Oct 20, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTE DI CYCAS REVOLUTA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LE PIANTE DI CYCAS REVOLUTA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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 La fotografia di questo bellissimo esemplare di Cycas revoluta, circondato da alcune piante di Celosia plumosa, mi è stata donata da mia cugina Lucia Lorello. Pertanto la trattazione della pianta di Cycas revoluta è un omaggio ai giovani del servizio civile di Mistretta che, attualmente, si stanno prendendo cura anche della villa comunale  “G.Garibaldi” guidati dall’ing Marco Fallaci.
In ordine sono: Azzolina Antonino, Coniglio Maria Grazia, Gentile Maria Grazia, Iudicello Dalila, Liddino Eleonora, Lorello Lucia.
Le Cycas sono piante preistoriche. Appartengono ad una delle più antiche famiglie vegetali apparse sulla terra. Sono dei fossili viventi. Oggi il Cycas è l’ultimo vegetale che rappresenta un mondo quasi scomparso. Fossili di Cycas sono stati ritrovati nel Triassico superiore e nel Giurassico vissuti circa 250 milioni di anni fa. Nel Cretaceo, che va da 66 a 140 milioni di anni addietro, le Cycas si svilupparono enormemente per decrescere gradatamente durante l’era Terziaria.
Tuttavia, pur essendo piante arcaiche, hanno conservato, sostanzialmente, le loro caratteristiche. E’ straordinario pensare come questo genere di piante sia sopravvissuto agli sconvolgimenti geologici adattandosi ai cataclismi provocati dall’uomo.

 

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Sono piante originarie dell’Asia tropicale, della Polinesia, del Madagascar, dell’Oceania, del Giappone, dell’Africa orientale e dell’Australia. Esistono dodici specie di Cycas tutte appartenenti alla famiglia delle Cycadaceae e, tra queste, la più comune, notevole per la sua bellezza, è il “Cycas revoluta”.
Scoperta alla fine del ‘700, la prima pianta di Cycas revoluta arrivò in Europa per la prima volta nel 1793 e fu messa a dimora nell’Orto Botanico di Palermo.

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 La Cycas revoluta è una bellissima pianta dall’aspetto di una palma. Si presenta con il fusto eretto, generalmente non ramificato, che ha la funzione di riserva d’acqua alla quale la pianta attinge nei periodi di siccità. Ha uno sviluppo molto lento, raggiunge la lunghezza di pochi centimetri nelle piante giovani, di 6-7 metri negli esemplari vecchi di oltre i 50 anni d’età. Il fusto porta alla sua sommità un ciuffo di foglie disposte a spirale. Le foglie giovani appaiono in primavera, raggomitolate e coperte da una densa peluria e, nello spazio di pochi giorni, si allargano e assumono rapidamente l’aspetto delle foglie mature. Sono sempreverdi, grandi, pennate, lunghe fino ad 1,5 metri, leggermente arcuate e formate da moltissime foglioline coriacee, di un bel colore verde intenso brillante, lucide ed appuntite all’estremità e circondano il fusto come se fosse una corona.
Le singole foglie, disposte a verticillo, si formano da una costa centrale assumendo, sia le foglie sia la costa, una forma più o meno inarcata verso il basso. Le foglioline più vicine al fusto si modificano in spine. Il diametro della chioma può misurare anche 2,5 metri. Tutte le Cycas sono dioiche, cioè esistono piante che portano solo i fiori femminili e piante che portano solo i fiori maschili.

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                                                                                                             Coni maschili

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                                                                                                             Fiori maschili

I fiori maschili, i microsporofilli, di forma squamosa, inseriti a spirale su di un’asse allungata, portano sulla faccia inferiore numerose sacche polliniche. I fiori femminili, macrosporofilli, riuniti in strobili terminali, si sviluppano in gran numero alla sommità del fusto ed hanno l’aspetto di tante foglie pennate e con gli ovuli posti al margine. Si formano al centro del ciuffo di foglie.

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                                                                                                                           Fiori femminili

Per poter fiorire, la pianta, deve contare almeno quindici anni d’età. Fiorisce nella tarda primavera e il fenomeno non si ripete ogni anno. Di solito, nelle condizioni ottimali di coltivazione, fiorisce una volta ogni due anni. L’impollinazione è entomofila ed anemofila. I granuli pollinici danno origine a due anterozoidi cigliati che raggiungono la camera pollinica nuotando. A fecondazione avvenuta, il rivestimento esterno del tegumento che avvolge l’ovulo diventa carnoso, di colore rosso scuro: è il frutto, una falsa drupa commestibile. Il frutto porta un grosso seme che  si sviluppa lentamente durante l’estate ed è poi raccolto all’inizio della primavera dell’anno successivo. La Cycas si propaga per seme e anche per polloni. La moltiplicazione per polloni si può eseguire in qualunque periodo dell’anno utilizzando i germogli che si formano alla base della pianta o lungo il tronco.  I polloni si devono fare asciugare per circa una settimana, il tempo necessario perchè la ferita cicatrizzi, poi si trapiantano.

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La Cycas è una pianta molto resistente, di facile coltivazione, poco esigente, pertanto non ha bisogno di particolari attenzioni. Anche se è d’origine tropicale, resiste bene al freddo sopportando temperature di alcuni gradi sotto lo zero ma per non troppo tempo. L’esposizione a temperature molto basse potrebbe causare danni alle foglie. Cresce un po’ ovunque, è importante che il terreno sia fertile, ben drenante in quanto non tollera i ristagni idrici. Nel giardino di Mistretta sono presenti diversi esemplari di Cycas revoluta perfettamente adattati all’ambiente e in ottimo stato di salute. Per quanto riguarda l’irrigazione, è bene sapere che il fusto è una riserva d’acqua alla quale la pianta può attingere in caso di lunghi periodi di siccità.
La quantità d’acqua di cui la pianta ha bisogno durante tutto l’arco dell’anno, anche nei giorni più caldi, è modesta: quella piccola quantità necessaria perché la terra non si asciughi completamente. Possiede un ritmo di crescita molto lento e, per produrre anche una sola foglia all’anno, raramente ne genera più di una, richiede molta luce diretta del sole per parecchie ore del giorno. Condizioni di luce troppo scarsa potrebbero causare l’arresto vegetativo. In primavera è bene eliminare le foglie più vecchie, che ingialliscono, e le parti secche, danneggiate o malate tagliandole il più possibile vicino al tronco. La pratica di eliminare subito le foglie danneggiate è molto importante sia perchè possono essere portatrici di malattie, sia perchè la loro eliminazione stimola la pianta a produrre nuove foglie.
Nei paesi d’origine il midollo del tronco è sfruttato a scopo alimentare per creare una fecola, chiamata sago, che è considerata un alimento apprezzabile. Siccome le Cycas sono spesso confuse con la “Palma da sago“, che appartiene al genere Metroxylon sagu, della famiglia delle Palme, è più probabile che esso si ricavi da questa pianta e non dal Cycas.

 

 

Oct 12, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTINE DI ALYSSUM MARITIMUM NELLA CAMPAGNA DI LICATA

LE PIANTINE DI ALYSSUM MARITIMUM NELLA CAMPAGNA DI LICATA

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Gentile Graziella,

Ecco l’Alysso.

Grazie professoressa!

Ti ringrazio per l’aiuto che mi hai dato questa estate, quando villeggiavo a Mistretta, nell’individuare la scrittura greca dell’Alyssum.
Guglielmo Gemoll è il mio vecchio vocabolario greco, che adoperai quando frequentai il Liceo classico a Mistretta, ma che adesso non risponde più alle mie esigenze.
Sicuramente è stato sostituito da altri vocabolari più aggiornati.
Però gli sono molto affezionata perché è uno dei pochi libri recuperati dalle macerie della mia casa dopo il terremoto del 31 ottobre del 1967.
Lo custodisco come una reliquia nella libreria di casa mia a Licata.
Grazie alla Tua collaborazione so che il termine “Alyssum” deriva dal greco “άλυσσον”, “erba antirabbica” perché, come racconta Plutarco, l’antica scienza medica popolare attribuiva a questa pianta la capacità di curare gli ammalati di rabbia.
Altri suoi sinonimi sono: Alyssum odoratum, Koniga maritima.
Però più comunemente la pianta è conosciuta col nome di Lobularia marittima.
Etimologicamente il nome del genere lobularia deriva dal latino “ globulus”, “piccola sfera” per la caratteristica forma della siliquetta.
Il nome della specie “maritima” fa riferimento all’habitat marino, ma vegeta anche in località lontane dal mare.
Ho osservato la Lobularia marittima percorrendo la strada Sant’Antonino, lungo la panoramica, vicino alla famosa baia di Mollarella, a Licata.  In primavera il cuscino di fiori bianchi di Lobularia maritima mostrava tutta la sua bellezza stretto con forza al muro di cinta di un villino di una proprietà privata.
Anche aggrappata alle fessure dei muretti a secco, attorno al giardino roccioso della mia campagna, la pianta è ricca di un delicato fascino.

https://youtu.be/PNNQGNj39x8

 

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La Lobularia marittima, appartenente alla Famiglia delle Crucifere e proveniente dalla zona del Mediterraneo, è una pianta diffusa in Europa meridionale e nell’Africa boreale.
E’ una pianta erbacea suffruticosa, annuale o perenne. Infatti, dove le condizioni climatiche lo consentono, essa può vivere anche oltre la sua naturale stagione. Legata al terreno mediante una radice sotterranea robusta e allungata, si erge con fusticini, prostrati o ascendenti, legnosi solo alla base, glabri e molto ramificati, fino a raggiungere complessivamente un’altezza di 10 -15 cm.
Le foglie, molto pelose, piuttosto piccole, semplici, quelle basali di forma spatolata, quelle cauline alterne e di forma lanceolato-lineari, con margine fogliare intero e liscio, sono di colore grigio-verde lucente dovuto alle numerose setole bianche. L’apice fogliare è acuto e la base spesso è attenuata in una specie di picciolo. Tutte le foglie sono disposte alternativamente lungo il fusto.
L’antesi si manifesta da maggio ad agosto anche se, fino ai primi freddi autunnali, la pianta continua a produrre numerosissimi piccoli fiori ermafroditi, con i petali di colore bianco o con sfumature rossastre, gradevolmente profumati di miele, riuniti in infiorescenze dense a racemo sull’apice dei rami.
Il fiore ha il calice formato da 4 sepali e la corolla da 4 piccoli petali circolari. Gli stami, di colore giallo, in numero di 6, sono tetradinami, cioè 4 più lunghi e 2 laterali più corti. Le antere, cariche di polline, sono di colore giallo. Il piccolo pistillo, posto all’interno del fiore, è poco visibile ad occhio nudo.

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 L’impollinazione è favorita dalle api e da tanti altri insetti attirati dalla grande quantità di nettare che il fiore produce. Il frutto è una siliquetta sferica di 3-4 mm che rimane attaccata al fusto mediante lunghi piccioli. Ogni siliquetta contiene due piccoli semi, uno per ogni loggia, circolari, piatti, dal diametro di 1-2 mm, di colore bruno scuro.
Dopo la fioritura, è consigliabile eliminare le parti secche. La propagazione avviene dalla primavera all’estate per dispersione del  seme in piena terra. Il seme germina entro 10-15 giorni. La nuova piantina cresce rapidamente assumendo un portamento prostrato e formando dei bei cuscini tappezzanti.
Per la sua bellezza ed eleganza la pianta di Alysso si può coltivare in vasetti o in cassette per guarnire i balconi delle abitazioni o per abbellire le aiuole dei giardini privati scegliendo un luogo riparato dal vento.
Predilige posizioni soleggiate o poco ombreggiate. Teme le temperature basse. I suoi habitat preferiti sono: i campi coltivati, i muri, le fessure dei lastricati, i terreni rocciosi e sabbiosi, sciolti, ben drenati, anche se poco fertili, le spiagge, le dune. Vegeta bene da 0 e fino a 300 metri d’altezza s.l.m.
Le piccole piante di Alysso, pur avendo un aspetto delicato, sono resistenti ai parassiti e alle malattie.
L’eccessiva umidità del terreno potrebbe essere la causa del marciume radicale.

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 La Lobularia maritima pare che non abbia proprietà curative notevoli per quanto riguarda i suoi impieghi fisioterapici ed erboristici. Per questo motivo è difficile trovarla citata negli antichi trattati di erboristeria.
In Spagna la medicina popolare, per il contenuto di vitamina C, attribuisce alle foglie di Lobularia maritima proprietà diuretiche, astringenti e antiscorbutiche. Le foglie giovani e i fiori sono usati in cucina per condire insalate e leccornie particolari grazie al loro sapore piccante. Nel linguaggio dei fiori e delle piante la Lobularia maritima simboleggia “la pace del cuore e la tranquillità interiore”.

