May 11, 2014 - Senza categoria    Comments Off on SE…

SE…

 

Carmelo

SE… è una delle poesie scritta dal prof. Carmelo De Caro per lodare la Natura, che amava tanto, e della quale non ha potuto ammirare pienamente la Sua bellezza durante la Sua breve esistenza. Si può leggere anche sul libro “Sintiti, Sintiti” , di Carmelo De Caro, e pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara.

SE…

 Se tu sai il gioco del sole

  sulle foglie dell’ulivo antico,

 se t’incanti ancora a guardare

  il volo giallo del bombo tra i petali, 

se sai ascoltar con l’animo

  il coro di trilli tra l’erba  e il frullar

 lieve e arruffato d’un passero

  e di notte

  il flauto del chiurlo tra le canne.

 Se sai capire la creatura che fa

  quel fruscio notturno e misterioso

e non t’inquieti. 

Se ti colmi di gioia nel sentire

 che il dolce fremito del tuo cuore 

è il profondo cosmico respiro 

della campagna estiva,

 se un «Grazie» ti sorge spontaneo

 sulle labbra,  allora no

tu non stai vivendo invano.

Agosto ‘97

Apr 30, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LOSPARTIUM JUNCEUM LA GINESTRA DAI FIORI GIALLI

LOSPARTIUM JUNCEUM LA GINESTRA DAI FIORI GIALLI

 

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 Lo Spartium junceum, la comune Ginestra, abbondantissimo lungo la strada provinciale che collega Mistretta al vicino paese di Motta d’Affermo e apprezzato per la sua spettacolare fioritura, mostra l’incantevole scenario dei ginestreti in fiore che rendono i fianchi della montagna nebroidea dorata di giallo conquistando aree marginali non più utilizzate dall’agricoltura.
Il Pignatti afferma che la Ginestra è un elemento caratteristico proprio del paesaggio vegetale italiano.
Una piccola piantina di Ginestra, raccolta a Mistretta e trapiantata a Licata, vegeta ancora nella mia campagna in contrada Montesole a Licata.

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https://www.youtube.com/watch?v=0-51nyrSQo8&feature=youtu.be

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La bellezza della Ginestra fiorita e profumata è un ornamento squisito che rallegra lo spirito, ma che nasconde la tragica realtà per la degradazione e il depauperamento di quei territori a cui l’uomo ha tolto le parti più nobili e più ricche del paesaggio vegetale originario.
La Ginestra, originaria dell’Europa, dell’Asia Minore e dell’Africa settentrionale, è una pianta pioniera che si insedia là dove è intervenuta l’azione umana e l’attività geologica, sotto forma di frane e scivolamenti, presentando una tolleranza ambientale piuttosto ampia, anche se circoscritta entro ambiti microclimatici di tipo caldo – arido. Inserendo il suo robusto apparato radicale in profondità, la pianta riesce a colonizzare terreni poveri, privi di strati fertili nei quali nessun altro arbusto riuscirebbe ad attecchire.
Essa ama popolare pendici abbastanza aride e ben esposte al sole. Per il suo habitat preferito si pensa che sia una pianta resistente alla siccità considerando il suo aspetto “genistiforme” di arbusto quasi privo di foglie e con lunghi, sottili, tenaci rami. Indubbiamente resiste all’aridità anche per lunghi periodi, ma si sviluppa meglio su terreni che possano mantenere una certa umidità in estate o che in primavera siano imbevuti d’acqua.
Nella mia campagna, nella contrada Montesole-Giannotta, a Licata, addossata al cancello, la Ginestra sa difendere la scarpata e sa abbellire il viale. É la prima pianta che mi accoglie e mi dà il benvenuto.

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A Mistretta sa impreziosire il  paesaggio!

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Foto di Luigi Marinaro

Appartenente alla famiglia delle Leguminose, la Ginestra è un arbusto ramosissimo alto fino a due metri con rami sempreverdi, eretti, flessibili, solcati. Le foglie, ovate oblunghe, poco picciolate, dal colore grigiastro, permangono sulla pianta solo fino a quando non si sono sviluppate completamente. I fiori, brillanti, grandi, con la corolla papilionacea, di colore giallo, poco profumati, solitari o a coppie, abbondanti, formanti racemi fogliosi, sbocciano in quantità a partire dalla primavera e fino a tutta l’estate. Il frutto è un legume nero. I semi sono espulsi dai baccelli durante i periodi caldi e asciutti del mese di luglio. In condizioni normali sono notevolmente longevi germinando anche dopo 10 – 15 anni.
La pianta cresce copiosa dal mare alla montagna.

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Nella medicina popolare la Ginestra è conosciuta da molto tempo per l’azione diuretica a debole concentrazione, purgativa a forti dosi. Esercita un’attività vasocostrittrice ipertensiva e antiemorragica. Cura l’ascite, le nefriti, la gotta e le malattie croniche del fegato. Per gli usi esterni si impiegano i rami giovani e i legumi in decotto, e, come cataplasma, negli ascessi, negli edemi, nei tumori, nell’idropisia.
I fiori, usati nei preparati terapeutici, devono essere raccolti appena sbocciano, altrimenti possono provocare disturbi gastrici.

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 “La Ginestra”, poesia prodotta a Napoli nel 1836, è il vero testamento di Giacomo Leopardi che la definì “Fiore del deserto”. Egli sa disegnare di se stesso il più nobile ritratto, nella figura dell’ ”Uom di povero stato e membra inferme” ma “generoso e alto” nell’anima che è capace di lasciare un messaggio di solidarietà tra gli uomini che è tanto più efficace quanto più è fatto nella perfetta consapevolezza della precarietà della condizione umana. In questa lunga composizione, ancora il poeta, rafforzata in una sintesi miracolosa tutta la sua visione della vita, s’impegna in una virile esortazione a tutti gli uomini affinché, deposta ogni meschina rivalità, siano solidali e uniti nella lotta contro la fatica dell’esistere e contro la natura che “Dé mortali madre è di parto e di voler matrigna”.

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Le più antiche notizie sulla Ginestra vera e propria si devono a Teofrasto di Ereso, allievo e successore di Aristotele, che nel libro II della sua “Storia delle piante” la chiama “Λινόσπαρτον“ da “λίνον”, parola usata dai greci per indicare ogni specie di “filo” e “σπάρτον” “corda, legaccio”. L’impiego della Ginestra per estrarne fibre atte ad intrecciare cordami, reti da pesca o ad intessere tele grossolane, è conosciuto fin dai tempi antichissimi. Pianta molto comune nella penisola iberica, chiamata appunto “Ginestra di Spagna”, la Ginestra era utilizzata per estrarne fibra per cordami fin dai tempi di Plinio che ne ricorda l’impiego nella Spagna meridionale.
Già gli antichi popoli mediterranei, romani e cartaginesi, la usavano per confezionare le vele delle navi. Gli studiosi, Pietro Andrea Mattioli, nel suo “Commentario”(1565), e Castore Durante, nel suo “Herbario Novo” (1585), hanno dato notizie più precise sul più interessante impiego della Ginestra.
Queste poche rudimentali notizie nel 1700 ebbero una più estesa documentazione destinata soprattutto a richiamare l’attenzione sulla vera importanza pratica della Ginestra come pianta da fibra. L’opuscolo di propaganda del cav. F.Globostchnig de Tomaschowith costituì, per l’Italia, il primo documento riguardante i tentativi fatti per industrializzare la produzione delle fibre di Ginestra. Nel 1919 nacque una modesta industria a conduzione familiare per la produzione di fibre, anche se i prodotti filati e i tessuti di Ginestra si erano affacciati nelle esposizioni più per curiosità tecnica che per vera industria nazionale.
La prima guerra mondiale portò ovunque in primo piano il problema della necessità dell’utilizzo delle materie prime. L’impiego della Ginestra di Spagna come fibra richiamò più intensamente l’attenzione degli industriali e degli studiosi e la letteratura si arricchì di nuove pubblicazioni anche all’estero.
La monografia del Prof Alessandro Trotter (1917) riferisce ampiamente sulla raccolta e sulla macerazione dei rametti di Ginestra e sui tentativi per industrializzare la produzione.  Nel 1929 l’ing. Corrado Calloni diede impulso alla valorizzazione della pianta.
La produzione di corde di Ginestra, anche se di consistenza grossolana, ebbe il culmine prima della seconda guerra mondiale.
In seguito, sia per la concorrenza di altre fibre, sia per i rudimentali sistemi di lavorazione, sia per l’indifferenza delle altre industrie tessili, l’estrazione divenne antieconomica e cadde in graduale abbandono.

 

Apr 20, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LABURNUM ANAGYROIDES

LABURNUM ANAGYROIDES

 

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  Passeggiando lungo il marciapiede che circonda la villa comunale “G. Garibaldi”, in piazza San Felice da Nicosia, durante la mia permanenza a Mistretta per le festività pasquali, la mia attenzione è stata attratta dai grappoli di fiori, dal colore giallo fosforescente, del Laburno, il “Maggiociondolo”.
Il poeta inglese Francis Thompson, (Sister Songs,1895), descrisse così il Laburnum in una sua poesia:Mark wonder, how the long laburnum drips / Its jocund spirit of fire, its honey of wild flame!” “Osserva il prodigio, come il lungo laburno gocciola il suo giocondo spirito di fuoco, il suo miele di selvaggia fiamma!
Il suo nome scientifico è Laburnum anagyroides.  Laburnum ricorda l’antico nome latino attribuito da Plinio che lo definì “arboscello fetente” perché velenoso. Sinonimi sono: “Cytisus laburnum, Maggiociondolo di montagna, Avorno, Avorniello di monte”. Comunemente il Maggiociondolo è noto anche come “falso ebano“, “pioggia d’oro“. L’origine del nome “Maggiociondolo” si riferisce alla cascata dei fiori gialli, simili a quelli del Glicine, in grappoli penduli, che coprono la pianta nel mese di aprile.

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Il Maggiociondolo, il“tronco di Maggio” è un piccolo ed elegante albero della Famiglia delle Papilionaceae molto interessante dal punto di vista ornamentale e paesaggistico e come essenza spontanea.
E’ originario dell’Europa centro-meridionale e vegeta bene in tutta l’area balcanica fino in Bulgaria. In Italia è maggiormente diffuso al nord ove vegeta nell’arco alpino dai 600 ai 1600 metri di altitudine, nell’Appennino centro-settentrionale e sui monti Nebrodi in Sicilia.
Il Maggiociondolo è un alberello alto sino a sette, otto metri. Si lega al suolo tramite radici sottili e forti che, come tutte le leguminose, sono provviste di tubercoli radicali che ospitano colonie di batteri fissatrici dell’azoto.
Il tronco non è mai diritto né grosso, ma si piega e si accontenta del poco nutrimento di cui dispone. E’ rivestito dalla corteccia bruno-verdastra, liscia e ricoperta di lenticelle rilevate. La chioma è irregolare, molto ramificata, bassa ed espansa. I rami sono ascendenti e flessibili.I rametti sono di colore verde scuro, glabri o poco peloso-sericei.
Purtroppo l’eccessiva fragilità dei rami potrebbe compromettere la bella fioritura. A volte è sufficiente, fuori tempo come è avvenuto nella settimana precedente la santa Pasqua, solo un carico di neve, anche modesto, per rovinare la chioma elegantemente modellata.
Le foglie, riunite spesso a gruppi, sono composte, formate da tre eleganti foglioline ellittiche, a margine intero, acute, alterne, picciolate, caduche, verdi e glabre nella pagina superiore, grigiastre nella pagina inferiore tormentosa, mentre la nervatura principale del lembo inferiore è provvista di brevi peli sericei.

