La prima pianta di Asfodelo timidamente ha fatto la sua comparsa sul mio terreno in contrada Montesole-Giannotta a Licata.
L’Asfodelo è una pianta erbacea spontanea simile al giglio appartenente alla famiglia delle Liliacee. Omero racconta che gli antichi immaginavano vestiti di Asfodelo i prati dell’Aden. I greci lo dedicavano ai morti. Infatti deponevano il fiore d’Asfodelo sulle sepolture perché, con le radici simili a tuberi, i loro cari si potessero alimentare. Lo festeggiavano il 1° di novembre.
É simbolo di cordialità e di scambio di saluti.
Il nome Asfodelo deriva dal greco α “non”, “σποδός” “cenere”, “έλος” “valle”: valle di tutto ciò che non è stato ridotto in cenere.
L’Asfodelo, Asphodelus ramosus, è una pianta erbacea perenne molto diffusa in montagna. Ha radici tuberose fusiformi ed è alta fino ad un metro. Le foglie numerose, basali, lineari, a spada, con il vertice acuto, piane, scanalate, di colore verde lucido, sono lunghe fino a 60 centimetri e larghe fino a 4 centimetri. Lo scapo è nudo o con pochi rami. I fiori, prodotti in belle spighe, bianchi, leggermente rosati, con una venatura centrale più scura sui tepali, numerosi, hanno la forma di un largo imbuto. Fioriscono da febbraio a maggio e sono raccolti in racemo alla sommità del fusto. Le brattee sono lanceolate. I frutti sono delle capsule coriacee di forma sferica e dalle dimensioni di una piccola ciliegia. La pianta d’Asfodelo vegeta bene nelle zone aride e litoranee. Le foglie, una volta seccate, sono utilizzate nella cestineria tradizionale sarda. Nella produzione artigianale di cestini si utilizzano anche le foglie di un’altra pianta anch’essa tradizionalmente legata alla lavorazione sarda, quelle della palma nana.
La pianta è molto frequente, spesso infestante, nei luoghi incolti, secchi, sassosi, sui bordi delle strade della regione mediterranea. L’Asfodelo, non essendo gradito al palato degli animali, non viene da essi mangiato, perciò, trova un buon terreno nei pascoli che, periodicamente brucati, garantiscono una minore competizione con le altre piante erbacee. Cresce bene in quei terreni che sono stati attraversati da un incendio e, poiché gli organi sotterranei non sono danneggiati dal fuoco, tende ad invadere le garighe mediterranee. La sua presenza denota una rilevante degradazione ambientale.
Distribuita dal Mediterraneo all’Himalaya, la pianta è molto diffusa soprattutto in Sardegna dove prende diversi nomi: iscraresia, iscraria, cadilloni, irbutu, arbutzu. L’Asfodelo costituisce un elemento caratteristico della cultura tradizionale sarda: il fiore è riportato stilizzato nella tessitura, nell’intarsio, nella ceramica.
Anticamente l’Asfodelo era tenuto in gran conto perché guariva dai morsi dei serpenti e degli scorpioni, dall’idropisia, dai calcoli renali, dalle malattie delle orecchie, dalla scabbia e facilitava le mestruazioni. Oggi, tranne che per qualche applicazione contro la scabbia, non ha altri usi terapeutici.
In medicina sono usate, invece, le radici tuberose per le diverse sostanze che contengono. Esse esercitano azione diuretica, emolliente, lassativa, fluidificante. Usate in pomata da applicare all’esterno, sono indicate come antiparassitarie. Le radici, bollite in acqua salata, perdono il sapore acre e possono servire come alimento. I poveri dell’antichità greca e romana le usavano facendole cuocere sotto la cenere e condendole con olio e sale. Ancora oggi i sardi mangiano le radici d’Asfodelo il cui sapore, dopo una prolungata cottura, somiglia a quello delle rape lessate.
A Villanova Monteleone, cittadina in provincia di Nuoro, tra Alghero e Bosa, un moderno caseificio probabilmente produce formaggi di ottima qualità sfruttando pascoli dove le greggi brucano erbe aromatiche e profumate che conferiscono al latte e quindi ai formaggi qualità inimitabili. I formaggi prendono, appunto, il nome da questi pascoli. Così l’appellativo al formaggio “Fior di Asfodelo” è dato proprio in onore dell’Asfodelo, una pianta presente in modo massiccio in tutto l’agro di Villanova. É la fedele riproduzione dell’antico formaggio preparato negli ovili dai pastori del luogo in tempi non molto recenti; sapore forte, gradevolmente, piccante che si accentua con la stagionatura. Ottimo da grattugiare.
