Oct 19, 2013 - Senza categoria    Comments Off on CRYSANTEMUM MAXIMUM

CRYSANTEMUM MAXIMUM

  

crisantemo 1

Il giorno della Commemorazione dei defunti è vicino. Il ricordo dei nostri cari defunti è sempre vivo nella nostra mente e nel nostro cuore durante tutti giorni dell’anno e non solo il 2 di Novembre. Tuttavia in questo giorno, e per anche otto giorni consecutivi così come è tradizione a Mistretta, le famiglie, le associazioni, le parrocchie, le società di mutuo soccorso si recano al cimitero per visitare i cari estinti portando loro enormi mazzi di fiori di Crisantemo. In Italia, e in Sicilia in particolare, il Crisantemo è ricordato solitamente come il “fiore dei morti” e perciò ha assunto caratteristiche negative e tristi collegate al lutto. Ecco perché, grazie alla fioritura autunnale e alla notevole resistenza, il fiore è adoperato nella ricorrenza del 2 novembre. Il suo significato simbolico più profondo, però, è la raffigurazione “dell’immortalità dell’anima”.

   Il genere Chrysanthemum comprende oltre 200 specie di piante erbacee e semiarbustive, rustiche e semirustiche, annuali e perenni, spontanee o adatte alla coltivazione all’aperto, in serra e in appartamento, provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa e appartenenti alla famiglia delle Asteraceae. Esiste una gamma vastissima di forme e di varietà. In Italia alcune specie sono spontanee. Il nome Chrysanthemum è composto da due parole greche “χρύσινος”, “d’oro” e “άνθέμιον” ,oppure “άνθος”, “ fiore”, vale a dire “fiore d’oro”. Questo nome è statoscelto dal botanico francese Tournefort riferendosi agli splendidi fiori gialli di alcune specie di questo genere. Le prime notizie sui Crisantemi sono state ritrovate in Cina e, nel IV secolo d.C., furono portati in Giappone dove divennero “i fiori dell’imperatore“. I Crisantemi si erano ormai talmente diffusi da diventare, con il nome di “Giku“, il fiore nazionale del Giappone. Infatti il fiore di una varietà nota col nome “Hironishi“, che ha solo 16 petali disposti come i raggi del sole, è stato scelto come stemma della famiglia imperiale giapponese e, alla fine del XII secolo, persino le spade dell’imperatore si ornavano di fregi che riprendevano il disegno di un Crisantemo. Successivamente, a corte, tutto fu decorato col simbolo di questo fiore. Un amore che continua ancora oggi! Il Crisantemo è ancora coltivato nei giardini imperiali di Tokyo dove, ad ogni fioritura, l’imperatore organizza un elegante ricevimento per presentare le nuove varietà. Confucio li amò in modo particolare per il significato simbolico dello “spirito della vita che si rinnova”, significato raccontato in un’antica leggenda. Si narra che una bambina, vegliando la sua mamma gravemente ammalata, pregava gli Spiriti di non farla morire. Uno Spirito benigno, commosso dalla sua sincera e supplichevole preghiera, porgendole un fiore le disse: “Quando la Morte sopraggiungerà, offrirai alla tua mamma questo fiore. Passerai insieme con lei ancora tanti giorni quanti sono i suoi petali”. La bambina divise amorevolmente ogni petalo del fiore in tantissime striscioline sottili. Quando la Morte arrivò, guardò stupefatta quel fiore dagli infiniti petali e, pensando ad uno scherzo dello Spirito, disse alla bambina: “Resterai con la tua mamma ancora tanti anni quanti corrispondono al numero dei petali”. Rimasero insieme per sempre!