 

 

Oct 5, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA CARISSA MACROCARPA -IL GELSOMINO AFRICANO DAI FIORI BIANCHI

LA CARISSA MACROCARPA -IL GELSOMINO AFRICANO DAI FIORI BIANCHI

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La Carissa macrocarpa grandiflora è la pianta che vegeta bene nel vaso posto davanti al negozio di elettrodomestici della signora Mara alla fine di via Campobello, a Licata, di fronte al Centro Commerciale San Giorgio. La pianta, curata con amore dalla stessa Mara, si manifesta rigogliosa e bellissima.
La Carissa grandiflora, la Carissa macrocarpa, l’Arduina macrocarpa, la Natal Plum, Prugna del Natal, come è conosciuta la Carissa in Sudafrica, sono sinonimi della stessa specie.
 Il genere Carissa, che  comprende circa trenta specie di piante sempreverdi appartenenti alla famiglia delle Apocynaceae, è diffuso prevalentemente nei paesi della zona tropicale e subtropicale dell’Africa,  dell’Australia, e della Cina.
Sicuramente la Carissa macrocarpa  grandiflora è la specie più diffusa e più conosciuta.
Altre specie sono: la Carissa acuminata, la Carissa arduina, la Carissa bispinosa, la Carissa brownii, la Carissa carandas, la Carissa congesta, la Carissa diffusa, la Carissa edulis, la Carissa lanceolata, la Carissa oblongifolia, la Carissa opaca, la Carissa ovata, la Carissa schimperi, la Carissa spinarum.

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La Carissa macrocarpa, originaria dalle aride selve dell’Africa meridionale, è una pianta sempreverde di medie dimensioni e dall’aspetto arbustivo tondeggiante molto denso e ramificato.
Allo stato spontaneo, nella sua terra d’origine, crescendo lentamente, può raggiungere anche i 5 metri di altezza.
In Europa e in Italia non supera mai i due metri presentandosi come un alberello di piccola e bassa taglia.
La pianta della signora Mara, coltivata nel vaso, è alta appena 60 cm. Spesso è sottoposta ad atti sgradevoli da parte dei ragazzi che frequentano le scuole nei pressi dell’attività commerciale della signora Mara.
La Carissa macrocarpa possiede i fusti lisci e spinosi per la presenza di numerose spine acuminate (esistono cultivar dove le spine sono assenti).
Le foglie, semplici, di forma ovale, opposte, rigide, coriacee, dal colore verde intenso brillante, sono appuntite e lucide.
Per esaltare la bellezza del fogliame, per togliere gli strati di polvere e di smog, la signora Mara spesso pulisce pazientemente tutta la chioma con un lucidante specifico.
La Carissa macrocarpa regala una spettacolare fioritura stellare che inizia in primavera e si prolunga fino all’autunno quando contemporaneamente sulla stessa pianta si possono osservare fiori e frutti.
I fiori, solitari, profumati, quasi cerosi, di solito posti agli apici dei rametti terminali, hanno la forma di piccole stelle bianche. Ricordano i fiori d’arancio e di gelsomino. La disposizione leggermente rotata ad elica dei 5 petali rivela la caratteristica appartenenza della Carissa alla famiglia delle Apocynaceae, la stessa alla quale appartengono gli oleandri, le pervinche e le plumerie.

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Alla fioritura segue la produzione del frutto, una bacca ovale o rotonda, della grandezza di una susina, di circa 3 cm di diametro, che passa dal colore verde quando è acerba al rosso vivo quando è matura. La bacca matura, commestibile, ha la polpa dal sapore gradevole, dolce e delicato, un insieme di fragola, di ribes e di mela, tanto che nel mondo anglosassone è chiamata “susina del Natal” e “winter plum“, “susina d’inverno”, è ottima per produrre marmellate, gelatine e macedonie. Anche gli uccelli ne sono avidi.

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In alcune specie i frutti sono consumati immaturi in salamoia come le olive.
Il frutto contiene i semi, fino ad un massimo di 16 elementi, che sono velenosissimi.
Le altre parti della pianta di Carissa, i fusti per il latice e le foglie, contengono sostanze velenose nocive soprattutto all’Uomo. La Carissa macrocarpa si moltiplica facilmente per semina o per talea semilegnosa.
In primavera si preleva dalla pianta madre un rametto semilignificato che si interra e si aspetta la formazione delle radici. Successivamente si procederà alla definitiva messa a dimora scegliendo una zona calda e luminosa al riparo dalla luce diretta del sole almeno per il primo periodo di vita.
Quando la piantina avrà raggiunto almeno i cinque centimetri di altezza allora si potrà esporla in pieno sole per molte ore al giorno.
La produzione dei fiori sarà meno spettacolare e i frutti meno deliziosi se la pianta sarà collocata in un luogo dove l’illuminazione è insufficiente.
Si adatta ad essere utilizzata come pianta d’appartamento grazie alle sue foglie lucide, alla forma dei suoi rami ed al suo portamento espanso. Nella bella stagione è di notevole effetto sui terrazzi e sui balconi.
Le piante riprodotte da seme inizieranno a fruttificare a partire dal secondo anno di vita.
La Carissa è una pianta rustica, di facile coltivazione, anche se richiede qualche accortezza.
Evidenzia una buona resistenza al freddo, sopporta qualche grado di temperatura al di sotto dello zero per il tempo non eccessivamente prolungato.
Gelate più severe causano alla pianta gravi conseguenze fino a causarne la morte.
Nelle zone dove l’inverno è lungo e rigido, pertanto, è consigliabile coltivare la Carissa in un vaso in modo da poterlo spostare in un luogo riparato e più caldo.
Non teme la salinità ed il vento marino, quindi si può coltivare anche sulle zone costiere.
Richiede terreni regolarmente fertili, sabbiosi, asciutti, molto ben drenati.
Le annaffiature devono essere moderate evitando i ristagni d’acqua che potrebbero causare marciumi alle radici.
Sono gradite leggere concimazioni liquide settimanali durante il periodo della crescita e della fioritura.
Non necessita di potature; un leggero taglio della chioma serve per armonizzarne la forma e pulirla dai rami secchi.
La Carissa non si lascia attaccare facilmente dalle malattie e dai parassiti.
Teme particolarmente l’attacco della Cocciniglia.
E’consigliabile, comunque, effettuare un trattamento preventivo con un insetticida ad ampio spettro e con un fungicida sistemico in modo tale da prevenire l’attacco da parte degli Afidi e lo sviluppo di malattie fungine spesso favorite da un clima fresco e umido.
Per le spine molto aggressive, dure, fitte, appuntite, robuste e perfino biforcute e ben distinte dai rami, in alcune parti del mondo, soprattutto in Africa, le piante di Carissa macrocarpa sono modellate in belle siepi difensive ed impenetrabili usate come barriera vegetale per delimitare i confini, proteggere i villaggi, bloccare il bestiame dentro i recinti.

Una lunghissima aiuola, al Porto turistico “Marina di Cala del Sole”, a Licata, è aggraziata dalla presenza di un folto gruppo di piante di Carissa macrocarpa fiorite che rendono piacevole la mia passeggiata pomeridiana.
Ammiro i fiori bianchi stellati, le lucide foglie, i frutti rossi e neri, quelli più maturi.

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Sep 29, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MIO VILLINO

IL MIO VILLINO

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 Il mio soggiorno estivo a Mistretta per l’anno 2014 è terminato. A Licata la stagione estiva continua ad agire anche se, astrologicamente, è arrivato l’autunno. Il caldo è ancora afoso e opprimente.
Il villino è il luogo ideale che, accogliendomi, mi permette di sopportare l’umida calura che si protrarrà ancora per molto tempo. A Licata l’inverno non arriva quasi mai. Il sole splende ogni giorno. La nebbia mai. Piove raramente e, quando piove, la pioggia cade violentemente. Il fiume Salso, quando è in piena, provoca paura. Dominano i venti di Scirocco e di Libeccio.
Una mia amica una volta mi ha chiesto: “ Al tuo paese, a Mistretta, quando nevica la neve fa rumore?”
Mistretta e Licata sono due realtà molto diverse tra loro!
Il mio villino si trova a Licata, in contrada Montesole – Gianotta. E’ posto in collina, a 119 metri sul livello del mare, in una zona residenziale dalla quale si può ammirare non molto lontano il mare della famosa baia di Mollarella.

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E’ circondato da una superficie terriera estesa 5000 m2 dove insiste una vasta pineta. Attorno al villino due ampie verande, pavimentate con la pietra rosata dorata estratta nella cava della ditta SAPEM di Mistretta, inducono al relax.

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 Le verande Sono circondate da aiuole lunghe e circolari fiorite quasi tutto l’anno. Sono abbellite da giare e da vasi di ceramica, acquistate nel negozio di Alessia e Fabio, due fratelli molto cortesi che mi incoraggiano all’acquisto dei prodotti Desuir Duca di Camastra, a Santo Stefano di Camastra, la città della ceramica. Numerose sono le piante di Hoya, dalla corolla carnosa, che fioriscono in estate, regalando deliziosi fiori rosa profumati, che hanno meritato il nome di “fiore di cera”.

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Di fronte all’ingresso principale il Pinus pinea dona la sua ombra refrigeratrice e i gustosi pinoli.

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 Il giardino roccioso, alla destra della casetta, accoglie Aloe, Agavi, Yucche, Acacie.  Un bellissimo cespuglio di Rosmarino, che circonda il lampione, nei suoi fitti rami carichi di fiori profumati ospita nidi di uccelli, api e  numerose farfalle dalle ali variopinte.

I fiori di  Helichrysum, che fioriscono nel mese di maggio, rallegrano l’ambiente con la tonalità giallo-paglierina dei suoi fiori. Sono detti immortali e semprevivi perché, recisi, durano a lungo come fiori secchi. Curo particolarmente questi cespugli, raccolgo i fiori e con essi guarnisco il vaso della tomba di Carmelo.

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 Lungo il viale, bordure di Mioporo e di Pittosporo offrono sempre una chiara visione verde brillante.  Alcuni Giafagliuni” di Chamaerops humilis, crescono spontanei sulla roccia assieme agli Oleandri.

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 Certamente non mi sono scoraggiata dinanzi alla macchia mediterranea incolta, affollata, ingarbugliata, intricata, pungente. Così si presentava il pezzetto di terreno acquistato diversi anni fa. Mi servivano gli attrezzi da lavoro per i primi rapidi interventi. Ho subito preparato: forbici, taglia erba, zappe, sega, rastrello e tutto l’occorrente per creare un primitivo passaggio nella selva. Bisognava urgentemente togliere tutte le erbe infestanti, bonificare il terreno e creare un ambiente giovane e nuovo. Grazie anche alla collaborazione dagli agenti del Corpo Forestale, che mi hanno fornito le piantine, ho messo a dimora, nel lontano 1979, quarantacinque alberi di diverse qualità: il Pinus halepensis, il Pinus pinea, il Pinus pinaster, le Tuie, l’Araucaria. I peri, gli albicocchi, i peschi, i melograni, i gelsi regalano gustosi frutti genuini. Ho sistemato tutte le piante nel bel mezzo del terreno e lungo il perimetro.

É nata una pineta, un polmone verde naturale. Sita nel cuore della collina, ha modificato sensibilmente il vecchio paesaggio. Ricordo ancora come nel periodo estivo, trasportando con i bidoni l’acqua prelevata alla fontanella di Via Palma, aiutavo nella crescita le piantine allora molto piccole!

 In questa fatica mi sostenevano gli uccelli che, saltellando, non avevano paura della mia presenza, mi facevano compagnia e ripetevano l’eco del mio fischiettio.

Così sono cresciuti! Con amore!

Adesso tutti gli alberi sono diventati adulti ed hanno raggiunto un’altezza rilevante.

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 Certo non è la pineta di Ravenna, o di S. Rossore, o di Viareggio, o del Tombolo, o di Castel Fusano, dove folte pinete sono state impiantate dagli etruschi e dai romani; ma la mia pineta è importante perché mi ha fatto faticare molto, perché ha cambiato il paesaggio arricchendolo di una vasta macchia di colore verde visibile da chi, attraversando la strada di San Michele, alza lo sguardo verso la montagna. Famoso è il profumo della pineta, apprezzato è quel senso di sollievo e di liberazione che si prova inspirando l’aria balsamica! Sono le resine che, sotto forma di minutissime goccioline invisibili sparse tutto intorno dalle piante maestose, raggiungono il nostro olfatto.

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Due alberi di Ulivo, che vegetavano già in questo ambiente, adesso sono diventati monumentali. Il fusto attorcigliato ha la circonferenza di circa 150 cm. I rami principali sono carichi di rametti, di foglie verdi e di grosse olive, della varietà “nocellara”, pronte per essere raccolte e spremute.

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Sotto le fronde degli alberi trovano riparo i tantissimi conigli. E’ uno spettacolo osservarli quando si nutrono dei fili d’erba o saltano e ballano tutti insieme formando gruppi di 7,8 elementi. Escono dalle loro tane all’alba e all’imbrunire per mangiare. Non temono la mia presenza.

Siamo amici!  Sono contro la caccia. La mia unica arma è la macchina fotografica.

 

 

 

Sep 19, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA BELLISSIMA PARTHENOCISSUS QUINQUEFOLIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA BELLISSIMA PARTHENOCISSUS QUINQUEFOLIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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23 Settembre. Equinozio d’autunno. La durata delle ore di luce eguaglia la durata delle ore di buio. Diamo l’addio alla stagione estiva e il benvenuto alla stagione autunnale.
La pianta di Parthenocissus quinquefolia offre l’aspetto della sua maggiore bellezza proprio in autunno quando l’insieme delle foglie assume splendide tinte scarlatte molto vivaci e brillanti e, in special modo, quando la pianta è ben esposta al sole come quella che ben vegeta nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta.