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  I fiori, numerosi, ermafroditi, raccolti in vistosi grappoli a racemo penduli e fogliosi alla base, lunghi sino a 30 centimetri, compaiono alla fine della primavera dopo le foglie; il calice è campanulato a cinque denti disuguali, mentre la corolla papilionacea con cinque petali, tipica delle leguminose alla cui famiglia botanica appartiene il Maggiociondolo insieme alla Robinia, al Carrubo, all’albero di Giuda, alla Gleditsia e ai più noti fagioli, piselli, lenticchie, di colore giallo dorato, a vessillo eretto, è lunga circa 2 centimetri. Nei petali, precisamente nel vessillo più grande, sono presenti alcune macchioline di colore marrone.
I fiori, molto profumati, fioriscono da aprile a giugno. In estate essi lasciano il posto ad un baccello o legume, il frutto che è deiscente, piatto, glabro, lungo da 4 a8 centimetri, e contenente numerosi semi bruni, rotondi, ad elevato potere venefico, specialmente se immaturi, perché contengono due principi tossici: la cistina e la laburnina.

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 Attenzione! Niente minestre con i semi del Maggiociondolo. Nonostante la delicatezza dei suoi fiori, del Maggiociondolo c’è poco da fidarsi!  Tutta la pianta è velenosa e i semi sono molto più tossici delle foglie. Appena solo qualche seme può determinare nell’Uomo una sintomatologia tossica. Molti casi d’avvelenamento si sono avuti in persone, in maggioranza bambini, dopo la consumazione di latte di capre che avevano brucato foglie di Maggiociondolo poiché gli erbivori trasferiscono la sostanza attiva direttamente nel latte.
I segnali d’intossicazione sono: dolori intestinali, nausea, vomito, crampi muscolari, disturbi cardio-circolatori, sudorazione, allucinazioni, segni di paralisi. Negli animali, invece, i casi d’avvelenamento sono rari. La maturazione del frutto avviene da giugno a settembre. La moltiplicazione avviene  per seme, ma anche per talea o per margotta.

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 Il Maggiociondolo è una pianta ornamentale, bella e colorata in ogni stagione dell’anno: in inverno ha rametti verdi splendenti, in primavera brillanti infiorescenze gialle, in estate triplici foglioline verdi, in autunno baccelli bruni. E’ apprezzato per il suo valore colturale e di riqualificazione ambientale e paesaggistica.
La pianta è utilizzata, come esemplare isolato oppure a gruppi, per abbellire giardini, parchi, viali e pergolati per l’effetto decorativo dei fiori gialli che sembrano una vera “cascata d’oro“. Il Maggiociondolo, pianta preziosa per la sua frugalità, vegeta e fiorisce con estrema facilità e, per le sue esigenze fisiologiche e per la resistenza al freddo entra nella costituzione di boschi montani di latifoglie. Mediamente eliofilo, ama posizioni soleggiate o a mezz’ombra posto su terreni sabbiosi, soffici, profondi, umidi, calcarei pur tollerando anche quelli tendenzialmente acidi. Predilige climi continentali relativamente freschi. Resistente a molte malattie, tuttavia il Maggiociondolo non combatte la virosi del mosaico.
Il virus provoca sulla pagina fogliare la comparsa prima di macchioline clorotiche e poi di bande giallastre lungo le nervature. Le potature non sono necessarie e, in genere, basta concimare il terreno in autunno e in primavera con un buon fertilizzante per ottenere in primavera una ricca pioggia di grappoli dorati che acquistano uno straordinario rilievo sullo sfondo verde cupo delle conifere, delle siepi di Alloro, oppure contro il fogliame lucente delle Magnolie.
Per evitare che alla caduta dei fiori la pianta si copra di baccelli contenenti velenosissimi semi, siccome la villa comunale di Mistretta è frequentata da individui di tutte età, è opportuno recidere i grappoli sfioriti non appena hanno perso la loro iniziale freschezza. I bambini, sempre imprevedibili, potrebbero introdurre nelle loro boccucce i semi caduti per terra con gravi rischi per la loro salute. Non si conoscono particolari usanze legate al Maggiociondolo che, in qualche regione, è ritenuto una pianta magica visto che gli animali selvatici, soprattutto lepri e conigli, amano cibarsi della sua corteccia senza avvertire danno alcuno. Le foglie sono pericolosissime per cavalli e per capre, mentre i cervi le possono mangiare tranquillamente. Il repertorio terapeutico di botanica farmaceutica riconosce al Maggiociondolo, in particolare ai fiori, ai frutti ed alla corteccia, delle proprietà medicamentose. L’utilizzo è, però, sconsigliato per l’elevata tossicità di tutta la pianta.
Il legno del Maggiociondolo, caratteristico per l’evidente durame bruno, per il forte odore di legumi nel taglio fresco, per l’elevata durezza, per la notevole elasticità, per la buona resistenzaalla deformazione, anche più del legno del Tasso, è eccellente. Sembra essere eterno conservandosi lungamente anche sotto terra e non venendo attaccato dai tarli. E’ usato per paleria di recinti, per fare le spine delle botti e per pali per la vigna diventando un buon intenditore di vini che neanche l’alcol è riuscito a distruggere.
E’ utilizzato anche per piccoli lavori al tornio, d’intarsio, d’artigianato e in liuteria.Molto resistente allo sforzo di compressione e adeguatamente curvato dal calore, rinforzato con materiali aggiunti, col legno di Maggiociondolo si costruivano armi d’eccezionale efficacia usate già nel Medioevo. Come combustibile, il legno ha un elevato potere calorifico e produce un fuoco gagliardo, di un bianco incandescente, che riscalda l’anima ancora prima del corpo. La sua corteccia, alquanto fibrosa e sfilacciata, era utilizzata come i vimini per legare le piante di vite.
In cosmetica le parti del Maggiociondolo servono per produrre tinture per capelli, creme per il viso e rassodanti, cosmetici d’ogni genere.

 

Apr 13, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA FRITILLARIA IMPERIALIS, LA PIANTA IRRIVERENTE

LA FRITILLARIA IMPERIALIS, LA PIANTA IRRIVERENTE

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La pianta di Fritillaria è fiorita.

La Santa Pasqua è vicina! Tutta l’Umanità dovrebbe essere più buona verso Cristo e verso tutti i fratelli, senza distinzione di religione, di ceto sociale, di razza.  Il comportamento della Fritillaria non deve essere di esempio.
La Fritillaria imperialis è una pianta inconfondibile grazie ai suoi grossi fiori gialli che pendono dallo stelo come una corona di campanelle.
Il portamento dei fiori trova la sua spiegazione in questa leggenda: mentre Gesù saliva sul Golgotha, in segno di devozione piegavano la “testa” tutti i fiori che incontrava lungo il Suo cammino. L’unico fiore altezzoso era quello della Fritillaria imperialis.
Al Suo passaggio, essa rimaneva eretta, altera, superba e alquanto arrogante. Quando Gesù la guardò, la Fritillaria imperialis arrossì di vergogna e, con umiltà, inclinò la corolla dei suoi fiori. Le gocce di nettare luccicante, che compaiono alla base di ogni corolla, sono le lacrime che la Fritillaria continua a versare da allora e che sono chiamate “Lacrime di Maria”. Sono lacrime così grosse che, non appena la pianta è sfiorita, cadono spontaneamente dai fiori.
Il nome Fritillaria indica un ampio numero di piante bulbose alte da 25 a 120 centimetri, a seconda della specie, diffuse in natura in Africa, in Asia e in Europa dove sono state coltivate già dal XVI secolo e dove sono state ammirate nei famosi giardini segreti del seicento.
Sono state le piante preferite da Elisabetta I d’Inghilterra. Dalle testimonianze storiche si evince che gli Ugonotti, i riformisti francesi, durante la fuga nel Regno Unito, portarono con loro i semi diffondendo la coltivazione anche oltre la Manica. Nel 1600, nella tradizione popolare francese, il fiore di Fritillaria godeva di una certa notorietà ed era spesso raffigurato, come decorazione ornamentale, sui vestiti delle dame.
I pittori olandesi ne avevano fatto uno dei loro soggetti preferiti dipingendo il fiore nelle loro opere.

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Tutte le specie di Fritillaria sono caratterizzate da originali e grandi fiori unici, campanulati con tepali di colore giallo, arancio, rosso vermiglio, blu e bianco, in tinta unica o screziati e con evidenti macchie più chiare. Stranamente, tutte le varietà di questa pianta sono anche adesso poco conosciute e considerate impropriamente difficili da coltivare.  Tra le specie coltivate, la più spettacolare è la Fritillaria imperialis.
La Fritillaria imperialis è originaria delle zone montuose dell’Asia centro-occidentale dove cresce in zone innevate d’inverno e asciutte d’estate. In Europa è stata coltivata fin dal 1576.Per questo motivo, fin dall’antichità, in Italia è conosciuta con il nome di “Giglio orientale”. Comunemente è nota anche col nome di “Corona imperiale” e di “Bossolo per dadi”, nome derivante dal latino “fritillus“, “ciotola dei dadi” a cui sembra somigliare per la forma dei suoi fiori.

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La Fritillaria imperiale è una pianta erbacea bulbosa, vigorosa, affascinante, maestosa, dall’aspetto particolare, appartenente alla famiglia delle Liliaceae. Pur non essendo particolarmente profumata, la fama di cui gode la Corona Imperiale nell’ambito floreale è di assoluto rilievo e, per l’eleganza del suo portamento, per l’ostentazione della superba corona, domina su tutti gli altri fiori.
Nel linguaggio dei fiori gli appellativi di maestosità e di regalità sono perfettamente appropriati. Il bulbo, di dimensioni cospicue, è formato da tuniche giallastre chiuse che emettono uno sgradevole odore, come pure  le altre parti della pianta. L’odore molesto dei bulbi è repellente per i topi e per le talpe.
Per questo motivo la Fritillaria imperiale è stata da secoli coltivata nei giardini delle imprese agricole. Dal bulbo si erge un fusto eretto, rigido, non ramificato, alto circa 60 centimetri. Un altro ciuffo di foglie è presente nella parte apicale del fusto. Le foglie, molto decorative, verticillate, che si formano alla base del fusto e fino a circa un terzo dell’altezza della pianta, sono lucide, sessili, lanceolate, ondulate, verticillate, nastriformi, appuntite e di colore verde scuro. All’apice del fusto, nella tarda primavera, spuntano i grandi fiori gialli, lunghi circa 10 centimetri, in numero da 8 a 10, molto appariscenti, a forma di campanelle molto graziose, penduli, riuniti in una vistosa corona circolare.
Anche i fiori emanano un leggero ma sgradevole odore di aglio. La fioritura si prolunga da aprile a giugno. Non tutti gli steli portano i fiori.
Uno stelo più corto, che non fiorisce, si sviluppa al fianco di un altro che fiorisce. La moltiplicazione avviene in estate, tra luglio e agosto, mediante la divisione dei bulbilli prodotti lateralmente dal grosso bulbo centrale e prelevati quando la pianta madre è completamente seccata poiché, in questo periodo, sono abbastanza voluminosi e ricchi di sostanze di riserva. Si interrano ad una profondità di 20-25 centimetri e alla distanza l’uno dall’altro di 25-30 centimetri. La prima fioritura delle piante generate dai bulbilli si otterrà dopo 2-3 anni dalla messa a dimora e sarà tanto più abbondante quanto più i bulbilli non saranno disturbati. Essendo molto delicati, è opportuno maneggiarli con cura.
I bulbi, una volta interrati, se le condizioni saranno favorevoli, possono rimanere nello stesso luogo anche per diversi anni. La moltiplicazione può avvenire anche per seme. Dopo la fioritura, la Fritillaria imperialis produce lunghe capsule mature contenenti numerosi semi fertili che si seminano alla fine dell’estate in un terriccio leggero. La fioritura delle piante generate da seme avviene dopo 4-5 anni dalla semina.

