Feb 1, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’OXALIS ACETOSELLA NELLA CAMPAGNA DI LICATA

L’OXALIS ACETOSELLA NELLA CAMPAGNA DI LICATA

 

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Mistretta – Licata: le due patrie di Nella Seminara. Il prof. Mario Sortino, già Ordinario di Botanica Ambientale e Applicata nell’Università di Palermo, per la presentazione del libro di Nella Seminara “Da Licata a Mistretta un viaggio naturalistico”, ha esordito con i versi di Dante “l’amor che muove il sole e le altre stelle” per evidenziare l’intenso amore di Nella per le sue due patrie, quella genetica Mistretta e quella adottiva Licata. Nel suo blog l’autrice, pertanto, pubblica articoli su fenomeni osservati a Mistretta e a Licata.
Infatti, durante la passeggiata mattutina nelle campagne di monte Sole-Giannotta a Licata, la sua attenzione è stata attratta dalla colorazione giallo-brillante di moltissime piante di Oxalis acetosella che prepotentemente e improvvisamente hanno occupato ampi spazi di terreno.

https://youtu.be/QNiQpHdS0TM

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Durante le stagioni fresche di primavera e d’autunno un naturale incantevole paesaggio è regalato dall’Oxalis acetosella, detta anche “Trifoglio acetoso, Erba brusca, Agretta, Pentecoste, Lambrusca“. In dialetto siciliano è chiamata: ” Aira e duci, Cacacitula, Acitazzu  etc.”
Essa forma campi estesi, fitti e nasconde le altre piante soffocandole fin dalle radici.
É altamente infestante, però mette allegria perché è l’esplosione della vita.
Forma un tappeto giallo intenso, omogeneo, ampio che ondeggia al primo alito di vento.
É docile al taglio e si estirpa con la sola pressione delle dita facendo attenzione ad eliminare completamente il rizoma.

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Appartenente alla famiglia delle Oxalidacee, l’Oxalis pes-caprae, o acetosella, è una pianta erbacea perenne alta circa 10 centimetri.
Possiede un rizoma sottile, ramoso e vigoroso che emette un fusto rossiccio prostrato, serpeggiante nel terreno.
Le foglie, di colore verde brillante, poste su un lungo picciolo, sono formate da tre foglioline cuoriformi a rovescio simili a quelle del trifoglio.
I fiori sono piccoli, di colore giallo, rosa, bianco che, in condizioni di freddo, sono impollinati e fecondati prima del loro schiudersi.
I fiori si formano direttamente su fusti e compaiono, isolati, in genere tra febbraio e giugno.

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Il frutto è una capsula che contiene numerosi e minutissimi semi.
La pianta ha la tendenza ad invadere il terreno moltiplicandosi rapidamente e con facilità.
Originaria dall’Eurasia, è una pianta autoctona del territorio mediterraneo sud – occidentale dove forma una macchia spontanea nelle zone costiere.
Nel 1806 fu introdotta nell’isola di Malta da una signora inglese proveniente da Città del Capo e che ha donato al frate Giacinto, botanico locale che la segnalò come Oxella cernua Thunb.
Però  dal 1796 risulta già essere presente in Sicilia da dove si propagò in tutto il bacino del Mediterraneo.
E’ una specie che predilige l’esposizione in pieno sole o appena a mezz’ombra.

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Il suo sapore acidulo, dovuto alla presenza dell’ossalato acido di potassio, da cui il nome di “acetosella”, dal greco “όξυς” “acuto” e “άλς” “sale”, oltre alle mucillagini e alla vitamina C, stimola la masticazione delle foglie fresche e tenere. Consumati in abbondanza i fusticini di Acetosella causano forti mal di pancia.
Si chiama anche Oxalis pes-caprae per la forma della radice  che somiglia allo zoccolo della capra.
Assunto in grandi quantità, l’ossalato acido di potassio è responsabile di anuria, di lesioni renali, di intossicazione e anche della morte.
Le foglie e i gambi di Acetosella, usati in cucina, insaporiscono molti piatti di arrosti e di minestre o si usano per preparare ricche insalate primaverili.

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L’Oxalis acetosella, ricca di vitamina C, in medicina si usa per le sue virtù rinfrescanti, antiscorbutiche, diuretiche. É indicata anche nella cura delle affezioni biliari, negli imbarazzi gastrici, nelle costipazioni intestinali, nelle dermatosi, nelle ulcere dell’apparato boccale, come decongestionante e vermifugo. Non è consigliabile agli artritici, ai sofferenti di calcoli, agli affetti da malattie renali. É obbligatorio rispettare scrupolosamente le dosi consigliate.
Si assume col decotto preparato facendo bollire 50 – 60 foglie in un litro d’acqua e poi bevendone 2 – 3 tazzine al giorno; oppure in succo preparato col 45% di zucchero e preso a cucchiaiate.
É una droga da usare con precauzione per gli effetti nocivi che può causare. L’0xalis acetosella è, pertanto, utile alla salute.
Secondo antiche tradizioni, la medicina fitoterapica per la cura delle malattie è stata suggerita agli uomini da esseri sovrumani, dagli dei.
É stato Ippocrate, ritenuto il padre della medicina, a ristabilire organicità e razionalità nell’impiego delle piante medicinali. Ritiratosi nel tempio d’Esculapio, nell’isola di Coo, ha raccolto ed ha scritto i segreti e i rimedi erboristici praticati dalle popolazioni primitive che ne facevano uso per la guarigione delle malattie e che si tramandavano oralmente di generazione in generazione.
In Egitto il grande Ermete Trismegisto insegnò l’uso delle piante medicinali assieme all’arte alchemica.
Più comunemente noto come il dio Toth, egli è il padre di tutte le scienze, specialmente della medicina, e l’autore della famosissima “Tavola smeraldina” ritrovata nella sua tomba e contenente il segreto della “Pietra filosofale”.
In Grecia, il dio Apollo è stato divinizzato per la sua grande scienza medica; il centauro Chitone e, durante la guerra di Troia, Esculapio e i suoi figli Igea e Panacea, Macaone e Podalirio continuarono ad esporre le teorie sull’utilità delle piante medicinali.
Diana insegnò l’uso dell’Artemisia vulgaris, Pallade della Camomilla, Afrodite delle piante afrodisiache e le maghe Circe e Medea delle piante velenose.

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Jan 20, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL CALYCANTHUS FRAGRANS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL CALYCANTHUS FRAGRANS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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 Una motivazione, che rende la villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta, meritevole di essere frequentata anche d’inverno, è la presenza di un arbusto speciale: il Calicanto. Nel colore monocromatico del verde di tutte le altre piante presenti nel giardino durante la stagione invernale, il Calicanto porta una dorata nota di colore con i suoi fiori gialli col cuore rossiccio, che sembrano di cera, e che inebriano il giardino con il loro intenso profumo.

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 Il Chimonanthus praecox o Chimonanthus fragrans,o Calycantus fragrans che vegeta bene nella villa di Mistretta, è un arbusto cespuglioso, spogliante, originario della Cina ed importato in Europa nel 1766 quando il forziere con i tesori botanici di quella terra era ancora strettamente serrato e dove cresce fino all’altitudine di 3000 metri.
Appartenente alla famiglia delle Calycanthaceae, è conosciuto comunemente come “Calicanto d’inverno”.
Con il nome Calicanto si indicano due piante che appartengono a generi diversi: il Calicanto d’inverno o Chimonanthus e il Calicanto d’estate o Calycanthus floridus, originario dell’America i cui fiori, di colore rosso-bruno, sbocciano da maggio ad agosto. Il nome ”Calycanthus” significa “fiore d’inverno” proprio per la sua ricca fioritura invernale.
Il termine Calicantus deriva dal greco “καλχ”, “calice” e “anthos”, “fiore”, per indicare che il calice e la corolla dei fiori sono simili.

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 Il Calicanto è una pianta rustica, che può raggiungere i due metri d’altezza. Presenta il fusto eretto, ramificato, rivestito da una corteccia aromatica, foglie caduche, larghe, opposte, membranose, oblungo – lanceolate.
I fiori, tra i primi a sbocciare in giardino, ascellari, isolati o riuniti a coppie sui rami privi di foglie, molto profumati, appariscenti, di forma stellata, di colore giallognolo, all’interno della corolla presentano delle sfumature brunastre.
Prodigo è di sicuro il Chimonanthus fragrans che inizia a fiorire in pieno inverno, anche alla presenza di freddo intenso, e quando tutto il resto del mondo vegetale sembra dormire.
La straordinaria e generosa fioritura avviene di solito a metà gennaio indifferente alle gelate e alle nevicate. In questo periodo è straordinario vedere l’alberello privo di foglie, ma carico di questi fiorellini gialli visitati da qualche temeraria ape.
D’inverno, l’unico profumo così speciale, che riesce a farsi notare anche ad una certa distanza, è solo quello del Calicantus fiorito!
E’ un tipo di profumo simile alle spezie orientali o al miele millefiori.
Dopo il periodo della fioritura, compaiono i frutti che, all’inizio della stagione, sono verdi, poi, maturando, diventano marrone e contengono i semi lucidi e di colore violaceo.

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 La moltiplicazione avviene per semina a fine estate, per margotta in ottobre.
La tecnica che garantisce i migliori risultati è, senz’altro, quella per pollone. Si esegue in primavera staccando dalla base della pianta alcuni polloni che si mettono direttamente a dimora in piena terra.
Le piante riprodotte per seme sono molto lente nella crescita e impiegano fino a dieci anni prima di fiorire.
Il Calicanto è coltivato come pianta ornamentale nei giardini per la bella fioritura invernale dalla quale si possono staccare dei rami fioriti recisi che decorano e profumano le abitazioni.

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Il Calycanthus è una pianta che non necessita di particolari attenzioni. Predilige un clima fresco, resiste bene al freddo, è sensibile alle gelate tardive di febbraio e di marzo e si adatta a qualsiasi tipo di terreno, meglio se ricco, soffice, permeabile. Gradisce un’esposizione non troppo soleggiata o semi ombreggiata protetto dai venti freddi avvantaggiandosi della posizione riparata dal muro.
Il Calicanto non richiede potature regolari.
Talvolta, la mano esperta del giardiniere interviene eliminando i rami rovinati, accorciando quelli buoni, lasciando, però, i rami verticali più forti. Essendo una pianta a fioritura invernale, sopporta la potatura solo a fine fioritura, cioè in primavera.
Le annaffiature devono essere moderate soprattutto nel periodo estivo. La pianta può essere attaccata da parassiti di cui il più frequente è l’Afide, ma anche il Ragnetto rosso e la Cocciniglia possono danneggiarla.
Industrialmente è coltivato per la produzione di rami fioriti recisi.
Buona regola è profumarsi ogni mattina polsi e caviglie con essenza di Calicanto per rinforzare le ossa e i fasci di nervi che vi confluiscono.
Il significato simbolico dei fiori di Calicanto è “l’adulazione”.
L’offerta di un tralcio di Calicanto equivale ad un “omaggio gentile”. Nell’800 era una dichiarazione “d’amore”.
I fiori di Calicanto d’estate sono chiamati “Pampadour” in onore della madama favorita della corte francese.
In Francia il messaggio del Calicanto è: “Siete molto bella ed elegante”.

 

 

 

Dec 23, 2013 - Senza categoria    Comments Off on L’EUPHORBIA PULCHERRIMA – LA STELLA DI NATALE

L’EUPHORBIA PULCHERRIMA – LA STELLA DI NATALE

 

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Per la festività del Santo Natale ho ricevuto in regalo tre piante di Euphorbia pulcherrima. Sono tre bellissime Stelle di Natale!
E’ ormai consuetudine anche in Italia regalare a Natale ad amici e a parenti questa pianta, oppure semplicemente comprarla dal fioraio per rendere ancora più magica l’atmosfera natalizia della propria abitazione unitamente al presepe, all’albero, alle luci e ai regali.
Ringrazio, pertanto, gli amici che mi hanno fatto dono di queste coloratissime, simpatiche, delicate e preziose piante che ho posizionato ai piedi del piccolo presepe allestito a casa mia.
Dopo che le feste natalizie saranno trascorse provvederò a curare, per farle crescere bene, queste piante trapiantandole nella mia campagna in contrada Montesole-Giannotta a Licata.
Ho già scelto per loro un luogo adatto alle loro esigenze. Una lunga aiuola, posta tra un muro della casa e la parete rocciosa, benevolmente accoglierà le mie tre piantine proteggendole dal vento insidioso.
La grande chioma di un albero di carrubo, come un largo ombrello, le proteggerà dai raggi diretti del sole.
In genere la Stella di Natale è una pianta che vegeta bene anche in inverno, soprattutto dove il clima è mite quasi per tutto l’arco dell’anno, cosi come avviene a Licata, tanto che poeticamente è chiamata “Rosa invernale”.
Perché la Stella di Natale è una pianta che si regala a Natale?
La pianta raggiunge il suo massimo splendore proprio durante il periodo della ricorrenza del Santo Natale.
Per questo motivo le è stato attribuito tale nome dai missionari spagnoli. Si utilizzò per la prima volta nel secolo XVII, in Taxco, nello Stato del Guerrero, quando, durante le feste natalizie, fu raccolta dai monaci francescani che si trovavano in quel luogo proprio nel periodo di Natale eleggendola come “pianta simbolo delle festività“.
Da allora la Stella di Natale fu utilizzata per abbellire presepi e per creare ghirlande decorative augurali da affiggere sopra lo stipite delle porte.