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Il Parthenocissus è un genere che comprende circa dieci specie di piante rampicanti a foglie caduche appartenenti alla famiglia delle Vitaceae e ampiamente diffuse nell’America settentrionale, nell’Asia orientale, in Cina, in Giappone. Alcune specie sono state introdotte in Europa nel XVII secolo andando ad  abbellire i giardini pubblici e privati. In Italia crescono ovunque adattandosi alle più svariate condizioni ambientali e climatiche. Più comunemente, tutte le specie sono conosciute con l’unico nome di ”Vite americana”.
Esistono le varietà: il Parthenocissus himalayana, il Parthenocissus inserta, il Parthenocissus quinquefolia,il Parthenocissus thomsonii, il Parthenocissustricuspidata.
Il termine del genere “Parthenocissus” deriva dal greco “παρθένος”, “abbondanza, pienezza”  e da “κισσός”, ”viticchio, edera” per la produzione abbondante delle foglie.  Il nome della specie “quinquefolia” ricorda il numero cinque dei lobi fogliari.
Le Viti americane sono piante rustiche, vigorose, a crescita rapidissima.Dal terreno si dipartono i tralci legnosi che, muniti di ventose terminali o di uncini, aderendo strettamente ai muri, alle pareti degli edifici, ai pergolati, alle cortecce degli alberi, permettono alle piante di innalzarsi.
Il Parthenocissus quinquefolia, conosciuta con i sinonimi “Vitis hederacea”, “Vite vergine”, “Vite del Canada”, perché originaria dell’America settentrionale, presente nella villa comunale di Mistretta, è la specie più conosciuta.
La pianta si è strettamente avvinghiata al muro adiacente alla Casa circondariale, allungandosi in verticale senza bisogno di essere sostenuta da nessun altro supporto. E’ bella, altissima, snella, elegante.
E’ avidissima di luce, pertanto il muro al quale si è aggrappata, per la diretta esposizione ai raggi solari per molte ore del giorno, è il suo luogo ideale tanto da essere stimolata ad emettere moltissime foglie capaci di compiere un’efficacissima fotosintesi clorofilliana. Le grandi foglie alterne, ellittiche, formate da cinque foglioline, sono di colore verde-grigio sulla pagina superiore, di colore verde-azzurro sulla pagina inferiore. Presentano il margine finemente dentato e le nervature molto accentuate.

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 In primavera compaiono le infiorescenze costituite da racemi di piccoli insignificanti fiorellini di colore giallo-verdognolo.
I frutti, piccole bacche tondeggianti di colore scuro a maturazione autunnale, sono un alimento molto gradito agli uccelli e permangono sulla pianta per quasi tutto l’autunno. La moltiplicazione avviene per semina e per talea semilegnosa. In estate, allo scopo di alleggerire e di diradare i rami troppo folti, la pianta potrebbe essere sottoposta ad una leggera potatura.

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La Vite americana è impiegata come essenza ornamentale per coprire costoni rocciosi, barriere verticali, cancelli, ringhiere ai quali aderisce perfettamente e che invade estendendosi.
Non richiede particolari esigenze pedologiche. Resiste bene al freddo e all’inquinamento atmosferico. Apprezza un terreno umido e ricco di nutrimento e necessita di una buona quantità di fertilizzante alla fine dell’inverno. Le annaffiature devono essere regolari in autunno e generose in estate assicurando anche un ottimo drenaggio. Non ha molti nemici naturali. Tuttavia l’attacco degli Afidi potrebbe rovinare i boccioli e i germogli.
La pianta non ha particolare interesse in fitoterapia. Gli americani la utilizzavano come rimedio medicinale per combattere la diarrea, per risolvere i problemi di minzione, per alleggerire i gonfiori e le tumefazioni. Foglie e frutti, ingeriti per via orale, provocano infiammazioni alla bocca e, talvolta, potrebbero provocare nell’uomo antipatici fenomeni tossici. Meglio evitare!

 

 

 

 

 

 

 

 

Sep 14, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’ERICA VAGANS NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

L’ERICA VAGANS NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Dopo una lunga permanenza, da luglio a settembre, a Mistretta, al mio paese natio, finalmente sono rientrata a casa mia, a Licata. Sono ritornata fra le mie vecchie cose e soprattutto fra le mia amate piante. Non hanno sofferto né la solitudine, né la mancanza d’acqua perchè Domenico, il mio giardiniere, periodicamente si reca in campagna, in contrada Montesole-Giannotta, ad accudirle amorevolmente e a dare loro da bere.
Il villino si trova in collina, a 119 metri sul livello del mare, in una zona residenziale e, pertanto, provvista di tutti i servizi. A Licata la pioggia si fa desiderare quasi tutto l’anno, specialmente nel periodo estivo, tuttavia la ditta Girgenti acque assicura la fornitura di acqua potabile anche in quella zona. Nel mio giro d’ispezione, fra le tante piante spontanee, ho notato nuove piantine di Erica che abbelliscono la parete rocciosa che circonda la casa.
Il nome Erica a quest’arbusto sempreverde, legnoso, glabro, delicato, ma vigoroso, è stato attribuito da Plinio. Il termine Erica deriva dal greco “ερείκω” che significa, appunto, “spezzare” per la fragilità del fusto. Pare che Pedanio Dioscoride ( I° sec.d.C.), medico greco considerato uno dei primi studiosi di botanica che nel suo erbario “De materia medica libri quinque” descrisse erbe utilizzate in medicina, scelse questa definizione perché la radice dell’Erica riesce a spezzare persino la silice. Esistono più di 500 specie di Erica apprezzate perché piante decorative e ornamentali.

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L’Erica vagans, appartenente alla famiglia delle Ericacee, vive in Europa meridionale e occidentale, in Africa e in Asia minore come pianta selvatica. In Italia predilige i terreni aridi, calcarei o silicei dove cresce spontaneamente dal mare alla zona submontana formando magnifiche siepi e tappezzando terreni. Alta 25 centimetri appena, è bellissima per la fioritura abbondante e precoce dei suoi fiori piccoli, campanulati di colore rosa, disposti in grappoli, che la fanno spiccare sulle rocce.
Ha foglie verdi verticillate, lucide, strette; mal sopporta la sete e poco accetta le annaffiature troppo abbondanti o frequenti. Per questo motivo, nella mia campagna  di Licata, si tiene lontana dalle aiuole che ospitano particolari piante che invece reclamano di bere acqua a giorni alterni soprattutto in estate. L’Erica non va mai sicuramente a riposo, infatti è presente quasi tutto l’anno. Fiorisce prevalentemente in primavera e in estate e, per aiutare la pianta, bisogna avere l’accortezza di togliere le infiorescenze appassite subito dopo la fioritura.
L’Erica possiede diverse virtù officinali.
Fa aumentare la diuresi, facilita l’espulsione dei calcoli renali, sa curare la cistite d’origine prostatica e le coliche nefritiche, funge da antibiotico naturale perché ricca di sostanze batteriostatiche e battericide. Si raggiungono benefici effetti assumendo ogni giorno alcuni cucchiai da caffè di estratto fluido, ottenuto facendo bollire in un litro d’acqua un pugno delle sommità fiorite di Erica fino a ridurre il liquido ad un terzo del suo volume. Questo rimedio è stato indicato dalla vecchia medicina “dei semplici”, così come tutti gli altri consigli.

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Io raccolgo, con cura e affetto particolari, nella mia campagna una piccola quantità di rametti di Erica di cui faccio una ghirlanda che porto a Carmelo De Caro al cimitero.

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Era innamorato di questa pianta per la sua modestia, per la sua semplicità, per la sua resistenza, per la sua poca invadenza.
La cerco anche nascosta tra le pietre.
Per lui scelgo l’Erica multiflora, dai fiori di colore bianco, perché è simbolo d’ammirazione e di compagnia.
L’Erica, in generale, è simbolo d’amarezza e di solitudine. Inoltre, avvicinandomi alla pianta, sento una musica ammaliante: è il ronzio delle api che visitano i fiori da cui traggono il polline. Anche le farfalle sono degli assidui frequentatori.

 

 

Sep 7, 2014 - Senza categoria    Comments Off on ANTONIO TURCO E IL VIDEO SULLA FESTA DI SAN SEBASTIANO A MISTRETTA

ANTONIO TURCO E IL VIDEO SULLA FESTA DI SAN SEBASTIANO A MISTRETTA

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Educato, rispettoso, cordiale, gentile, garbato Antonio Turco è il giovane studente liceale mistrettese che, con l’hobby della fotografia e dei filmati, riesce a raccogliere immagini e a creare documenti che ricordano importantissimi eventi di famiglia, di paesi, di luoghi.

Con il suo DRONE, che volava altissimo nel cielo grigio di Mistretta, la sera del 18 agosto u.s. ha registrato  la festa religiosa e folkorica del  martire San Sebastiano patrono della città.

Ha saputo cogliere i momenti più salienti, come la corsa del Santo e della Varetta nella via Libertà, il rientro dei simulacri nella chiesa, i giochi d’artificio, la numerosa presenza di persone provenienti anche dai paesi limitrofi.

Antonio ha sapientemente riprodotto tutta la cerimonia festosa in onore di San Sebastiano in un DVD dove l’attenta osservazione del video fa rivivere ai mistrettesi e non solo il brivido emotivo al grido unanime “viva San Sebastiano”.

Il DVD è stato allestito da Antonio con molta bravura e capacità professionale. Già il fronte della copertina della custodia, molto bella ed elegante, fa rivivere il momento dell’uscita del Santo dalla Sua chiesa, mentre il retro, che registra l’esplosione dei giochi pirotecnici, suscita allegria nei partecipanti che applaudono. Il video è arricchito dai titoli, dagli effetti speciali, dalla colonna sonora.

Invito, pertanto, i visitatori del mio blog ad aprire il trailer per assaggiare in anteprima una piccola parte del film. ANTONIO TURCO è su facebook.

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Anche se i festeggiamenti agostani in onore di San Sebastiano a Mistretta si sono conclusi, tuttavia

ripropongo la lettura dell’articolo sulla vita del Santo patrono e sulla Sua festa.

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LA VITA DI SAN SEBASTIANO E LA SUA FESTA A MISTRETTA

   Su Sebastiano sono state riportate molte notizie, ma le fonti storiche certe dalle quali si possono ricavare i pochi elementi sulla vita, sul luogo del martirio e della sepoltura e sulla festività liturgica sono: la “Depositio Martyrum”, il più antico calendario della Chiesa di Roma risalente al 354, che lo ricorda il 20 gennaio, e un’annotazione del “Commento al salmo 118” di Sant’Ambrogio, (340-397), secondo il quale Sebastiano, di origine milanese, si era trasferito a Roma. Altre notizie sulla vita di Sebastiano sono narrate nella Legenda Aurea scritta da Jacopo da Varagine e, in particolare, nella Passio Sancti Sebastiani, opera curata da Arnobio il Giovane, monaco probabilmente del V secolo. La Passio Sancti Sebastiani è molto ricca di episodi e di particolari biografici, però è ritenuta poco attendibile nonostante la “storia” del Santo sia stata compilata intorno alla metà del sec. V, quando la memoria di Sebastiano poteva essere ancora viva, e l’autore mostri un’ottima conoscenza della pianta di Roma. Sebastiano, secondo Sant’Ambrogio, è nato a Milano nel 256, dove è cresciuto e educato alla fede cristiana, da madre milanese e da padre di Narbona, alto funzionario della Francia meridionale. Fu il Santo italiano di origine francese e venerato come martire dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa Cristiana Ortodossa. Il nome Sebastiano deriva dal greco “σεβαστός” col significato di “degno d’onore, augusto, imperiale”.