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 La Fritillaria imperialis è una specie diffusa, cresce quasi ovunque nella zone temperate dell’emisfero nord. In Italia è presente in natura in particolare ai margini dei pascoli alpini. Nel giardino di Mistretta è coltivata in piena terra, dove crea ornamentali macchie fiorite, nell’aiuola centrale di fronte alla casa degli attrezzi del giardiniere, ma ci sono piante fiorite anche nei vasi posti sulle colonne. Poiché teme leggermente il rigore invernale, durante i mesi freddi la parte aerea inaridisce e i bulbi vanno in riposo vegetativo. Di facile coltura, veloce nella crescita, preferisce le posizioni soleggiate o a mezz’ombra ed ama restare nello stesso posto, indisturbata, per parecchi anni.
Predilige terreni freschi, fertili, sciolti, ben drenati, leggeri e non calcarei. Le annaffiature, dalla fine di febbraio fino all’appassimento dei fiori, devono essere regolari e non troppo abbondanti e, quando le foglie cominciano ad ingiallire, si possono sospendere fino alla ripresa vegetativa dell’anno successivo.
La Fritillaria imperialis necessita di un buon fertilizzante liquido durante e dopo la fioritura per poter fare immagazzinare al bulbo le riserve necessarie alla fioritura dell’anno seguente.Come per tutte le Liliaceae e per le bulbose a fioritura primaverile è necessario controllare gli attacchi da parte delle lumache, ma il maggiore nemico delle giovani piante è il coleottero Lilioceris lilii, assai diffuso in Italia, che danneggia le foglie. Cure particolari richiede la pianta colpita dalla ticchiolatura e dall’Afide verde. Le foglie malate devono essere raccolte e bruciate per evitare il diffondersi della malattia.
In omeopatia la Fritillaria imperialis non ha grandi virtù. La medicina popolare attribuisce ad essa proprietà efficaci contro le malattie asmatiche.

Apr 5, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LE PALME E IL PUNTERUOLO ROSSO

LE PALME E IL PUNTERUOLO ROSSO

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Il 13 Aprile del 2019 è la domenica delle Palme, la domenica che precede la Santa Pasqua. Nella Domenica delle Palme si portano in processione le Palme per commemorare l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Secondo la religione cattolica, ottenere la palma del martirio significa “ricevere da Dio la gloria per avere accolto la morte per la fede”.
Ricordo che, quando mia sorella Anna ed io eravamo bambine, mio padre Giovanni portava a casa una giovane e tenera foglia di palma di cui mia madre Maria Grazia, amorevolmente, intrecciava le foglioline a forma di cuore e adornava con un fiore di camelia di color rosso vivo e con in cima un nastro bianco.
Abbigliate per la festa e con la palma in mano, accompagnate da entrambi i genitori, ci recavamo nella chiesa di San Nicolò di Bari, a Mistretta, per assistere alla funzione religiosa celebrata dal parroco don Antonino Saitta e da don Filadelfio Longo.

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 Le Palme sono le creature più eleganti e armoniose del regno vegetale. Evocano scenari tropicali e mantengono il loro spettacolare aspetto esotico anche nei grigi mesi invernali. Comparvero nel Cretaceo dove assunsero un grande sviluppo lasciando bellissimi e importantissimi resti fossili di tronchi e di foglie.
L’aspetto delle Palme è molto caratteristico per il portamento del fusto eretto, colonnare, quasi dello stesso diametro per tutta la sua lunghezza. Nella sacra Bibbia la Palma è citata molto spesso. La valle di Gerico, la terra promessa a Mosè, è così chiamata per la gran quantità di palme che vi crescevano. Con rami di palme gli ebrei proclamarono la sua regalità acclamando Gesù quando entrò in Gerusalemme come si legge in “Ingresso in Gerusalemme” (Gv. 12,13): “Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: <Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele>“! Giovanni, nell’”Apocalisse” (7,9), fa conoscere l’acclamazione trionfale di una folla innumerevole: “Dopo di ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. Nell’età classica la foglia di Palma era data in premio, come simbolo di “vittoria”, al vincitore di una gara. Le Palme, nel linguaggio dei fiori, simboleggiano “costanza”.
Purtroppo oggi le Palme corrono il grave pericolo di distruzione e di morte a causa di un coleottero killer comunemente chiamato Punteruolo rosso.

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 La sovrastante fotografia, scattata nella Piazza Progresso di Licata, è un importante documento perché attesta come il centro della Piazza fino a poco tempo fa era adornato da due bellissime palme. La Palma, la Phoenix canariensis, quella rivolta verso il Corso Umberto I, che ha fatto parte della storia di Licata, dopo 76 anni si è arresa all’aggressione del micidiale coleottero, appunto del Punteruolo rosso.
E’ stata messa a dimora nel 1938, in coppia con l’altra Phoenix canariensis, ad ornamento del monumento di bronzo della Vittoria, opera dell’artista Cosimo Sorge, nei mesi che hanno seguito lo sbarco degli americani della 3° divisione di Truscott a Licata. Nel 1943 il suo tronco, diritto e molto robusto, era alto almeno 150 cm.  Adesso della Palma è rimasto un tronco altissimo privo della folta corona di foglie.

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 La speranza di tutti i licatesi è che almeno si salveranno le Palme di Piazza Progresso e tutte le altre presenti nel territorio di Licata e non solo. Per eliminare completamente il pericolo della diffusione del Punteruolo rosso alle vicine palme, per prevenire situazioni causate dall’indebolimento o del crollo del fusto, per ripristinare il decoro urbano bisognerebbe togliere, nel più breve tempo possibile, lo scheletro di questa palma e sostituirla con un’altra pianta di lunga vita.

IL PUNTERUOLO ROSSO

Il punteruolo rosso delle Palme, il  Rhynchophorus ferrugineus, è il coleottero curculionide parassita micidiale di molte specie di Palme. La pericolosità del litofago è stata evidenzia nelle liste dell’EPPO (European and mediterranean Plant protection organization) che lo hanno classificato al livello “ALLERT” perché, nei paesi dove si è acclimatato, le sue infestazioni costituiscono una vera emergenza provocando estese stragi di Palme.
E’ originario dell’Asia sud orientale e della Melanesia. A seguito del commercio di esemplari di palme infette, raggiunse negli anni ottanta gli Emirati Arabi e da lì si diffuse in Medio Oriente. E’ stato segnalato in Iran,  in Israele,  in Giordania e in Palestina e in quasi tutti i Paesi del bacino meridionale del Mar Mediterraneo a partire dall’Egitto dove fu segnalato per la prima volta nel 1992. In Spagna la sua presenza fu segnalata nel 1994, quindi raggiunse la Corsica e la costa Azzurra francese nel 2006.
Il commercio delle piante ornamentali costituisce un importante mezzo di diffusione di organismi associati alle piante i quali possono essere trasportati da un paese all’altro.
Le norme fitosanitarie, che regolano gli scambi commerciali e che dovrebbero controllare l’introduzione di materiale esente da malattie, nel nostro Paese dovrebbero essere molto più severe per evitare l’importazione di organismi esotici, patogeni e fitofagi, responsabili di danni a carico delle piante. Nel territorio pistoiese si coltivano piante ornamentali da oltre 150 anni. Per soddisfare le richieste dei mercati una fitta rete commerciale è stata affiancata all’attività vivaistica.
Questa zona è diventata un importante centro di distribuzione poiché alcune specie ornamentali o semplicemente transitano oppure sostano solo per poco tempo, dopo essere state importate, in vari stadi sviluppo, direttamente dai paesi con clima più favorevole quali quelli del Centro e del Sud America, del Nord Africa e dell’Asia.
La permanenza in Toscana assicura l’acclimatazione ad un ambiente più freddo. Pertanto, responsabile dell’introduzione del Rhynchophorus ferrugineus fu un vivaista di Pistoia che aveva importato delle piante di Phoenix canariensis dall’Egitto. La prima segnalazione in Italia risale al 2004.
Nel 2005 fu segnalato in Sicilia. Quindi la sua presenza si estese velocemente verso il Nord della penisola. Giunse in Campania dove presto attaccò centinaia di palme secolari nei parchi pubblici e nei giardini privati causandone la morte. Secondo lo storico degli alberi Antimo Palumbo il parassita potrebbe portare all’estinzione delle palme a Roma entro il 2015.
Il Rhynchophorus ferrugineus ha una sua morfologia. La lunghezza dell’adulto varia dai 2 ai 4,5 cm e la larghezza del corpo da 1,5 a1,5 cm. Presenta una livrea di colore rosso-ferruginoso, a cui deve il nome, punteggiata da piccole macchie nere nella parte superiore del torace.
Possiede un lungo rostro ricurvo, più accentuato nel maschio, ricoperto da una fitta serie di setole nere erette. Alla base del rostro sono inserite le antenne. Sulle elitre sono evidenti striature di colore scuro. Il pronoto, visto dorsalmente, si presenta liscio e con la base arrotondata. Lo scutello, piuttosto ampio, è lungo circa un quarto delle elitre.
Gli adulti di Rhynchophorus ferrugineus sono attivi di giorno e di notte. Abili volatori, sono in grado di percorrere la distanza di 1 km per raggiungere nuove piante da infestare. Gli adulti sono attratti dalla piante danneggiate o malate, ma aggrediscono anche le piante sane. Individuata la pianta, i maschi di Rhynchophorus ferrugineus producono un feromone capace di richiamare molte femmine per l’accoppiamento.
La deposizione delle uova, sottili, di forma allungata, di colore bianco crema, lunghe in media 2,6 × 1,12 mm, avviene solitamente in corrispondenza delle porzioni più giovani e tenere della pianta o in ferite del tronco e del rachide fogliare. La femmina sigilla i fori in modo da proteggere le uova. Il numero delle uova deposte da una femmina varia da alcune decine a svariate centinaia di unità per volta. Dalla schiusa delle uova escono le larve. La larva, priva di zampe, lunga fino a 15 mm, è di colore bianco crema, che vira al marrone negli stadi più avanzati, ed ha il capo marrone fortemente arrotondato.
Possiede un apparato boccale masticatore ben sviluppato e fortemente sclerificato col quale scava lunghe gallerie dirigendosi verso l’interno della pianta. Lo stadio larvale dura circa 55 giorni ed è quello che causa alle piante i danni mortali perché Le larve danneggiano soprattutto la zona del tronco immediatamente sottostante la corona fogliare nutrendosi dei piccioli fogliari. Quindi le larve si impupano dentro bozzoli costruiti utilizzando i filamenti fibrosi della pianta ospite. Dentro il bozzolo avviene la metamorfosi dalla larva all’individuo adulto in un periodo varIabile tra i 15 e i 50 giorni.
E’ avvenuta la maturità sessuale. Gli individui adulti compaiono sulla pianta agli inizi del mese di giugno e sono presenti fino alla fine del mese di settembre; le uova si possono rinvenire dalla metà del mese di giugno in poi.  Le larve sono attive per tutto il periodo primaverile ed estivo per trascorrere poi l’inverno in idonei luoghi di ricovero.
Il ciclo vitale completo, dall’uovo allo sfarfallamento, si compie in media in 82 giorni. Gli adulti hanno una durata di vita fino a 6 mesi. È stato stimato che una singola coppia di Rhynchophorus ferrugineus può generare, nell’arco di 4 generazioni, circa 53 milioni di esemplari.