In Europa i primi Crisantemi furono introdotti, alla fine del 1700, prima in Francia, poi in Inghilterra e in Italia dove ebbero una “mesta fama“. Dapprima la specie era considerata una vera rarità esotica, ma, col passar del tempo, cominciò ad essere coltivata nelle terrazze delle abitazioni. In Italia è una pianta molto comune presente nei vasi, nei balconi e nelle aiuole vegetando bene anche in montagna fino a 1000 metri di quota.

crisantemo 2

 Il Chrysanthemum maximum, originario dei Pirenei, chiamato comunemente “Crisantemo margherita“, o “Margheritona“per la forma dei suoi fiori molto simili alle margherite, è presente nella villa comunale di Mistretta. La pianta ha un aspetto di cespuglio arrotondato e presenta il fusto robusto, eretto, alto circa 80 centimetri. Le foglie, delle piccole lance di forma profondamente lobata, a margini seghettati, dal colore verde intenso, sono leggermente aromatiche. I fiori, molto grandi e vistosi, larghi 6-8 centimetri, sono riuniti in infiorescenze a capolino. I fiori del raggio sono di colore bianco ed hanno i petali piuttosto lunghi e incurvati, i fiori del disco centrale sono gialli. La fioritura prosegue da giugno ad agosto. La moltiplicazione avviene prevalentemente per semina in vivaio in autunno, per divisione dei cespi in primavera, ma anche per talea di getti basali, o per bottura, ossia per mezzo dei germogli che nascono direttamente dalle radici. Le piantine, in primavera, vengono spostate dal vivaio nella terra per ottenere, nell’estate successiva, la fioritura di grandi margherite bianche. Questi fiori bianchi, che si fanno notare per la loro bellezza, per la loro imponenza, per la loro semplicità e che sembrano farsi baciare dal sole, si lasciano ammirare nel giardino di Mistretta. E’ molto decorativo anche come fiore reciso. La pianta di Crisantemo non ha esigenze ambientali particolari e non pretende cure esclusive; è sufficiente porla a dimora in un terreno soffice, fertile, sciolto e ben drenato.La scelta dell’esposizione è, invece, fondamentale: una buona luce, ma al riparo dai raggi diretti del sole, permette alla pianta una vita biologica eccezionale. La sistemazione in un luogo troppo ombroso, che rallenterebbe la fotosintesi clorofilliana, comprometterebbe la salute e il colore verde della pianta. Il sole favorisce la formazione di steli robusti, di rami resistenti al vento, di foglie sane e di fiori con petali luminosi. Le annaffiature devono essere regolari prestando attenzione che il terreno sia sempre umido. Essendo una pianta molto vigorosa, il Crysantemum maximum ha esigenze nutritive elevate, pertanto bisogna concimare spesso il suolo dopo la comparsa dei boccioli fiorali. La Potatura della pianta è necessaria per togliere i rami spezzati, per eliminare i fiori appassiti, per correggere qualche forma irregolare assunta dalla pianta o per stimolare la produzione dei fiori. Per ottenere una fioritura abbondante bisogna cimare il fusto principale prima della comparsa del bocciolo apicale e le ramificazioni primarie che spuntano sul fusto all’ascella delle foglie. In questo modo la pianta produrrà ramificazioni di secondo ordine a fiori più piccoli, ma molto più numerosi. Per ottenere fiori recisi bisogna cimare il fusto principale avendo cura di lasciare le ramificazioni primarie, quelle che compaiono all’ascella delle foglie sul fusto principale. Si otterranno fiori di grandi dimensioni. Nonostante siano piante abbastanza energiche, i Crisantemi, purtroppo, soprattutto nella specie a fiore grande, sono soggetti ad essere attaccati da vari parassiti animali e vegetali che causano moleste malattie. L’elenco è abbastanza lungo. Il Ragnetto rosso è un acaro non visibile ad occhio nudo che, situato nella pagina inferiore della foglia, le fa soffrire. Le Anguillule sono nematodi che, abitando nel terreno, deformano le radici e, attraverso di esse, risalgono nei fusti e nei rami provocando deformazioni, arresto dello sviluppo e mancata fioritura. I Gorgoglioni scavano lunghe gallerie nell’interno delle foglie. Gli Afidi attaccano foglie e fiori, succhiano la linfa, rendono la pianta appiccicosa e attirano le formiche. I Tripidi sono insetti neri, piccoli, dal corpo lungo, stretto e schiacciato che, saltando di pianta in pianta, pungono foglie e boccioli di fiori distruggendoli. La Mosca