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 Prima di raccontare la vita di Sebastiano è giusto dare una piccola introduzione storica. Nel 260, poiché l’imperatore Galliano aveva abrogato gli editti persecutori contro i cristiani, seguì un lungo periodo di pace durante il quale i cristiani, pur non essendo riconosciuti ufficialmente, erano stimati occupando, alcuni di loro, importanti posizioni nell’amministrazione dell’Impero. Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, desiderava portare avanti questa condizione pacifica. Dopo 18 anni, su istigazione di Galerio, scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto l’impero. Intanto Sebastiano si era trasferito a Roma nel 270 intraprendendo, intorno al 283, la carriera militare. Diventò un alto ufficiale dell’esercito imperiale. Fu il comandante della prestigiosa prima coorte della guardia imperiale di Diocleziano stabile a Roma per la difesa dell’Imperatore. Per le sue doti di fedeltà e di lealtà e per la sua intelligenza, fu molto stimato dagli imperatori Massimiano e Diocleziano che non sospettavano della sua fede cristiana. Grazie al suo incarico, godendo dell’amicizia dell’imperatore Diocleziano, ha potuto mettere in pratica azioni a favore dei cristiani, prestando aiuto a quelli segregati in carcere e condotti al supplizio, e ha potuto curare la sepoltura dei martiri. Ha fatto anche opera missionaria diffondendo la religione e convertendo al cristianesimo soldati, militari, magistrati, nobili della corte. Lo stesso governatore di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio, da lui convertiti, avrebbero affrontato il martirio. Sebastiano, per la sua opera di assistenza ai cristiani, da papa San Caio fu proclamato “difensore della Chiesa”. Proprio quando, secondo la tradizione, aveva seppellito sulla Via Labicana i Santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti i Quattro Coronati, fu arrestato e portato davanti a Massimiano e a Diocleziano. Diocleziano, già irritato perché in giro si era diffusa la voce che nel palazzo imperiale si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, interrogò il tribuno. Tutto ciò non poteva passare inosservato a corte. Diocleziano, che odiava profondamente i fedeli a Cristo, avendo scoperto che anche Sebastiano era cristiano, così lo affrontò: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me ingiuriando gli dei”. Questo aspetto della vita del Santo, diviso tra il giuramento militare e la sollecitudine verso i sofferenti, fu motivo della sua condanna. Sebastiano, per ordine di Diocleziano, fu, quindi, per la prima volta arrestato, portato fuori città, denudato, legato al tronco di un albero in una zona del colle Palatino chiamato “campus”. Essendo un soldato, gli fu concesso il supplizio “onorevole”, quello, cioè, di morire trafitto dalle frecce lanciate da alcuni commilitoni tanto da sembrare un riccio con gli aculei eretti, “ut quasi ericius esset hirsutus ictibus sagittarum“. Abbandonato dai suoi carnefici, fu creduto morto. Sebastiano non morì! La nobildonna Irene, vedova di Castulo, pietosamente, andò a recuperare il corpo per dargli la giusta sepoltura secondo l’usanza dei cristiani. Rendendosi conto che non era morto, lo condusse nella sua casa sul Palatino, gli medicò premurosamente le numerose ferite. Miracolosamente, Sebastiano guarì. Egli, che cercava il martirio, recuperate le forze, volle proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e a Massimiano mentre gli altri imperatori, per assistere alle funzioni, si recavano al tempio eretto da Elagabolo in onore del Sole Invitto. Diocleziano, superato lo stupore per la vista di Sebastiano, che sapeva di essere stato ucciso perchè lo accusava di perseguitare i cristiani, ordinò che fosse flagellato a morte per la seconda volta. Il martirio di Sebastiano avvenne il 20 gennaio del 304 a Roma, sui gradus helagabali, cioè sui gradini di Elagabalo, sul versante orientale del Palatino, e il suo corpo fu gettato nella Cloaca Massima affinché i cristiani non potessero recuperarlo. La tradizione racconta che il martire Sebastiano, apparso in sogno alla matrona Lucina, le indicò il luogo dove giaceva il suo cadavere e le ordinò di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” sulla Via Appia. Mani pietose recuperarono la salma e la seppellirono nelle catacombe. Le catacombe, oggi conosciute come le catacombe di San Sebastiano, erano chiamate allora “Memoria Apostolorum” perché, dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano, nel 207, di radunarsi e di celebrare nei “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense e le trasferirono sulla Via Appia in un cimitero considerato pagano. In quello stesso luogo fu eretta una chiesa in onore di Sebastiano. Costantino, nel secolo successivo, fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi e là furono costruite le celebri basiliche. Sulla Via Appia fu costruita la “Basilica Apostolorum” in memoria dei due apostoli. A questo luogo, famosa meta di pellegrini, si deve la diffusione del culto di Sebastiano nell’Europa cristiana, culto che aumentò sempre di più per i numerosi prodigi attribuitigli e soprattutto per l’invocata protezione contro la peste. Fino a tutto il VI secolo i pellegrini che si recavano al cimitero per visitare la tomba dei Santi Pietro e Paolo, visitavano anche la tomba del martire Sebastiano la cui figura era diventata molto popolare. Nel 680, allorché si attribuì la fine di una grave pestilenza a Roma per Sua intercessione, il martire Sebastiano fu eletto taumaturgo contro le epidemie e la sua chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”. Il Santo, venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma dopo gli apostoli Pietro e Paolo. Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) che ne mandò una parte alla chiesa di San Medardo di Soissons il 13 ottobre dell’ 826. Gregorio IV (827-844), suo successore, fece trasferire il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e fece inserire il capo in un prezioso reliquiario che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati dove tuttora è venerato. Gli altri resti di San Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218 quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di San Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta. Nel XVII secolo l’urna fu posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare dove si trovano tuttora. La comunità amastratina ha ottenuto dal Vaticano un’importantissima sacra reliquia del martire San Sebastiano. Ad una prima richiesta, con esito negativo, ha rimediato la Provvidenza. Infatti, nel riordino del tesoro della basilica costantiniana di San Pietro, è stato trovato un altro frammento osseo appartenente al cranio di San Sebastiano che ha consentito alle Autorità vaticane di concedere il prezioso reperto e la sua autentica datata 22 luglio 2009 ai mistrettesi. San Sebastiano è il patrono di numerosi comuni italiani e stranieri. È particolarmente venerato in Sicilia fin dal 1575, anno in cui infuriò la peste e in molte città era invocato contro la terribile epidemia. Ma il culto si diffonde sin dal 1414 anno in cui, secondo un antichissimo documento custodito negli archivi della Basilica in Melilli, una statua del Santo martire sarebbe stata ritrovata presso l’isola Magnisi, in provincia di Siracusa. Sempre secondo quanto riportò questo documento, alcuni marinai sostennero di essere stati salvati da un naufragio grazie alla protezione di quella statua. Subito accorsero in quel luogo centinaia di persone incuriosite provenienti da tutta la provincia. Nessuno dei presenti riuscì a sollevare la cassa contenente il simulacro del Santo, nemmeno il vescovo di Siracusa accompagnato dal clero e dai fedeli della città. Ma i cittadini di Melilli l’1 maggio del 1414, giunti sul posto, riuscirono a sollevare la cassa che, entrata in paese tra invocazioni e preghiere, divenne di nuovo pesante, chiaro segnale che San Sebastiano voleva fermarsi proprio lì. All’ingresso del paese un uomo fu guarito dalla lebbra, fenomeno attribuito al primo miracolo del Santo. San Sebastiano è il santo invocato contro le epidemie in generale insieme a San Rocco, a Sant’Antonio Abate e a San Cristoforo. San Sebastiano è venerato nella cittadina di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Nella basilica minore di San Sebastiano, sita in Piazza Duomo, è custodito un resto sacro che contiene l’osso dell’avambraccio del Santo martire detto “u virazzu di Sammastianu“. San Sebastiano è il Santo patrono di Mistretta dove riscuote tanta venerazione. San Sebastianoè il Santo Patrono della Polizia Municipale,dei Militari in genere,deifabbricanti di aghi, degli arcieri, di quanti hanno avuto a che fare con oggetti a punta simili alle frecce. La spiegazione di proclamare San Sebastiano patrono dei Vigili Urbani d’Italia da parte di Pio XII si trova nel Breve Pontificio del 3 maggio del 1957. Il breve pontificio così recita: ” Tra gli illustri martiri di Cristo i militari occupano un posto di primissimo piano presso i fedeli per la loro peculiare religiosità e per l’ardente impegno a compimento del dovere. Tra questi brilla San Sebastiano che, come riferito dalla tradizione, durante l’impero di Diocleziano fu comandante della coorte pretoriana e fu onorato con grandissima devozione … e a lui si consacrano molte associazioni sia militari sia civili attratte dal suo esempio e dalle virtù cristiane…. per cui, dopo aver consultato la Sacra Congregazione dei Riti, soppesata accuratamente ogni cosa, con consapevolezza e matura deliberazione, nella pienezza della nostra potestà apostolica, in forza di questa lettera costituiamo e dichiariamo per sempre San Sebastiano Martire custode di tutti i preposti all’ordine pubblico che in Italia sono chiamati Vigili Urbani e celeste patrono di tutti i privilegi liturgici, specialmente di quelli che competono, secondo rito, ai Patroni…dato a Roma presso San Pietro sigillato col timbro dell’anello del Pescatore il 3 maggio 1957, undicesimo del nostro pontificato”.

PREGHIERA

Signore Iddio,

Tu che vigili il corso degli astri ed ogni cosa disponi con soavità e con fermezza, nell’ordine della Tua Provvidenza, veglia su di noi, votati al servizio dei nostri fratelli.

Tu ci donasti, nella vita terrena, l’esempio luminoso di fedele obbedienza alle leggi di Cesare, di amorosa sollecitudine verso chi è debole, di infinito amore verso chi erra, di umile e faticosa operosità nel quotidiano lavoro.

Dio umanato, rendici degni di te affinché la nostra giornata terrena sia degna anch’essa della missione a noi confidata.

Concedici, per intercessione di Maria, Madre Immacolata, di essere pronti a soccorrere chi ha bisogno di noi, esatti nel dovere, amanti della legge, fraterni con chi sbaglia, forti nell’intemperie, decisi contro chi offende la morale, la religione, la legge.

Così aiutando gli uomini nella loro dura quotidiana fatica, saremo suscitatori di concordia e di pace nella turbinosa vita che corre nel mondo.

E porteremo in esso l’eco gioiosa dell’armonia dei cieli.

Moltissime sono le iconografie riproducenti San Sebastiano nella storia. Nell’arte medioevale fu raffigurato come un uomo anziano, con e senza la barba, vestito da soldato romano o con addosso lunghe vesti proprie dell’abbigliamento di un uomo del Medioevo e senza frecce in corpo. Nel Rinascimento è stato rappresentato legato ad una colonna, nudo e trafitto da frecce.  Dal Rinascimento in poi diventò l’equivalente degli dei e degli eroi greci decantati per la loro bellezza come Adone o Apollo. Successivamente, ispirandosi ad una leggenda del VIII secolo secondo la quale il martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon nelle sembianze di un efebo, pittori e scultori lo raffigurarono come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o ad una colonna e trafitto dalle frecce. Anche Michelangelo, nel “Giudizio Universale”, lo immaginò nudo e possente come un Ercole mentre stringe in pugno un fascio di frecce.

San Sebastiano urna

LA FESTA DI SAN SEBASTIANO

   La festività di San Sebastiano è celebrata dal mondo occidentale il 20 gennaio e dal mondo orientale il 18 dicembre. A Mistretta San Sebastiano si festeggia in due periodi: il 20 gennaio, giorno in cui la Chiesa ricorda il Suo martirio, e il 18 agosto per consentire di venerare il Santo agli emigrati presenti a Mistretta per le ferie estive e ai turisti. Il culto del Santo sembra sia stato introdotto nell’anno 1063, ma la devozione a San Sebastiano si estese tra 1625 e il 1630 quando s’invocò la sua intercessione per fermare la terribile epidemia di peste che affliggeva tutta la Sicilia e che aveva mietuto tantissime vittime. La Sua intercessione e la fervente preghiera del popolo fermarono il contagio anche a Mistretta. L’epidemia scomparve. Il venti gennaio, poiché le condizioni climatiche non sono favorevoli, l’inverno mistrettese è molto freddo, la giornata è corta e spesso la neve fa la sua apparizione, la festa di San Sebastiano è celebrata solo dai paesani in tono minore rispetto alla festa del mese di agosto, limitatamente alla processione, senza gli addobbi luminosi, i giochi pirotecnici e la raccolta dei “miracoli“. E’ ugualmente un giorno importante. La pesante vara di San Sebastiano, uscita dalla Sua chiesa, è portata a spalla da circa 60 portanti che indossano un tradizionale costume con camicia e calze bianche, con pantaloni di velluto nero e con un fazzoletto di color carminio al collo. Svolgono questo piacevole compito con fede ed entusiasmo tramandando il posto sotto la Vara, secondo la tradizione, da padre in figlio. La Varetta è trasportata a spalla dai giovani del paese in numero molto minore poiché è più leggera. San Sebastiano percorre le strade del paese, secondo un percorso più corto, fermandosi nei posti dove, in passato, erano ubicati gli ospedali o nei luoghi di assistenza agli ammalati spesso soggetti alle epidemie. In alcuni punti assegnati il Santo corre. La corsa ha il significato di allentarsi rapidamente per evitare il contagio della peste. Il fercolo di San Sebastiano è preceduto dalla Varetta recante le reliquie di San Sebastiano e i ceri votivi, simbolo delle grazie ricevute.

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La festa dl mese di agosto, “a festa ranni“, “a festa ru vutu“, presenta non solo le caratteristiche di religiosità, ma soprattutto di folklore. I mistrettesi residenti altrove tornano al paese natio facendo coincidere la loro permanenza a Mistretta con la festa del Santo Patrono. Già il 19 agosto, il giorno successivo alla festa, il paese si spopola riprendendo l’aspetto invernale quando non s’incontra quasi nessuno nella piazza e nelle strade. La festa è gestita dal Comitato, un gruppo di persone che assumono l’impegno di tutta l’organizzazione. Spettacolare è “la raccolta dei miracoli”. Lo stendardo di San Sebastiano, trattenuto da due giovani che stringono i nastri laterali, accompagnato in processione dal presidente del Comitato, dalla banda musicale e da altri ragazzi, nella mattinata si recano nelle abitazioni di quelle persone che, per avere ricevuto il dono della grazia richiesta, offrono gli ex-voto. Una volta il compenso al voto consisteva nell’elargizione di prodotti della natura, soprattutto di frumento dopo la sua raccolta, e dei grossi ceri prodotti a Mistretta. Oggi i prodotti in natura sono stati sostituiti da una certa somma in denaro. Le offerte ricevute dal Santo sono esposte nella vara e i ceri nella varetta. Col suono della banda è accompagnata anche la Società fra i Militari in Congedo per ricordare che anche San Sebastiano era un militare. Qualche giorno prima della festa il gruppo dei bersaglieri sfila di corsa per la via principale della città suonando la marcia flick flock e suscitando grande allegria fra la gente. Nel pomeriggio si svolgono i giochi con i ragazzi delle scuole e sfilano i cavalli. La processione inizia dopo la celebrazione della Santa Messa. I portanti sono chiamati per recitare insieme la loro preghiera e per baciare l’urna del Santo che contiene un osso del cranio. Quindi esce dalla chiesa prima la Varetta, poi il fercolo di San Sebastiano entrambi addobbati con i garofani rossi. Il lenzuolo, formato dalle offerte delle banconote, fa bella mostra ai piedi del Santo.