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 Il Rhynchophorus ferrugineus colpisce parecchie specie di Arecaceae tra cui le più diffuse palme ornamentali del Mediterraneo quali: la Phoenix canariensis, la Phoenix dactylifera, ma colpisce anche specie di interesse economico quali la Cocos lucifera, la palma da cocco, e l’Elaeis guineensis, la palma da olio. Sono state aggredite tante altre specie di palme come la Livistona decipiens, l’ Oreodoxa regia, la Phoenix sylvestris,  il Trachycarpus fortunei, la Washingtonia.
Occasionalmente può anche attaccare l’Agave americana. La Palma nana, la Chamaerops humilis, era ritenuta immune all’attacco del Rhynchophorus ferrugineus  grazie ad una secrezione gommosa che sembrava impedire l’attecchimento del parassita. Tuttavia sono stati documentati attacchi da parte del coleottero anche a queste specie. Le segnalazioni in Italia riferiscono di infestazioni quasi esclusivamente a carico di palme del genere Phoenix.
I danni causati alla pianta dalla presenza delle larve sono visibili solo in una fase avanzata dell’infestazione che può essere a lungo asintomatica.
I sintomi esteriori dell’attacco del curculionide sono rappresentati dall’anomalo portamento della chioma della pianta che perde la sua simmetria verticale e che successivamente si mostra completamente divaricata con l’aspetto di un  ombrello aperto.

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 Quindi cominciano a cadere le foglie fino alla loro completa perdita e il rachide fogliare comincia a cedere. Nelle fasi terminali la palma appare come “capitozzata” della chioma e si evidenzia il suo “collasso”. A quel punto si manifesta la migrazione di massa degli insetti che erano presenti all’interno dello stipite per la ricerca di un nuovo esemplare di palma di cui alimentarsi.
Il controllo del Rhynchophorus ferrugineus è un compito molto difficile perchè concorrono molteplici fattori che favoriscono il fitofago. Dato il lungo periodo in cui le larve restano all’interno della pianta, esse risultano difficilmente raggiungibili dai comuni antiparassitari. E’ evidente la necessità di impedire preventivamente l’ingresso delle larve e soprattutto l’esigenza di prestare la massima attenzione per individuare precocemente il momento dei loro primi insediamenti.
Le azioni più efficaci per la difesa delle Palme dal Punteruolo rosso sono quelle preventive. Infatti, gli interventi di difesa possono ottenere qualche risultato solo se attuati con tempestività. Pertanto è fondamentale la diagnosi precoce che evidenzi la presenza del coleottero nella pianta. Gli adulti si muovono con facilità e possono eludere eventuali barriere di protezione o di contenimento espandendo i focolai d’infestazione.
Tutti i Sindaci della Regione Sicilia hanno accolto il Piano di azione regionale di attuazione delle misure fitosanitarie ufficiali contro il Punteruolo rosso in applicazione dell’art. 7 comma 5 del Decreto Ministeriale 7/2/2011 e dalla Decisione della Commissione 2010/467/CE.
Le Amministrazioni Comunali, per effetto dell’art. 8 commi 2 e 3 del D.M. e del combinato disposto dell’art. 54 del Decreto Legislativo 18 agosto 2000 n. 267 e dell’art. 2 del decreto del Ministero dell’Interno 5 agosto 2008 “Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione”, concorreranno alla tutela delle Palme, attraverso la verifica sull’esecuzione delle misure fitosanitarie del piano di azione, curando l’emanazione di atti e di ordinanze per la loro attuazione anche al fine di tutelare la pubblica incolumità e il decoro urbano.
Il Servizio Fitosanitario Regionale attua un monitoraggio intensivo sia per prevenire la diffusione del Punteruolo rosso sia per intervenire tempestivamente per il suo contenimento. Gli Ispettori fitosanitari e il personale tecnico eseguono annualmente, con la collaborazione delle Amministrazioni comunali, indagini per rilevare l’eventuale presenza del Punteruolo rosso attraverso ispezioni visive.
I proprietari e i detentori di vegetali sensibili, che sospettino la comparsa del coleottero anche in aree ritenute indenni, sono obbligati a darne immediata comunicazione al Servizio Fitosanitario Regionale competente che dispone specifici accertamenti fitosanitari per confermare o meno la presenza del Punteruolo rosso e valutare le misure fitosanitarie più opportune. Il Servizio Fitosanitario Regionale ne dà comunicazione alla competente Amministrazione Comunale e al Servizio Fitosanitario Centrale.
I proprietari o i conduttori a qualsiasi titolo delle piante infestate devono comunicare, inoltre, al Servizio Fitosanitario Regionale la data d’inizio degli interventi utilizzando il modello di cui all’allegato al D.A. n. 2 del 7/1/2011. Nel caso in cui venga scelto l’intervento curativo, i proprietari o i conduttori devono possedere il nulla osta preventivo consentito dal Servizio Fitosanitario. Gli oneri per il risanamento, per l’abbattimento, per la distruzione delle piante infestate dal Punteruolo rosso sono a carico dei proprietari o dei conduttori, così come la responsabilità connessa alle operazioni eseguite.
L’Art. 4 ammonisce che,fatta salva l’applicazione dell’art.500 del codice penale, chiunque non ottemperi alle prescrizioni fitosanitarie imposte dal Decreto Legge è punito con le sanzioni amministrative previste dall’art. 54 del Decreto Legislativo 19 Agosto 2005 n. 214.
La pianta che presenta sintomi di infestazione deve essere curata o abbattuta in tempi brevissimi e tutto il materiale deve essere incenerito. Le piante vicine ad essa devono essere sottoposte a misura di profilassi effettuando ripetuti trattamenti localizzati usando insetticidi e fungicidi specifici avendo cura di bagnare a fondo la parte interna della corona apicale. Le piante sane devono essere ispezionate frequentemente controllando gli apici vegetativi al fine di individuare precocemente la presenza del Punteruolo rosso. Inoltre le piante sane e in buono stato di vegetazione non devono subire interventi di potatura poiché le ferite causate dal taglio con le cesoie sono punti d’ingresso dell’agente patogeno e siti preferiti per la deposizione delle uova. I trattamenti vanno ripetuti periodicamente avendo cura di alternare i prodotti.
Per la lotta chimica i prodotti autorizzati nei giardini privati sono esclusivamente quelli contrassegnati dalla dizione PPO (Prodotti per Piante Ornamentali).
I principi attivi relativi a tale categoria sono, principalmente, prodotti che agiscono per contatto e per ingestione, quindi possono agire sull’insetto quando si trova fuori dalla palma. Il trattamento deve essere compiuto utilizzando acqua abbondante cercando di bagnare bene la chioma e il fusto della palma. In caso di infestazione in vivai o in aree pubbliche dovranno essere adoperati i prodotti consentiti dalla normativa per tali impieghi.
I trattamenti chimici preventivi possono avere una loro efficacia come barriera, tuttavia presuppongono l’impiego di prodotti attivi per contatto dotati anche di una certa tossicità. Il trattamento di piante di grandi dimensioni e l’intervento in aree urbane pongono vincoli nella scelta del principio attivo subordinando la sua efficacia alla tutela della salute pubblica. La tempestiva eliminazione della pianta infetta può essere utile nel tentativo di isolare il fenomeno e di contenere la diffusione del coleottero. Anche i trattamenti chimici curativi richiedono l’impiego di insetticidi. I trattamenti curativi tardivi sono, tuttavia, di scarsa efficacia, per non dire inutili.
Oltre ai trattamenti con prodotti chimici si sono studiate altre soluzioni. L’impiego di antagonisti naturali è ancora in fase di studio e ancora non ci sono significative prospettive di applicazione. Gli Artropodi ausiliari si sono finora rivelati insufficienti a contenere la dinamicità della popolazione. Migliori prospettive sono offerte dall’impiego degli entomopatogeni, in particolare di Virus e di Nematodi. L’efficacia di questi ultimi, almeno in ambito sperimentale, sarebbe stata messa in evidenza da ricerche condotte in Spagna nell’impiego sia preventivo sia curativo: la liberazione di adulti su piante preventivamente trattate con Nematodi ha prodotto una mortalità del 100%; sembra inoltre che i Nematodi siano in grado di penetrare nelle gallerie e di raggiungere le larve distruggendole.
L’impiego delle trappole, largamente sperimentato in diverse regioni dell’Asia, del Medio Oriente e in Spagna, ha messo in evidenza l’utilità accessoria sia nel mass trapping sia nel monitoraggio della popolazione di adulti. Le indicazioni riportate in letteratura sul grado di efficacia delle trappole sono discordanti, tuttavia mettono in evidenza una maggiore efficacia dell’uso di attrattivi combinati (feromoni e attrattivi alimentari a base di zucchero) e l’importanza della disposizione delle trappole in relazione all’altezza della pianta. Sulla base dei risultati finora conseguiti è presumibile che la tecnologia debba essere ancora studiata per migliorare ulteriormente le azioni di successo.
Interessanti sono le prospettive di adozione di tecniche di lotta integrata secondo le prove condotte in Medio Oriente.
Sulla base delle difficoltà oggettive di diagnosticare precocemente gli attacchi e di intervenire con interventi curativi, si rivela di particolare importanza l’adozione di tecniche combinate che agiscono a vari livelli: controllo continuo della popolazione vegetale da parte degli Osservatori fitosanitari per una diagnosi precoce, mantenimento delle Palme in buone condizioni nutrizionali e fitosanitarie, in quanto la suscettibilità agli attacchi da parte degli insetti xilofagi aumenta nelle piante in condizioni di stress o comunque indebolite, scelta di adeguate misure di profilassi che consistono nell’eliminazione dei possibili siti di riproduzione, adozione di tecniche di potatura  che riducano i siti di penetrazione dell’insetto, bonifica dei focolai d’infestazione o nella distruzione dei focolai d’infestazione in palme attaccate adottando accorgimenti finalizzati ad impedire lo sfarfallamento degli adulti, ricorso ai trattamenti chimici preventivi e curativi, ricorso a regolamenti che impongano misure fitosanitarie, educative e DIVULGATIVE.
In ambienti di recente introduzione del Punteruolo rosso, come in Italia, è di fondamentale importanza la prevenzione al fine di evitare l’espansione del fitofago intervenendo precocemente sui focolai d’infestazione.
E’ una curiosità. Presso gli Iatmul, una popolazione indigena della Papua Nuova Guinea, le larve di Rhynchophorus ferrugineus costituiscono un importante elemento della dieta arrivando a coprire circa il 30% del fabbisogno proteico e costituendo la principale fonte di zinco e di ferro.