delle radici deposita le uova sull’apice delle foglie che si accorciano e induriscono. Le sue larve danneggiano le radici e la base del fusto. Le Aleurotidi sono piccolissime farfalline bianche che si depositano sulla pagina inferiore delle foglie che appassiscono e cadono. Si riconoscono perché, scuotendo la pianta, si forma una “nuvola bianca” di piccoli insetti volanti. Nella tarda estate, favorita dal freddo umido, si manifesta la muffa, una macchia nera che sciupa irreparabilmente le foglie e i fiori. Il mal bianco, l’Oidio, si ha a carico specialmente delle giovani vegetazioni. Le foglie appaiono rivestite da una polvere bianca, si accartocciano e cadono. Aiutata dall’umidità e dalla poca ventilazione, agisce la ruggine che si manifesta con verruche rugginose presenti sulla pagina inferiore della foglia.  La tracheomicosi è una malattia fungina che colpisce le piante determinandone l’avvizzimento a partire dalla parte inferiore. Non è infrequente, inoltre, che sotto le foglie si depositino le spore della Puccinia chrysanthemi o che appaiano le macchie brune provocate dalla Septoria. La presenza di galle causa deformazioni alle foglie indebolendo i getti. In questo caso è necessario eliminare le piante infette. In generale, per mantenere in buona salute le piante, giova rimuovere frequentemente il terreno attorno ai cespi, liberare le aiuole dalle erbe infestanti, evitare il ristagno dell’acqua presso le radici e intervenire tempestivamente con l’uso di prodotti specifici. I Crisantemi sono piante con spiccate capacità di assorbimento delle sostanze chimiche presenti nell’atmosfera e, pertanto, sono state tra le 50 piante analizzate nell’ambito degli studi effettuati dalla NASA sulla purificazione dell’aria. E’ emerso che veramente il Crisantemo ha la capacità di rimuovere dall’aria degli ambienti chiusi i vapori chimici nocivi come quelli dell’aldeide formica, del benzene e dell’ammoniaca. In cucina i Crisantemi non sono molto apprezzati. Solo i petali bolliti sono utilizzati per preparare insalate a base di patate lesse. Il Crisantemo ha anche alcune proprietà terapeutiche. Un’usanza irlandese della metà dell’800 suggerisce un bagno in una soluzione di Crisantemo e di sale come cura contro i dolori articolari. Il tè amaro, ottenuto con i fiori di Crisantemo roseo, è stato usato come vermifugo con effetti efficaci. Durante il periodo di Quaresima, alcuni biscottini, insieme con foglie e con fiori di Crisantemo roseo, erano serviti per prevenire i vermi intestinali. Erroneamente si credeva che il consumo di pesce, durante questo periodo, provocasse l’insorgere dei vermi. Le foglie essiccate sono utili per trattare l’emicrania e le nevralgie, per allontanare i disturbi digestivi, per abbassare la febbre e per curare le ferite. Il Crisantemo, in giro per il mondo, ha stimolato numerose curiosità. In Oriente il Crisantemo ha il significato simbolico di “fiore della vita e della gioia ” e, per la bellezza delle sue varietà e dei suoi colori, è largamente impiegato in tantissime occasioni di festa. In Inghilterra, una composizione di fiori di Crisantemo è regalata in occasione delle nascite. Anche in alcuni Paesi del nord Europa è simbolo “di gioia, di vitalità e di pace”. Appendendo sull’uscio di casa un Crisantemo si è certi che all’interno dell’abitazione regnano: pace e benessere. In Sicilia un tempo si credeva che i Crisantemi tenessero lontane le streghe. Esporre in casa qualche fiore di Crisantemo era simbolo di “buon auspicio”. Il Crisantemo si è “riabilitato” grazie ai tatuaggi giapponesi dove è un soggetto privilegiato in grandi e splendidi lavori. In Giappone, durante la sua coltivazione, la pianta è costretta ad assumere forme particolari: ad alberello, a piramide, a cascata, a candelabro, ad alzata e, in miniatura, a bonsai. Nonostante l’assurda diffidenza che esiste nei confronti dei Crisantemi, almeno nel nostro Paese, il linguaggio floreale non trascura di attribuire a questi fiori un romantico significato: “Non farti attendere“. Naturalmente questo messaggio non è affidato alle grandi e sferiche corolle che, di solito, sono usate per la triste ricorrenza, ma piuttosto ai piccoli Crisantemi dalla corolla semplice e tanto simili alle colorate margherite. Il colore bianco del Crisantemo nel linguaggio dei fiori simboleggia la “verità”.