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Il suo nome scientifico è Euphorbia pulcherrima però, essendo una pianta molto conosciuta in tutto il mondo e, appunto, regalata durante le festività natalizie, è giusto citare gli altri suoi nomi comuni: Poinsettia pulcherrima, Stella di Natale, Mexican flame leaf, Christmas star, Winter rose, Noche Buena, Lalupatae, Atatürk çiçeği (“Fiore di Atatürk”, in Turchia), Αλεξανδρινό, Pascua.
L’Euphorbia pulcherrima, appartenente alla famiglia delle Euphorbiacee, è una ornamentale pianta tropicale originaria del Messico, dove è considerata quasi sacra, e, in realtà, non sarebbe adeguata a vivere in luoghi dove il clima è invernale.
Nel suo habitat naturale cresce spontaneamente e, allo stato selvatico, può raggiungere anche un’altezza dai due ai quattro metri. Fu scoperta nel 1520 dagli spagnoli di H.Cortès giunti nella capitale aztzeca Tenochtitlán.
La notarono tra i fiori e i frutti che erano destinati a Montezuma, un imperatore azteco che regnò dal 1502 al 1520. Sconosciuta fino alla fine dell’800, è stata importata in Europa solo da recente.
Le è stato attribuito anche il nome scientifico “Poinsettia Pulcherrima” in onore di Joel Roberts Poinsett, il primo Ambasciatore degli Stati Uniti in Messico che, nel 1825, portò alcuni esemplari di questa pianta nella sua casa, nella Carolina del Nord, per coltivarla nel suo giardino.
Era rimasto favorevolmente colpito dalla bellezza delle colline messicane ricoperte dagli arbusti carichi di vistose foglie rosse che gli indigeni utilizzavano per tingere le stoffe e il lattice, secreto dai fusticini, come insetticida.
LEuphorbia pulcherrima è un piccolo arbusto legnoso particolarmente fragile.

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Le foglie, grandi, ovato-ellittiche, dentate e lobate, appuntite, di colore verde, con nervature in rilievo, sono caduche. Le brattee verdi, le foglie modificate, sono sfumate di un colore rosso vivo, ma esistono varietà dalla colorazione bianca o rosa, picchiettate o ad effetto marmorizzato.

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Erroneamente esse sono chiamate ”fiori”.
I veri fiori, composti da petali e sepali che formano una sorta di coppa, detti ciazi o ciati, piccoli, giallognoli, o di colore rosso, o rosa salmone, o bianchi, poco vistosi, si trovano all’apice dei rami posti al centro della corona di cinque brattee in genere colorate di rosso. In una infiorescenza si trovano numerosi fiori maschili, ridotti a stami, ed un solo fiore femminile che, se fecondato, dà origine ad un frutto che al suo interno custodisce una capsula con tre semi.
La bellezza della pianta è dovuta proprio alle infiorescenze formate dai piccoli fiori gialli. La fioritura avviene da dicembre a marzo ed è molto influenzata dalla luce.

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La riproduzione si effettua prevalentemente per talea in primavera prelevando dalla pianta madre dei rametti lunghi fino a venti centimetri.
Una volta reciso il ramo con una lametta sterilizzata, è bene bruciarlo alla base o scottarlo nell’acqua bollente per fare cicatrizzare la ferita; quindi si colloca in un vaso di terracotta riempito di terra fertile e normalmente idratata per farla radicare. La talea richiederà alcuni giorni per emettere le radici.
La pianta, se coltivata adeguatamente, potrà vivere molti anni divenendo perenne.

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La stella di Natale è una pianta foto-periodica e brevidiurna, regola cioè la sua fioritura e la fotosintesi clorofilliana sulla lunghezza del giorno, sull’intensità e sulla quantità di luce. Proprio per questo motivo la stella di Natale inizia il processo di fioritura solo quando il periodo di illuminazione nell’arco della giornata è inferiore a 12 ore.
Questo spiega il motivo per cui molte piante crescono in modo differente da luogo a luogo, anche se in apparenza la temperatura è la stessa. Quindi è bene tenere la pianta di Euphorbia pulcherrima in luoghi con poca luce a partire dalla fine del mese di settembre.
L’induzione alla fioritura, che avviene da dicembre a marzo, dal solstizio d’inverno all’equinozio di primavera, è “innescata” dalla quantità delle ore di buio rispetto alle ore di luce. Il numero delle ore di luce deve essere di 8-9 al massimo.
In Italia la Poinsettia è una pianta molto coltivata e, nella coltivazione industriale, a partire dal mese di ottobre dalle ore 17:00 del pomeriggio alle ore 7:00 del mattino successivo e per circa 45 giorni i coltivatori costringono la serra al buio in modo che la pianta possa essere esposta a molte ore di buio e a poche ore di luce.
Nelle altre ore del giorno la pianta riceverà tanta luce. Pertanto, per avere le stelle di Natale fiorite durante il periodo natalizio è sufficiente allungare o accorciare artificialmente la lunghezza del giorno. Una buona luminosità favorirà la crescita rigogliosa della pianta.
Una posizione al buio per buona parte della giornata favorirà la fioritura. Se saranno rispettate queste condizioni allora la pianta fiorirà nel suo periodo naturale, ovvero in inverno, per Natale.
Nel Nord dell’Europa, dove le piante di Poinsettia sono vendute durante tutto l’anno, la fioritura è ottenuta artificialmente e forzatamente con l’uso di teli oscuranti che rivestono le serre. E’ coltivata anche nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti. In America inizialmente è stata coltivata per i fiori recisi e, successivamente, come pianta da vaso.
In Italia è coltivata nei climi miti della Sicilia e della Riviera Ligure dove può vivere anche all’aperto. In genere è una pianta che vive dentro gli appartamenti.
La Stella di Natale è una pianta relativamente esigente.
Solo il pollice verde del coltivatore riesce ad ottenere buoni risultati. Ama i terreni leggermente acidi, composti da torba, argilla espansa e sostanza organica, ben drenati in modo che rimangano leggeri per consentire alle radici di arieggiare.
Il terreno, nel periodo dello sviluppo e della fioritura, deve essere concimato ogni 15 giorni con un fertilizzante ricco di fosforo e di potassio e diluito nell’acqua. Vive bene tra i 14 e i  22 °C di temperatura.
Teme gli sbalzi termici, le gelate, i raggi diretti del sole, le correnti d’aria, i ristagni idrici. Le annaffiature devono essere moderate e solo quando il terreno è ben asciutto utilizzando poca acqua a temperatura ambiente.
Le Stelle di Natale rimangono fiorite fino al mese di maggio. Terminata la fioritura, la pianta perderà parte delle foglie.
Dalla metà del mese di luglio, con l’utilizzo di cesoie affilate e sterilizzate, bisognerà eseguire la cimatura che consiste nel tagliare di circa un terzo della loro lunghezza tutti i rami: una vigorosa potatura aiuterà la pianta a crescere meglio.
I rami tagliati, se fatti radicare nel terreno, daranno vita a nuove piantine. Il taglio delle foglie e del fusto costringe la pianta ad emettere un lattice tossico di colore bianco-latte altamente irritante contenente euforboni, alcaloidi e triterpeni, una sostanza che provoca reazioni allergiche se viene a contatto della pelle e della mucosa della bocca. Può provocare eritema, prurito, bruciore delle mucose; se ingerito causa nausea, vomito, diarrea e perdita di coscienza.Anche gli animali domestici, cani e gatti, possono essere attratti dalla Stella di Natale e mordere sia le foglie sia il fusto.
E’ tossica anche per loro.
Come tutti gli esseri viventi, anche la Poinsettia è attaccata da diverse malattie. I funghi aggrediscono le radici se nel terreno ristagna l’acqua.
Il rimedio è quello di spolverarle con un fungicida ad ampio spettro. Se nelle brattee e nelle foglie appaiono zone decolorate o se si staccano facilmente vuol dire che la pianta ha subìto eccessive annaffiature che fanno provocato il marciume delle radici.
Se le foglie ingialliscono e cadono significa che soffrono per il calore eccessivo nell’ambiente in cui la pianta si trova, oppure per insufficiente umidità e scarsa illuminazione. Bisogna aiutare la pianta spruzzando le foglie con l’acqua e posizionando il vaso in un luogo migliore.
Le foglie, che presentano macchie grigiastre e al tatto si sbriciolano producendo una polvere sottile, sono state aggredite dal Botritis, un fungo molto pericoloso che si debella con l’uso di fungicidi specifici. La Cocciniglia bruna attacca le foglie procurando macchie brune sulla pagina inferiore.
È possibile rimuovere la Cocciniglia strofinando sulle foglie di una piccola pianta coltivata in vaso un batuffolo di cotone imbevuto di alcool.
Se la pianta è un arbusto grande, per rimuovere i parassiti si deve lavare con acqua e sapone strofinando molto delicatamente con una spugna le parti infette. Successivamente, per eliminare tutto il sapone, la pianta deve essere lavata con abbondante acqua. Oppure si possono usare degli antiparassitari specifici.
I piccoli insetti, di colore bianco-giallastro, che si muovono su tutte le parti verdi della pianta rendendole appiccicose, sono gli afidi comunemente chiamati “pidocchi”. Molto utili anche in questo caso sono gli antiparassitari specifici. Anche le mosche bianche e il ragnetto rosso danneggiano le foglie della Stella di Natale.

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Dec 11, 2013 - Senza categoria    Comments Off on SANTA LUCIA

SANTA LUCIA

Santa Lucia

Il 13 Dicembre la Chiesa cattolica festeggia Santa Lucia.

Lucia nacque a Siracusa nel 283 in una nobile famiglia molto ricca. Educata alla religione cristiana, desiderò dedicare la sua vita a Dio e donare le sue ricchezze agli indigenti. Nel 302, sotto Diocleziano, durante la persecuzione, un soldato romano tentò di rapirla.
Poiché Lucia gli oppose resistenza, in quanto cristiana, la denunciò alle autorità e, per ordine del governatore Pascasio, subì il suo atroce martirio. Fu arrestata, torturata, uccisa. Dopo il martirio, il suo corpo fu portato in processione nelle catacombe di Siracusa che chiamarono “le catacombe di Santa Lucia”. Il culto della Santa cominciò immediatamente e proseguì nel tempo.
Papa Gregorio Magno (590-604) inserì il nome Lucia nel Canone della Messa imponendo la Sua venerazione a tutta la Chiesa. Nel 1039 il generale bizantino Giorgio Maniace strappò agli Arabi la Sicilia orientale, compresa la città di Siracusa, e trasportò il corpo di Lucia a Costantinopoli. Quando la capitale imperiale fu occupata dai crociati nel 1204, il doge Enrico Dandolo ordinò di portare le spoglie della Santa a Venezia dove si trovano tuttora.
La città di Siracusa custodisce in una teca d’oro solamente alcuni preziosissimi frammenti di costole. Probabilmente, grazie al suo nome che ricorda la purezza, la luce, dal latino “lux”  “Lucia”, sul suo conto si diffusero molte leggende. Una di esse narra che durante il martirio le sono stati strappati gli occhi, simbolo della luce.
Ancora un’altra leggenda racconta che lei stessa si strappò gli occhi per non cedere all’ assalitore e, talvolta, è raffigurata nell’atto di porgerglieli. Lucia è la Santa protettrice della vista e quindi della luce degli occhi perché gli occhi sono la fonte della nostra percezione della luce.
Pitrè scrive “che serba sani gli occhi dei suoi devoti”.
A Mistretta l’ingenuità faceva credere al popolo semplicione che bastava lo scongiuro con uno spicchio d’aglio e con la recita di una orazione per guarire da tutti i mali dell’occhio. Lo spicchio d’aglio, sezionato orizzontalmente, si doveva poggiare vicino all’occhio malato e, intanto, a bassa voce, si doveva recitare “L’orazzioni pà bbiniritta”:

Santa Lucia n-cammira stasìa;

fuorfici r’oru, sita cusìa;

passau lu Signori cu la Vergini Maria

e cci rissi: < Chi ai, Lucia?>

<Mi fa-mmali l’uocchju>.

<Trasi nna lu me uortu,

cc’è m-per’i finuocchju:

cu li manu lu chjantai,

cu li pieri lu scarpisai:

Susi, Lucia, ca nenti ai!>

Segue: a salivi rriggina

Santa Lucia in camera stava;

con le forbici d’oro e cuciva la seta;

passò il Signore con la Vergine Maria

e le disse: <Che hai, Lucia?>

<Mi fa male l’occhio>.

Entra nel mio orto,

c’è una pianta di finocchio:

con la mano lo piantai

con il piede lo calpestai:

Alzati,Lucia, perché niente hai!>

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Lucia è la Santa che si celebra nei giorni in cui anticamente si svolgevano i rituali per festeggiare il 21 dicembre, il giorno in cui cade il solstizio d’inverno. In Sicilia, e a Mistretta in modo particolare, si dice:

Ri Santa Lucia a-Nnatali
criscinu i jorna quantu m-passu ri cani;
ri Natali m-pui
criscinu i jorna quantu m-passu ri ui
”.
“Da Santa Lucia a Natale crescono i giorni quanto un passo di cane.
Traduzione:

Da Santa Lucia a Natale

crescono i giorni quanto un passo di cane

Da Natale in poi
crescono i giorni quanto un passo di bue
”.