               LA  PHOENIX CANARIENSIS

La Phoenix canariensis è una bellissima palma, ma la più appetita dal Punteruolo rosso. E’ una pianta appartenente alla Famiglia delle Palmae comunemente nota come “Palma delle Canarie” perché originaria delle isole Canarie, e là, endemica, vive principalmente ad altitudini comprese fra i 200 e i 500 metri. E’ presente su tutte le isole e forma grandi palmeti. Il nome “Phoenix” ricorda i fenici perché sono stati i primi a diffondere la coltivazione della pianta. La Phoenix canariensis è la più classica della specie, dal portamento maestoso e dalla forma armoniosa. Come pianta ornamentale è molto popolare nella gran parte delle regioni mediterranee e subtropicali del mondo laddove le temperature non scendono mai al disotto dei 12 °C. In Europa è coltivata su tutte le coste del Mar Mediterraneo tanto da essere considerata pianta tipica del paesaggio mediterraneo. Vive anche in molte zone dell’Europa centrale e dell’Inghilterra. L’aspetto è molto simile a quello della vera palma da datteri, la Phoenix dactylifera, rispetto alla quale è decisamente più ornamentale.
La Phoenix canariensis è una palma sempreverde, solitaria, di notevoli dimensioni, nel suo paese d’origine raggiunge anche i 20 metri, mentre in Italia difficilmente supera i 6 metri di altezza e i 3 metri di larghezza della chioma.
La Palma della fotografia è un bellissimo esemplare che vegeta nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta, il mio paese. Speriamo che  non subirà mai l’attacco del Punteruolo rosso.

 

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 La Palma delle Canarie ha il portamento dell’albero tipico delle palme, con un unico fusto non ramificato, spesso, eretto, regolare, di colore marrone scuro o grigiastro, marcato da vistose rugosità romboidali dovute alle impronte lasciate dall’inserzione del picciolo delle foglie cadute o recise e sul quale s’inserisce la corona di foglie. Le foglie, pennate, formate da foglioline sottili, opposte ed appuntite, di colore verde scuro brillante, lunghe anche 4 metri, riunite in un ciuffo terminale, sono sorrette da un picciolo che presenta numerose spine acuminate. Quelle più vecchie si rivolgono verso il basso.
Le foglie rimangono sulla pianta anche in inverno. La Phoenix canariensis è una pianta dioica. I fiori, maschili e femminili, sono portati da piante diverse. I fiori, giallo-bruni, irrilevanti, sbocciano nella primavera avanzata, riuniti in pendenti infiorescenze a pannocchia lunghe anche un metro; le infiorescenze delle piante femminili sono più lunghe e più appariscenti di quelle maschili. In estate maturano i frutti, grappoli di drupe ovali. Sono carnosi, di colore variabile dal giallo al rosso-bruno, a seconda dello stadio di maturazione, la cui polpa, commestibile, non è particolarmente gradevole al palato dell’uomo. All’interno di ogni drupa è presente un singolo seme fertile. La pianta si riproduce per seme nei mesi di febbraio e di marzo.

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E’ possibile utilizzare anche i polloni radicati che si formano spontaneamente alla base della pianta. Togliendo i polloni si assicura alla pianta una forma pulita e raffinata. E’ una Palma a crescita lenta, molto rustica, che ben si adatta a vivere su terreni anche particolarmente poveri. E’ coltivata nei giardini tutto l’arco dell’anno per le sue qualità estetiche e, per le grandi dimensioni, richiede molto spazio attorno ad essa. Resiste ai venti salmastri, quindi è coltivabile nelle zone costiere, ma la sua resistenza al freddo le permette di ben svilupparsi anche nell´entroterra sopportando temperature molto rigide.
Per uno sviluppo equilibrato è consigliabile porre la pianta in luogo con un’esposizione luminosa, anche se i raggi solari diretti potrebbero causare l’ingiallimento delle foglie. Può sopportare periodi di siccità anche molto prolungati, pertanto le annaffiature saranno abbondanti da maggio a settembre, ridotte o sospese nei mesi invernali.
La Phoenix canariensis, in genere, non è attaccata dai parassiti. Tuttavia è facile preda dal temibile parassita, dal “Rhynchophorus ferrugineus”, noto come il “Punteruolo rosso”, un coleottero curculionide originario dell’Asia e propagatosi in Medio Oriente e in tutto il bacino del Mar Mediterraneo, quindi anche in Italia. La presenza del curculionide sta creando un immenso danno alle Palme che si trovano nei parchi, nei giardini pubblici e anche nelle ville private.
E’ doloroso assistere all’appassimento della corona delle foglie apicali e poi alla morte essendo gli studiosi botanici impotenti nel bloccare il fenomeno. Nella sola città di Palermo sono state abbattute, perché attaccate dal Punteruolo rosso, circa 8000 Palme. Orgogliosi cappucci verdi, che risplendevano al sole, hanno ceduto all’aggressione del parassita che ne ha rosicchiato l’anima fino a fare cedere il pesante corpo che appare come un ombrello piegato.
Si attende che la lotta per la distruzione dell’insetto sia rapida e proficua. Facciamo eco alle parole del ricercatore dell’INRA Michel Ferry e direttore scientifico del Palmeto di Elche in Spagna che hanno denunciato l’allarme Punteruolo rosso: “[…] Parliamo da anni di questo problema, che facciamo pubblicazioni, che gridiamo, nessuno ci ascolta, anzi, ci ascoltano per qualche giorno e poi si dimenticano, dimenticano le nostre palme, le loro palme, e il punteruolo rosso avanza e distrugge […]”.

Mar 21, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA BRASSICA RAPA SUBSP. CAMPESTRIS NEL TERRITORIO DI MISTRETTA

LA BRASSICA RAPA SUBSP. CAMPESTRIS NEL TERRITORIO DI MISTRETTA

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La trattazione della Brassica rapa subsp. campestis è stata incoraggiata dalla curiosità del carissimo amico Sebastiano (per gli amici Tatà) Lo Iacono, innamorato della Natura come e quanto me.
Grazie al reportage fotografico dell’amico prof. Lucio Vranca, che mi ha fatto pervenire in tempo record le fotografie riguardanti la pianta, ho potuto brevemente descrivere questo meraviglioso vegetale, che cresce nelle campagne di Mistretta e non solo, da un punto di vista botanico, culinario, erboristico.
Grazie Tatà. Grazie Lucio.

Nel paesaggio mistrettese, pienamente inserito nel parco dei Nebrodi, la ricchissima flora crea un panorama vasto e dettagliato tra i più belli della Sicilia.
Dal punto di vista geomorfologico il territorio presenta diversi tipi di ambienti: vaste estensioni boschive dove crescono alberi ad alto fusto di pini, di abeti, di faggi, di querce, di pioppi, di aceri, zone di gariga dove crescono arbusti bassi e piante erbacee, piccole zone pianeggianti dove le piante erbacce sono molto più frequenti, zone di balze scoscese con picchi e dirupi rocciosi dove vegetano piante legnose, semilegnose ed erbacee.
Molto espressivi sono anche gli aspetti paesaggistici. Dai vari punti del paese si possono osservare le straordinarie vedute dell’Etna, dei monti Nebrodi, delle isole Eolie. Incantevoli sono le bellissime le albe e i surreali tramonti.
Qui vegeta la Brassica rapa campestris, comunemente conosciuta col sinonimo di Cavolo campestre.

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Il genere Brassica, che ha imposto il nome alla famiglia delle Brassicaceae, comprende da 30 a 60 diverse specie di piante a grandi foglie erbacee, suffrutiche, frutiche, annuali, pluriennali alcune delle quali coltivate perché hanno grande importanza nell’economia umana per le molteplici e svariate utilizzazioni nell’arte culinaria. In particolare, sono consumate, a seconda delle specie e delle varietà, le foglie della verza, i fiori del cavolfiore, le cime di rapa, le radici delle rape, il cavolo cappuccio. Sono solo alcuni esempi. I semi di alcune specie sono usati come la senape o per estrarre l’olio di colza.
La distribuzione naturale del genere Brassica comprende l’Europa centrale, l’Europa meridionale, l’Asia centrale, l’Asia occidentale e l’Africa a nord dell’Equatore. Successivamente la coltura delle principali specie delle Brassicaceae si è estesa a tutti i continenti. Alcune specie sono diventate selvatiche in America e in Australia.
La specie, oggetto della nostra discussione, è la Brassica rapa subsp. campestris, pianta molto comune in molte regioni d’Italia e anche in Sicilia e in Sardegna. Vegeta bene anche in Tunisia, in Algeria, in Corsica. A Mistretta è un vegetale molto presente e cresce nei terreni incolti di natura calcarea e soprattutto nei vigneti. E’ una pianta che tende ad essere infestante, ma colora i campi di un luminoso colore giallo.
Il nome scientifico della pianta “mistrettese” è Brassica rapa campestris appartenente alla famiglia delle Brassicaceae o Cruciferae per i petali crociformi del fiore. A Mistretta è conosciuta con il sinonimo di “Cavulazzu”.
La Brassica rapa campestris è una pianta selvatica annuale che vegeta spontaneamente.
Resistente alle basse temperature, elegge il suo habitat ad un’altitudine compresa dai 100 ai 1200 metri.
Possiede radici gracili e un fusticino semplice, con portamento eretto e ascendente raggiungendo l’altezza anche di 70 centimetri.
Le foglie, grandi, circondanti il fusto, lucide, glabre e di colore verde, hanno una forma ovato-lanceolata con il margine irregolare crenato-dentato quelle superiori. Il margine delle foglie inferiori è intero. Le nervature sulla pagina inferiore sono molto evidenti.
I fiori, regolari, piccoli, profumati, di colore giallo, composti da 4 petali e da 6 stami sono raccolti in racemi. I fiori basali sono aperti, quelli apicali sono chiusi. La pianta fiorisce in inverno, abbondantemente nei mesi da gennaio a marzo.
I frutti sono delle silique lunghe 2-3 millimetri strette e allungate, munite di becco apicale, simili ai baccelli delle leguminose. Le silique contengono da 4 a 5 semi scuri attaccati ad una membrana interna.

