: da 15 sino ad oltre 60 centimetri. I fiori possono essere semplici o doppi, precoci o tardivi, alti anche 7 centimetri.

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La raccolta dei fiori si effettua prima della completa fioritura. Quando la fioritura è terminata, è bene lasciare alla pianta tutte le foglie eliminando gli steli che hanno portato i fiori: è il miglior modo di impedire che le sostanze nutritive del bulbo siano disperse per produrre i semi. Si moltiplica tramite i bulbi che si estraggono dal terreno appena le foglie ingialliscono. In giugno i bulbi vanno estirpati, ripuliti e messi ad asciugare all’aria e al sole per un giorno prima di essere immagazzinati in cantina, al buio, al fresco e all’asciutto. I bulbi s’interrano in autunno per fiorire in primavera. Il tulipano è una pianta rustica e si coltiva facilmente nelle aiuole dei giardini, nei parchi, nei vasi. E’ commercializzato come fiore reciso. Il tulipano ama essere posizionato in un luogo soleggiato o in ombra lieve. Gradisce un clima temperato, ma ha una buona resistenza al freddo. Richiede un terreno sciolto, fresco, ben drenato, ricco di humus. L’irrigazione deve essere regolare, senza eccessi nella quantità d’acqua.

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I roditori amano i tulipani tanto quanto gli esseri umani nutrendosi dei loro bulbi. Se si piantano in gruppi, generalmente si riesce a creare una coloratissima aiuola. I bulbi sono velenosi per i principi attivi che possiedono.L’avvelenamento, in caso d’ingestione, può essere molto grave. I sintomi si manifestano con vomito, con bruciore del cavo orale, con crisi convulsive, con delirio, con interessamento del fegato e dei reni. Il contatto con i bulbi può causare possibili allergie anche alle mani. Il tulipano teme gli attacchi di lumache, di insetti terricoli e di muffe. Bisogna tempestivamente intervenire con l’uso di prodotti specifici. Il tulipano è descritto anche nelle leggende de “Le mille e una notte”, una raccolta di novelle e di fiabe della letteratura araba. Si racconta che il sultano lasciava cadere un tulipano dal colore rosso ai piedi di una donna del suo harem per farle capire che, fra tutte, era stata la prescelta per quella notte. In Iran si narra che da un villaggio partì un giovane, di nome Shirin, in cerca di fortuna lasciando sola Ferhad, la sua amata e bellissima ragazza. Lei, turbata e triste, intraprese il viaggio nel deserto alla ricerca del suo adorato. La fatica, la fame, la stanchezza si fecero presto sentire. La povera fanciulla, stremata, un giorno, cadendo su alcune pietre taglienti, si ferì. Per lo sconforto di non poter più rivedere il suo Shirin, pianse a lungo. Le lacrime si mescolarono al sangue della sua ferita. Da questo miscuglio di lacrime e di sangue sbocciarono dei bellissimi tulipani rossiche rifiorivano ad ogni ritorno della primavera, simbolo dell’amore e della passioneinfelice di questa giovinetta. In Iran il tulipano era considerato l’omaggio floreale per eccellenza che ogni giovane uomo doveva portare alla ragazza come dichiarazione del suo amore. Le sultane turche della stirpe di Osman usavano sigillare lettere e messaggi con un contrassegno a forma di tulipano. Ancora oggi in Iran gli innamorati si scambiano tholypem come simbolo d’amore. Il tulipano, nel linguaggio dei fiori, parla “d’amore e di sentimenti”. Nel mondo orientale significa “amore perfetto”, nel mondo occidentale “incostanza nell’amare”. Il significato del fiore varia a seconda del colore. Regalare un bouquet di tulipani?  Il bouquet di tulipani a fiori bianchi o rosa è particolarmente indicato per la nascita di un bambino. Il bouquet di tulipani a fiori rossi viene scelto per fare una dichiarazione d’amore eterno alla donna della quale si è innamorati, il bouquet di tulipani a fiori viola denota modestia e quello a fiori gialli sottolinea la solarità della persona che lo riceverà. Se il bouquet, invece, è multicolore, si addice a un augurio di compleanno.