Secondo l’astronomia questo detto non è esatto perché il 13 dicembre è ancora nell’equinozio d’autunno e il dì continua ad accorciarsi. Dal 21 dicembre, giorno che inizia il solstizio d’inverno, le ore di luce aumentano perché ci si avvia verso l’equinozio di primavera.
A Mistretta e in molti altri paesi della Sicilia resiste ancora la tradizione di consumare come unico alimento per tutta la giornata la “Cuccia”, il frumento bollito che si consuma per devozione esclusivamente il 13 dicembre, data della ricorrenza del martirio di Santa Lucia.
Quel giorno sono banditi dalla tavola dei mistrettesi e di alcuni siciliani tutti gli alimenti che contengono carboidrati: pane, pasta, biscotti e si mangia solo la cuccia accompagnata da legumi e da verdure. Una leggenda racconta che nel 1646 la Sicilia e la città di Siracusa in particolare durante la dominazione spagnola furono colpite da una grave carestia.
Il popolo siciliano, lungamente provato dalla fame, sperando nella provvidenza divina e invocando Santa Lucia, vide giungere nel porto di Siracusa per alcuni, nel porto di Palermo per altri, una nave carica di frumento che affondò. Quel prezioso carico, fuoriuscito dalla stiva della nave, ben presto si allargò nel mare e le onde lo trasportarono fino a riva. La gente ne ha potuto prendere in gran quantità e, poiché era necessario molto tempo per trasformare il grano in farina e in pane, mangiò direttamente il frumento già macerato dalla permanenza in acqua. Secondo un’altra narrazione la tradizione popolare racconta che, appena il grano fu scaricato nel porto di Siracusa, la gente dispose le caldaie nelle piazze, bollì il prezioso alimento e lo distribuì. Il frumento bollito da allora si chiama “cuccia” da “còcciu” “cosa piccola, chicco”.
Il piatto originale è la cuccia condita con un pizzico di sale e con un filo d’olio d’oliva. Oggi la cuccia è diventata un dolce perché si condisce con la crema al cioccolato, con la crema di ricotta fresca, col vino cotto, con pezzi di cannella e di frutta candita, con granelli di pistacchio, col miele, col latte.
L’uso di mangiare la cuccia nella ricorrenza della festa di Santa Lucia probabilmente era collegato alla festa di Cerere per la raccolta del grano. Nella tradizione cristiana la festa alla dea Cerere, divinità pagana, è stata sostituita da quella a Santa Lucia con l’usanza di mangiare la “cuccia”, il grano di nuova raccolta.
Una certa iconografia raffigura la Santa che sostiene un mazzo di spighe e un vassoio dove sono appoggiati gli occhi.
A volte il vassoio reca una fiaccola, ed è per questo motivo che viene accostata alla dea greca Demetra o alla romana Cerere rappresentate con un mazzo di spighe e con una fiaccola.

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Auguro Buon Onomastico alla bambina Lucia Roberta, a mia nipote Lucia Timpanaro, a mia cugina Lucia Lorello, alla mia amica Lucia Mussolici, a Lucia Oieni, a Lucio Azzolina e a tutti coloro i quali portano il nome di Lucia e di Lucio.

Dec 5, 2013 - Senza categoria    Comments Off on PICEA EXCELSA, L’ALBERO DI NATALE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

PICEA EXCELSA, L’ALBERO DI NATALE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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La festività del Santo Natale si avvicina sempre di più e l’albero di Natale è stato già allestito nelle abitazioni, nei negozi, negli uffici, nelle piazze di tutti i paesi italiani e stranieri.
Carico di luci e di addobbi colorati e multiformi, simboleggia “la sapienza, la ricchezza e il benessere”.
E’ il simbolo del Santo Natale.
L’albero fu associato al Natale fin da tempi antichissimi. Probabilmente questa tradizione è derivata dai culti pagani praticati nell’Europa settentrionale nelle zone agricole. Poiché l’Abete rimane sempre verde, anche durante l’inverno, i druidi, antichi sacerdoti dei Celti, lo consideravano il simbolo di “lunga vita” e lo onoravano nelle feste invernali. Virgilio racconta che, nel 45 a.C., durante le feste Saturnali, i romani usavano portare in giro un Abete rosso per salutare la fine dell’inverno. Nei calendari nordici all’Abete rosso era riservato il primo giorno dell’anno, che allora era quello del solstizio d’inverno, della rinascita del Sole, che poi fu scelto dai cristiani come quello della nascita di Gesù.
Per festeggiare il passaggio dall’autunno all’inverno i Teutoni piantavano davanti alle proprie case un Abete rosso ornato di ghirlande di fiori e bruciavano un enorme ceppo per dare nuova forza al tiepido sole di dicembre. Forse così è nato l’albero di Natale la cui storia è molto complessa. Essa nasce dalla fusione di miti pagani e di riti cristiani.
Già nel Medioevo, presso i popoli nordici, un Abete rosso era tagliato all’avvicinarsi del Natale e si addobbava con ghirlande di fiori e con dolciumi.
La tradizione di addobbare l’albero proviene dall’Egitto poiché l’Abete è simile ad una piccola piramide. Infatti, l’albero era realizzato con una piccola piramide di legno costruita ad imitazione dei giganteschi monumenti come simbolo “culturale e propiziatorio”.
L’usanza di addobbare l’albero nei secoli XVIII e XIX fu importata presso altri Paesi europei. Sulla nascita di questa tradizione sono narrate moltissime leggende. L’elemento comune è l’interpretazione dell’allegoria: un albero sempreverde rappresenta “la vita che si rinnova, la primavera che ritorna, la forza della Natura”. La più bella leggenda narra di un taglialegna dell’Alsazia che, tornando a casa la vigilia di Natale, in una notte ghiacciata e illuminata dalla luna, osservò le stelle che brillavano attraverso i rami di un Pino ricoperto di neve e di aghi di ghiaccio. Per spiegare alla moglie la bellezza del fenomeno osservato, recise un piccolo Abete e lo guarnì con nastri bianchi e con piccole candele accese simbolo “del ghiaccio, della neve e delle stelle”.
L’albero, così addobbato, suscitò una tale ammirazione che, da allora, in ogni casa si allestisce l’albero di Natale. L’attribuzione di simboleggiare il Natale con l’albero di Abete è attribuita a San Bonifacio, nato in Inghilterra nel 675 e morto, martire in Germania, nel 754.
Essendo missionario nei dintorni di Geismar, nella Germania settentrionale, notò che alcuni pagani, per preparare il sacrificio del piccolo principe Asulf al dio Thor, adoravano una Quercia.
San Bonifacio li fermò, salvò il bambino ed abbatté la Quercia, che cadde. Nello stesso luogo apparve un Abete che San Bonifacio tagliò, lo consegnò alla gente del luogo spiegando loro che l’Abete sempreverde era l’albero della vita e la sua presenza rappresentava il simbolo divino come “la nascita di Gesù Cristo”. La tradizione di ornare l’albero di Abete nel periodo di Natale si attribuì anche ai popoli francesi o tedeschi. Alcuni documenti riportano che in Alsazia, nel 1521, la popolazione era autorizzata a tagliare il proprio albero di Natale.
Già nel 1605, a Strasburgo, per la ricorrenza del Natale, si portavano dentro le case gli Abeti che si ornavano con rose di carta di vari colori, con mele, con zucchero e con oggetti dorati.
Da allora la tradizione di addobbare l’albero per il Natale si estese a molti altri popoli del nord Europa. Johann Wolfgang Goethe (1789-1832), pur non essendo di fede cristiana, amava moltissimo quest’usanza tanto da riportarla nella sua famosa opera “Die leiden des jungen Werther”, “I dolori del giovane Werther” nel 1774.
Grazie a lui, la tradizione dell’albero di Natale si diffuse a Weimar, un importantissimo centro culturale dell’epoca. Si racconta che nel lontano 1611 la duchessa di Brieg, in Germania, per festeggiare la ricorrenza del Santo Natale, aveva fatto adornare il suo castello.
Un angolo del salone era rimasto vuoto rispetto al resto della stanza. Copertasi col suo scialle, uscì nel parco certa di trovare nella Natura la soluzione cercata. Durante la sua passeggiata notò un piccolo Abete.
Ordinò ad uno dei suoi giardinieri di ripiantare l’alberello in un vaso e di trasportarlo all’interno del salone. Martin Lutero e i luterani ebbero poi l’idea di abbellire l’albero con piccole candele per rappresentare la vita e la fede. Si narra che Martin Lutero, rischiarato dallo splendore delle stelle nel cielo freddo di dicembre, ripeté nella sua casa quella scena lucente riportandola su un Abete. Nel 1841, con l’arrivo alla corte inglese del principe Alberto di Sassonia, marito della Regina Vittoria, l’usanza di addobbare l’Abete come albero di Natale si diffuse rapidamente in Inghilterra e poi in tutto il mondo perchè la famiglia fu fotografata attorno all’albero di Natale.
L’immagine, pubblicata nel London News, ebbe un gran successo. Dall’Inghilterra la tradizione dell’albero di Natale raggiunse gli Stati Uniti grazie ai mercenari della guerra di secessione.
Una leggenda americana racconta che un bambino, sperdutosi in un bosco la vigilia di Natale, sopraggiunta la notte, si addormentò sotto un Abete.
Per proteggerlo dal freddo, l’Abete si piegò fino ad abbracciare il bambino tra i suoi rami. La mattina dopo i paesani trovarono il bambino che dormiva tranquillo sotto l’Abete ricoperto dai cristalli che luccicavano alla luce del sole e, in ricordo di questo episodio, cominciarono a decorare l’albero ogni Natale. Il primo presidente americano a mostrare l’albero di Natale all’esterno della Casa Bianca fu Franklin Pierce.
Nel 1889 Benjamin Harrison dichiarò che l’albero di Natale alla Casa Bianca faceva parte della tradizione americana. In una strada molto trafficata di New York, nel 1851, furono venduti i primi alberi recisi. Il mercato degli alberi tagliati fu talmente redditizio da portare alla distruzione di numerose foreste.
Theodore Roosevelt decise di non allestire mai più l’albero di Natale nella Casa Bianca salvaguardando, così, le foreste dalla distruzione. I suoi due figli, che avevano preparato di nascosto un piccolo albero di Natale nella loro camera, scoperti dal padre, furono puniti. Alla fine del 1800 anche la Regina Margherita, moglie del Re d’Italia Umberto I°, fece allestire un grande albero di Natale in un salone del Quirinale. Una leggenda collega direttamente l’albero al presepe. C’era una volta presso Betlemme un piccolo Abete circondato da robusti ulivi e da alte palme carichi di frutti. Si sentiva piccolo e inutile perché non aveva nulla da offrire a Gesù Bambino. Pianse.
Un angelo lo vide, s’impietosì e ordinò alle stelle di scendere dal cielo e di vestirlo di luce. Da allora l’Abete è il più bello tra gli alberi che circondano il presepe. L’albero di Natale ha sostituto il presepe, il più conforme alla religione cattolica.
Fortunatamente gli alberi di Natale artificiali sono subentrati a quelli veri con gran sollievo per la Natura!
L’albero di Natale possiede molti nomi.
Picea excelsa, Abies picea, Abete rosso,  Peccia, Pezzo, Abete moscovita, Abete comune sono sinonimi della stessa pianta.
Il Picea excelsa è una conifera perenne, sempreverde, di prima grandezza, appartenente alla Famiglia delle Pinaceae.

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Il nome “Picea”, attribuito da Plinio, deriva dal latino “pix“, che significa “pece, resina”. Il termine “eccelsa” è stato assegnato per l’altezza che possono raggiungere i suoi tronchi regolari, diritti, molto resinosi e il nominativo ”rosso” per fare notare le sfumature rossastre della corteccia e dei rametti. La sua distribuzione geografica interessa un’ampia area dell’Europa, dell’Asia minore, del Giappone e dell’America settentrionale vivendo, l’albero, da solo o in compagnia dell’Abete bianco, del Larice e del Pino silvestre.
Sulle Alpi è una specie tipica dell’orizzonte montano medio e superiore e di quello subalpino inferiore trovando un clima accettabile tra i 1200 e i 1800 metri d’altitudine, anche se in condizioni particolari può vegetare fino a 600 – 800 metri, così come avviene nel Tarvisiano. In Italia l’Abete rosso è molto diffuso in Valtellina, dove vive tra i 1000 e i 2300 metri d’altitudine; è limitato negli Appennini settentrionali e in poche stazioni dell’Appennino Tosco-Emiliano.
Nella riserva naturale di Campolino, nei pressi dell’Abetone, nell’Appennino centrale, sopravvive una colonia di Abete rosso che risale all’ultima glaciazione e che conserva intatto il patrimonio genetico primitivo.
In Sicilia diversi esemplari di Abete rosso sono presenti nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.

 

 

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L’albero ha un portamento imponente, molto slanciato, che può raggiungere altezze vicine ai 50 metri e il diametro del tronco di 2 metri.
Il Corpo Forestale dello Stato, durante un censimento sugli alberi monumentali d’Italia, ha segnalato un grande Abete rosso a Bagni di Mezzo di San Pancrazio: è alto 45 metri ed ha una circonferenza di 4,8 metri.
Il portamento può, comunque, differenziarsi in base all’altitudine essendo una pianta caratterizzata da un certo polimorfismo: la chioma, infatti, può assumere una forma più espansa alle quote alpine più basse, mentre a quote più alte tende a divenire più stretta per cercare dl limitare i danni provocati dal peso della neve.
Il fusto, poco rastremato, diritto e cilindrico, largo alla base, sostenuto da un apparato radicale debole e superficiale, è rivestito dalla corteccia rosso-bruna, sottile e squamosa che, con l’età, diviene bruno-grigiastra e si divide in placche rotondeggianti o poligonali dalle quali fuoriesce la resina che scende in rivoli lungo il tronco ed emana il caratteristico profumo.

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La chioma, piramidale, con apice allungato, è formata dai rami un po’ inclinati verso il basso, con rametti secondari spesso penduli ricoperti dalle foglie aghiformi di colore verde-chiaro brillante nella pianta giovane, ma che si colorano di verde scuro quando invecchia, leggermente curve, tetragone, appuntite, ma non pungenti. Le foglie persistono per più anni sulla pianta.