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Tutte le specie di “Cavolo selvatico” trovano largo impiego nella cucina e, in particolare, in quella siciliana.
Usanze popolari hanno tramandato svariate ricette per preparare gustosi piatti utilizzando le diverse specie di Brassica: la Brasica fruticosa, la Brassica rapa e la Brassica campestris.
Essendo una pianta mangereccia sia nella versione invernale sia in quella primaverile, mia madre, vegetariana convinta, sapeva preparare un buon piatto utilizzando le cime dei “Cavulazzi” che lei stessa andava a raccogliere nel nostro podere, in contrada Scammari, nel periodo favorevole quando la specie vegetale era in boccio e quando le condizioni atmosferiche lo consentivano.
La raccolta delle verdure selvatiche a Mistretta è stata sempre un’attività piacevole, divertente, socializzante durante le scampagnate o le passeggiate con parenti e amici.
Mia madre metteva a bollire in acqua leggermente salata le cime e le foglie più tenere dei “ Cavulazzi”.
A cottura ultimata, le soffriggeva con olio vergine di oliva aromatizzato con numerosi spicchi di aglio. Portava in tavola il preparato pronto accompagnandolo con crostini di pane abbrustolito sulle braci ardenti del camino. È, questo, un piatto dal sapore antico.
Un’altra ricetta consisteva nello strizzare dopo la cottura, per eliminare l’acqua, i “Cavulazzi” che poi amalgamava con le uova. Versava il composto in una padella dove aveva fatto riscaldare l’olio facendolo indorare da ambedue i lati. Otteneva una frittata fragrante, gradevole, appetitosa, indicata come secondo piatto rustico o come contorno.

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La Brassica rapa campestris è coltivata nell’Europa centrale e settentrionale e in Italia soprattutto nella Pianura Padana per la sua utilità in erboristeria e in cosmetica. Dai minuscoli semi si ricava un olio dotato di elevatissime proprietà idratanti, rigeneranti e ristrutturanti che lo rendono molto ricercato in campo fitodermocosmetico.
In omeopatia l’intruglio di foglie e fiori è usato perché capace di ricostruire le mucose e di sanare le ulcere. I vecchi contadini lo usavano perché miracoloso nel curare le ferite degli animali.
Il genere Brassica,  in genere, non ha molti nemici naturali, tuttavia un piccolo afide, dal nome nebroideo “A campa”, attacca facilmente le foglie e i fiori.
Tutte le Brassicacee costituiscono il nutrimento preferito dei bruchi di numerose specie di Lepidotteri. Infatti diverse specie di farfalle sono volgarmente chiamate “Cavolaie”.
Molte specie del genere Brassica producono bromuro di etile, una sostanza chimica responsabile dell’impoverimento dello strato dell’ozono dell’atmosfera terrestre.

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Mar 2, 2014 - Senza categoria    Comments Off on ASPARAGUS ACUTIFOLIUM

ASPARAGUS ACUTIFOLIUM

 

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 In questo periodo mi capita spesso di essere frenata, camminando nella mia campagna, da qualche corpo che si attacca ai miei pantaloni. É indispensabile fermarmi. La pianta d’asparago selvatico mi trattiene con i suoi rametti intrecciati, spinosi, come per farmi notare la sua presenza. Mi dice: ci sono anch’io.
Essendo piccola, filiforme, nascosta tra le altre erbe, infatti, non sempre è visibile.
É vero!
So che c’è.
Cerco l’asparago sotto le grandi foglie d’acanto che, con il suo apice appena spuntato dal terreno, mi sorride. Lo cerco attorno al tronco d’olivo, negli anfratti di una grossa pietra; lo trovo aggrappato al recinto o attorcigliato alle foglie della bougainvillea. Lo scopro all’improvviso dove non ho cercato.
C’è!
Conosco l’asparago che cresce spontaneamente nella montagna di Montesole a Licata emergendo dal terreno al primo caldo primaverile dei mesi di febbraio, di marzo, di aprile, se il cielo concede in questo periodo qualche sporadica pioggia, e l’asparago che cresce in montagna, a Mistretta, fino a giugno.
Oggi la raccolta dei turioni degli asparagi è stata molto produttiva! In genere, ogni tre, quattro giorni la mia passeggiata d’ispezione diventa fruttuosa. La pianta mi gratifica con i suoi germogli ed io la ringrazio per essere stata generosa con me.

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L’asparago acutifolius è una pianta eliofila, resistente tanto ai freddi rigidi quanto ai caldi estivi, afosi, umidi. Era apprezzato dagli antichi Egizi anche se soltanto come pianta spontanea. É stata utilizzata per la prima volta dagli antichi egizi e dai greci prima come pianta medicinale poi come pianta alimentare. Plinio il Vecchio (I sec d.C.), nella sua “Naturalis Historia”, e Catone (II sec. a.C.) parlavano già a quell’epoca dell’Asparagus officinalis che, come allora, anche oggi è la specie coltivata.

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La prima documentazione letteraria sull’asparago è stata fornita dal greco Teofrasto nella “Storia delle Piante”.
I romani lo dedicarono a Venere, lo chiamarono asparagus e lo apprezzarono molto.
Giovenale ci ha lasciato la descrizione di un suo pranzo. Il menù comprendeva: “ un capretto bello grasso … qualche asparago di montagna, uova belle grosse”.
Svetonio, nel narrare una certa azione compiuta da Augusto, scrisse che c’era voluto meno tempo di quanto ne servisse per lessare gli asparagi.
Marziale elogiò gli asparagi dalla polpa tenerissima del litorale di Ravenna.
Dopo le invasioni barbariche, l’asparago si coltivava esclusivamente in Spagna e, verso la fine del Medio Evo, anche in Germania, in Olanda, in Belgio. In Europa la sua coltura si è diffusa intorno al XVII sec; in Francia, sotto Luigi XIV, ha conosciuto il momento più fiorente. Alla sua coltivazione contribuirono i botanici del Re Sole che, ghiottissimo, pretendeva di averne tutto l’anno nella sua mensa. Accenni ad una coltivazione vera e propria dell’asparago si trovano però solo intorno al 1600.
Oggi è oggetto di coltura in molti Paesi per i suoi squisiti e teneri germogli.
I maggiori produttori d’asparago sono l’America, la Francia e l’Italia. In Italia è coltivato in Veneto, in Emilia – Romagna e in Piemonte. Si conoscono centinaia di specie, alcune spontanee e selvatiche, altre coltivate, tutte commestibili e con un alto valore officinale. Queste specie sono diverse per morfologia, per ambiente, per habitat.
Appartenente alla famiglia delle Liliacee, l’asparago è originario delle regioni comprese tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale.

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Dal greco “σπαργάω”che significa “essere turgido” per i turioni in parte grossi e turgidi, l’asparago è una pianta erbacea perenne con una morfologia particolare. É costituita da un sistema fogliare, dalle gemme, da una parte radicante con radici fascicolate, da un fusto sotterraneo, rizomatoso, orizzontale, strisciante. Le foglie sono ridotte in squame sottili e membranose. Alle loro ascelle si forma un sistema di ramoscelli modificati stretti e verdi che svolgono il processo fotosintetico in assenza delle vere foglie.
L’insieme delle radici, del rizoma e delle gemme è detto volgarmente zampa. Le zampe, attaccate da un fungo, si coprono di una muffa violetta che rende i turioni piccoli e giallastri. Le radici vivono nel terreno diversi anni crescendo e rinnovandosi ad ogni stagione partendo dal rizoma e sviluppandosi su quelle vecchie, morte e completamente svuotate.  Il rizoma è un corpo orizzontale fibroso che funge da serbatoio delle sostanze nutritive necessarie alla crescita e al mantenimento della pianta.
L’asparago è una pianta in continuo rinnovamento vegetativo: il rizoma in estate produce nuove radici con il conseguente disfacimento delle vecchie. Le gemme carnose, piccole, sferiche, ben evidenti al centro del rizoma, si sviluppano una dopo l’altra.
Alla fine dell’inverno, con l’aumentare della temperatura, esse danno origine al germoglio, ad una nuova pianta: il turione, il nuovo asparago giovane usato in cucina e raccolto prima che, crescendo, si trasformi in stelo. É il prodotto più buono e saporito della macchia mediterranea e permette la preparazione di buoni risotti e di gustose frittate.

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Il turione selvatico ha un sapore più pronunziato di quello dell’asparago coltivato ed è un ottimo stimolatore dell’appetito.
Esso è costituito per oltre il 90% d’acqua e contiene vitamina C, B1, B2. Con la prolungata esposizione al sole, il turione accumula clorofilla e aumenta la cellulosa quindi diventa più duro e non più commestibile. L’andamento della temperatura è direttamente proporzionale alla velocità della crescita, alla lunghezza raggiunta e al numero dei turioni.

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 Più veloce è la crescita, più tenero e delicato è il suo sapore. Bianchi, verdi o violetti, di bosco, di campo o di serra, per gustarli al meglio, è essenziale che siano molto freschi, con le punte compatte e le lamelle ben chiuse.
É buona abitudine non raccogliere tutti i turioni selvatici; bisogna lasciarne diversi per osservare lo sviluppo e la crescita poiché generano le parti aeree della nuova pianta. Il turione s’indurisce, l’apice si apre e si trasforma in un vero e proprio fusto con numerosi rametti verdi, filiformi, assumendo un aspetto cespuglioso, con i tralci lunghi e intrecciati su cui compaiono foglie piccolissime, ridotte a scaglie caduche. “Sunnu spicati”.
Non sono vere foglie ma cladodi ricchi di clorofilla che svolgono la funzione fogliare. Ai nodi delle ramificazioni dei fusti si formano i fiori, piccoli, a campanula, di colore giallo – verde. Essendo  una pianta dioica i sessi sono portati da due individui diversi: uno ha i fiori femminili, l’altro ha i fiori maschili. La fecondazione è obbligatoriamente incrociata. Dopo l’impollinazione, dal fiore si ottiene il frutto, una bacca più piccola di un pisello che garantisce la conservazione della specie.

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  L’asparago, come tantissime altre piante, è utile nella farmacopea medica. Il rizoma e le radici sono diuretici, indicati nelle affezioni cardiache per l’alto contenuto in potassio, nell’idropisia, nell’itterizia e nelle diete dimagranti. L’infuso si ottiene facendo bollire 50, 60 grammi di piantina in un litro d’acqua. L’uso è sconsigliabile a persone nervose, affette da calcoli renali, da cistiti e da prostatiti proprio per la sua azione diuretica. Le parti tenere del germoglio sono utili anche in cosmesi per la preparazione di maschere tonificanti della pelle.

Feb 14, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL NARCISSUS TAZETTA

IL NARCISSUS TAZETTA

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Percorrendo la strada scorrimento veloce Agrigento-Palermo, nei pressi dell’incrocio per raggiungere il paese di Milena, nei primi giorni del mese di febbraio la Natura ha regalato un paesaggio meraviglioso: una piccola area dove alcune piantine di Narciso raccolte in gruppi mostravano la loro bellezza. Non ho osservato questo spettacolare fenomeno durante il resto dell’intero percorso.

Narciso!