Dalle radici dell’Asfodelo si ricavano anche una colla e diversi prodotti alimentari, ma il principale impiego è come materiale alcoligeno. I residui della distillazione sono un buon alimento per il bestiame. Il periodo più propizio per la raccolta dei tuberi è maggio – giugno.
L’Asfodelo è citato anche dal poeta Gabriele D’Annunzio nella sua lirica l’Alcyone. Le liriche, quasi tutte, descrivono momenti precisi della sua vita. Nel suo diario racconta alcuni soggiorni estivi a Fiesole e sulla costa toscana, luoghi dove il poeta riesce ad immedesimarsi nella Natura contemplata trasfigurandola contemporaneamente nel paesaggio immortale del mito.
L’ASFODELO
Glauco
O Derbe, approda un fiore d’asfodelo!
Chi mai lo colse e chi l’offerse al mare?
Vagò sul flutto come un fior salino.
O Derbe, quanti fiori fioriranno
che non vedremo, su pè fulvi monti!
Quanti lungh’essi i curvi fiumi rochi!
Quanti per mille incognite contrade
e pur hanno lor nomi come i fiori,
selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli
onde il cuore dell’esule s’appena
poi che il suon noto per rendergli odore
come foglia di salvia a chi la morde!
DERBE
Io so dove fiorisce l’asfodelo.
Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo
di Scarperia, lo vidi fiorir bianco.
Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi
in quell’Alpe che ha nome Catenaia
e all’Uccellina presso l’Alberese
nella Maremma pallida ove forse
ei sorride all’imagine dell’Ade
morendo sotto l’unghia dei cavalli.
GLAUCO
O Derbe, anch’io errando su i vestigi
della donna letèa, vidi fiorire
tra Populonia e l’Argentaro il fiore
della viorna. Tutto le sorelle
il bosco aspro nelle delicate
braccia tenean tacendo, e i negri lecci
e i sóveri nocchiuti al sol di giugno
dormivan come venerandi eroi
entro veli di spose giovinette.
DERBE
In Populonia ricca di sambuchi
io conobbi il marrubbio che rapisce
l’odor muschiato al serpe maculoso
e l’ebbio che colora il vin novello
di sue bacche e lo scirpo che riveste
il gonfio vetro dove il vin matura.
GLAUCO
La madreselva come la viorna
intenerire del suo fiato i tronchi
vidi a Tereglio lungo la Fegana,
e il giunco aggentilir la Marinella
di Luni, e su pè monti della Verna
l’avornio tesser ghirlandette al maggio.
DERBE
I gigli rossi e crocei né monti,
alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;
anche alla Cisa in Lunigiana, e all’Alpe
di Mommio dove udii nel ciel remoto
gridar l’aquila. Spiriti immortali
pareano i gigli nell’eterna chiostra.
La bellezza dei luoghi era sì cruda
che come spada mi fendeva il petto.
Con un giglio toccai la grande rupe,
che non s’aperse e non tremò. Mi parve
tuttavia che un prodigio si compiesse,
o Glauco, e andando mi sentii divino.
GLAUCO
Nella Bocca del Serchio, ove la piana
sabbia vergano oscuramente l’orme
dei corvi come segni di sibille,
il narcisso marino io colsi, mentre
l’ostro premea le salse tamerici,
i cipressetti dell’amaro sale.
Lo smílace conobbi attico; e al Gombo
anche conobbi il giglio ch’è nomato
pancrazio, nome caro ai greci efèbi;
e tanto parve ai miei pensieri ardente
di purità, che ai Mani dell’Orfeo
cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.
DERBE
O Glauco, noi facemmo della Terra
la nostra donna ed ogni più segreta
grazia n’avemmo per virtù d’amore.
Come il Sole entri nella Libra eguale,
ti condurrò sui monti della Pieve
di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti
del Frigido, e lungh’essa la Freddana
dietro Forci, e nell’Alpe di Soraggio,
ché tu veda fiorir la genziana.
GLAUCO
Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi
cara. Ma quanti fiori fioriranno
che non vedremo, nelle salse valli!
Le Oceanine ornavan di ghirlande
i lembi della tunica a Demetra
piangente per il colchico apparito.
Com’entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,
ti condurrò su i pascoli del Giovo
in mezzo ai greggi delle pingui nubi,
perché tu veda il colchico fiorire.
4 giugno 1902