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Gli aghi sono lunghi circa 2 centimetri, resistenti, disposti a spazzola o a ventaglio sui rametti. In inverno, sulle ramificazioni spiccano le gemme grosse e poco resinose. Gli aghi, cadendo, lasciano delle cicatrici sporgenti che rendono i rametti scabri. L’Abete rosso è una pianta monoica ma dicline, ossia porta fiori maschili e fiori femminili in diverse parti dello stesso individuo. I fiori si aprono da maggio a giugno.
Quelli maschi sono gialli, quelli femminili di colore rosa. I microsporofilli maschili, riuniti in brevi e duri amenti ascellari, formano coni lunghi un centimetro. Sono di forma ovale, di colore giallo-rossiccio e posti all’apice dei rametti dell’anno precedente nella parte superiore della chioma, al disotto dei coni femminili.
I macrosporofilli femminili formano coni sessili posti nella parte apicale dei rami. Sono riuniti in gruppi di tre o quattro. Si sviluppano in primavera e appaiono dapprima eretti, di colore rosso-violaceo.
Dopo l’impollinazione, diventano penduli, legnosi, lunghi anche 15 centimetri. A maturazione avvenuta assumono un colore bruno-chiaro quasi lucente. Le squame sono arrotondate e pronte in autunno a rilasciare i semi dapprima di colore verde poi rossastro.
Le pigne mature, dopo aver liberato i piccoli semi alati, con l’ala lunga fino a 16 millimetri, cadono a terra intere, ma possono rimanere sulla pianta appese ai rami per lungo tempo, anche per parecchi mesi.
La pianta comincia la fruttificazione tardi, dai 20 ai 50 anni d’età. La propagazione avviene per semi, che vanno raccolti all’inizio dell’autunno e seminati in primavera, e per propaggini da radici.
In primavera si possono prelevare anche talee semilegnose da fare radicare in un miscuglio di sabbia e di torba. La crescita della pianta, lenta nei primi anni di vita, diventa poi veloce ad età avanzata. La pianta è longeva potendo vivere fino a 500 anni.
L’Abete rosso è una specie tipica delle zone fredde e, poiché è una pianta montana, è resistente al freddo e alle gelate tardive, può adattarsi a forti escursioni termiche, ha bisogno di una forte umidità atmosferica e, in realtà, non sopporta il clima troppo secco. Anche se si adatta a vivere in differenti località, la pianta predilige gli ambienti continentali e i terreni sciolti, acidi, profondi, freschi, umidi posta in posizione luminosa, anche in pieno sole. Soprattutto nei mesi più caldi ama frequenti nebulizzazioni del fogliame.
Le radici hanno bisogno di una certa quantità d’acqua, quindi è necessario bagnare a fondo il terreno lasciandolo poi quasi asciugare prima di irrigare nuovamente.
Essendo l’apparato radicale scarsamente profondo, l’albero è poco resistente alle tempeste di vento. Non richiede cure particolari. Non ha bisogno di concimazioni e di potature. Alla fine dell’inverno qualche taglio potrebbe servire a creare dei palchi ben definiti che danno movimento alla chioma compatta.

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In genere, l’Abete è una pianta che non è attaccata dai parassiti. I funghi e gli Acari sono acerrimi nemici. Talvolta gli Afidi lanigeri colpiscono i giovani germogli e, se il clima è molto secco, possono essere attaccati anche dai Ragnetti rossi.
Pertanto, durante l’inverno, è consigliabile applicare alcuni trattamenti preventivi. L’Abete rosso è coltivato nei parchi e nei giardini come essenza ornamentale, ma è la conifera che ha la più grande importanza per impieghi silvicolturali in Italia e in Europa. E’ usato anche per scopi terapeutici estraendo i principi attivi dalle gemme, dalle foglie, dai rametti, dalla corteccia.
Le gemme hanno proprietà espettoranti, balsamiche, antisettiche, diuretiche. Si raccolgono nei mesi da febbraio ad aprile, prima che si aprano. Dall’Abete rosso si estrae la resina utile per preparare unguenti per uso topico e dalla sua distillazione si ricava la trementina di Borgogna. Nell’antichità i medici facevano grande uso della resina profumata mescolata alla cera.
Un pizzico di resina, versata in un recipiente colmo d’acqua bollente, purifica l’aria degli ambienti dove è stagnante.
Un tempo i contadini facevano un unguento universale utile per curare le contusioni, le slogature, i dolori articolari, i geloni. Una manciata di gemme o di rametti, avvolti in una garza ed infusi nell’acqua del bagno, permettono di ottenere un’abluzione balsamica, rigenerante, deodorante, opportuna dopo un’intensa giornata di attività fisica.
La corteccia, ricca di tannini, in alcuni paesi è usata per la concia delle pelli e nell’industria delle vernici. Dai rametti si ottiene una sorta di birra. Il legno, molto richiesto per i suoi molteplici usi, è leggero, elastico, resinoso, di colore bianco-panna, resistente alla compressione e alla trazione, ad anelli distinti, lucido e facilmente fendibile. E’ utilizzato in falegnameria e in carpenteria, negli imballaggi, come pasta per la produzione della carta, grazie alle sue lunghe fibre, e per la creazione degli strumenti musicali, in particolare per la cassa di risonanza e per l’anima del violino, selezionando il legno di un tronco d’albero che ha raggiunto i 200 – 300 anni di vita.
Infatti, la costruzione di questi strumenti richiede legni esterni con specifiche caratteristiche acustiche che solo l’Abete rosso può dare. Nel Trentino il clima favorisce lo sviluppo di un legno particolarmente pregiato, il ”legno di risonanza”, così chiamato proprio per le sue caratteristiche acustiche.
È un particolare tipo di Abete rosso, designato col termine di “Abete maschio“, il cui legno presenta anomalie di accrescimento degli anelli annuali e che, fin dai tempi passati, è stato ricercato dai liutai per costruire strumenti musicali a corda quali violini, viole, violoncelli.
La distribuzione di questo “albero che canta” è limitata a poche zone europee. Perciò si ritiene che diversi strumenti musicali, anche di illustri liutai dei secoli scorsi, siano stati costruiti con il legname di risonanza della Val Canale e del Tarvisiano in provincia di Udine, nonché della Val di Fiemme e della foresta di Paneveggio nella provincia di Trento.
Antonio Stradivari, per i suoi famosi violini, si riforniva presso la Magnifica Comunità di Fiemme.
Questo albero è, inoltre, riscontrabile solo in alcuni distretti alpini della Germania, mentre è assente in Austria. Recentemente questa caratteristica è stata scoperta negli Abeti rossi della Valle di Ledro, sul monte Tremalzo.
Sembra che l’Abete rosso in Grecia sia stato l’albero dedicato ad Artemide, la dea della caccia. Nella mitologia greca è strano trovare traccia dell’Abete rosso perché reperibile là solo in alta montagna, ma può darsi che l’albero abbia seguito il peregrinare della dea nelle regioni nordiche, come dea della vita silvestre. Artemide era anche la divinità femminile che controllava i parti, mentre l’Abete rosso era considerato “l’albero della nascita”.

Nov 28, 2013 - Senza categoria    Comments Off on L’ARCOBALENO, IL MERAVIGLIOSO SPETTACOLO DELLA NATURA

L’ARCOBALENO, IL MERAVIGLIOSO SPETTACOLO DELLA NATURA

Sopra la montagna di Pizzo Sella, a Palermo, l’arcobaleno spuntò improvvisamente suscitando una grande ammirazione in me affacciata alla finestra dell’undicesimo piano di un grande stabile di Viale del Fante.
Era talmente vicino che quasi poteva essere raggiunto dal dito della mia mano destra. Che spettacolo magnifico!
Bisogna lodare illimitatamente Madre Natura che regala all’umanimità fenomeni così straordinari! Erano le ore 7.45 del 24 novembre del 2013.

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Oggi 5 ottobre 2017 l’arcobaleno è sulla montagna di  Pizzo di Sant’Arianna a Mistretta

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Oggi è il 29 agosto 2019, l’arcobaleno  a Mistretta

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 Oggi è il 20 Aprile 2020.
L’arcobaleno avvolge Mistretta. Uno spettacolo della Natura unico!

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Foto di Giuseppe Porrazzo

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 Oggi 06/12/2020 l’arcobaleno nel quartiere Montecatini a Licata

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11 FEBBRAIO 2021

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foto di Liria Provenzale

Di seguito il mio racconto: “L’ARCOBALENO“.

   Mancavano poche ore prima che giungesse l’alba. La luna camminava lenta, tranquilla, felice, vagabonda, sicura di sé, indifferente ai problemi della terra. Non era per niente estranea al suo percorso sui Nebrodi, come se lì fosse nata e, come un aratro trascinato dal vento, solcava e accarezzava quella terra con tenerezza. Avanzava sopra il verde e cangiante tappeto del fitto bosco di querce, di faggi, di cerri. Lanciava scintille e penetrava nella meravigliosa Natura rischiarandola.
Tingeva di grigio chiaro i viottoli, la scarpata ai piedi della montagna, si rifletteva sui piccoli corsi d’acqua che diventavano il fiume Romei che, per la pioggia caduta abbondantemente, correva verso il mare: acqua che aveva lavato gli alberi, i cespugli, i roveti e dissetato i viventi.
Aurora, in una notte di fine agosto, improvvisamente fu svegliata dallo scoppio di un forte tuono e poi da altri ancora, preceduti da lividi lampi, dalla pioggia scrosciante e dal vento che, come uno spiritello dispettoso, faceva muovere le imposte delle finestre, rimaste aperte per fare sopportare meglio la calura estiva, e scuoteva le fronde degli alberi, fin quasi a sradicarli, trasportando lontano le foglie staccate dai rami.
Un uccello notturno scivolò nell’aria, sbatté le ali e ripeté il suo grido. Era come un riso ululante.
Le cateratte del cielo si erano aperte. Il paese di Mistretta era stato investito da un temporale improvviso, furioso, incalzante, invadente.
Dalla finestra del balcone della sua cameretta, nel quartiere “Casazza”, alle pendici del castello, Aurora guardava il panorama sotto la pioggia. Vedeva le cime dei monti appannate, appena appena il mare dove, nelle giornate limpide, scorge le isole Alicudi e Filicudi che, al tramonto, le sembrano velieri in mezzo al Tirreno, la strada bianca in salita attraversata dal fiume d’acqua piovana.
Ha avuto sempre l’abitudine di alzarsi prima del sole sfruttando le ore mattutine per riassettare la sua casa.
Tutto doveva essere lindo e in ordine prima di recarsi al lavoro.
Quella mattina era più presto del solito. Aveva sentito rintoccare il dolce suono dell’orologio della piazza; i cinque rintocchi sembravano battiti di un cuore antico, ma confermavano le ore cinque del mattino.
Il sonno, disturbato dalla tempesta, era svanito. Affacciandosi spesso alla finestra, per scrutare le condizioni meteorologiche, osservava come, col passar del tempo, il viaggio della luna era diventato stanco. Non luccicava più, la sua luce diafana si fondeva con quella dell’aurora che stava per nascere. Il vento, che durante la notte era stato violento, finalmente aveva calmato la sua rabbia e, fischiando delicatamente, sembrava che recitasse una straordinaria poesia.
La pioggia, come improvvisa era venuta, così se ne stava andando scendendo  lentamente dall’alto. Il sole, buontempone, cominciava a sorgere, anche se offuscato dalle minute gocce di pioggia, e mostrava il suo primo sorriso nei riflessi delle pozzanghere. Splendeva debolmente e, a poco a poco, cominciava a sciogliere il sottile strato di nebbia che gli si era formato attorno.
I tuoni ormai rimbombavano lontani e i lampi non saettavano più. Le nuvole si rincorrevano come i pensieri che velocemente affollavano la fantasia di Aurora, si univano tra loro, formavano figure strane e meravigliose secondo il capriccio dei venti.
Poi, la quiete dopo la tempesta!
L’aria aperta aveva un gusto nuovo, sapeva di pulito e odorava d’ozono. Aurora ascoltava il respiro della Natura che, silenzioso, si avvertiva appena.
All’improvviso tra il Pizzo di Sant’Arianna e il Castello ha visto spuntare un maestoso arco in cielo: l’arcobaleno! Anzi due archi vicini, un fenomeno rarissimo. L’arcobaleno, una delle bellezze che la Natura regala ai suoi figli.

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Foto di Luigi Marinaro

Aurora si è emozionata davanti a questo meraviglioso miracolo che nessun’intelligenza umana è capace di riprodurre se non nei dipinti e nelle ricercate fotografie! Ne ha ammirato l’inizio e la fine. Un detto popolare  così recita: “Se l’arcobaleno ti appare la mattina bada la pioggia si avvicina”.     Aurora ha pensato alla formazione dell’arcobaleno: un fenomeno ottico visibile dopo un temporale quando gocce d’acqua rimangono in sospensione nell’aria e sono attraversate dalla luce solare.
La luce, a contatto della superficie della goccia d’acqua, viene rifratta, poi riflessa e ancora rifratta. In pratica luce bianca del sole si scompone nei meravigliosi colori: rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, violetto. Sette sono i colori dell’arcobaleno e sono numericamente uguali alle note della scala musicale.
Isaac Newton fu il primo fisico a dimostrare che la luce bianca era composta dai colori dell’arcobaleno che potevano essere separati da un prisma di vetro in uno spettro completo di colori. Originariamente nominò solo cinque colori primari: rosso, giallo, verde, blu, violetto e, solo più tardi, aggiunse l’arancio e l’indaco. Aurora ha visto l’arcobaleno presso le cascate delle Marmore, dentro la fontana della villa comunale, nello spruzzo d’acqua mentre annaffia le piante nel suo giardino, nel mare, se è presente una chiazza di gasolio, ai bordi delle nuvole illuminate dal sole dalla parte posteriore. Aurora, quella mattina, ha osservato l’arcobaleno perché si trovava proprio nel punto dove il cielo era pulito.
Il temporale si era allontanato, ma parte del cielo era ancora cupo perché carico di nuvole di pioggia. Sempre, quando l’aria è grigia, Aurora guarda all’insù per vedere spuntare, da qualche parte, l’arco in cielo.
L’arcobaleno, per la sua notevole bellezza e per la difficoltà di spiegare il fenomeno, ha sempre suscitato stupore, ha messo alla prova la sagacia di fisici e di teologi, ha avuto un posto nelle leggende, ha stimolato la fantasia di molteplici artisti: fotografi, pittori, poeti.
Secondo San Tommaso d’Aquino l’arcobaleno era un chiaro segno della natura: per provocare una pioggia continua di quaranta giorni, parecchie nuvole avrebbero dovuto riunirsi insieme.
La visione di un arcobaleno nel cielo significava che non si sarebbero realizzate le condizioni necessarie per provocare il diluvio nei mesi successivi.
Cartesio, all’inizio dell’VIII discorso de “Le Meteore”, dedicato all’arcobaleno, comincia con quest’affermazione: “Benché l’arcobaleno sia stato ammirato da tutti gli uomini, nessuno è arrivato a darne una spiegazione soddisfacente”.
L’arcobaleno è stato citato nei testi biblici. Si trova in Principio e alla Fine della Bibbia.
Nel primo libro della Genesi, (9, 13 -15) dopo il Diluvio Universale, Dio disse: “ Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’Alleanza tra me e la terra.
Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia Alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque del diluvio, per distruggere ogni carne”.