Apr 1, 2013 - Senza categoria    Comments Off on NARCISSUS TAZETTA

NARCISSUS TAZETTA

narciso

Narciso! Il mito di Narciso è raccontato da Ovidio nel libro III delle Metamorfosi. Narciso nacque da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua bellezza, rapita dal dio fluviale Cefiso, cingendola con le tortuose correnti dei suoi corsi d’acqua, la violò. La ninfa diede alla luce un bambino di eccezionale fascino che chiamò, appunto, Narciso. Preoccupata per il suo futuro, la neo-mamma consultò il veggente cieco Tiresia per sapere se il fanciullo avesse raggiunto la tarda vecchiaia. Tiresia così rispose: “Se non mirerà mai se stesso”. Al sedicesimo anno d’età Narciso era un giovane di tale bellezza che molti ragazzi si innamorarono di lui. Egli, indifferente, preferiva passare le giornate cacciando in solitudine.

Tra gli spasimanti, la più incalzante era la ninfa Eco. Lei era stata punita da Giunone perché, tutte le volte che avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe concubine di Giove, astutamente, la distraeva intrattenendola con lunghi discorsi aiutando le ninfe a sfuggire alle ire della dea gelosa. Quando Giunone si accorse dell’inganno disse: “Di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporre solo in parte. Ridottissimo sarà l’uso che tu potrai farne”. Eco, perciò, non poteva fare uso della propria voce se non per ripetere l’eco delle ultime parole che udiva. Quando incontrò Narciso e se ne innamorò, era già priva della parola. Eco lo scorse mentre Narciso cacciava i cervi in una foresta. La ninfa, che non sa tacere se si parla, ma nemmeno sa parlare per prima, cominciò a seguire le sue orme. Narciso, insospettito, si mise ad urlare: “C’è qualcuno”? Eco ripeté: “Qualcuno”. Stupito, egli scrutò tutti i luoghi, gridò a gran voce: “Vieni!”. Non mostrandosi nessuno, continuò: “Perché mi sfuggi”! Quante parole diceva, altrettante ne riceveva per risposta. Insistette e, ingannato dal rimbalzare della voce “Qui riuniamoci” ,esclamò. Eco, che a nessun invito mai avrebbe risposto più volentieri, ripeté “Uniamoci”. Allegramente, balzando fuori del cespuglio, tentò di abbracciarlo. Narciso la respinse allontanandosi precipitosamente e lasciando Eco che, lamentandosi, continuava ancora a ripetere le ultime parole dette da lui. Afflitta e amareggiata, la bella ninfa vagò e, consumandosi per struggimento d’amore e di rimpianto, svigorì nel corpo. Non restarono che la voce e le ossa. La voce esiste ancora e ovunque si può sentirla: è il suono che vive in lei e che ancora fa eco nelle valli solitarie ripetendo le ultime sillabe delle parole pronunciate dagli umani. Le ossa, tramutate in sassi, sono state deposte vicino ad uno specchio d’acqua. La dea Nemesi, istigata da uno degli amanti respinti, alzando le mani al cielo, profetizzò: “Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama”! Nel bosco c’era Liriope, la fonte dalle acque limpide, argentee e trasparenti che mai pastori, caprette o altre bestie avevano toccato, che nessun uccello, fiera o ramo staccatosi da un albero avevano intorbidato. Attorno c’era un prato e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo. Il giovane Narciso, spossato dalle fatiche della caccia, qui venne a sdraiarsi, affascinato dalla bellezza del posto, per bere l’acqua della sorgente, ma, mentre cercava di calmare la sete, attratto dall’immagine che vide riflessa, restò incantato e s’innamorò di una chimera: di un corpo che, però, era solo un’ombra. Dapprima non riconobbe se stesso, poi capì: “Io sono te“. Egli si lamentava poiché non riusciva a stringere e a toccare l’immagine. Ai suoi lamenti rispondeva solo la ninfa Eco che, nascosta nel bosco, li ripeteva. Neanche il bisogno di cibo e di riposo riuscì a staccarlo di lì. Disteso sull’erba, fissava con lo sguardo inappagato quella forma che l’ingannava. Poi, sollevandosi un poco, tese le braccia al bosco dicendo: “[…] Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto? Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore. Un velo d’acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d’acqua, verso di me si protende offrendomi la bocca. Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore. Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m’illudi, fanciullo senza uguali? Io, sono io! Ho capito, l’immagine mia non m’inganna più! Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma!” Resosi conto dell’impossibilità di amare e di baciare l’immagine di sé riflessa nella superficie d’acqua, Narciso si lasciò morire. “[…] Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni […]”.  Si avverava la profezia di Tiresia. Allorché le Naiadi e le Driadi, che presero il suo corpo per dargli degna sepoltura, scoprirono un bellissimo fiore dai petali dal colore dello zafferano col capo chinato sull’acqua alla ricerca del proprio riflesso. A quel fiore fu attribuito il nome Narciso.