La gente applaude.

La processione si snoda per le vie del paese dove brusche salite e ripide discese mettono a dura prova la forza e la resistenza dei portanti che si muovono con un movimento ritmico a passo di marcia, la cosiddetta “annacata”.

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 La corsa della Vara di San Sebastiano e della Varetta è un momento molto atteso dalla gente che grida ”Sammastianuzzu senza dannu”. Corrono tutti: i sacerdoti, le autorità civili e militari, le due bande, la folla dei mistrettesi, la gente dei paesi vicini richiamata dallo sfarzo e dalla grandiosità della festa. Nel tratto terminale, che va dal palazzo Salamone Vincenzo alla chiesa di San Sebastiano, la marcia “della bersagliera“, della banda dei bersaglieri, accompagna l’ultima corsa. E’ una grande emozione!

 I portanti si lanciano a velocità sostenuta quindi girano seguendo la curva a gomito davanti alla chiesa. Sempre correndo, fanno il cambio di spalla. Rimanendo sotto la Vara, si girano per tornare indietro. Per un attimo la Vara resta sospesa in aria.

Numerosi sono i fedeli che aspettano il passaggio delle Vare fermi ai bordi delle strade, oppure affacciati ai balconi o stipati nei ballatoi. Con l’omelia, con la benedizione eucaristica, con l’esecuzione da parte della banda musicale del canto Tantum Ergo si chiude la festa religiosa. La festa folkloristica continua con gli spari dei giochi pirotecnici, con il sorteggio del premio messo in palio, che generalmente consiste in una macchina nuova, con l’esibizione nella piazza Vittorio Veneto degli artisti negli spettacoli di vario genere, con la passeggiata lungo la Via Libertà.

Aug 24, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA FESTA DELLA MADONNA DELLA LUCE E DEI GIGANTI – IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA LUCE A MISTRETTA

LA FESTA DELLA MADONNA DELLA LUCE E DEI GIGANTI – IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA LUCE A MISTRETTA


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La tradizione antica racconta che i primi abitatori della Sicilia furono degli uomini dalle forme gigantesche. Tucidide scrive:” Si dice che i più antichi siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola. Io non saprei dire che razza fossero e dove siano andati a finire”.
Anche la Bibbia  (Genesi, VI,4) nella Corruzione dell’Umanità, parla dei giganti: “ C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figliole degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi ”.  E in Baruc, nell’Elogio della Sapienza, (III;26-28) si legge: “ Là nacquero i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella guerra; ma Dio non scelse costoro e non diede loro la via della sapienza: perirono perché non ebbero saggezza, perirono per la loro insipienza”.
Tommaso Fazello afferma che “[…] in diversi luoghi dell’isola si sono trovati sotto terra grandissimi corpi di uomini che non possono essere d’altri se non di questi antichi giganti, ma se essi nacquero quivi o pur vennero d’altro paese è difficile trattare determinatamente. Questi personaggi stavano in grandissime caverne […]”.
Per quanto riguarda il mito dei giganti di Mistretta e, in generale, dei giganteschi primitivi abitatori della Terra, è interessante l’ipotesi del sacerdote don Liborio Lombardo che così scrive: “[…] I Gesanti, primi mitici antenati generati dalla Terra, ricordano, nella stessa terra ove vissero un tempo, l’autoctonia del popolo che ne celebra ancora oggi la festa […] ”.

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I giganti, eroi della forza, protagonisti di miti e di lotte titaniche, trasformati dalla fervida fantasia popolare in guerrieri vestiti con un’armatura di stile greco-romano, sono diventati nel tempo custodi del simulacro della Madonna della Luce di Mistretta.
La Grande dea Madre mediterranea, da loro venerata, è diventata la Madonna e i Giganti sono stati integrati nella fede cristiana. In molti paesi i giganti hanno acquistato la stessa simbologia. I giganti sono esseri preistorici, paladini della fede, guardie della Madonna della Luce, la cui devozione è molto accesa nel popolo amastratino. Per i bambini sono individui eccezionali ai quali attribuiscono un’anima che fa paura.

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Sono il mito vivente che si ripete. Infatti, i bambini inventano i loro piccoli giganti costruendoli utilizzando pezzi di legno, cartoni, stoffe e, accompagnandoli col suono del tamburo, li fanno sfilare per la città assieme ai giganti grandi imitando i portanti adulti e copiando gli stessi balli e gli stessi gesti. Per gli studiosi i giganti sono i mitici fondatori della città, i più antichi abitatori del territorio della città di Mistretta che trasformarono e antropizzarono a loro misura. I giganti sono vestiti con maniera particolare.
Kronos ha l’elmo con la criniera rossa appoggiato in testa, la folta barba che ricopre buona parte del volto, la mano destra che sorregge una lunga spada e il braccio sinistro inserito dentro le cinghie che sostengono lo scudo rotondo ornato di lucenti borchie, il mantello rosso appoggiato sulle spalle.
Mitia, dai lineamenti molto femminili,  ha sulla testa l’elmo col pennacchio azzurro, sul braccio sinistro lo scudo, simile a quello di Kronos, nella mano destra un mazzolino di fiori di campo e di spighe, simbolo di fecondità, e il corpo ricoperto da un abito metalizzato.
Questi giganti sono stati clonati dai precedenti.
I primi  giganti, nel 1959, sono stati messi  a riposo perché usurati e pesanti.
Ho visto delle copie dei giganti custodite al palazzo Mastrogiovanni-Tasca,  nella chiesa delle Anime Purganti, nella chiesa della Madonna delle Grazie e di Padre Pio.
Nel 1999 il comitato che organizza la festa ha fatto eseguire la copia dei giganti, analoga alla precedente, ma molto più leggera perché realizzata in vetroresina mentre la testa e le mani sono di cartapesta.

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I giganti amastratini, partecipando a tanti raduni internazionali, dedicati ai giganti provenienti da ogni parte del mondo, hanno riscosso un grande successo per la bellezza dei loro costumi e per l’esibizione nelle movenze durante il ballo.
I Giganti di Mistretta hanno partecipato a diversi raduni nazionali: all’EXPO di Milano nel 2015, ai raduni internazionali di Matadepera in Spagna e di Steevoord in Francia. Grazie alla partecipazione a questi eventi la Città di Mistretta ha intessuto rapporti di collaborazione culturale finalizzata alla promozione di tradizioni che risalgono al XVI secolo. Negli anni 2011, 2012 e 2015 la città di Mistretta ha anche ospitato i raduni internazionali dei Giganti. Per questo motivo molti studiosi hanno eletto Mistretta centro di studi sul fenomeno dei Giganti in Sicilia.
I Giganti a Palermo!
La città di Palermo, negli eventi di “Palermo Capitale della Cultura 2018”,  ha inserito la partecipazione dei Giganti di Mistretta Mithia e Cronos che hanno inaugurerato la 394° edizione del festino di  SANTA ROSALIA – “PALERMO BAMBINA”  sfilando  il 10 Luglio 2018 per il Cassaro, dalla via Maqueda fino al piano delle Cattedrale, dove hanno ballato in onore di Santa Rosalia, “A Santuzza“, patrona della città.
Il commento del sindaco avv. Liborio Porracciolo: <<Dopo lunghe trattative intessute con il Sindaco di Palermo avv. Leoluca Orlando e con l’Assessore alla Cultura, grazie alla preziosa collaborazione di Mons. Michele Giordano, arciprete della città di Mistretta, e dell’Associazione Amastra Fidelis,  il Comune di Mistretta, i giganti Mithia e Kronos, il Complesso Bandistico e il Gruppo Folk “Amastra” hanno aperto il Festino di Santa Rosalia in data 10 Luglio.
I Giganti sono stati accompagnati da oltre 100 persone, che hanno fatto loro da corona sfilando e ballando con coreografie originali, e dal Complesso Bandistico che ha eseguito un apposito repertorio musicale>>.

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Da sx: Liborio Porracciolo sindaco di Mistretta- Leoluca Orlando sindaco di Palermo

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Foto di: Lucio Cicala, Santina Rondine e Giuseppina Russa

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Foto di Roberta La Mantia che ringrazio

 LA FESTA DELLA MADONNA DELLA LUCE

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A Mistretta ogni anno si ripete il mito della festa della Madonna della Luce e dei Giganti, festa che non è solo professione di fede, ma storia, leggenda antica, folklore.

 

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Dal 2016  la festa è oRganizzata e gestita dall’Associazione “Amastra Fidelis“.
I giganti, “Kronos, il Tempo”, che impugna la spada sguainata e “Mitya, il Mito”, che tiene nella mano destra un mazzetto di spighe e di fiori di campo, dal Santuario adiacente al cimitero, dove abitano tutto l’anno, salgono a Mistretta nel mesi di agosto, prima della festa di San Sebastiano.

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Praticamente, l’acchjanata ri gesanti precede di alcuni giorni la festività della Madonna della Luce.
I giganti girano per la via Libertà e per le altre strade del paese esibendosi in balli non molto aggraziati e attorniati e ammirati dalla gente, soprattutto dai bambini.
La festa della Madonna della Luce si compie in due ambiti territoriali: quello urbano e quello cimiteriale.
Il giorno sette settembre, il primo giorno della festa, parte dal paese il corteo formato dai Giganti, dai sacerdoti, dai fedeli, dalla banda musicale, dalla gente.
L’incontro avviene “a Crucidda”, e tutti insieme, in processione, accompagnano la Madonna della Luce fino al Santuario di Maria Santissima dei Miracoli.
Come i Giganti proteggono la Madonna è veramente emozionante!
Si inchinano profondamente dinanzi a Lei in segno di riverenza.
All’interno della Chiesa  si dispongono come sentinelle l’uno a destra e l’altra a sinistra del portale della chiesa stessa.

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A trabbunedda “A Crucidda”

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Di ritorno dal santuario della adonna della Luce

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Durante il cammino processionale  la gente rivolge alla Madonna della Luce  questa implorazione:

Marunnuzza ri la Luci,
 a vui jettu la me vuci,
vi la jettu accussì ardenti
Marunnuzza facitimi cuntenti.
 Pu Bambinieddu c’aviti mrazza
 cunciritimi sta razia
Ratimi socchi m’aviti prumisu,
li vostri razzie
 e lu santu Paradisu.

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foto di Mario Amastratys

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Foto di salvatore Piscitello

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Nella piazza dinanzi al santuario della Madonna dei Miracoli i giganti, per festeggiare il Suo arrivo a Mistretta, dopo la celebrazone dei Primi vespri,  si esibiscono in una ballata sciolta.
Il ballo è esteriorizzazione del sentimento religioso in cui paganesimo e cristianesimo, leggenda e misticismo popolare si fondono insieme per ravvivare annualmente nel popolo amastratino il sentimento delle proprie radici.
La ballata è speranza, è preghiera, è pantomima del corteggiamento durante la quale Kronos, con lo sguardo rude, e Mytia, in sembianze matronali, da truci guerrieri diventano moderni ballerini dai movimenti lenti e poco virili.
I Giganti sono portati dai portanti, perché non hanno le gambe, e sostenuti dalle loro spalle. Senza i portanti i giganti sarebbero senza vita e senz’anima.
I portanti conservano e gestiscono un codice di segni, di gesti, di inchini, di movimenti delle spalle mediante i quali ripetono una coreografia arcaica, ma sempre nuova.

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La festa continua il giorno dopo, l’otto settembre, nella ricorrenza della natività di Maria.

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  All’’interno della chiesa sono celebrate le Sante Messe solenni.
Alle ore 12:00 i giganti si esibiscono nei loro spettacolari e festosi balli.

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 Nel pomeriggio dello stesso giorno il fercolo della Madonna della Luce, condotto in processione per le vie della città, accompagnato dal clero, dalle autorità civili e militari, dalle associazioni con le fiaccole, dalla folla festosa, dalla banda musicale e dai giganti, che si dispongono sempre la femmina a destra e il maschio a sinistra nel ruolo di guardie del corpo,  fa ritorno nella Sua casa la sera.

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Foto di Giuseppe Ciccia

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 Foto di Luigi Marinaro

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Foto di Giuseppe Ciccia

In Piazza Vittorio Veneto lo spettacolo pirotecnico incanta i presenti.

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Foto di Salvatore Piscitello

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Foto di Luigi Marinaro

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E’ un pellegrinaggio di gente proveniente anche dai paesi vicini.
La solenne benedizione, il grande falò, la luminaria di fuoco, allestito nello spiazzo antistante il santuario, concludono la festa   della Madonna della Luce.
Il falò, che illumina la notte, è il simbolismo della luce abbagliante della Madonna della Luce nella grotta, oppure della luce nascente che rievoca la purificatrice luminaria del mondo popolare contadino al tempo dei raccolti in onore di Demetra e della romana Pale.
I giganti si esibiscono in una ballata finale nel piazzale antistante il santuario concludendo la festa in un contesto di sacro e di profano, di amore e di fede che si tramanda di generazione in generazione.
La folla applaude.
La Madonna della Luce è ricollocata nella sua “nicchia”.

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Foto di Mario Amastratys

L’estrazione dei biglietti dei premi messi in palio dalla lotteria regala ai fortunati estratti qualche gioia  in più.