E’ il simbolo del patto d’unione tra Dio e l’Umanità. Dio tracciò in cielo un arcobaleno per promettere a Noè, scampato con la sua Arca, che non avrebbe mai più inviato il diluvio per inondare e distruggere la terra.

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Il quadro, di Joseph Anton Koch, rappresenta l’offerta di ringraziamento di Noè. Egli costruisce un altare al Signore dopo essere stato trasportato dal Diluvio.
Nell’ultimo libro della Bibbia, invece, nell’Apocalisse di Giovanni, ne “il Trono di Dio e la corte celeste” (4, 2-3) si legge: “…Ed ecco c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono”.
Nel Duomo di Monreale, a destra della navata centrale, è rappresentato il racconto del Diluvio Universale il cui apice è descritto con un arcobaleno che poggia sull’Agnello. E’ la prefigurazione del Cristo, Colui per il mezzo del quale si realizza l’Alleanza tra Dio e l’umanità.
Nei giorni prossimi alla Candelora, la luce si proietta fin anche nella parete della navata di sinistra, esattamente nel Cristo dell’Ascensio Domini, seduto in trono e inscritto in un arcobaleno circolare. Ogni turista, visitatore e utilizzatore del Duomo può osservare il mosaico di questa meraviglia.
Aurora ha attinto da alcuni miti altre conoscenze sull’arcobaleno. Infatti, nella mitologia greca l’arcobaleno è un sentiero tra la terra e il paradiso realizzato dalla messaggera Iris, la figlia di Thaumas.
Il nascondiglio segreto del folletto irlandese Leprechaun, che contiene il suo pentolone pieno d’oro, si trova alla fine di un arcobaleno.
Nella mitologia cinese l’arcobaleno era una spaccatura del cielo sigillata dalla dea Nüna con pietre di sette colori differenti.
Nella mitologia Hindù l’arcobaleno è chiamato indradhanush, l’arco di Indra, il dio del fulmine e del tuono.
Nella mitologia norrena, un arcobaleno, chiamato Ponte di Bifröst, collega i regni di Asgaror e di Miogaror, dimore di dei ed umani, rispettivamente.
Anche la letteratura ha rivolto una notevole attenzione all’arcobaleno.
Virginia Woolf nel To the Lighthouse, letteralmente Verso il Faro, evidenzia la caducità della vita e la mortalità dell’Uomo attraverso il pensiero della signora Ramsey: ”Era tutto effimero come un arcobaleno”.
La poesia di William Wordsworth del 1802 “Il mio cuore batte più forte quando intravedo l’arcobaleno” comincia così:

Il mio cuore batte forte

 quando intravedo un arcobaleno nel cielo:

Così fu quando cominciò la mia vita;

Così è ora che sono un uomo;

Così sia quando invecchierò;

O lasciatemi morire!”

L’amico Gaetano Todaro, professore di lingua francese, innamorato della Natura e della vita che ha dovuto lasciare prematuramente, si è rivolto all’arcobaleno affinché ognuno possa leggere i suoi colori e cercare in esso l’amore.

I suoi versi così recitano:

Chiuso si è ormai il sipario.

Lucidi attori, della commedia della vita

Ne lessero i colori,

Arcobaleno in te ciascuno cercò amore!”

Infine qualche curiosità.
La nave di Greenpeace, la Rainbow Warrior, letteralmente Guerriero dell’Arcobaleno, fu battezzata da una profezia dei Nativi Americani Cree che diceva: “Quando il mondo sarà malato e morente, la gente si alzerà come Guerrieri “.
Storicamente, una bandiera arcobaleno fu usata nella Guerra tedesca dei contadini nel XVI secolo come segnale di una nuova era di speranza e di un efficace cambiamento sociale.
La bandiera ad arcobaleno in Italia è simbolo di pace e di fraternità.

 

Nov 18, 2013 - Senza categoria    Comments Off on L’ILEX AQUIFOLIUM L’AGRIFOGLIO VICINO AL LAGHETTO “URIO QUATTROCCHI” A MISTRETTA

L’ILEX AQUIFOLIUM L’AGRIFOGLIO VICINO AL LAGHETTO “URIO QUATTROCCHI” A MISTRETTA

 

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https://youtu.be/KWfcb3wAtO0

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Fra pochi giorni sarà Natale! Che gioia! Che letizia per tutta l’umanità per la buona novella, quella della nascita del Bambin Gesù di Betlemme”!
I magi Gli portarono in dono l’oro, l’incenso e la mirra. Noi umani usiamo regalare piante di Stelle di Natale, rametti di Vischio, di Agrifoglio che sistemiamo attorno al presepe e con i quali addobbiamo le nostre case.
Fra tutte queste piante l’Agrifoglio ricopre un ruolo sicuramente tradizionale per lo scambio di auguri natalizi. Ciò è merito delle sue drupe rosse, delle sue foglie e della sua storia.
All’Agrifoglio, fin dall’antichità, furono attribuiti poteri magici. La credenza popolare affidava a questa pianta non solo la capacità di proteggere dai folletti quelle famiglie che ospitavano nel loro giardino almeno una pianta di agrifoglio, ma dava loro anche la possibilità di avere molta fortuna. Proprio per questi motivi, storicamente, l’agrifoglio è la più amata e decorativa pianta di Natale prima dell’avvento del Natale cristiano. Secondo la tradizione cristiana i frutti rossi dell’agrifoglio rappresentano il sangue di Gesù Cristo, la foglia pungente la Sua corona di spine e i petali bianchi la purezza della Madonna.
Il primo Paese ad avere l’abitudine di decorare le civili abitazioni durante le festività natalizie con rametti di agrifoglio è stato L’Irlanda dove anche le famiglie più povere potevano utilizzarlo essendo facilmente acquistabile perché poco costoso. Sono molte le feste e le leggende legate alla pianta di agrifoglio.
Nel paganesimo e nel neopaganesimo nelle tradizioni germanica e celtica precristiana Yule era una delle feste minori degli otto Sabbat, gli otto giorni solari. Era la festa del solstizio d’inverno celebrata il 21 dicembre.
La rinnovata ascesa in cielo del sole, che iniziava subito dopo solstizio d’inverno, era simbolicamente rappresentata dalla sconfitta dell’invernale Holly King, il Dio Agrifoglio, Re dell’Anno Calante, ad opera di Oak King, il Dio Quercia estiva, Re dell’Anno Crescente.
Il Re Agrifoglio simboleggiava l’anno vecchio ed il sole al declino in quanto le ore di luce diminuivano numericamente rispetto a quelle di buio. Il Re Quercia simboleggiava l’anno nuovo ed il sole che iniziava la sua ascesa in cielo. Dopo l’equinozio d’autunno, mentre l’anno volge al termine, le notti si allungano e le ore di luce si accorciano sempre di più fino al giorno del solstizio d’inverno, cioè il 21 di dicembre. Il 21 di dicembre, quindi, è la notte più lunga e il giorno più corto di tutto l’anno solare.
Trovandosi nel punto più basso dell’ellisse compiuta dalla terra nel suo movimento di rivoluzione, il sole dà l’impressione di sprofondare e di non ricomparire più. Ma poi, miracolosamente, il sole risale nella volta celeste tornando vittorioso e spendente.
Dal solstizio d’inverno in poi le ore di luce man mano aumentano, le giornate si allungano fino ad eguagliare le ore di buio nell’ equinozio di primavera che cade il 21 marzo. Il sole emana maggior calore, la Natura ritorna a respirare, la vita, lentamente, riprende vigore.
Quando i missionari iniziarono a convertire al cristianesimo i popoli germanici, adattarono alla tradizione cristiana molti simboli e feste locali. La festa di Yule fu trasformata nella festa del Natale mantenendo, però, alcune delle sue originarie tradizioni. Sembra che i simboli moderni per festeggiare il Santo Natale derivino proprio da Yule.
Si manifesta l’usanza di addobbare le abitazioni con composizioni di vischio e di agrifoglio e con l’allestimento dell’albero di Natale. Anche le piante sempreverdi sono un elemento fondamentale delle celebrazioni del solstizio invernale. L’albero sempreverde, che mantiene le sue foglie tutto l’anno, è un chiaro simbolo della persistenza della vita anche attraverso il freddo e l’oscurità dell’inverno. Il Natale e’ la versione cristiana della rinascita del sole, fissato dal papa Giulio I° (337 -352), secondo la tradizione, il 25 dicembre per il duplice scopo di celebrare Gesù Cristo come “Sole di giustizia” e per creare una festa alternativa alla più popolare festa pagana.
Precedenti al cristianesimo sono i Saturnalia, festività religiose che si celebravano durante l’Impero Romano ededicate all’insediamento nel tempio del dio Saturno e alla mitica età dell’oro; si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo stabilito da Domiziano in epoca imperiale. Durante questi festeggiamenti era sovvertito l’ordine sociale: gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi.
Era eletto un “princeps”, uno schiavo che imitava la classe nobile e a cui veniva assegnato ogni potere.
Successivamente veniva sacrificato. Il “princeps” indossava una curiosa maschera, si vestiva con abiti dai colori sgargianti, in particolare di colore rosso, il colore degli dèi.
Era la personificazione di una divinità degli inferi, da identificare con Saturno o con Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti. Si credeva che tali divinità, uscite dalle profondità del suolo, vagassero durante l’inverno, cioè quando la terra riposava e non poteva essere coltivata a causa delle avverse condizioni atmosferiche.
Queste divinità dovevano, quindi, essere placate offrendo loro doni e celebrando feste per indurle a ritornare negli inferi e a favorire abbondanti raccolti nella stagione estiva. A Saturno si dedicavano all’inizio sacrifici umani, fino a quando Eracle convinse gli abitanti a non sacrificare vite umane, ma ad offrire piuttosto statue d’argilla e ceri accesi. Da qui l’usanza di scambiare doni nei giorni saturnali.
Molte delle usanze dei Saturnali sono state tramandate fino ai giorni nostri caratterizzando il nostro modo di festeggiare il Natale che consiste nel celebrare la funzione religiosa, nell’accendere le luci, nel pranzare assieme a parenti e ad amici, nello scambiarsi i regali, nel regalare candeline, rametti di vischio e di agrifoglio, nel fare auguri.
Ancora durante l’impero romano, per il popolo la festività del “Dies Natalis Solis Invicti”, “Giorno di Nascita del Sole Invitto”, celebrata il 25 dicembre come giorno del Sole non vinto che trionfa sulle tenebre, era una festa religiosa istituita dall’Imperatore Aureliano nel 274 d.C.
Questa festività era, pertanto, celebrata nel momento dell’anno in cui la durata del giorno iniziava ad aumentare dopo il solstizio d’inverno; era la “rinascita” del sole. Il sole quindi, arrivava nella fase più debole, sia per la luce sia per il calore, per poi ritornare vitale e invincibile, proprio nella data del 25 dicembre. In questa data era onorata la nascita del dio Mitra, figlio del Sole ed egli stesso Sole. Mitra era un dio romano di origine persiana.
Era adorato nelle religioni misteriche dal I° secolo a.C. al V° secolo d.C. Il culto misterico di Mitra si stava diffondendo nell’Impero romano nello stesso periodo della diffusione del Cristianesimo. Infatti, l’istituzione del Sol Invictus è posteriore all’istituzione del Natale cristiano.
Il rito tradizionale consisteva in una veglia iniziata dal popolo al tramonto e si protraeva fino all’alba del giorno dopo (la notte più lunga dell’anno) con l’accensione di fuochi e con danze e balli rituali per aiutare il sole a salire alto in cielo. La festività si arricchiva di numerosi simboli attinenti soprattutto al mondo vegetale. Il ceppo, che serviva per accendere il fuoco, era scelto fra i migliori legni di quercia, i doni scambiati tra la popolazione consistevano nell’offerta di rami di vischio, di pungitopo, di agrifoglio per rappresentare, con le drupe rosse, il sole. La gente doveva essere sicura che il sole sorgeva nuovamente!
La chiesa di Roma decise di celebrare la festa del Natale di Gesù Bambino, vera luce del mondo, proprio nel giorno in cui l’uomo pagano si rivolgeva al Solis invicti chiedendogli benedizione e salvezza.La prima testimonianza della celebrazione del giorno del Natale di Gesù al 25 dicembre risale all’anno 336 in coincidenza con il giorno festivo del calendario romano dedicato al dies natalis del Sol invictus. Per conservare la tradizione simbolica degli auguri, unitamente ai rametti di vischio e di agrifoglio anche la pianta di Elleboro, comunemente chiamata Rosa di Natale, si regala per augurare il Buon Natale.
L’Elleboro è una pianta erbacea che fiorisce in inverno. I fiori sono formati da cinque sepali petaloidei dal colore bianco candido che ricorda l’alba del solstizio d’inverno. L’interno dorato rappresentava l’oro del sole nascente. Secondo un’antica leggenda il fiore dell’elleboro fu offerto in omaggio a Gesù Bambino da una pastorella povera che non aveva doni più preziosi da potere regalare.
Dopo questo lungo discorso sulle festività è bene conoscere la pianta di agrifoglio da un punto di vista prettamente scientifico.

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L’Ilex aquifolium, comunemente chiamato Agrifoglio, è un arbusto o un piccolo albero sempreverde, molto resistente, appartenente alla famiglia delle Aquifoliacee.
E’ conosciuto con altri sinonimi: Alloro spinoso, Aquifoglio, Pungitopo maggiore. Coltivato praticamente in quasi tutto il mondo, l’esemplare adulto può raggiungere l’altezza di 10 metri crescendo lentamente. Essendo longevo, può vivere fino a 300 anni. L’Ilex aquifolium è originario dell’America meridionale e di altre zone a clima temperato. E’ diffuso largamente in Europa, dove cresce spontaneamente, nell’Africa settentrionale, in Asia e in Cina.
In Australia raramente si trovano esemplari di questa specie.
A Mistretta, attorno al laghetto Urio Quattrocchi, nel Parco dei Nebrodi, e dove ho scattato le relative fotografie, l’agrifoglio cresce spontaneo e il suo portamento è cespuglioso e selvatico. E’ ben inserito nel bosco di Faggi, di Cerri, di Querce.