Oct 12, 2013 - Senza categoria    Comments Off on IL LAURUS NOBILIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL LAURUS NOBILIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

a

Nella villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta le specie arbustive presenti sono molto numerose. Il Laurus nobilis, il Calycanthus fragrans, il Viburnum tinus, l’Arbutus unendo, il Morus nigra, il Rosmarinus officinalis, la Salvia officinalis, la Lavandula spica, il Nerium oleander, il Pittosporo tobira, il Buxus sempervirens, il Myrtus communis, il Solanum capsicastrum, sono solo alcuni esempi. Quando fioriscono, questi arbusti animano di vivaci colori l’ambiente circostante.

L’arbusto, in generale, è una pianta perenne legnosa che, a differenza dell’albero, non supera i tre metri d’altezza. Presenta la caratteristica ramificazione che origina dalla base, per cui diversi rami equivalenti partono dal suolo e manca, quindi, il vero fusto. A seconda della consistenza dei rami si distingue: il frutice, che ha rami lignificati, e il suffrutice che ha rami parzialmente erbacei. Nei boschi e nelle foreste l’arbusto occupa uno strato compreso tra la copertura degli alberi e la vegetazione erbacea del suolo.

L’Alloro è una pianta molto diffusa in pianura e in collina soprattutto nelle zone a clima temperato. Cresce spontaneo in tutti i Paesi del Mediterraneo nelle macchie e nei boschi. E’ molto utilizzato nei giardini e nei parchi come pianta ornamentale oltre ad essere apprezzato per la sua fragranza aromatica.

CLICCA QUI

b

 L’Alloro appartiene al genere Laurus della famiglia delle Lauraceae e comprende piante originarie dell’Asia minore introdotte nel bacino del Mediterraneo in tempi antichissimi. Il polline di Laurus nobilis è presente nelle 58 specie di pollini analizzati dagli studiosi sulla sacra Sindone. Il termine Laurus include numerose specie, ma quella più conosciuta e più apprezzata è esattamente il Laurus nobilis. Oggi è distribuito ampiamente in tutta l’Europa e in Italia è diffuso lungo le coste tirreniche e adriatiche, in Sicilia e in Sardegna. Il nome Laurus deriva dal latino “laurum” che, letteralmente, significa “foglia d’oro”. Alcuni botanici fanno derivare il nome Lauro dal celtico “lawur”, che significa  “verdeggiante”. L’Alloro è conosciuto in Sicilia con i sinonimi: “Addauru, Addagaru, Lauru”. L’Alloro è una pianta rustica, sempreverde, perenne, a portamento arbustivo, ma può assumere anche la forma di cespuglio o di albero tanto che, se trova le condizioni ideali, può raggiungere i 10-12 metri d’altezza. Cresce bene in tutti i terreni. Posta in un’aiuola umida, in piena terra, in posizione soleggiata e riparata dal vento, una pianta di Alloro nel giardino di Mistretta se ne sta abbracciata al cespuglio del Mirto soprastante.  L’Alloro presenta il tronco normalmente liscio e rivestito dalla corteccia nerastra, i rami sottili e molto fitti. La pianta è carica di rami e di foglie semplici portate da un corto picciolo, ovate, coriacee, persistenti, aromatiche, con i bordi ondulati e con la pagina superiore lucida e di un bel colore verde scuro, mentre quella inferiore è di colore verde-giallo tenue ed opaco. Osservandole in controluce, le foglie evidenziano dei puntini traslucidi: sono le ghiandole resinose che contengono i principi attivi, e, in particolare, l’olio essenziale che conferisce il caratteristico aroma. L’Alloro, tra marzo e aprile, si riempie di piccoli fiori di colore avorio, riuniti in infiorescenza ad ombrella.  E’ una pianta dioica, vale a dire che esistono piante che hanno solo fiori maschili e piante che hanno solo fiori femminili, che portano cioè gli organi riproduttivi femminili preposti alla formazione del frutto previa impollinazione da parte dei pollini maschili. I fiori maschili sono piccoli e di colore giallognolo, i fiori femminili sono di colore bianco-avorio. Il frutto è una bacca molto aromatica, simile ad una piccola oliva, che diventa nero-bluastra e lucida e che matura in autunno. Contiene un solo seme che, cadendo nel terreno, ogni anno favorisce la disseminazione. Trasportato dalle acque piovane, ogni seme continua il ciclo della vita. Altre piante, che portano i fiori maschili, vivono sicuramente in un’altra aiuola del giardino di Mistretta. La moltiplicazione avviene, oltre che per seme, per moltiplicazione dei polloni, che si formano alla base della pianta madre, per talea, che si esegue nella tarda estate o all’inizio dell’autunno. Per poter avere una bella pianta di Alloro è opportuno potare le piante ogni anno, verso la fine dell’inverno, poiché l’Alloro risponde bene all’ars topiaria.