 

IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA LUCE A MISTRETTA

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La chiesa della Madonna della Luce è stata edificata tra il XIV e il XVI secolo come cappella rurale alle pendici del cono di roccia su cui era stato edificato il castello arabo -normanno. Accanto alla grotta sorgeva un romitorio rupestre dove si riuniva a pregare qualche comunità monastica durante l’invasione araba.
Questa chiesetta era luogo di pellegrinaggio che accoglieva numerosi pellegrini. Essendo molto piccola e insufficiente a potere contenere i devoti, l’originaria piccola cappella fu ampliata tra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500.
Esattamente dentro quella grotta furono rinvenuti l’icona luminosa raffigurante la Madonna e i due giganteschi scheletri. Successivamente, con la tradizionale festa dei “gesanti” la chiesa è stata elevata a Santuario della Madonna della Luce.
La piccola chiesa, con un porticato su colonne che la circondava su tre lati e con annessi gli alloggi per gli eremiti, fu ingrandita ancora nel 1747. Nel 1754, per interessamento del sacerdote don Filippo Portera, la chiesetta fu nuovamente ampliata portandola allo stato attuale di chiesa a croce latina.
Sotto il procuratore Pasquale Cannata, la chiesa, tra il 1808 e il 1830, fu ulteriormente manomessa con l’aggiunta di transetto e tiburio come attestano le date apposte sul portale e sulla volta del presbiterio.
Nella facciata principale, da ignoto scalpellino siciliano nel 1808, fu realizzato il portale d’ingresso in arenaria formato da due colonne interne che sorreggono una struttura ad arco nella cui chiave di volta sono raffigurate le facce di due angeli che si sfiorano, e da due colonne esterne che sorreggono l’architrave rettangolare. Sulla facciata, ancora più in alto, dentro una figura romboidale, si scorge una croce e si legge la scritta J M S.

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Dal 1884 in poi ha subito una radicale trasformazione nella sua morfologia esterna poiché sono state demolite le casette addossate e sono stati costruiti gli edifici di servizio del cimitero. La chiesa, infatti, è adiacente al camposanto poiché la costruzione dell’attuale Cimitero monumentale, su progetto di Giovan Battista Filippo Basile nel 1884, unì la facciata della chiesa alla cinta muraria del cimitero e, con atto di acquisto del 6 agosto del 1879, la chiesa diventò di proprietà del Comune.

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Nel 1830 furono realizzate le principali decorazioni delle volte, furono applicati gli stucchi, furono affrescate le mura con figure
di angeli, con scene di vita della Vergine, con elementi vegetali e animali, lavori eseguiti prevalentemente dal palermitano
Salvatore De Caro.

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Il transetto, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fu pavimentato utilizzando piastrelle di ceramica decorate interamente a mano dal signor Rosario Piscitello di Santo Stefano di Camastra. La pavimentazione della navata, in maiolica dipinta a mano, di Santo Stefano di Camastra, è della metà del XIX secolo.

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Il pavimento era stato sovrapposto all’antico lastricato e per questo era stato necessario abolire il primo gradino dell’altare maggiore del quale restano ancora gli elementi lapidei.

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Successivamente, anche la restante parte della chiesa fu pavimentata con piastrelle di ceramica che si sovrapposero al lastricato.
La zona centrale, di forma quadrata, decorata interamente a mano, raffigurava il Sacro Cuore.

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Nel presbiterio sull’altare maggiore in marmo, di età tardo- barocca, abbellito da un’edicola in stucco, entro un ovale si venera l’antica immagine tardogotica della Madonna in trono che allatta il Bambino, realizzata ad affresco, d’inestimabile valore, e risalente alla seconda metà del XV secolo.

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L’immagine della Madonna, recentemente restaurata, è  ora esposta nell’altare maggiore del santuario della Madonna dei Miracoli per accogliere la preghiera dei fedeli e dove si celebra la “QUINDICINA”  in onore della Madonna della Luce nella speranza, come dice Mons. Michele Giordano, che “possa celebrarsi nel Suo Santuario, dove si celebrava  una volta, non appena sarà perfettamente restaurato e nuovamente agibile”.

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La recita della “Salvi Rigina

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e della preghiera tradizionale del santo Rosario.

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La Madonna, con intensa espressione, nel sorriso appena abbozzato rivela un profondo e mistico senso di umanità con segni di tenerezza e di grazia tutta cristiana. L’affresco è stato realizzato da un anonimo artista, probabilmente da un monaco basiliano.
I simboli della Luna e del Sole, posti pure nell’altare maggiore del Santuario, sono simboli semitici.

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Un anonimo artista, probabilmente del XII secolo, risalendo al fascino dei locali culti di Astarte, dea della luce, di Demetra, dea della Terra, e di Afrodite, divinità protettrici del fuoco inteso come luce, raffigurò i due corpi celesti con tratti antropomorfi secondo le religioni orientali, ma aggiungendo, secondo i canoni della cultura medievale, il motivo cristiano dei dischi raggiati.
Una cancellata di ferro battuto, degli inizi del XIX secolo, impedisce l’accesso al presbiterio. La chiesa è stata arredata dalle cappelle e dagli altari.

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Nel braccio sinistro del transetto è collocata la cappella della statua della Madonna della Luce, una scultura lignea policroma e rivestita di oro zecchino risalente alla seconda metà del XVI secolo. E’ protetta da una nicchia in edicola decorata in stucco e sostenuta da un sottostante altare con paliotto marmoreo della seconda metà del XVIII secolo.

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E’ la statua che attualmente si conduce durante il cammino processionale dei giorni 7 e 8 settembre per la festa della Madonna della Luce, restaurata nel 1999 assieme alla portantina, e allo Stellario dorato. La testa della statua è impreziosita dalla “raggiera“, dorata e decorata, che dona un senso di particolare regalità.

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Nell’altare  laterale sinistro è stata collocata la statua lignea policroma del Crocefisso, del XVII secolo, entro l’edicola decorata in stucco. Il paliotto marmoreo sotto l’altare risale alla seconda metà XVIII secolo.

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Nell’altare laterale destro è stato collocato il quadro olio su tela di San Cataldo, raffigurante il Santo Vescovo in cattedra tra le SS.me vergini Marta e Veneranda, opera di ignoto pittore siciliano  probabilmente del 1635. L’olio è collocato dentro l’edicola decorata in stucco. Anche l’altare di San Cataldo mostra nella parte sottostante il paliotto marmoreo della seconda metà XVIII secolo.

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Il simulacro in cartapesta di San Pasquale Baylon inizialmente fu posto nella cappella di sinistra e poi in quella di destra. E’una scultura in legno tela e colla, probabile opera di artista francescano locale degli inizi XIX secolo. San Pasquale Baylon è posto dentro la nicchia in edicola decorata in stucco. Il sottostante altare mostra il paliotto marmoreo della seconda metà XVIII secolo.

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Vicino alla porta d’ingresso, sulla sinistra, è collocata la statua della Pietà.

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La chiesa custodisce gli affreschi: l’Assunzione di Maria Vergine

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Lo sposalizio della Vergine Maria

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La presentazione di Gesù al tempio

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Nella volta l’angelo con l’autografia del pittore Salvatore De Caro

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e molti altri affreschi

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Nella cantoria c’era un organo di quattro registri con cassa policroma del’700 attribuibile ad Onofrio Guzzio (Lo Gussio) da Castelbuono. Restaurato, attualmente è conservato nella chiesa di San Sebastiano.

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Essendo la chiesa non di primaria importanza e fuori delle mura della città, non ha avuto una corretta manutenzione per la sua protezione, pertanto, col passar del tempo, l’edificio continua a subire il persistente inesorabile degrado tanto da costringere l’Amministrazione Comunale a vietare categoricamente l’accesso al suo interno. E’ una vera offesa per chi ama la cultura, l’arte, la storia, essere privato dell’osservazione di un così pregevole bene.
Con i pochi e insufficienti interventi, tuttavia necessari dopo il sisma del 31 ottobre del 1967, fu sostituita la pavimentazione della navata centrale con mattoni di cemento pressato, furono ripristinate alcune parti d’intonaco interno, fu rivestita d’intonaco di cemento la facciata esterna. Gli interventi più recenti, eseguiti all’inizio del 1997, riguardarono il consolidamento della cappella destra e della volta.  Sono, comunque, interventi sporadici.
La chiesa custodisce, inoltre, i giganti nuovi, di vetroresina, (quelli vecchi, di cartapesta, sono ospitati nel palazzo Mastrogiovanni-Tasca),

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 Il Comitato della “Madonna della Luce”, che mantiene vivi la tradizione e il culto mariano, è stato il sostenitore di questa clonazione dei giganti avenuta qualche anno fa.
Un ricordo e una prece all’amico Peppino Lipari, che indossa la fascia del comitato, valido sostenitore della festa della Madonna della Luce e dei Giganti, prematuramente scomparso.
Con molto entusiasmo e con precisa puntualità, mi ha accompagnato dentro la chiesa per realizzare questo mio reportage fotografico.
Grazie Peppino!

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Fede e arte sono inseparabili: il tesoro della Madonna della Luce è esposto al Museo del Palazzo della cultura Mastrogiovanni –Tasca a Mistretta.

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SPLENDOR LUCIS è il convegno sulla festa della Madonna della Luce di Mistretta che si è tenuto domenica 1 settembre 2019 nel Santuario della Madonna dei Miracoli a Mistretta.

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Hanno relazionato: la dott.ssa Santina Rondine, il prof. Sebastiano Lo Iacono, il prof. Francesco Cuva.
Hanno condotto i lavori: Mons. Michele Giordano e Giuseppe Ciccia.

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da sx: Sebastiano Lo Iacono-Santina Rondine-Michele Giordano-Giuseppe Ciccia-Francesco Cuva

La dott.ssa Santina Rondine  ha magistralmente spiegato e mostrato le fotografie  degli oggetti sacri argentei conservati nel santuario della Madonna della Luce.