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A Piano Pomo, sulle montagne delle Madonie, in Sicilia, sul versante nord orientale del Massiccio del Carbonara, numerose piante di Agrifoglio formano un boschetto puro. Secondo gli studiosi questo bosco di agrifogli si estese nel Terziario prima ancora delle glaciazioni pleistoceniche.
A 1400 metri di altitudine, in una valle dal terreno siliceo e profondo, le piante di agrifoglio hanno trovato l’habitat favorevole alla loro crescita raggiungendo la notevole altezza di 20 metri e una longevità di 900 anni per l’esemplare più anziano.
L’Agrifoglio ha il fusto rivestito dalla corteccia liscia e di colore grigio e i rami dal colore verdastro.
Le foglie, persistenti, particolarmente lucide nella pagina superiore, coriacee, dal colore verde-scuro e dal margine ondulato, intero nelle piante adulte, pungenti e spinose nei rami più bassi delle piante giovani, formano una elegante chioma piramidale. Verso la parte alta della pianta le spine delle foglie si diradano fino a scomparire. Con la presenza delle spine sui rami inferiori la pianta si difende naturalmente dagli animali che, arrampicandosi lungo il fusto, si nutrono delle bacche mature.

L’agrifoglio è una pianta dioica, vuol dire che gli organi riproduttivi maschili, gli stami, e quelli femminili, i pistilli, sono portati da fiori che fioriscono su due piante distinte.
I fiori femminili, piccoli, insignificanti, bianchi, riuniti a mazzetti all’ascella delle foglie, sono formati da 4 petali di colore bianco o rosato. Possiedono il pistillo con l’ovario supero sormontato da 4 stimmi quasi sessili. I fiori maschili hanno 4 stami con le antere contenti il polline.
Il periodo della fioritura inizia alla fine dell’estate e si prolunga fino all’autunno.
Durante il periodo autunnale la pianta femminile produce un abbondante numero di frutti. Sono le drupe rotonde, dal colore rosso vivo e dalle dimensioni di un cece, contenenti da 2 a 4 semi.
La moltiplicazione avviene in primavera con la semina dei semi freschi, ma anche per talea semilegnosa, per margotta o per innesto. La semina si effettua in autunno oppure all’inizio della stagione primaverile usando i semi della recente raccolta. La propagazione per talea è, comunque, la tecnica più utilizzata e deve essere effettuata in primavera. Le talee sono prelevate nel periodo estivo e si depongono in un substrato formato per il 50% di sabbia e per il 50% di torba.
Nella primavera successiva, a radicazione avvenuta, le piantine sono pronte per essere messe a dimora.
L’agrifoglio è una pianta quasi rustica e non esige particolari cure. Cresce bene sia esposto in pieno sole, in un luogo dove la temperatura non raggiunge valori molto alti, sia all’ombra; in questo caso il suo sviluppo è meno rapido e il suo aspetto meno folto e compatto. Sopporta anche le basse temperature, quelle che scendono al di sotto dello zero, solo per brevi periodi, così come avviene a Mistretta.

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L’agrifoglio si adatta a tutti i terreni fertili e ricchi di humus. Predilige quelli lievemente acidi o semi-acidi; non ama, pur tollerandoli, i terreni basici e argillosi. La concimazione varia in base al periodo dell’anno.
In primavera il concime deve contenere potassio e azoto per aiutare lo sviluppo della nuova vegetazione e dei fiori. Per la concimazione invernale è preferibile usare il concime organico.
L’agrifoglio non ha grande necessità di annaffiature essendo in grado di sopportare abbastanza bene brevi periodi di siccità. Esse devono essere effettuate sporadicamente bagnando il terreno in profondità, ma evitando i dannosi ristagni idrici. L’agrifoglio, crescendo molto lentamente e in forma di cespuglio, non ha bisogno di essere potato.
Per mantenere la simmetria della pianta, che abbellisce qualche giardino, e per darle un aspetto elegante, allora bisogna effettuare soltanto piccoli interventi mirati. La potatura dove essere effettuata in primavera eliminando le parti secche e danneggiate; solo se necessario, si potrà ripeterla quasi alla fine dell’estate.
Essendo robusto, l’agrifoglio non è particolarmente soggetto ad avversità. Il nemico più temibile è la Cocciniglia un parassita che si nutre della linfa della pianta attaccando rami e foglie. Un ottimo prodotto per estirpare la cocciniglia è l’olio bianco, una miscela costituita da vari oli minerali utilizzata nei frutteti, sugli arbusti sempreverdi e sulle siepi. Si vaporizza sulle foglie e sui rami nel periodo invernale. Altro temibile nemico dell’agrifoglio è la Ruggine, un fungo che causa macchie giallastre o scure sulla pagina superiore della foglia provocando una precoce ed inesorabile caduta di tutte le foglie.
La pianta avvizzisce e muore; utile, per combattere questa calamità, è un fungicida appropriato da somministrare con la massima celerità. Tutte le parti dell’agrifoglio sono tossiche se ingerite dall’uomo e dagli animali. I principi attivi sono: saponine, xantina, teobromina, ilexantina e ilicina. La presenza di ilicina rende l’agrifoglio tossico per l’uomo perché irrita le pareti dello stomaco e dell’intestino. Il consumo di una ventina di drupe può avere esito mortale anche per una persona adulta. I sintomi dell’intossicazione sono: vomito, diarrea intensa, torpore, perdita della coscienza e morte. Gli altri componenti colpiscono dannosamente il sistema nervoso e il cuore.
I frutti, velenosi per l’uomo, sono particolarmente graditi dagli uccelli. L’ingestione delle drupe e delle foglie causa tossicità anche ad alcuni animali quali cani e cavalli.
Tuttavia, alcune parti dell’agrifoglio sono utilizzate in fitoterapia.
Il decotto delle giovani radici raccolte in autunno è diuretico. Il decotto e il vino medicato, ottenuti dalla corteccia raccolta in qualunque periodo dell’anno, vantano proprietà febbrifughe.
L’infuso delle foglie, raccolte prima della fioritura e fatte essiccare all’ombra, ha proprietà calmanti, febbrifughe e curative dell’itterizia. I frutti maturi, raccolti da ottobre a dicembre e fatti essiccare al sole, hanno azione purgativa.
La parte interna della corteccia, pestata e macerata in acqua mista ad olio di noce, produce una sostanza vischiosa usata dai cacciatori di frodo per catturare gli uccelli. Il legno dell’agrifoglio, duro e compatto si presta per piccoli lavori di tornio.

 

 

Nov 12, 2013 - Senza categoria    Comments Off on URIO QUATTROCCHI

URIO QUATTROCCHI

 

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  Un preziosissimo tesoro del patrimonio naturalistico di Mistretta è rappresentato dal laghetto Urio Quattrocchi.
L’Urio Quattrocchi è un piccolo grazioso lago di forma ellissoidale posto alle pendici del monte Castelli su un’altitudine di 1030 metri. Occupa una posizione strategica poiché si trova all’inizio della Dorsale dei NebrodiSi raggiunge percorrendo per circa 6 chilometri la statale 117 che da Mistretta conduce a Nicosia. Imboccando il bivio alla sinistra della strada si giunge direttamente al lago dove la sua veduta è spettacolare e di grande effetto. Attorno al lago, uno steccato, costruito con legni recuperati sul luogo, ne delimita il perimetro.
L’area è attrezzata con casette di legno, con servizi igienici, con semplici mezzi di conforto in maniera tale da rendere il luogo una piacevole meta ai visitatori amanti della Natura che intendono trascorrere un periodo di soggiorno fra i boschi e all’aria aperta.

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Là la Natura ancora incontaminata mostra un’atmosfera primitiva, pacifica, silenziosa. Spesso il laghetto ospita gruppi di scout provenienti da diverse province della Sicilia. Il laghetto è circoscritto da un percorso in parquet, mentre una strada in pietra consente ai visitatori di raggiungere i tavoli e i sedili di legno. Il lago ospita una numerosa fauna selvatica. Sono presenti piccoli mammiferi, martore, donnole, volpi, roditori, fra gli anfibi è presente la rana, fra i rettili è probabile incontrare la graziosa testuggine palustre. Vicino al silenzioso lago “Quattrocchi”, quindi,  non è difficile sentire il gracidio delle rane, osservare il volo degli uccelli acquatici, notare il rettile passeggiare, trovare l’appagante ristoro in una dimensione più naturale. Molte sono le specie di uccelli acquatici. Tutte queste specie di animali là vivono indisturbati. Anche se le piante acquatiche coprono quasi interamente tutta la superficie dell’acqua, tuttavia fra di esse si sente palpitare la vita. Qui la Natura è protagonista suprema e la mano dell’uomo è intervenuta poco nella modificazione del paesaggio. Attorno al lago un piacevole spettacolo è offerto dai boschi di Pini, di Abeti, di Faggi, di Querce caducifoglie. Fra le specie xerofile è presente il Cardo del Valdemone.  Superato il laghetto si incontra un bellissimo abbeveratoio in pietra locale con la fonte quasi rotonda, sosta obbligatoria per gli animali: cavalli, giumente, muli, asini, ormai rari, che si dissetavano assieme ai loro padroni dopo il lungo cammino attraverso i boschi e prima di arrivare in paese.

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  Oltrepassata questa fontana, l’escursione naturalistica oltre il lago Urio Quattrocchi potrebbe continuare fino ad incontrare il fitto bosco ove esemplari maestosi di Faggio sono consociati ad altre specie come il Cerro e il Rovere. Bellissime da ammirare sono le numerose siepi di agrifoglio. Le drupe di perle vermiglie dell’agrifoglio ravvivano il grigiore invernale e tingono di rosso vermiglio la bianca neve.

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  A proposito dell’agrifoglio una fiaba racconta: “un bambino, che abitava in una casetta sperduta nel bosco e che andava sempre in cerca di legna per accendere il fuoco nel suo focolare, un giorno inciampò in una pianta di agrifoglio. Appoggiandosi alle foglie irte e spinose, si punse il palmo della mano. Il sangue fuoriuscì abbondante. Spaventato, invocò più volte il dio del bosco perché gli venisse in aiuto, ma invano. Un elfo, apparso improvvisamente, lo medicò e lo accompagnò a casa.  Il bambino, guarito dalle ferite, ritornò sul luogo della caduta. Con gran sorpresa, notò sull’albero spinoso moltissime perle rosse. Intanto che era immerso nei suoi pensieri, gli apparve il dio del bosco che così gli parlò: “Mi hai chiamato ed io ho inviato un elfo perché ti aiutasse. Per premiarti della tua fede ho fatto trasformare le gocce del tuo sangue in lucide drupe rosseggianti. Solo tu potrai usare questa pianta per guarire dai tuoi mali, ma essa sarà molto dannosa per tutti gli altri uomini”. Quindi sparì nel bosco.

 

Oct 27, 2013 - Senza categoria    Comments Off on CUPRESSUS SEMPERVIRENS, CUPRESSUS MACROCARPA MONTEREY E CUPRESSUS TURCO GLI ALBERI A GUARDIA DEI DEFUNTI

CUPRESSUS SEMPERVIRENS, CUPRESSUS MACROCARPA MONTEREY E CUPRESSUS TURCO GLI ALBERI A GUARDIA DEI DEFUNTI

 

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   Il Cipresso è un elemento presente nelle civiltà di tutti i paesi mediterranei. Fin dai tempi remoti è stato scelto come simbolo di ciò che fa meditare l’umanità: “il dolore”. Dei suoi alberi si ornano i cimiteri e i luoghi funerari. I romani lo chiamavano “arbor funeralis”. Gli etruschi e gli antichi fiesolani adornavano di rami di Cipresso le loro lampade mortuarie. Il sepolcro del grande Augusto, posto nel Campo di Marte, fu circondato dai Cipressi. Nella mitologia greca erano intagliati nel legno di Cipresso le frecce di Eros, lo scettro di Zeus, il bastone di Eracle. Fu collegato al culto di Ade, signore degli Inferi, e ancora, ai nostri giorni, si trova presso tutti i cimiteri. E’ la pianta “del silenzio, del raccoglimento, della tensione spirituale”. Il Cipresso non è l’albero che rattrista, anzi è l’albero che conforta. Albero sacro presso diversi popoli, il Cipresso fu detto anche “Albero della vita” per la sua longevità e per il persistere del suo fogliame. Il legno, resistente ed inattaccabile dalle tarme, era considerato incorruttibile. I vecchi medici consigliavano alle persone ammalate nell’anima e nel corpo di passeggiare vicino ai Cipressi, di abbracciare il tronco, di accarezzare la chioma per ricevere la forza spirituale, per liberarsi dalle proprie angosce, per sopportare meglio le sofferenze e le difficoltà della vita. I persiani, per la forma della sua chioma ascensionale, che si estende tra cielo e terra e che ricorda la fiamma, vi coglievano il simbolo del “fuoco”. Per il filosofo cristiano Origene d’Alessandria il Cipresso era il simbolo delle “virtù spirituali”. In Cina si credeva che i semi di Cipresso, ricchi di sostanze yang, assicurassero la longevità. Nelle logge delle società segrete cinesi il Cipresso era associato al Pino come simbolo “dell’immortalità”. In Giappone uno dei legni più usati nei riti schintoisti appartiene ad una varietà di Cipresso.
Il Cipresso fu utilizzato da Noè per costruire l’arca come è scritto in intervento di Dio per salvare l’uomo, Genesi (6.13): “Allora Dio disse a Noè: <E’ venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e le spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza, e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore>”

Questo triste albero funebre, simbolo “di lutto e di dolore perenne”, prima di diventare un membro della famiglia vegetale, era un leggiadro principe giovinetto, come racconta Ovidio ne “Le Metaformosi”: “Sacro alle ninfe che abitano i campi di Cartea, vi era un gigantesco cervo; con le corna ampiamente ramificate, esso da sé porgeva folta ombra alla sua testa. D’oro splendevano le corna e al ben tornito collo stavano appesi, scendendo sulle spalle, monili ornati di gemme. Gli balzava sulla fronte, legata da catenelle, una borchia d’argento, dal tempo della nascita; da ambe le orecchie, intorno alle tempie incavate, fulgevano perle. Senza paura esso era solito visitare volentieri le case e porgere per le carezze il collo a mani sconosciute.
Ma più che ad altri, esso era caro a te, o Ciparisso, bellissimo tra gli abitanti di Ceo. Tu conducevi il cervo a pascoli intatti, allo specchio di fonti limpide; tu, a volte, fra le sue corna intrecciavi fiori infiniti; a volte, standogli sul dorso a guisa di cavaliere, lieto vagavi per ogni dove, frenando la sua arrendevole bocca con guinzagli di porpora.”