c

L’Alloro è una pianta che cresce bene in tutti i terreni e può essere coltivato in qualsiasi tipo di giardino e di orto. E’ consigliabile posizionarlo in un luogo in cui possa ricevere almeno alcune ore di sole diretto. Non teme il freddo e sopporta temperature minime rigide che, se scendono sotto lo zero, sono tollerate solo per brevi periodi di tempo. Gradisce una buona circolazione, ma non tollera le correnti d’aria. Va annaffiato con moderazione durante la primavera e l’estate ogni qual volta lo strato superficiale del terreno si asciuga. Bisogna prestare molta attenzione ai ristagni idrici che sono la principale causa di morte delle piante per marciume delle radici.

 Empedocle di Agrigento, (V sec. a. C.), definì l’Alloro “Suprema fra le piante“. L’Uomo lo ha sempre apprezzato per le sue qualità e lo ha tenuto in gran considerazione.  Il poeta latino Publio Ovidio Nasone, nella saga di Apollo e Dafne, racconta la leggenda dell’amore del dio verso Dafne. Apollo, il dio del sole, essendosi innamorato perdutamente della vergine Dafne, ninfa figlia del fiume Ladone dell’Arcadia o del fiume Tessalico Peneo e della dea Terra, non essendo corrisposto, voleva a forza possederla. Dafne, amante della caccia e della solitudine, incontrando inaspettatamente il bellissimo dio, fuggì impaurita. Apollo la inseguì. Dafne, prostratasi al suolo, pregò la madre Terra di salvarla dall’ardente desiderio del dio. Il corpo di Dafne si ricoprì di ruvida scorza, le gambe radicarono, si attaccarono al suolo, le braccia si trasformarono in rami fronzuti che s’intrecciarono alla chioma. Apollo, raggiunta la preda, la abbracciò con fervore, ma circondò la pianta: l’Alloro. Addolorato e disperato, Apollo si cinse la fronte con la sua fronda. Esattamente Ovidio racconta così: “[…] Ha appena finito di pronunciare queste parole che un pesante torpore le invade le membra: il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia; i capelli si allungano fino a diventare fronde, le braccia rami; i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici; il viso diviene la cima dell’alloro. Solo il suo splendore le resta. Ma anche così Febo (Apollo) l’ama e, ponendo la mano sul tronco, sente battere ancora il suo cuore sotto la corteccia appena spuntata, stringendo fra le braccia i rami come se fossero membra dell’amata, copre di baci la pianta. La pianta, tuttavia, cerca di evitare quei baci. Allora il dio così parla: <Poiché non puoi essere la mia consorte, ebbene sarai il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra saranno sempre inghirlandate di te, o alloro> […]”. L’Alloro divenne la pianta sacra ad Apollo. La leggenda della trasmutazione di Dafne ha ispirato la poesia di Guido Gozzano:

“[…] Dafne rincorsa, tramutata in lauro

tra le braccia del Nume ghermitore […]

 I greci, ogni otto anni a Tebe  e a Delfi celebravano le Dafneforie, “dafneforio”,” cinto del lauro”, feste in onore di Apollo, adornando le case con le corone di Alloro. Un giovane, chiamato dafneforo, scelto per la sua bellezza, entrava nel tempio del dio accompagnato da altri giovani e giovincelle e reggendo in mano un ramoscello d’Alloro per commemorare la purificazione di Apollo dopo l’uccisione del serpente Pitone.  Ancora presso i greci e i romani la corona di Alloro, esposta sulla porta di casa, esprimeva gioia e festa, mentre un solo ramoscello, anch’esso appeso alla porta, indicava la presenza di una persona ammalata e per la quale si chiedeva ad Apollo la grazia della salute. Considerata la pianta della metamorfosi e dell’illuminazione, l’Alloro è il simbolo della “sapienza divina”; il suo profumo può portare ad elevarsi su piani sottili, risveglia l’ispirazione sollecitando l’espressione interiore della creatività. Anticamente i contadini romani legavano tre ramoscelli d’Alloro con un cordoncino rosso come propiziatore dell’abbondanza del raccolto, aiutava il grano a maturare e donava benessere. Ancora oggi si racconta che alcune foglie d’Alloro, poste sotto il cuscino, accendono sogni profetici. Gli Etruschi amavano questa pianta perché una pace profonda e un’aria odorosa regnavano nei boschi di Alloro.
Gli antichi romani ornavano con serti di Alloro il capo degli imperatori e la fronte degli eroi, dei poeti, degli atleti e degli uomini illustri. Plinio testimonia che fronde di Alloro ornavano il messaggio, chiamato “littera laureata“, che recapitava la notizia di una vittoria militare. Il messaggero portava in mano un ramo di Alloro che adagiava ai piedi di Giove Ottimo Massimo. Impugnato tra combattenti armati, l’Alloro significava “richiesta di tregua”. Plinio il Vecchio, nel libro XVI della sua “Storia Naturale“, afferma che Giove mandò il Lauro dal cielo per incoronare gli imperatori. Un’aquila, portando sul rostro una gallina bianca che teneva nel becco un ramoscello di Alloro, la lasciò cadere in grembo a Livia Drusilla, sposa di Cesare Augusto. Gli indovini ordinarono che fossero conservati la gallina e i suoi pulcini e che l’Alloro fosse piantato nella villa augustea. Il suo ramoscello si ambientò così bene da inselvatichirsi e formare la selva della “Gallinaria“. Augusto, durante i suoi trionfi, portò sempre con sè in mano un ramoscello di Alloro e in capo una corona. Da allora tutti gli altri imperatori lo imitarono. Napoleone si cinse degli Allori di Austerlitz, di Jena, e di molte altre battaglie. La corona d’Alloro cingeva la fronte dei vincitori nei giochi olimpici e costituiva il massimo onore per un poeta. Era simbolo “di vittoria, di trionfo, di fama, di onore, di sapienza”. Era il premio per le lettere, per le scienze, per le armi, per la gloria.

[…] e intanto vola

il caro tempo giovanil; più caro

che la fama e l’allor  […]
(G. Leopardi, Le ricordanze, 43-45).

Francesco Petrarca, quando ricevette solennemente la corona d’Alloro, così

lo descrisse:

[…] Arbor vittorioso, trionfale

onor d’imperatori e di poeti […]

Anche la fronte del sommo Dante Alighieri, il poeta della Divina Commedia, è stata cinta da una corona d’Alloro.