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Si tratta di un ostensorio, di tre calici, di due corone, di una navetta, di un incensiere.
Ha descritto le incisioni,  il periodo storico, le iniziali dell’artista che ha realizzato l’opera.
Il prof. Sebastiano Lo Iacono, seduto sul gradino, ha intrattenuto la platea raccontando teatralmente la leggenda dei Giganti che ha radici lunghe. Cominciò con l’arrivo ad Amastra di fra’ Benedetto. S’era ai tempi dei Vespri Siciliani. La città era dominata da Emanuello, sire di Provenza, predatore rapace, fiero, crudele. Di cristiano aveva solo il nome. Fra’ Benedetto sfidò il tiranno, guarì malati e diventò maestro di giustizia. Ebbe in mano solo l’arma di un libro: il Vangelo.
Composero la fiaba, in versi siciliani e in lingua, Basilio Filetto e Pasquale Livrera, nel 1933.
Il prof. Francesco Cuva ha descritto la festa della Madonna della Luce.
Chi, meglio del prof. Francesco Cuva, avrebbe potuto raccontare la festa della Madonna della Luce!?
Trascrivo integralmente la sua relazione: “Polisemia dei segni sulla festa della Madonna della Luce scaturisce da studi recenti e dal contributo dato dai comitati storici delle varie feste patronali che si svolgono sia in Sicilia sia in Calabria; determinante è quello espresso dal comitato dei Giganti di Messina, presieduto dal prof. Riccobono.
Se questa ricorrenza si presta a un impasto di storia e di leggenda, anche perché la leggenda ha sempre un fondamento storico, è opportuna una negoziazione tra razionalità e immaginazione per individuare gli elementi di riferimento storico e capirne i risvolti. Nel racconto, soprattutto orale, la storia si arricchisce di particolari fantastici tanto da trasformarla in leggenda.
La storia nasce con i basiliani e a divulgarla sono i boni viri; i primi sono i custodi del rito cristiano anche durante l’occupazione musulmana, i secondi ne assicurano la validità giuridica. Queste due categorie, in seguito, sostengono il conte Ruggero nella conoscenza del territorio e nelle imprese. Dopodicchè, con il loro aiuto Ruggero può organizzare vescovati, parrocchie, abbazie, pellegrinaggi dando vita a quella struttura ecclesiastica che ha assicurato al popolo siciliano benefici spirituali, morali e sociali.
Nel XVI secolo tornò nell’isola, ma anche in Italia e in Europa, la grande paura di una seconda invasione musulmana.
Pirati e corsari spadroneggiavano nei mari e attaccavano le coste.
Contro di loro papato e regni occidentali organizzarono una difesa ad oltranza che culminò nella battaglia di Lepanto (1571).
Il militare Francesco Salamone, antenato dell’omonima famiglia amastratina, che aveva partecipato alla disfida di Barletta, ha avuto l’incarico di proteggere la costa tirrenica della Sicilia.
In tale contesto, per tutto il secolo, si diffonde la notizia del ritrovamento di icone bizantine con l’immagine della Vergine in una grotta, in un bosco o in un dirupo.
Il ritrovamento è preceduto da una luce, intesa come visibile emanazione di Dio nel mondo terreno, sensibile e materiale.
Più abbagliante è la luce, più elargisce miracoli a chi ha fede; cosicchè, a contatto con la luce qualcuno acquista la parola, come un pastore a Pietraperzia o a Roccapalumba, un altro guarisce da una malattia, un altro ritrova la fede.
Il ritrovamento nasce dalla necessità di diffondere, per mezzo di un’effigie mariana, la sacralità di un luogo che diviene sede di pellegrinaggio.
In queste località di preghiera e di attesa il ritrovamento è accompagnato dalla scoperta di ossa gigantesche a protezione dell’immagine della Madonna.
Da ciò nasce il culto della Madonna della Luce a Trapani (1211), a Mistretta, a Sciacca, a Catania, a Ugento, città in provincia di Lecce; a Messina quello in onore  dell’Assunta.
Le ossa divengono immagini di Gesanti o di Giganti che sono emblema del patriottismo municipalistico molto sentito nel cinquecento, quando le città fanno a gara per dimostrare la propria antichità attraverso esibizioni di ciclopici resti ossei, rinvenuti durante scavi e attribuiti a ipotetici primi abitatori del sito.
La presenza di giganti, in un rito mariano, fa riferimento al passato storico, vanto di gloria o momento di trepidazione.
Ecco perché nell’immaginario collettivo i giganti sono rappresentati rivestiti di corazza, armati di spada, e mostrano scudo, mantello, ma anche spighe e fiori.
Nella gloria o nella paura il popolo ama ricordarli e vuole mostrarli agli altri, anche agli scettici e ai dubbiosi, perché sono collegati a fatti straordinari, ossia ai miracoli.
A tal fine organizza sfilate, processioni, pellegrinaggi, preghiere, crea canzoni, ammantati di simboli.
A Messina, oltre alle due statue equestri, sfila anche un cammello legato al ricordo dell’entrata in città su un cammello del conte Ruggero.
A Palmi, invece, sfila un cavallo, perché Ruggero vi si presentò su un focoso destriero.
A Messina, Mata, procedendo avanti la processione, rappresenta la chiesa cattolica che con Ruggero s’impone su quella ortodossa, rappresentata da Grifone.
I due giganti messinesi indossano manto rosso, simbolo di regalità.
A Mistretta procede avanti Kronos, il Tempo, dietro segue Mithia, donna splendente
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Kronos mostra corazza azzurra con ricami color oro, elmo, mantello rosso; con la mano destra impugna la spada, con l’altra uno scudo: immagine di un guerriero di nobili natali.
Mithia indossa una tunica laminata e contornata da crocette greche, porta mantello celeste, emblema della lealtà, e stringe nella mano destra spighe e fiori di campo, ossia concordia e speranza.
 Kronos potrebbe rappresentare il conte Ruggero, Carlo V e nel braccio lo stemma di Francesco Salamone:  il primo ripristina la fede cattolica, il secondo ne è il difensore.
Mithia, con le crocette, potrebbe essere emblema dell’etnia bizantina che a Mistretta dimorava al piano dei Greci e che ha avuto un ruolo importante durante la dominazione araba.
Mata e Grifone sfilano per le vie di Messina, Kronos e Mithia ballano prima e dopo la processione; ballano anche i giganti di Palmi, di Seminara. Con la loro danza ricordano la conquista della libertà del popolo calabrese e siciliano dai predoni saraceni e turchi che per secoli avevano devastato le coste apportando ovunque lutti e rovine.
I giganti di Mistretta ballano anche come atto di ringraziamento per i prodotti della terra in quanto, nel passato, nei primi giorni di settembre si concludeva l’annata agraria. Inoltre ballano a conclusione della processione alla luce di un grande falò, emblema della purificazione.
Nel corso degli anni, purtroppo con le sovrapposizioni culturali si determina qualche paradosso: il figlio dei giganti a Mistretta e a Palmi.
Al di là delle sovrastrutture, dominante essenziale e immutabile è la Luce con cui la Vergine manifesta la sua presenza sulla terra.
Ed è bello, ma anche suggestivo, immaginarLa e vederLa  quando allatta il Bambino, quando Lo mostra al popolo, quando ne accetta il giuoco. Agli occhi di tanti fedeli la Vergine è anche Maria del Soccorso, del Rosario, Maria del Tindari, proclamata Regina delle Vittorie il 27 aprile 1575, ma, soprattutto, Maria della Luce.
Contemporaneamente, durante il convegno, si è ammirata la mostra dei beni artistici provenienti dal santuario di Maria SS.ma della Luce a Mistretta allestita da:Giuseppe Ciccia, da Santino Cristaudo, da Paolo Trincavelli.

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Aug 15, 2014 - Senza categoria    Comments Off on GLI ALBERI DI ACERO NEGUNDO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

GLI ALBERI DI ACERO NEGUNDO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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La pianta più vecchia della villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta è l’Acero negundo.
Per un osservatore attento è molto facile scoprire il luogo dove il vecchio albero vive.
Entrando dall’ingresso principale del giardino, percorrendo il viale di sinistra e poi continuando per il viale centrale, che porta direttamente al centro della piazza, a metà altezza, subito dopo il laghetto, l’Acer negundo si fa ammirare in tutta la sua magnificenza alla destra del visitatore.

 

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All’interno della villa ci sono tanti altri alberi di Acero Negundo

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 La famiglia delle Aceraceae conta circa 150 differenti specie di Aceri, piante latifoglie a foglie caduche, legnose, arboree e arbustive,tutte originarie dell’emisfero boreale: dell’Europa, dell’Asia, dell’America, ma soltanto alcune appartengono alla flora spontanea italiana.
L’Acero è un albero veramente cosmopolita, che dipinge le campagne, i giardini, i parchi dei colori più eloquenti: del verde tenero in primavera, del verde intenso in estate e poi del rosso e del giallo in autunno. I più importanti Aceri italiani sono: l’Acer platanoides, detto “l’Acero riccio”, l’Acer campestre, detto “l’Acero campestre”, l’Acer pseudoplatanus, detto “l’Acero di monte”, l’Acer obtusatum, detto “l’Acero d’Ungheria”, e l’Acer negundo, detto “l’Acero americano” o “Acero della Virginia” perché originario dell’America settentrionale.

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 L’Acer negundo è diffuso in un’area che va dall’Europa centro meridionale al Caucaso fino a raggiungere il nord dell’Inghilterra e della Scandinavia e cresce bene fino a 1200 metri d’altitudine.
Il termine latino “Acer” è stato usato da Ovidio e da Plinio per indicare la pianta; il termine “negundo”, per la somiglianza delle sue foglie, è stato attribuito alla Vitex negundo, pianta della famiglia delle Verbenaceae che vive nella regione della Costa di Malabàr in India. Ad assegnare il nome alla pianta è stato lo studioso Nuttel che ha individuato questa nuova specie.
L’Acero negundo è stato introdotto in Europa nel 1688 e in Italia alla fine del ‘700 dove subito si è ambientato e si è diffuso ampiamente come pianta ornamentale tanto che spesso si incontra allo stato quasi inselvatichito.

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 Presenta il tronco sinuoso, contorto e ricoperto dalla corteccia che, nei rami più giovani è bruno-ocracea, nelle ramificazioni più vecchie è grigiastra, irregolare e si screpola facilmente in placche rettangolari e con strisce in rilievo.
I rami giovani sono di colore verde, mentre gli adulti si colorano di grigio – scuro e, prima di lignificare, rimangono a lungo verdi. L’Acero negundo, albero ad accrescimento molto veloce, ma poco longevo, fino a 80 anni, è alto circa sei metri e, nella terra d’origine, non supera, di norma, i 10 -15 metri d’altezza. I rami, in primavera, si riempiono di foglie formando un’abbondante e folta chioma globosa, espansa, ma leggera e poco ombreggiante.

acer 6

Le foglie sono picciolate, di consistenza quasi coriacea, composte, palmate, imparipennate, divise in cinque lobi, decidue, appuntite, con il margine irregolarmente seghettato, lunghe fino a 7 centimetri, di colore verde scuro nella pagina superiore, di colore verde molto più chiaro e con venature e margini giallastri  nella pagina inferiore che è coperta di una minuta peluria.
Nei rametti più giovani, lucidi e piuttosto fragili, le foglie sono opposte. La pianta è molto importante per il suo valore paesaggistico proprio perché, all’approssimarsi dell’inverno, la chioma, assumendo la tonalità gialla, produce un incantevole effetto cromatico.
La pianta è dioica, con fiori unisessuali raggruppati in infiorescenze di 10 – 20 fiori.

infiorescenze maschili 7

infiorescenze femminili 8

 Quelle maschili sono riunite in fascetti penduli di numerosi stami portati da filamenti di diversa lunghezza, di colore giallo verdastro, e le antere rossastre con sfumature rosate, che sbocciano prima delle foglie; quelle femminili sono composte da amenti lunghi e penduli di colore pure giallo-verdastro, poco appariscenti, che appaiono sui rami assieme alle foglie. La fioritura avviene tra aprile e maggio.
L’impollinazione è entomofila ed anemofila.   

samare

 L’Acero negundo è molto diffuso come pianta decorativa nei parchi e nei giardini grazie anche alla sua crescita rapida. Si adatta a diversi tipi di terreni preferendo, però, quelli calcarei. E’ resistente al freddo, al caldo, alle gelate, alla siccità e alla notevole umidità. I rami, deboli e fragili, si arrendono al vento e alla neve spezzandosi.
Predilige le zone esposte al sole o parzialmente ombreggiate,in spazi aperti dove l’obliquità del suo tronco reca minor disturbo. È una pianta abbastanza sensibile alla malattia dell’oidio o mal bianco e ad alcuni lepidotteri.
Nei paesi d’origine, dalla sua linfa, in primavera, si estrae una sostanza zuccherina utilizzata per la produzione dello sciroppo d’Acero.
Il legno, leggero, tenero, bianco crema, con vene madreperlacee, di scarso pregio, ha poco valore commerciale perché l’albero non cresce molto. E’ usato in ebanisteria per fabbricare utensili, mobili, oggetti vari anche artistici, in liuteria, per realizzare strumenti musicali, soprattutto i violini, secondo una tradizione iniziata nel XVII secolo da Antonio Stradivari.
E’ anche un ottimo combustibile. Una leggenda ungherese racconta che sotto un Acero fu sepolta dal proprio assassino una giovane principessa. Mediante il suono di un flauto di legno di Acero, ella riuscì a segnalare il proprio aguzzino.
Alcune parti dell’Acero sono utili in erboristeria e in cosmetica.

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La corteccia si raccoglie in primavera, quando è più facile staccarla, tagliandola dai rami non molto vecchi.
Per il suo contenuto in tannini, essa ha proprietà astringenti e rinfrescanti dell’apparato digerente. Una manciata di corteccia, gettata nell’acqua del bagno, arreca beneficio alle pelli particolarmente fragili e delicate.
I greci e i romani consideravano l’Acero una pianta funesta per il caratteristico intenso colore rosso delle sue foglie in autunno e lo associavano al dio della paura Fobos, il figlio di Ares.
Nell’Europa orientale l’Acero era una pianta benevola poiché, secondo la loro superstizione, allontanava i pipistrelli capaci di introdursi nelle case per succhiare il sangue ai bambini. L’Acero è anche il simbolo nazionale del Canada dove è utilizzato per produrre uno zuccheroso sciroppo.

 Nel linguaggio dei fiori l’Acero simboleggia ”prudenza, economia, riservatezza”.

Aug 8, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MIO AMICO ALBERO

IL MIO AMICO ALBERO

Questo racconto dal titolo “Il mio amico albero” è stato scritto dal prof. Carmelo De Caro e riportato nel libro “Sintiti, Sintiti” pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara. E’ risultato il 1° classificato (sezione racconti) nel 2° concorso letterario “Natura in festa 1997” organizzato dal WWF sezione di Licata.

Carmelo era un uomo speciale: educato, gentile, buono, generoso, altruista, affabile, istruito. Insegnante di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali ammirava la Natura.