Un giorno Ciparisso si fermò in un erboso prato e il cervo si adagiò al fresco sotto gli alberi. Proprio lì la fatalità volle che Ciparisso si allenasse nel lancio dell’arco e, non vedendo il cervo assopito, lo colpì involontariamente, “puer imprudens”, “fanciullo incauto”, scambiandolo per un cervo qualunque. Un grido altissimo parve fendere il cuore del giovane. Il cervo trafitto gli passò davanti lasciando dietro di sé un ruscello di sangue. Ciparisso gli corse dietro raggiungendolo vicino ad un corso d’acqua. Il cervo lo fissò con i suoi grandi occhi dorati poi, ansimando, si distese sull’erba, rovesciò la testa dalle corna d’oro e spirò. La disperazione di Ciparisso fu atroce. Chiuso in un impenetrabile silenzio, il fanciullo si mise a piangere sconsolatamente. Apollo, commosso, scese dall’Olimpo per consolarlo perché il giovane, per la colpa di avere ucciso il suo amato cervo, si stava lasciando morire. “Che cosa vuoi per mitigare il tuo dolore”?  Gli chiese Apollo. Rispose Ciparisso: “Fa’ che io sia immortale per poter piangere sempre e poter essere in lutto in eterno”. Apollo decretò: “ Dagli Dei sarai pianto tu e tu piangerai gli altri, sempre vicino a chi soffre”. Le membra del giovane morente cominciarono subito a tingersi di verde, i capelli, che prima scendevano dalla sua candida fronte, si mutarono in una chioma ispida, affusolata, svettante verso il cielo gremito di stelle, le lacrime si rappresero in piccole foglie verdi, i piedi si affondarono nel terreno. Nel luogo dove il bel Ciparisso piangeva si elevò un elegante albero che prese il nome di “Cipresso”.

Ancora Ovidio, ne “Le Metamorfosi, X, 78-147”, in una tenera storia, spiega poeticamente i miti di uno degli alberi più amati d’Italia e più caratteristici del suo cuore sulmonese. Orfeo ancora piangeva la perdita della sua Euridice abbandonata nell’Ade. Erano passati tanti anni da quel tragico evento eppure lui, da allora, non aveva amato più nessuna altra donna. Malinconico, vagava accompagnato dalla divina musica della sua lira. Un giorno, sedutosi su uno spiazzo in cima ad una collina, non riceveva ombra da nessun albero ma, appena toccò le corde del suo strumento, un intero bosco di Querce, di Platani, di Faggi, di Olmi, di Cedri gli si avvicinò prodigiosamente. Fra tutti gli alberi spiccava, però, il Cipresso che sembrava piangere, assieme ad Orfeo nel tentativo di consolarlo, l’amore perduto.

Ugo Foscolo, nel verso de “I Sepolcri” “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro”?, canta il dolore provocato dalla morte delle persone care. Non vive l’Uomo forse idealmente sottoterra, quando non esisterà più per lui la bellezza armoniosa dell’universo, se può risvegliare nei suoi cari, mediante il culto della tomba, l’illusione che egli vive ancora? Una lapide ricorda il nome e un albero di Cipresso consola le ceneri con le sue confortevoli e profumate ombre.

https://youtu.be/_5-1NFmciY0

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Nella villa comunale di Mistretta vivono: ll Cupressus sempervirens, il Cupressus macrocarpa di Monterey, il Cupressus turco.

                                              cupressus sempervirens

ll Cupressus sempervirens, chiamato anche con i sinonimi “Cipresso comune, Cipresso italiano, Cipresso piramidale, Cipresso mediterraneo, Cipresso maschio”, è originario delle regioni più orientali del bacino del Mediterraneo, dell’Iran settentrionale, della Siria, della Turchia, di Cipro e di diverse isole greche. Il termine “Cupressus” deriva dal greco “κυπάρισσος”, da “κύος”, “generato” e “παρισόω”, “pareggiare, uguagliare”, alludendo all’accrescimento simmetrico della pianta. Il termine latino “sempervirens” significa “sempreverde” e allude al fogliame persistente. Fu introdotto negli altri paesi del bacino del Mediterraneo probabilmente prima o durante l’epoca romana diffondendosi e adattandosi ottimamente alle diverse condizioni ambientali tanto da essere considerato una specie naturalizzata. In Italia, dove  secondo alcuni studiosi è stato importato dagli Etruschi e, secondo altri, dai Fenici, non sono presenti boschi naturali di Cipresso. Cipressete di piccola estensione si trovano sulle colline costiere tirreniche dalla Liguria, alla Calabria alla Sicilia; quelle più ampie e produttive sono localizzate in Toscana, a Siena e a Pisa. In Italia settentrionale il Cipresso si trova sulle rive dei laghi dove le condizioni climatiche favoriscono la sua crescita.

Il Viale dei Cipressi è una famosa strada storica lunga quasi 4 chilometri, tra Bolgheri e l’Oratorio di San Guido nella Maremma, affiancata, su entrambi i lati, da una lunga fila di Cipressi. Il poeta Goisuè Carducci ha dedicato a questo viale l’opera “Davanti San Guido”.

Fra gli alberi che adornano il giardino “Garibaldi” di Mistretta il Cipresso sempervirens è certamente uno dei più belli. Il Cipresso, pur vivendo in mezzo ad altre piante, è una pianta solitaria. Anche la Rosa rampicante, che ama abbracciarsi a qualche fusto, non osa tendere i suoi tralci verso il severo tronco del Cipresso. Gli cresce ai piedi, lo guarda un po’ timida e un po’ innamorata della sua meditativa severità e pare voglia ingentilirlo con il profumo dei suoi fiori. Le Zinnie sembra vogliano rallegrarlo con il gioioso sfolgorio dei loro colori. Alto, snello, compatto nel verde cupo della sua chioma, levigato e spoglio nel suo tronco, è un albero che, appunto perché perennemente verde e uniforme, sembra sempre giovane.

Il Cupressus sempervirens, appartenente alla Famiglia delle Cupressaceae, è un albero sempreverde, longevo, può vivere anche 1000 anni. Presenta un portamento eretto, piramidale, il cui tronco, rivestito da una corteccia bruno-grigiastra fessurata, può raggiungere, a maturità, i 20-30 metri d’altezza. In contrapposizione, la varietà “horizontalis” è detta “Cipresso femmina”. Le radici scendono a fuso nelle profondità della terra in maniera piuttosto superficiale e si sviluppano orizzontalmente. Per questo motivo il Cipresso è l’albero dei cimiteri: perchè non crea disturbi alle bare. I rami sono eretti, quadrangolari, appressati al tronco. Le foglie, piccole, allungate, squamiformi, fortemente embricate, formano la chioma compatta, di colore verde brillante, affusolata e appuntita. Le foglie, se strofinate, diffondono un odore caratteristico perché sono provviste di ghiandole resinifere. Le infiorescenze sono dei coni sub-globosi: le maschili, di 4-8 millimetri, sono disposte in strobili giallastri all’apice dei rametti, quelle femminili sono costituite da 8-14 squame peltate, a margine poliedrico. Fioriscono all’inizio della primavera, da marzo a maggio. I frutti, bruno-giallastri, sono formati da 8-14 squame con punta o con leggero rilievo centrale. Sono tondeggianti, costituiti da capsule carnose che, a maturazione, diventano legnose e si aprono liberando i piccoli semi in numero da 8 a 20 che cadono nel terreno. La semina avviene in primavera, anche se non è molto utilizzata a causa della crescita non troppo veloce della pianta, pertanto si preferiscono le talee. Nella Bibbia, nell’Invito al regno di Dio, nel ritorno (Is. 55,13) si legge: “Invece di spine cresceranno cipressi, invece di ortiche cresceranno mirti; ciò sarà a gloria del Signore, un segno eterno che non comparirà“.

Nell’invito al ritorno, in Osea (14,9) si legge: “Io sono come un cipresso sempre verde, grazie a me tu porti frutto“. Gesù realizzò nella propria persona la parola che Osea mise sulla bocca del Signore. E’ portatore di frutti all’umanità tutta.

 Cupressus Monterey

 Il Cupressus macrocarpa, detto anche Cipresso Monterey perché originario della baia di Monterey nella California occidentale, è stato introdotto in Europa nel XIX secolo a scopo ornamentale.

Il nome Macrocarpa significa “cogliere ( frutti )  grossi”, dal greco “μακρός”, “lungo, esteso, grosso” e dal latino “carpere”, “cogliere”, anche se i galbuli sono più piccoli di quelli del Cipresso sempervirens. Il Cipresso Monterey è un albero sempreverde di media grandezza, alto fino a 15 metri, e presenta rami e foglie ascendenti. Le foglie triangolari, verdi-giallastre, persistenti e squamiformi, strettamente addensate ai rami, formano la chioma di colore verde-brillante, conica, folta, appiattita nei vecchi esemplari. Le foglie, se strofinate, emanano un profumo di agrumi. Le infiorescenze maschili formano dei piccoli coni giallastri in posizione terminale dei rametti; le infiorescenze femminili formano coni grandi, più o meno tondeggianti, raggruppati a due a due o singoli. I galbuli sono sferici-ovoidali, brunastri, caratteristici per le incisioni sulla superficie delle squame e con rilievi aguzzi nella zona centrale. Nel giardino di Mistretta vive la varietà “Goldcrest”, “a cresta dorata”, che possiede deliziosi aghi dorati e il Cipresso turco dalla forma globosa. E’ usato nelle zone litoranee come frangivento perché tollera bene l’aria salmastra. Nei parchi è coltivato per ornamento e adatto alla realizzazione di giardini all’italiana perchè la chioma tende ad aprirsi e a diventare piatta ed espansa. La pianta vecchia viene sagomata in modo alquanto pittoresco dal vento. Inoltre, l’albero, avendo un accrescimento velocissimo, è utilizzato anche come rimboschimento e come essenza da legno, fragrante, giallastro, di buona qualità.

I Cipressi, come la maggior parte delle altre specie forestali, prediligono suoli ricchi, profondi, umidi, ben drenati e aerati; tuttavia la loro rusticità li fa crescere anche in terreni poveri, aridi e superficiali. I Cipressi, oltre ad avere un ruolo importante nella caratterizzazione del paesaggio mediterraneo per la loro funzione estetica, hanno dimostrato di essere specie pioniere insostituibili per il rimboschimento dei terreni rocciosi, argillosi, calcarei. Esercitano una funzione di prevenzione dall’erosione idrogeologica. Amano un clima caldo e umido e le posizioni soleggiate, possibilmente riparate dai venti. Non temono molto il freddo, anche se difficilmente sopravvivono in climi troppo rigidi. Reagiscono male agli eccessi dell’inquinamento atmosferico. Le annaffiature vanno eseguite regolarmente, anche se sopportano brevi periodi di siccità. Gradiscono anche un po’ di nutrimento attraverso una concimazione autunnale e primaverile interrando un pò di fertilizzante organico alla base del tronco e in prossimità delle radici. Le foglie, i giovani rami, e gli strobili del Cipresso sempervirens trovano impiego officinale. Dalla corteccia si ricava, per distillazione, un olio essenziale utilizzato in profumeria. Le foglie, relativamente ricche di olio, possono essere utilizzate sia per uso interno, grazie alle proprietà balsamiche ed espettoranti, sia per uso esterno, grazie alle proprietà detergenti, perché leggermente antisettiche. Gli strobili, più ricchi in tannini, hanno proprietà astringenti, vasocostrittrici, antinfiammatorie e sono utilmente impiegati nel trattamento delle varici e delle emorroidi, per tonificare la muscolatura della vescica in modo da impedire la perdita involontaria d’urina durante la notte. Durante le stagioni polliniche, tra febbraio e marzo, la presenza di polline nell’atmosfera e la sua dispersione provocano in alcuni soggetti sensibili stati di fastidiose allergie. I sintomi legati alle allergie polliniche sono: raffreddore, congiuntivite, tosse secca, asma. Nonostante il Cipresso sia diffuso nel bacino del Mediterraneo sin dall’antichità, l’allergia al Cipresso è stata segnalata per la prima volta nel 1945 e, negli ultimi 20 anni, è andata progressivamente aumentando.

Il legno di Cipresso, molto compatto, resistente e duro, è usato per la fabbricazione di mobili e di infissi, per piani di calpestio, per arredi interni come armadi, cassepanche ed anche per costruzioni navali. Si pensa che le navi delle flotte dei Fenici e di Alessandro Magno siano state costruite col legno di Cipresso. Il legno di Cipresso, come quello di Cedro, servì a rivestire il Tempio di Gerusalemme. Nel libro primo dei Re (5,22) è scritto: “Chiram mandò a dire a Salomone: < Ho ascoltato il tuo messaggio; farò quanto desideri riguardo al legname di cedro e di cipresso”.  A Roma le porte di San Pietro, risalenti all’epoca di Costantino il Grande, sono state realizzate col legno di Cipresso. Per il suo caratteristico forte odore pepato è usato come repellente per le tarme e per gli insetti nocivi.