Ovidio, nel libro III° delle Metamorfosi, racconta il mito di Narciso. Narciso nacque da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua bellezza, fu rapita dal dio fluviale Cefiso e che, cingendola con le tortuose correnti dei suoi corsi d’acqua, la violò. La ninfa diede alla luce un bambino d’eccezionale fascino che chiamò Narciso. Preoccupata per il suo futuro, la neo-mamma consultò il veggente cieco Tiresia per sapere se il fanciullo avesse raggiunto la tarda vecchiaia. Tiresia così rispose: “Se non mirerà mai se stesso”.
Al sedicesimo anno d’età Narciso era un giovane di tale avvenenza che molti ragazzi s’innamorarono di lui. Egli, indifferente, preferiva passare le giornate cacciando in solitudine. Tra gli spasimanti, la più incalzante era la ninfa Eco. Lei era stata punita da Giunone perché, tutte le volte che avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe concubine di Giove, astutamente, la distraeva intrattenendola con lunghi discorsi aiutando le ninfe a sfuggire alle ire della dea gelosa. Quando Giunone si accorse dell’inganno disse: “Di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporre solo in parte. Ridottissimo sarà l’uso che tu potrai farne”.
Eco, perciò, non poteva fare uso della propria voce se non per ripetere l’eco delle ultime parole che udiva.
Quando incontrò Narciso e se ne innamorò, era già priva della parola. Eco lo scorse mentre Narciso cacciava i cervi in una foresta. La ninfa, che non sa tacere se si parla, ma nemmeno sa parlare per prima, cominciò a seguire le sue orme. Narciso, insospettito, si mise ad urlare: “C’è qualcuno”? Eco ripeté: “Qualcuno”. Stupito, egli scrutò tutti i luoghi, gridò a gran voce: “Vieni!”.
Non mostrandosi nessuno, continuò: “Perché mi sfuggi”! Quante parole diceva, altrettante ne riceveva per risposta. Insistette e, ingannato dal rimbalzare della voce,“Qui riuniamoci” esclamò, ed Eco, che a nessun invito mai avrebbe risposto più volentieri, ripeté “Uniamoci”. Allegramente, balzando fuori del cespuglio, tentò di abbracciarlo. Narciso la respinse allontanandosi precipitosamente e lasciando Eco che, lamentandosi, continuava ancora a ripetere le ultime parole dette da lui.
Afflitta e amareggiata, la bella ninfa vagò e, consumandosi per struggimento d’amore e di rimpianto, svigorì nel corpo. Non restarono che la voce e le ossa. La voce esiste ancora ed ovunque si può sentirla: è il suono che vive in lei e che ancora fa ECO nelle valli solitarie ripetendo le ultime sillabe delle parole pronunciate dagli umani. Le ossa, tramutate in sassi, sono state deposte vicino ad uno specchio d’acqua. La dea Nemesi, istigata da uno degli amanti respinti, alzando al cielo le mani, profetizzò: “Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama”!
Nel bosco c’era Liriope, la fonte dalle acque limpide, argentee e trasparenti che mai pastori, caprette o altre bestie avevano toccato, che nessun uccello, fiera o ramo staccatosi da un albero avevano intorbidato. Attorno c’era un prato e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo. Il giovane Narciso, spossato dalle fatiche della caccia, affascinato dalla bellezza del posto, qui venne a sdraiarsi per bere l’acqua della sorgente, ma, mentre cercava di calmare la sete, attratto dall’immagine che vide riflessa, restò incantato e s’innamorò di una chimera: di un corpo che, però, era solo un’ombra. Dapprima non riconobbe se stesso, poi capì: “Io sono te“.
Egli si lamentava poiché non riusciva a stringere e a toccare l’immagine. Ai suoi lamenti rispondeva solo la ninfa Eco che, nascosta nel bosco, li ripeteva. Neanche il bisogno di cibo e di riposo riuscì a staccarlo di lì. Disteso sull’erba, fissava con lo sguardo inappagato quella forma che l’ingannava. Poi, sollevandosi un poco, tese le braccia al bosco dicendo: “[…] Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto? Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore. Un velo d’acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d’acqua, verso di me si protende offrendomi la bocca. Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore.
Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m’illudi, fanciullo senza uguali? Io, sono io! Ho capito, l’immagine mia non m’inganna più! Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma!
” Resosi conto dell’impossibilità di amare e di baciare l’immagine di sé riflessa nella superficie d’acqua, Narciso si lasciò morire. “[…] Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni […]”.  Si avverava la profezia di Tiresia.
Allorché le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per dargli degna sepoltura, scoprirono un bellissimo fiore dai petali dal colore dello zafferano col capo chinato sull’acqua alla ricerca del proprio riflesso. A quel fiore fu attribuito il nome Narciso. Lo scrittore greco Pausania ha raccontato che il Narciso esisteva già prima del personaggio di Ovidio visto che il poeta epico Pamphos, vissuto molto anni prima, nei suoi versi ha narrato che Persefone, quando fu rapita da Ade, stava raccogliendo dei fiori di Narciso.
Da questa narrazione si evince che nel linguaggio dei fiori il Narciso è il simbolo “degli egoisti e delle persone piene di sé”.
Indica, pertanto, “vanità, egoismo, incapacità di amare”.
Diversa è la simbologia orientale. In Cina il Narciso è simbolo di “prosperità e di felicità” ed è donato in segno augurale di buon anno.

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Nella Bibbia il Narciso e il Giglio, per i loro colori chiari e luminosi, sono simbolo solare di “rinascita” e raffigurano la primavera. Salomone, nel Cantico dei Cantici( 2,1), nel Colloquio fra gli sposi scrive:Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli. Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle”.
Nel nuovo Israele Isaia (35-1,2) scrive: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio”.
Il genere Narcissus comprende 40 specie di piante bulbose appartenenti alla famiglia delle Amaryllidaceae e originarie dell’Europa, dell’Africa settentrionale, del Giappone e della Cina dove fu introdotto nell’ottavo secolo attraverso la via della seta. Italia, Spagna e Portogallo sono i Paesi dove è più facile trovare Narcisi allo stato spontaneo presenti in una vasta gamma di habitat. Le specie selvatiche che abbondano nei prati e nei boschi umidi di pianura e di montagna fino a 2000 metri di quota sono: il Narcissus pseudo-narcissus, il Narcissus tazetta, il Narcissus nobilis, il Narcissus nivalis, e il Norcissus poeticus, quest’ultimo ampiamente diffuso nei prati alpini.

Trovai un fiore di campo, ammirai la bellezza e la perfezione di tutte le sue parti, ed esclamai: “Ma tutta questa magnificenza, in questo fiore e in migliaia di fiori simili, splende e fiorisce non contemplata da alcuno, anzi spesso nessun occhio la vede”.
Il fiore rispose: “Stolto! tu credi che io fiorisca per essere visto? Io fiorisco per me e non per gli altri, fiorisco perché questo mi piace: nel fatto che fiorisco e solo consiste appunto la mia gioia e la mia voluttà”.
(Arthur Schopenhauer)

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La coltivazione del Narciso è iniziata intorno al XVI secolo in Inghilterra e in Olanda. Ancora oggi le due nazioni, insieme agli Stati Uniti, sono le maggiori produttrici di Narcisi. I Narcisi si ibridano tra loro con gran facilità e le numerosissime varietà di ibridi di tanti colori hanno originato uno dei generi di bulbose più coltivate.
Il nome Narciso, dal latino “narcissus” e dal greco “νάρκισσος”, probabilmente deriva da “ναρκόω”, “stordire, intorpidire, fare addormentare”. Nell’antica Grecia il Narciso era noto per il caratteristico profumo intenso, inebriante e penetrante dei fiori che si credeva avesse proprietà tranquillanti, anestetiche e antidolorifiche quindi era capace di stordire. Da qui la derivazione della parola “narcotico“. Gli egizi decoravano i propri defunti. Infatti, fiori di Narciso sono stati ritrovati nelle loro tombe in ottimo stato di conservazione dopo oltre 3000 anni.
Il Narcissus tazetta, conosciuto comunemente come “Trombone o Tromboncino”, presente anche nel giardino di Mistretta, è una pianta bulbosa alta 50 centimetri. Dal bulbo sotterraneo partono le lunghe e strette foglie lanceolate che, spuntando a fioritura avviata, formano ciuffi di elementi sottili di colore verde chiaro con leggere sfumature azzurre. In cima ad uno stelo, privo di foglie, isolati, si ergono i fiori composti da una corolla esterna bianca o gialla a sei tepali chiamata “corona” e da un’altra corona centrale interna detta “coppa” o “tromba” che presenta i bordi frastagliati e il colore giallo intenso tendente all’arancio. E’ la trombetta.

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Una sola pianta produce da due a venti fiori. La fioritura avviene da febbraio a giugno. La moltiplicazione avviene tramite la divisione dei bulbi in autunno. I Narcisi possono rimanere nel terreno per tutta l’estate. Dopo aver reciso il fiore appassito, si lasciano intatte le foglie e lo stelo fino al completo appassimento. Le sostanze nutrienti, prodotte dalla fotosintesi clorofilliana, si accumulano nel vecchio bulbo e in quelli nuovi che si formano durante l’estate. I bulbi possono rimanere nel terreno per tre anni, ma possono essere estratti e, accuratamente puliti, essere conservati in luoghi asciutti fino all’impianto. I bulbi s’interrano dalla fine di settembre ai primi di novembre ponendoli ad una profondità doppia della loro lunghezza.
Il Narciso è uno tra i primi fiori da bulbo pronto a sbocciare per annunciare l’arrivo della primavera. Porta una nota di colore nel giardino ancora immerso nel grigiore dell’inverno che rallegra e adorna incomparabilmente con la sua abbondante fioritura. “[…] Spuntan col marzo le violette semplici e azzurre, il narciso giallo, la margheritina; fioriscono il mandorlo, il pesco, il corniolo, la rosa canina. Aprile ci porta la bianca violetta […]” così riferì in uno studio sui giardini il filosofo, saggista e politico inglese Sir Francis Bacon (Londra, 22 gennaio 1562 – Londra, 9 aprile 1626).
Il Narciso, con i suoi colori chiari e luminosi, è visibile anche da lontano e diffonde nell’aria un profumo inconfondibile. E’ ideale per abbellire le aiuole dei giardini, per rallegrare i tappeti erbosi, per ornare davanzali e terrazze. La fama del Narciso come pianta da coltivare in  giardino è meritata poiché è di facile coltivazione, richiede poche cure e produce molti fiori. Può crescere ovunque perché è resistente al caldo e al freddo. Ama i luoghi soleggiati o semi-ombreggiati posto su terreni pesanti, freschi, anche argillosi, ma si adatta facilmente a qualsiasi tipo di terreno da giardino e, una volta piantato, tende a diventare perenne.
In primavera e in estate è bene mantenere il terreno umido evitando i temuti ristagni d’acqua che potrebbero favorire le malattie fungine. Dopo la fioritura, è necessario fertilizzare il terreno per favorire l’ingrossamento dei bulbi. Per dare un aspetto gradevole e ordinato alle aiuole è sufficiente eliminare le parti danneggiate e i fiori appassiti.
Il Narciso è una pianta soggetta a pochissime malattie. Può subire attacchi da parte di Acari, di Afidi e di muffe. Il microscopico acaro biancastro Rhizoglyphus echinopus provoca erosioni nei tessuti del bulbo. Fra gli insetti, le larve di Lampetia equestris e di Eumerus strigatus penetrano nei bulbi divorandoli.
Gli individui adulti di Exosoma lusitanica rodono i fiori in primavera. L’attacco del fungo Rosellinia necatrix, detto marciume bianco, provoca il disfacimento dei bulbi e delle radici con rapido deperimento e morte delle parti epigee. Il Botrytis narciyssicola causa macchie brunastre sui fiori e bruno-grigiastre sulle foglie. Poi segue il marciume dell’intera pianta che si ricopre di una muffa grigia. I funghi del genere Penicillium provocano marciumi nei bulbi conservati in magazzini caldo-umidi e non ben aerati.
Anche il Narciso, nella sua semplicità, cerca di dare il suo contributo alla scienza medica. Nella medicina popolare l’infuso della pianta di Narciso era usato come emetico. In omeopatia, la pianta fresca in fiore è utile per curare le infiammazioni delle mucose e i dolori delle ossa. Il bulbo del Narciso contiene la narcisina, un alcaloide velenoso che, se ingerito accidentalmente, provoca disturbi neurali e infiammazioni gastriche negli animali al pascolo e nell’uomo. Se non si interviene prontamente, può provocare la morte in poche ore. Nell’industria dei profumi si utilizzano alcune parti della pianta per ricavare le essenze. I fiori, industrialmente, sono utilizzati per fare mazzi recisi molto duraturi.
I Narcisi sono coltivati a scopo commerciale in molti paesi del mondo. Attualmente  la maggior produttrice ed esportatrice di bulbi di Narciso è la Gran Bretagna.
Una curiosità: Secondo la tradizione, Narciso, il santo di Gerusalemme che visse oltre cento anni, è ricordato per aver compiuto il miracolo della conversione dell’acqua in olio necessario per alimentare le lampade della sua chiesa. Il suo onomastico ricorre il 29 di ottobre.