A

 Quel mattino gli animali che Gaspare conduceva al pascolo erano per lo più tranquilli e sapevano la strada così da non richiedere il suo intervento o quello dei cani. Mentre faceva roteare il grosso bastone al di sopra della testa, proprio come aveva imparato dal fratello maggiore, pensò alla lunga vacanza che lo aspettava: non sarebbe più andato a scuola almeno fino al prossimo novembre o comunque fino a quando non fosse arrivata la seconda cartolina di sollecito. Anche l’anno precedente era stato così. Gaspare si era convinto che ai professori non interessava quanto lui fosse necessario nell’economia della famiglia, specie da quando l’altro fratello, Peppe, non era più con loro e chissà quando sarebbe tornato. Da quel giorno i rapporti tra il ragazzo e la scuola si erano  incrinati. Il gregge si muoveva per la campagna circondato da trilli e fruscii, immerso in un mare di odori forti e di tonalità sature del giallo e del verde, caratteristici del paesaggio siciliano di inizio giugno. Su tutto incombeva l’azzurro luminoso e profondo del cielo. Gaspare guardò quel cielo ed emise un lungo sospiro quando sentì un brivido percorrergli le vene. In quel momento avrebbe dovuto sentirsi felice, ma dentro di sé non riuscì a trovare alcun segno di felicità o di qualcosa che vi somigliasse. Intanto era giunto al pascolo. Era un vasto pezzo di terra incolto che la sua famiglia aveva preso in affitto fin dalla scorsa primavera, si stendeva su un lieve declivio sul quale le pecore si spargevano nella ricerca, ogni giorno più ardua, di una qualche erba ancora idonea a nutrirle. Andò a sedersi in alto, come ogni mattino, all’ombra di un antico carrubo, in modo da tenere sott’occhio tutti gli animali e impedir loro di sconfinare nella vigna di Ciccio Di Leo, un vicino molto irascibile nonché gelosissimo delle sue viti e il cui limite col pascolo era segnato proprio da quell’albero. Era, quello, un carrubo veramente eccezionale: i grossi rami lisci come lunghe braccia, contorti come titanici pitoni pietrificati, si erano in parte adagiati su alcune rocce circostanti per poter meglio sopportare il loro stesso enorme peso. L’elegante fogliame, cangiante nel vento, formava una cupola verde che poteva riparare egregiamente dai raggi del sole almeno cinquanta persone. Al solo guardarlo, Gaspare si sentiva rassicurato perché quell’albero maestoso, posto in cima al poggio, saldamente radicato al terreno da cui traeva sostentamento, gli infondeva forza e sicurezza. Non aveva molti amici, anzi non ne aveva affatto. Non era riuscito a farsene nemmeno tra i compagni di scuola e aveva rinunciato a cercarseli quando capì che gli altri suoi coetanei lo sfuggivano per l’odore che emanavano i suoi vestiti, i suoi libri, tutti i suoi oggetti. Essere figlio di pecoraio e pecoraio egli stesso, abitare accanto al màrcato, dal quale tutta la famiglia trae sostentamento, significa portare addosso l’icona odorosa dell’ovile come un marchio di fabbrica indelebile che allontana gli altri e che, cosa ancora più terribile, tu non senti, perché le tue nari si sono abituate a quell’odore che per te significa la fragranza del latte appena munto, i salti spensierati e giocosi degli agnelli, il morbido sapore della ricotta e duro lavoro fin dall’alba. Quante volte aveva messo i suoi indumenti all’aperto nella vana speranza che quell’odore svanisse almeno un poco! Era perfino arrivato a spruzzarli col forte profumo della sorella riuscendo solo a macchiarli e col risultato di doversi continuamente guardare dalla ragazza che per parecchi giorni cercò di suonargliele di santa ragione. Così, a dodici anni, Gaspare, che in famiglia chiamavano Rino, non giocava con gli altri suoi coetanei e, da quando Peppe, l’altro suo fratello, il secondo dei maschi, era entrato in comunità, non giocava più nemmeno da solo, perché doveva badare al pascolo degli animali e per il gioco non c’era più tempo. Molto prima degli altri, cosciente di aver perso qualcosa di importante, Gaspare si era lasciato alle spalle i giorni migliori della fanciullezza. Ma un ragazzino di dodici anni, anche se fa il pastore, anche se passa molte delle sue giornate da solo in campagna, ha bisogno di parlare con qualcuno, di confidarsi, di raccontare. E così Gaspare l’amico se l’era fatto. Un amico che lo ascoltava paziente senza interromperlo mai, che sapeva tenere i piccoli grandi segreti che gli venivano confidati e che quando gli parlava lo faceva sempre sottovoce, sussurrando. L’amico di Gaspare era lui, quell’enorme carrubo piantato in cima a una gobba di pietra e terra, che sapeva accoglierlo ogni mattina a braccia aperte e offrirgli il ristoro della sua ampia chioma scura e folta e l’appoggio dei suoi rami possenti dopo la lunga camminata col sole di primo mattino in faccia. Gaspare aveva scoperto l’albero proprio quando il fratello Peppe era entrato in comunità dopo due anni d’inferno ed era toccato a lui assumersi l’impegno del fratello lontano: portare al pascolo gli animali, da solo. Un pastore è sempre solo. Nel silenzio carico dei piccoli quasi impercettibili rumori della natura, il bambino prese il sopravvento sull’adolescente e Gaspare cominciò a parlare all’albero. All’inizio lo fece per gioco, spinto da un incontenibile desiderio di confidarsi e di essere consolato, poi scoprì che, dopo aver parlato, si sentiva più leggero e rilassato, a volte addirittura contento, e continuò ogni giorno a raccontargli tutto quel che gli accadeva, minuziosamente, fin nei minimi particolari. Fu così che quell’albero ricevette le confidenze, i dubbi e i turbamenti tipici di un adolescente senza altri amici che aveva rinunciato da tempo a rivolgersi agli altri componenti della famiglia anche solo per un consiglio o una parola di conforto. Troppe volte i grandi gli avevano dimostrato un assoluto disinteresse, presi com’erano dal lavoro e dalle responsabilità. Tutti, tranne Peppe, che però era andato via quando il ragazzo aveva maggior bisogno lui. E il vento o la brezza imprimevano all’albero quei movimenti naturali e casuali che davano l’impressione che il carrubo partecipasse alle emozioni di Gaspare. Un fremito percorreva quelle sue foglie cuoiose quando gli raccontava i suoi timori. Scuoteva indignato qualche ramo quando il ragazzo gli raccontava di un torto subìto e sembrava proprio che chinasse il capo in segno di consenso ad alcune domande di Gaspare. Nel parlare al suo amico albero spesso Gaspare si straniava tanto da dimenticare il motivo per il quale si trovava lì.

Quando gli animali sconfinavano nella vigna di Ciccio Di Leo, Gaspare veniva bruscamente riportato alla realtà dalle grida del suo vicino che, in un affastellamento di improperi e bestemmie, richiamava la sua attenzione perché si portasse via le pecore che, con l’aria più innocente del mondo, andavano a brucare il suo prezioso vino in potenza. «Qualche volta faccio un macello, faccio!» soleva dire Ciccio Di Leo, il volto reso paonazzo dall’ira. Ma restavano parole. Gaspare era particolarmente affezionato al fratello Peppe e, malgrado i guai e le paure patiti quando questi era in cerca di soldi per farsi o quando si azzuffava con il fratello maggiore, il quale era convinto di fargli passare la voglia di bucarsi a suon di pugni e ceffoni, gli voleva sempre bene e sentiva acutamente la sua mancanza. Sapeva che Peppe si trovava lontano per il suo bene. Afferrava, anche se vagamente, l’importanza della comunità che forse sarebbe stata in grado di ridargli il fratello così come era stato un tempo, come egli lo ricordava prima che si bucasse: affettuoso e sempre pronto ad ascoltarlo e consigliarlo, ad aiutarlo e a insegnargli mille piccole cose utili. Con questo stato d’animo era inevitabile che Gaspare parlasse all’albero come fosse un tramite con il fratello lontano, come se davvero quel gigante potesse annullare lo spazio e il tempo e far giungere, per canali misteriosi e inconoscibili, i suoi messaggi malinconici e struggenti a Peppe che, in una comunità di recupero della pianura padana, combatteva la sua battaglia personale per la vita. Nulla è impossibile ai bambini perché essi credono ancora ai miracoli. Anche quel giorno Gaspare si rivolse all’albero fingendo di parlare con Peppe: «Abbiamo venduto nove agnelli e papà mi ha promesso che mi farà l’orologio nuovo; l’altro si è rotto». Perfino il cicaleccio petulante dei passeri era cessato, sembrava che anche loro ascoltassero interessati. «Pé, o Pé, quando torni?». E in quel momento partirono i colpi. Tre in rapida successione, poi un altro isolato quando già Gaspare scendeva dal ramo per vedere cosa stava succedendo. Ma lo sapeva già prima di guardare: era accaduto ciò che non doveva accadere se lui avesse fatto buona guardia. Ciccio Di Leo, il fucile da caccia ancora imbracciato, guardava l’effetto dei suoi colpi. Nella vigna, tre pecore a terra e una, colpita a una zampa, che si trascinava belando al cielo la sua disperazione. « Guarda come mi hanno ridotto la vigna! Io ti avevo avvisato tante volte, ragazzo, ma tu, come al solito, sei andato a dormire sotto il carrubo invece di stare a guardare quegli animalacci. Ora sai che non parlavo a vanvera».

Mentre il padre, il fratello e il garzone caricavano le carcasse degli animali uccisi sul cassonetto del fuoristrada, una tensione palpabile avvolgeva la scena. Intimorito dal minaccioso silenzio dei grandi, addolorato per la responsabilità che sentiva pesare su di sè per quanto era successo, Gaspare non riusciva a sollevare gli occhi dal bastone che teneva ancora stretto. Vincenzo, suo padre, era già andato in cerca di Ciccio Di Leo per ottenere spiegazioni, ma non era riuscito a trovarlo. In paese non c’era e moglie e figlia affermavano di non sapere nulla. Non rimaneva altro che vendere in qualche modo gli animali uccisi e curare quello ferito. Fu Vincenzo a rompere per primo il silenzio: «Stasera lo vado a denunciare». A queste parole il figlio Totò esplose: «Ma quale denuncia! Una lezione di quelle che non si dimenticano ci vuole!» Il rimbombo del pugno calato con rabbia sul cofano dal fratello maggiore fece sobbalzare il ragazzo. Vincenzo cercò di calmare il figlio dicendo che non era ragionevole fare giustizia con le proprie mani, ma quelle parole apparvero false e inverosimili a tutti, anche a lui che le aveva dette. E quando, molto più tardi, dopo una cena in cui ognuno mangiò con gli occhi nel piatto, Vincenzo e Totò si appartarono a parlottare, Gaspare, non visto, riuscì a cogliere le loro parole. Queste sapevano di vendetta. «A Rino non diciamo niente, meno sa e meglio è. Così domani mattina, porterà gli animali al solito pascolo e, se qualcuno gli chiederà qualcosa, non potrà dire niente perché non sa niente e, cosa più importante, sarà sincero». «Ma Ciccio Di Leo potrebbe andare a dire tutto ai carabinieri.» « No, non ci va se non esageriamo, perché dovrebbe ammettere di aver cominciato lui per primo. E noi avremo comunque un alibi di ferro». Così quella sera Vincenzo e suo figlio Totò andarono ad appiccare il fuoco al pollaio di Ciccio Di Leo. Accesero semplicemente alcune candele ritte sopra paglia e strame molto asciutti che erano già all’interno della baracca che ospitava gli animali dell’irascibile vicino e se ne andarono a giocare a carte con gli amici, facendo di tutto per farsi notare da più gente possibile. Dopo quasi due ore, le candele si consumarono e le loro fiammelle diedero fuoco all’esca che in pochi minuti appiccò il fuoco alle pareti di legno della baracca. Ma quando il tetto in lamiera cadde, le fiamme si levarono alte e alcune grosse faville incandescenti volarono fino al carrubo accendendo l’erba secca che lo circondava e alcuni arbusti di lentisco. Mezz’ora dopo il grande albero era avvolto dalle fiamme tra il crepitare sinistro delle foglie arse dal fuoco e il ruggito dell’aria rovente. La luce in movimento delle vampe, illuminando a tratti i rami del vecchio albero, davano l’impressione che questi si muovessero, quasi che quella creatura invocasse il cielo a testimone della sua atroce agonia. Nella notte illune la torcia del grande albero arse per molto tempo illuminando di cupi bagliori la campagna.

Il mattino dopo padre e fratello compivano i gesti di sempre ma con lo sguardo perso nel vuoto e le sopracciglia aggrottate. Gaspare partì alla solita ora con gli animali e i cani per il pascolo. Era impaurito poiché temeva che qualcuno potesse leggergli in faccia il suo segreto, ma riuscì a cacciare la paura in un angolino quando disse a se stesso che non avrebbe mai tradito i suoi, neanche con uno sguardo e che non avrebbe parlato neanche se lo avessero torturato. Il ragazzo arrivò ai piedi del declivio sulla cui cima stava il suo amico carrubo e, quando sollevò gli occhi, così come faceva ogni mattina, sentì il sangue gelarsi nelle vene. Là dove era stato il vecchio albero, con la sua maestosa chioma a cupola, verde e invitante, ora stava una cosa orribile da cui spuntavano monconi di rami anneriti e ancora fumanti, protesi verso il cielo come le dita irrigidite di una mano che fino all’ultimo ha chiesto clemenza. Non ebbe il coraggio di proseguire e, dopo aver cacciato le pecore su per il pendio, rimase laggiù, con gli occhi fissi ai refoli di fumo che si levavano dal tronco annerito e consunto dal fuoco.

Per la prima volta della sua breve esistenza sentì acuta e penetrante l’angoscia della solitudine. Diverse figure listate di giallo si muovevano tra un fuoristrada rosso e i resti inceneriti del pollaio di Ciccio Di Leo, ma l’attenzione del ragazzo era tutta per quel patetico e assurdo moncone di carrubo. Poi, di colpo, lo smarrimento svanì e Gaspare seppe quel che andava fatto. Restò per un pezzo perplesso, scosso e intimorito dall’idea che gli balenava alla mente, combattuto tra due affetti, due modi di amare. Si trovò così a sciogliere, da solo e senza il consiglio di alcuno, il profondo e straziante dilemma che lo travagliava. Per l’ennesima volta si disse che non era giusto tradire padre e fratello ma poi, alzando ancora gli occhi ai miseri resti dell’unico suo amico, prese la decisione più importante e sofferta della sua vita. Scattò in avanti senza più ripensare a quel che stava per fare, costringendosi anzi a non pensare. Lo videro arrivare di corsa su per il pendio scansando i lenti animali che vi pascolavano e senza badare alle pietre che lo facevano incespicare. Giunto in cima alla collina, si diresse senza esitazione verso il vigile del fuoco più vicino. Con un salto ferino gli fu davanti e, tutto d’un fiato, ansimante per la corsa e l’emozione, gli occhi sbarrati, gli gridò: «Devo fare una denuncia! So chi ha dato fuoco al mio amico!». Era fatta. Ora non poteva più tornare indietro. Per la prima volta, in quel caldo mattino di inizio giugno, Gaspare scoppiò in un pianto dirotto.