In genere, il Cipresso è resistente alle malattie, ma non al cancro del Cipresso.  Negli ultimi 50 anni, infatti, il Cipresso è stato attaccato dal “Seiridium  cardinale”, un microscopico fungo parassita, comunemente conosciuto con il nome di “cancro del Cipresso“, che ha messo in serio pericolo la sopravvivenza di questa pianta arborea in tutta Italia e in molti altri paesi. I danni arrecati da questo fungo sono particolarmente severi in Italia, soprattutto in Toscana ed in Umbria dove il Cupressus sempervirens assume notevole importanza paesaggistica, ornamentale e selvicolturale. Oltre a determinare un enorme danno naturalistico, la malattia influisce sulla salubrità e sulla gradevolezza dell’ambiente. Quando le condizioni climatiche sono favorevoli, allora il micelio fungino, attraverso piccole ferite presenti sulla corteccia, penetra nei tessuti della pianta danneggiandoli. Queste ferite possono essere causate da diversi fattori: dall’abbassamento repentino della temperatura, da eventi meteorici, da alcuni insetti, dall’eccessivo accrescimento. Sulla zona corticale aggredita dal fungo, durante la primavera e l’autunno, si distinguono delle piccole pustole nere che contengono migliaia di conidi, gli organi di riproduzione del parassita. I conidi, trasportati dagli insetti, dagli uccelli o dall’acqua piovana vanno ad infettare altre piante.Il Cipresso, per difendersi dal processo infettivo, forma all’interno una barriera di cellule più o meno suberizzate ed espelle una certa quantità di resina. Spesso l’azione del parassita e l’inadeguata risposta della pianta danno luogo alla formazione di una zona necrotica, il “temibile cancro”, depressa e fessurata, dalla quale fuoriescono enormi quantità di resina. Nel linguaggio floreale il Cipresso è simbolo di “ dispiaceri  “. Il Cipresso teme molto la violenza dei fulmini che spesso spezzano la sua cima.

 

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Oct 19, 2013 - Senza categoria    Comments Off on CRYSANTEMUM MAXIMUM

CRYSANTEMUM MAXIMUM

  

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Il giorno della Commemorazione dei defunti è vicino. Il ricordo dei nostri cari defunti è sempre vivo nella nostra mente e nel nostro cuore durante tutti giorni dell’anno e non solo il 2 di Novembre. Tuttavia in questo giorno, e per anche otto giorni consecutivi così come è tradizione a Mistretta, le famiglie, le associazioni, le parrocchie, le società di mutuo soccorso si recano al cimitero per visitare i cari estinti portando loro enormi mazzi di fiori di Crisantemo. In Italia, e in Sicilia in particolare, il Crisantemo è ricordato solitamente come il “fiore dei morti” e perciò ha assunto caratteristiche negative e tristi collegate al lutto. Ecco perché, grazie alla fioritura autunnale e alla notevole resistenza, il fiore è adoperato nella ricorrenza del 2 novembre. Il suo significato simbolico più profondo, però, è la raffigurazione “dell’immortalità dell’anima”.

   Il genere Chrysanthemum comprende oltre 200 specie di piante erbacee e semiarbustive, rustiche e semirustiche, annuali e perenni, spontanee o adatte alla coltivazione all’aperto, in serra e in appartamento, provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa e appartenenti alla famiglia delle Asteraceae. Esiste una gamma vastissima di forme e di varietà. In Italia alcune specie sono spontanee. Il nome Chrysanthemum è composto da due parole greche “χρύσινος”, “d’oro” e “άνθέμιον” ,oppure “άνθος”, “ fiore”, vale a dire “fiore d’oro”. Questo nome è statoscelto dal botanico francese Tournefort riferendosi agli splendidi fiori gialli di alcune specie di questo genere. Le prime notizie sui Crisantemi sono state ritrovate in Cina e, nel IV secolo d.C., furono portati in Giappone dove divennero “i fiori dell’imperatore“. I Crisantemi si erano ormai talmente diffusi da diventare, con il nome di “Giku“, il fiore nazionale del Giappone. Infatti il fiore di una varietà nota col nome “Hironishi“, che ha solo 16 petali disposti come i raggi del sole, è stato scelto come stemma della famiglia imperiale giapponese e, alla fine del XII secolo, persino le spade dell’imperatore si ornavano di fregi che riprendevano il disegno di un Crisantemo. Successivamente, a corte, tutto fu decorato col simbolo di questo fiore. Un amore che continua ancora oggi! Il Crisantemo è ancora coltivato nei giardini imperiali di Tokyo dove, ad ogni fioritura, l’imperatore organizza un elegante ricevimento per presentare le nuove varietà. Confucio li amò in modo particolare per il significato simbolico dello “spirito della vita che si rinnova”, significato raccontato in un’antica leggenda. Si narra che una bambina, vegliando la sua mamma gravemente ammalata, pregava gli Spiriti di non farla morire. Uno Spirito benigno, commosso dalla sua sincera e supplichevole preghiera, porgendole un fiore le disse: “Quando la Morte sopraggiungerà, offrirai alla tua mamma questo fiore. Passerai insieme con lei ancora tanti giorni quanti sono i suoi petali”. La bambina divise amorevolmente ogni petalo del fiore in tantissime striscioline sottili. Quando la Morte arrivò, guardò stupefatta quel fiore dagli infiniti petali e, pensando ad uno scherzo dello Spirito, disse alla bambina: “Resterai con la tua mamma ancora tanti anni quanti corrispondono al numero dei petali”. Rimasero insieme per sempre!

In Europa i primi Crisantemi furono introdotti, alla fine del 1700, prima in Francia, poi in Inghilterra e in Italia dove ebbero una “mesta fama“. Dapprima la specie era considerata una vera rarità esotica, ma, col passar del tempo, cominciò ad essere coltivata nelle terrazze delle abitazioni. In Italia è una pianta molto comune presente nei vasi, nei balconi e nelle aiuole vegetando bene anche in montagna fino a 1000 metri di quota.

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 Il Chrysanthemum maximum, originario dei Pirenei, chiamato comunemente “Crisantemo margherita“, o “Margheritona“per la forma dei suoi fiori molto simili alle margherite, è presente nella villa comunale di Mistretta. La pianta ha un aspetto di cespuglio arrotondato e presenta il fusto robusto, eretto, alto circa 80 centimetri. Le foglie, delle piccole lance di forma profondamente lobata, a margini seghettati, dal colore verde intenso, sono leggermente aromatiche. I fiori, molto grandi e vistosi, larghi 6-8 centimetri, sono riuniti in infiorescenze a capolino. I fiori del raggio sono di colore bianco ed hanno i petali piuttosto lunghi e incurvati, i fiori del disco centrale sono gialli. La fioritura prosegue da giugno ad agosto. La moltiplicazione avviene prevalentemente per semina in vivaio in autunno, per divisione dei cespi in primavera, ma anche per talea di getti basali, o per bottura, ossia per mezzo dei germogli che nascono direttamente dalle radici. Le piantine, in primavera, vengono spostate dal vivaio nella terra per ottenere, nell’estate successiva, la fioritura di grandi margherite bianche. Questi fiori bianchi, che si fanno notare per la loro bellezza, per la loro imponenza, per la loro semplicità e che sembrano farsi baciare dal sole, si lasciano ammirare nel giardino di Mistretta. E’ molto decorativo anche come fiore reciso. La pianta di Crisantemo non ha esigenze ambientali particolari e non pretende cure esclusive; è sufficiente porla a dimora in un terreno soffice, fertile, sciolto e ben drenato.La scelta dell’esposizione è, invece, fondamentale: una buona luce, ma al riparo dai raggi diretti del sole, permette alla pianta una vita biologica eccezionale. La sistemazione in un luogo troppo ombroso, che rallenterebbe la fotosintesi clorofilliana, comprometterebbe la salute e il colore verde della pianta. Il sole favorisce la formazione di steli robusti, di rami resistenti al vento, di foglie sane e di fiori con petali luminosi. Le annaffiature devono essere regolari prestando attenzione che il terreno sia sempre umido. Essendo una pianta molto vigorosa, il Crysantemum maximum ha esigenze nutritive elevate, pertanto bisogna concimare spesso il suolo dopo la comparsa dei boccioli fiorali. La Potatura della pianta è necessaria per togliere i rami spezzati, per eliminare i fiori appassiti, per correggere qualche forma irregolare assunta dalla pianta o per stimolare la produzione dei fiori. Per ottenere una fioritura abbondante bisogna cimare il fusto principale prima della comparsa del bocciolo apicale e le ramificazioni primarie che spuntano sul fusto all’ascella delle foglie. In questo modo la pianta produrrà ramificazioni di secondo ordine a fiori più piccoli, ma molto più numerosi. Per ottenere fiori recisi bisogna cimare il fusto principale avendo cura di lasciare le ramificazioni primarie, quelle che compaiono all’ascella delle foglie sul fusto principale. Si otterranno fiori di grandi dimensioni. Nonostante siano piante abbastanza energiche, i Crisantemi, purtroppo, soprattutto nella specie a fiore grande, sono soggetti ad essere attaccati da vari parassiti animali e vegetali che causano moleste malattie. L’elenco è abbastanza lungo. Il Ragnetto rosso è un acaro non visibile ad occhio nudo che, situato nella pagina inferiore della foglia, le fa soffrire. Le Anguillule sono nematodi che, abitando nel terreno, deformano le radici e, attraverso di esse, risalgono nei fusti e nei rami provocando deformazioni, arresto dello sviluppo e mancata fioritura. I Gorgoglioni scavano lunghe gallerie nell’interno delle foglie. Gli Afidi attaccano foglie e fiori, succhiano la linfa, rendono la pianta appiccicosa e attirano le formiche. I Tripidi sono insetti neri, piccoli, dal corpo lungo, stretto e schiacciato che, saltando di pianta in pianta, pungono foglie e boccioli di fiori distruggendoli. La Mosca delle radici deposita le uova sull’apice delle foglie che si accorciano e induriscono. Le sue larve danneggiano le radici e la base del fusto. Le Aleurotidi sono piccolissime farfalline bianche che si depositano sulla pagina inferiore delle foglie che appassiscono e cadono. Si riconoscono perché, scuotendo la pianta, si forma una “nuvola bianca” di piccoli insetti volanti. Nella tarda estate, favorita dal freddo umido, si manifesta la muffa, una macchia nera che sciupa irreparabilmente le foglie e i fiori. Il mal bianco, l’Oidio, si ha a carico specialmente delle giovani vegetazioni. Le foglie appaiono rivestite da una polvere bianca, si accartocciano e cadono. Aiutata dall’umidità e dalla poca ventilazione, agisce la ruggine che si manifesta con verruche rugginose presenti sulla pagina inferiore della foglia.  La tracheomicosi è una malattia fungina che colpisce le piante determinandone l’avvizzimento a partire dalla parte inferiore. Non è infrequente, inoltre, che sotto le foglie si depositino le spore della Puccinia chrysanthemi o che appaiano le macchie brune provocate dalla Septoria. La presenza di galle causa deformazioni alle foglie indebolendo i getti. In questo caso è necessario eliminare le piante infette. In generale, per mantenere in buona salute le piante, giova rimuovere frequentemente il terreno attorno ai cespi, liberare le aiuole dalle erbe infestanti, evitare il ristagno dell’acqua presso le radici e intervenire tempestivamente con l’uso di prodotti specifici. I Crisantemi sono piante con spiccate capacità di assorbimento delle sostanze chimiche presenti nell’atmosfera e, pertanto, sono state tra le 50 piante analizzate nell’ambito degli studi effettuati dalla NASA sulla purificazione dell’aria. E’ emerso che veramente il Crisantemo ha la capacità di rimuovere dall’aria degli ambienti chiusi i vapori chimici nocivi come quelli dell’aldeide formica, del benzene e dell’ammoniaca. In cucina i Crisantemi non sono molto apprezzati. Solo i petali bolliti sono utilizzati per preparare insalate a base di patate lesse. Il Crisantemo ha anche alcune proprietà terapeutiche. Un’usanza irlandese della metà dell’800 suggerisce un bagno in una soluzione di Crisantemo e di sale come cura contro i dolori articolari. Il tè amaro, ottenuto con i fiori di Crisantemo roseo, è stato usato come vermifugo con effetti efficaci. Durante il periodo di Quaresima, alcuni biscottini, insieme con foglie e con fiori di Crisantemo roseo, erano serviti per prevenire i vermi intestinali. Erroneamente si credeva che il consumo di pesce, durante questo periodo, provocasse l’insorgere dei vermi. Le foglie essiccate sono utili per trattare l’emicrania e le nevralgie, per allontanare i disturbi digestivi, per abbassare la febbre e per curare le ferite. Il Crisantemo, in giro per il mondo, ha stimolato numerose curiosità. In Oriente il Crisantemo ha il significato simbolico di “fiore della vita e della gioia ” e, per la bellezza delle sue varietà e dei suoi colori, è largamente impiegato in tantissime occasioni di festa. In Inghilterra, una composizione di fiori di Crisantemo è regalata in occasione delle nascite. Anche in alcuni Paesi del nord Europa è simbolo “di gioia, di vitalità e di pace”. Appendendo sull’uscio di casa un Crisantemo si è certi che all’interno dell’abitazione regnano: pace e benessere. In Sicilia un tempo si credeva che i Crisantemi tenessero lontane le streghe. Esporre in casa qualche fiore di Crisantemo era simbolo di “buon auspicio”. Il Crisantemo si è “riabilitato” grazie ai tatuaggi giapponesi dove è un soggetto privilegiato in grandi e splendidi lavori. In Giappone, durante la sua coltivazione, la pianta è costretta ad assumere forme particolari: ad alberello, a piramide, a cascata, a candelabro, ad alzata e, in miniatura, a bonsai. Nonostante l’assurda diffidenza che esiste nei confronti dei Crisantemi, almeno nel nostro Paese, il linguaggio floreale non trascura di attribuire a questi fiori un romantico significato: “Non farti attendere“. Naturalmente questo messaggio non è affidato alle grandi e sferiche corolle che, di solito, sono usate per la triste ricorrenza, ma piuttosto ai piccoli Crisantemi dalla corolla semplice e tanto simili alle colorate margherite. Il colore bianco del Crisantemo nel linguaggio dei fiori simboleggia la “verità”.