 

 

 

 

 

 

 

 

Feb 8, 2014 - Senza categoria    Comments Off on ASPHODELUS RAMOSUS

ASPHODELUS RAMOSUS

 

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La prima pianta di Asfodelo timidamente ha fatto la sua comparsa sul mio terreno in contrada Montesole-Giannotta a Licata.

L’Asfodelo è una pianta erbacea spontanea simile al giglio appartenente alla famiglia delle Liliacee. Omero racconta che gli antichi immaginavano vestiti di Asfodelo i prati dell’Aden. I greci lo dedicavano ai morti. Infatti deponevano il fiore d’Asfodelo sulle sepolture perché, con le radici simili a tuberi, i loro cari si potessero alimentare. Lo festeggiavano il 1° di novembre.

É simbolo di cordialità e di scambio di saluti.

Il nome Asfodelo deriva dal greco α “non”, “σποδός” “cenere”, “έλος” “valle”: valle di tutto ciò che non è stato ridotto in cenere.

L’Asfodelo, Asphodelus ramosus, è una pianta erbacea perenne molto diffusa in montagna. Ha radici tuberose fusiformi ed è alta fino ad un metro. Le foglie numerose, basali, lineari, a spada, con il vertice acuto, piane, scanalate, di colore verde lucido, sono lunghe fino a 60 centimetri e larghe fino a 4 centimetri. Lo scapo è nudo o con pochi rami. I fiori, prodotti in belle spighe, bianchi,  leggermente rosati, con una venatura centrale più scura sui tepali, numerosi, hanno la forma di un largo imbuto. Fioriscono da febbraio a maggio e sono raccolti in racemo alla sommità del fusto. Le brattee sono lanceolate. I frutti sono delle capsule coriacee di forma sferica e dalle dimensioni di una piccola ciliegia. La pianta d’Asfodelo vegeta bene nelle zone aride e litoranee. Le foglie, una volta seccate, sono utilizzate nella cestineria tradizionale sarda. Nella produzione artigianale di cestini si utilizzano anche le foglie di un’altra pianta anch’essa tradizionalmente legata alla lavorazione sarda, quelle della palma nana.

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La pianta è molto frequente, spesso infestante, nei luoghi incolti,  secchi, sassosi, sui bordi delle strade della regione mediterranea. L’Asfodelo, non essendo gradito al palato degli animali, non viene da essi mangiato, perciò, trova un buon terreno nei pascoli che, periodicamente brucati, garantiscono una minore competizione con le altre piante erbacee. Cresce bene in quei terreni che sono stati attraversati da un incendio e, poiché gli  organi sotterranei non sono danneggiati dal fuoco, tende ad invadere le garighe mediterranee. La sua presenza denota una rilevante degradazione ambientale.

Distribuita dal Mediterraneo all’Himalaya, la pianta è molto diffusa soprattutto in Sardegna dove prende diversi nomi: iscraresia, iscraria, cadilloni, irbutu, arbutzu. L’Asfodelo costituisce un elemento caratteristico della cultura tradizionale sarda: il fiore è riportato stilizzato nella tessitura, nell’intarsio, nella ceramica.

Anticamente l’Asfodelo era tenuto in gran conto perché guariva dai morsi dei serpenti e degli scorpioni, dall’idropisia, dai calcoli renali, dalle malattie delle orecchie, dalla scabbia e facilitava le mestruazioni. Oggi, tranne che per qualche applicazione contro la scabbia, non ha altri usi terapeutici.

In medicina sono usate, invece, le radici tuberose per le diverse sostanze che contengono. Esse esercitano azione diuretica, emolliente, lassativa, fluidificante. Usate in pomata da applicare all’esterno, sono indicate come antiparassitarie. Le radici, bollite in acqua salata, perdono il sapore acre e possono servire come alimento. I poveri dell’antichità greca e romana le usavano facendole cuocere sotto la cenere e condendole con olio e sale. Ancora oggi i sardi mangiano le radici d’Asfodelo il cui sapore, dopo una prolungata cottura, somiglia a quello delle rape lessate.

A Villanova Monteleone, cittadina in provincia di Nuoro, tra Alghero e Bosa, un moderno caseificio probabilmente produce formaggi di ottima qualità sfruttando pascoli dove le greggi brucano erbe aromatiche e profumate che conferiscono al latte e quindi ai formaggi qualità inimitabili. I formaggi prendono, appunto, il nome da questi pascoli. Così l’appellativo al formaggio “Fior di Asfodelo” è dato proprio in onore dell’Asfodelo, una pianta presente in modo massiccio in tutto l’agro di Villanova. É la fedele riproduzione dell’antico formaggio preparato negli ovili dai pastori del luogo in tempi non molto recenti; sapore forte, gradevolmente, piccante che si accentua con la stagionatura. Ottimo da grattugiare.

Dalle radici dell’Asfodelo si ricavano anche una colla e diversi prodotti alimentari, ma il principale impiego è come materiale alcoligeno. I residui della distillazione sono un buon alimento per il bestiame. Il periodo più propizio per la raccolta dei tuberi è maggio – giugno.

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L’Asfodelo è citato anche dal poeta Gabriele D’Annunzio nella sua lirica l’Alcyone. Le liriche, quasi tutte, descrivono momenti precisi della sua vita. Nel suo diario racconta alcuni soggiorni estivi a Fiesole e sulla costa toscana, luoghi dove il poeta riesce ad immedesimarsi nella Natura contemplata trasfigurandola contemporaneamente nel paesaggio immortale del mito.

 L’ASFODELO

Glauco

O Derbe, approda un fiore d’asfodelo!

Chi mai lo colse e chi l’offerse al mare?

Vagò sul flutto come un fior salino.

O Derbe, quanti fiori fioriranno

che non vedremo, su pè fulvi monti!

Quanti lungh’essi i curvi fiumi rochi!

Quanti per mille incognite contrade

e pur hanno lor nomi come i fiori,

selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli

onde il cuore dell’esule s’appena

poi che il suon noto per rendergli odore

come foglia di salvia a chi la morde!

 DERBE

Io so dove fiorisce l’asfodelo.

Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo

di Scarperia, lo vidi fiorir bianco.

Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi

in quell’Alpe che ha nome Catenaia

e all’Uccellina presso l’Alberese

nella Maremma pallida ove forse

ei sorride all’imagine dell’Ade

morendo sotto l’unghia dei cavalli.

GLAUCO

O Derbe, anch’io errando su i vestigi

della donna letèa, vidi fiorire

tra Populonia e l’Argentaro il fiore

della viorna. Tutto le sorelle

il bosco aspro nelle delicate

braccia tenean tacendo, e i negri lecci

e i sóveri nocchiuti al sol di giugno

dormivan come venerandi eroi

entro veli di spose giovinette.

 DERBE

In Populonia ricca di sambuchi

io conobbi il marrubbio che rapisce

l’odor muschiato al serpe maculoso

e l’ebbio che colora il vin novello

di sue bacche e lo scirpo che riveste

il gonfio vetro dove il vin matura.

 GLAUCO

La madreselva come la viorna

intenerire del suo fiato i tronchi

vidi a Tereglio lungo la Fegana,

e il giunco aggentilir la Marinella

di Luni, e su pè monti della Verna

l’avornio tesser ghirlandette al maggio.

 DERBE

I gigli rossi e crocei né monti,

alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;

anche alla Cisa in Lunigiana, e all’Alpe

di Mommio dove udii nel ciel remoto

gridar l’aquila. Spiriti immortali

pareano i gigli nell’eterna chiostra.

La bellezza dei luoghi era sì cruda

che come spada mi fendeva il petto.

Con un giglio toccai la grande rupe,

che non s’aperse e non tremò. Mi parve

tuttavia che un prodigio si compiesse,

o Glauco, e andando mi sentii divino.

 GLAUCO

Nella Bocca del Serchio, ove la piana

sabbia vergano oscuramente l’orme

dei corvi come segni di sibille,

il narcisso marino io colsi, mentre

l’ostro premea le salse tamerici,

i cipressetti dell’amaro sale.

Lo smílace conobbi attico; e al Gombo

anche conobbi il giglio ch’è nomato

pancrazio, nome caro ai greci efèbi;

e tanto parve ai miei pensieri ardente

di purità, che ai Mani dell’Orfeo

cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.

 DERBE

O Glauco, noi facemmo della Terra

la nostra donna ed ogni più segreta

grazia n’avemmo per virtù d’amore.

Come il Sole entri nella Libra eguale,

ti condurrò sui monti della Pieve

di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti

del Frigido, e lungh’essa la Freddana

dietro Forci, e nell’Alpe di Soraggio,

ché tu veda fiorir la genziana.

 GLAUCO

Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi

cara. Ma quanti fiori fioriranno

che non vedremo, nelle salse valli!

Le Oceanine ornavan di ghirlande

i lembi della tunica a Demetra

piangente per il colchico apparito.

Com’entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,

ti condurrò su i pascoli del Giovo

in mezzo ai greggi delle pingui nubi,

perché tu veda il colchico fiorire.

                      4 giugno 1902