Lo scrittore greco Pausania ha raccontato che il Narciso esisteva già prima del personaggio di Ovidio visto che il poeta epico Pamphos, vissuto molto anni prima, nei suoi versi ha narrato che Persefone, quando fu rapita da Ade, stava raccogliendo dei fiori di Narciso.

Da questa narrazione si evince che nel linguaggio dei fiori il Narciso è il simbolo “degli egoisti e delle persone piene di sé ”. Indica, pertanto, “vanità, egoismo, incapacità di amare”.

Diversa è la simbologia orientale. In Cina il Narciso è simbolo di “prosperità e di felicità” ed è donato in segno augurale di buon anno.

Nella Bibbia il Narciso e il Giglio, per i loro colori chiari e luminosi, sono simbolo solare di “rinascita” e raffigurano la primavera. Salomone, nelCantico dei Cantici( 2,1), nel Colloquio fra gli sposi scrive:Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli. Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle”. Nel nuovo Israele Isaia (35-1,2) scrive: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio”. Il genere Narcissus comprende 40 specie di piante bulbose appartenenti alla famiglia delle Amaryllidaceae e originarie dell’Europa, dell’Africa settentrionale, del Giappone e della Cina dove fu introdotto nell’ottavo secolo attraverso la via della seta. Italia, Spagna e Portogallo sono i Paesi dove è più facile trovare Narcisi allo stato spontaneo presenti in una vasta gamma di habitat. Le specie selvatiche che abbondano nei prati e nei boschi umidi di pianura e di montagna fino a 2000 metri di quota sono: il Narcissus pseudo-narcissus, il Narcissus tazetta, il Narcissus nobilis, il Narcissus nivalis, e il Norcissus poeticus, quest’ultimo ampiamente diffuso nei prati alpini. La coltivazione del Narciso è iniziata intorno al XVI secolo in Inghilterra e in Olanda. Ancora oggi le due nazioni, insieme agli Stati Uniti, sono le maggiori produttrici di Narcisi. I Narcisi si ibridano tra loro con gran facilità e le numerosissime varietà di ibridi di tanti colori hanno originato uno dei generi di bulbose più coltivate.

Il nome Narciso, dal latino “narcissus” e dal greco “νάρκισσος”, probabilmente deriva da “ναρκάωstordire, intorpidire, fare addormentare” per  l’intenso odore dei suoi fiori. Nell’antica Grecia il Narciso era noto per il caratteristico profumo intenso, inebriante e penetrante dei fiori che si credeva avesse proprietà tranquillanti, anestetiche e antidolorifiche, quindi era capace di stordire. Da qui la derivazione della parola “narcotico“. Gli egizi decoravano i propri defunti. Infatti, fiori di Narciso sono stati ritrovati nelle loro tombe in ottimo stato di conservazione dopo oltre 3000 anni.

Il termine “tazetta” probabilmente è riferito alla forma a tazza del fiore.

Il Narcissus pseudonarcissus, conosciuto comunemente come “Trombone o Tromboncino”, è una pianta bulbosa alta 50 centimetri. Dal bulbo sotterraneo partono le lunghe e strette foglie lanceolate che, spuntando a fioritura avviata, formano ciuffi di elementi sottili di colore verde chiaro con leggere sfumature azzurre. In cima ad uno stelo, privo di foglie, isolati, si ergono i fiori composti da una corolla esterna bianca o gialla a sei tepali chiamata “corona” e da un’altra corona centrale interna detta “coppa” o “tromba” che presenta i bordi frastagliati e il colore giallo intenso tendente all’arancio. E’ la trombetta. Una sola pianta produce da due a venti fiori. La fioritura avviene da marzo a giugno. La moltiplicazione avviene tramite la divisione dei bulbi in autunno. I Narcisi possono rimanere nel terreno per tutta l’estate. Dopo aver reciso il fiore appassito, si lasciano intatte le foglie e lo stelo fino al completo appassimento. Le sostanze nutrienti, prodotte dalla fotosintesi clorofilliana, si accumulano nel vecchio bulbo e in quelli nuovi che si formano durante l’estate. I bulbi possono rimanere nel terreno per tre anni, ma possono essere estratti e, accuratamente puliti, essere conservati in luoghi asciutti fino all’impianto. I bulbi s’interrano dalla fine di settembre ai primi di novembre ponendoli ad una profondità doppia della loro lunghezza. Il Narciso è uno tra i primi fiori da bulbo pronto a sbocciare per annunciare l’arrivo della primavera. Porta una nota di colore nel giardino ancora immerso nel grigiore dell’inverno che rallegra e adorna incomparabilmente con la sua abbondante fioritura. “[…] Spuntan col marzo le violette semplici e azzurre, il narciso giallo, la margheritina; fioriscono il mandorlo, il pesco, il corniolo, la rosa canina. Aprile ci porta la bianca violetta […]” così riferì in uno studio sui giardini il filosofo, saggista e politico inglese Sir Francis Bacon (Londra, 22 gennaio 1562 – Londra, 9 aprile 1626). Il Narciso, con i suoi colori chiari e luminosi, è visibile anche da lontano e diffonde nell’aria un profumo inconfondibile. E’ ideale per abbellire le aiuole dei giardini, per rallegrare i tappeti erbosi, per ornare davanzali e terrazze. La fama del Narciso come pianta da coltivare in  giardino è meritata poiché è di facile coltivazione, richiede poche cure e produce molti fiori. Può crescere ovunque perché è resistente al caldo e al freddo. Ama i luoghi soleggiati o semi-ombreggiati posto su terreni pesanti, freschi, anche argillosi, ma si adatta facilmente a qualsiasi tipo di terreno da giardino e, una volta piantato, tende a diventare perenne. In primavera e in estate è bene mantenere il terreno umido evitando i temuti ristagni d’acqua che potrebbero favorire le malattie fungine. Dopo la fioritura, è necessario fertilizzare il terreno per favorire l’ingrossamento dei bulbi. Per dare un aspetto gradevole e ordinato alle aiuole è sufficiente eliminare le parti danneggiate e i fiori appassiti. Il Narciso è una pianta soggetta a pochissime malattie. Può subire attacchi da parte di Acari, di Afidi e di muffe. Il microscopico acaro biancastro Rhizoglyphus echinopus provoca erosioni nei tessuti del bulbo. Fra gli insetti, le larve di Lampetia equestris e di Eumerus strigatus penetrano nei bulbi divorandoli. Gli individui adulti di Exosoma lusitanica rodono i fiori in primavera. L’attacco del fungo Rosellinia necatrix, detto marciume bianco, provoca il disfacimento dei bulbi e delle radici con rapido deperimento e morte delle parti epigee. Il Botrytis narciyssicola causa macchie brunastre sui fiori e bruno-grigiastre sulle foglie. Poi segue il marciume dell’intera pianta che si ricopre di una muffa grigia. I funghi del genere Penicillium provocano marciumi nei bulbi conservati in magazzini caldo-umidi e non ben aerati. Anche il Narciso, nella sua semplicità, cerca di dare il suo contributo alla scienza medica. Nella medicina popolare l’infuso della pianta di Narciso era usato come emetico. In omeopatia, la pianta fresca in fiore è utile per curare le infiammazioni delle mucose e i dolori delle ossa. Il bulbo del Narciso contiene la narcisina, un alcaloide velenoso che, se ingerito accidentalmente, provoca disturbi neurali e infiammazioni gastriche negli animali al pascolo e nell’uomo. Se non si interviene prontamente, può provocare la morte in poche ore. Nell’industria dei profumi si utilizzano alcune parti della pianta per ricavare le essenze. I fiori, industrialmente, sono utilizzati per fare mazzi recisi molto duraturi. I Narcisi sono coltivati a scopo commerciale in molti paesi del mondo. Attualmente  la maggior produttrice ed esportatrice di bulbi di Narciso è la Gran Bretagna. Una curiosità: Secondo la tradizione, Narciso, il santo di Gerusalemme che visse oltre cento anni, è ricordato per aver compiuto il miracolo della conversione dell’acqua in olio necessario per alimentare le lampade della sua chiesa. Il suo onomastico ricorre il 29 di ottobre.