Gli antichi credevano che l’Alloro preservasse dai fulmini. Plinio il Vecchio attesta che l’Alloro non può essere colpito dal fulmine e, per questa ragione, l’imperatore Tiberio Cesare, quando sentiva tuonare durante i temporali, s’incoronava con una ghirlanda di Alloro.

In tempi molto lontani, in alcune regioni, dal crepitio più o meno vivace delle foglie di Alloro bruciate si riteneva di poter trarre segni sull’abbondanza dei raccolti. Se, bruciando, crepitavano era segno di buoni auspici, altrimenti…

Tito Lucrezio Caro nel “De Rerum Natura” racconta:

“[…]  molti più certi responsi e molto più venerandi abbiano

dato di quelli che profetando la Pizia manda dal lauro e dal

tripode d’Apollo […]”.

D’Annunzio dedica una poesia del Poema paradisiaco ai Lauri, amici della sua trascorsa giovinezza :

“Lauri, che ne la grande ombra severa

Accoglieste il pensoso adolescente,

parlatemi di lui, la prima sera.

Parlatemi di lui benignamente,

vecchi lauri, però ch’egli forse ode;

però ch’egli è lontano e pur presente.

Quanto v’amava il giovine custode!

E quante volte a la sua fronte amica

Tendeste i rami in ascoltar la lode!”

 Nella raccolta dei canti liturgici mariani, l’Ave Maria di Lourdes accosta l’Alloro alla Madonna come simbolico rimedio per tutti i mali:

“O bella Regina

O fronda di allor

Tu sei medicina

Per ogni dolor”.

 

In Liguria si celebrava il “Confuoco“, una cerimonia medievale risalente all’epoca della Repubblica di Genova. Nei paesi con sede di Podesteria, ogni anno, nella domenica che precedeva il Natale, i contadini portavano al Podestà, inviato da Genova, un carro con l'”omaggio” di capponi, di melograni, di corbezzoli  e di altri prodotti della terra per formulagli gli auguri di Buon Natale insieme ai Consoli e a tutta la cittadinanza. Da parte sua, il Podestà giurava di governare con giustizia. Al termine della cerimonia, sulla pubblica piazza veniva allestito un gran falò di ceppi di Alloro ai quali veniva dato fuoco. Dalla dispersione delle faville e dalla forma delle fiamme si traevano gli auspici per tutto l’anno. Le fiamme che si levavano diritte verso il cielo presagivano un felice anno nuovo. La cerimonia medievale, che prevede le sfilate di gruppi storici, la premiazione dei cittadini benemeriti e l’accensione del rogo, si svolge tuttora a Pietra Ligure la domenica prima di Natale.

Ai nostri giorni all’Alloro sono attribuiti diversi significati allegorici: “Conquistar l’Alloro” indica “essere vincitore”. “Raccogliere Alloro” vuol dire avere “successi e onori”. “Dormire sugli allori“ è essere “inoperosi, non avere pensieri e responsabilità, accontentarsi dei successi ottenuti”. Essere “L’Alloro di ogni festa” è “trovarsi in tutti i festeggiamenti”.

A Mistretta, una piccola lampadina accesa e un fascio di rami d’Alloro, posti sullo stipite di una porta, indicavano l’osteria, un locale dove si può bere un bicchiere di vino con gli amici.  Secondo quanto riportato dal Pitrè, gli abitanti della città di Nicosia credevano che un ramoscello di Alloro dentro il letto respingesse l’incubo.

Le qualità dell’Alloro sono infinite come infinito e fantastico è il suo mito. Il Lauro era anche consacrato al figlio di Apollo, Asclepio, il dio della medicina. Nell’ideale “farmacia del Buon Dio” di Messeguè, il principe degli erboristi, che così definiva l’insieme dei vegetali con proprietà medicamentose, l’Alloro ha occupato un posto di rilievo. Per millenni fu usato contro moltissime malattie e ancora oggi questa pianta sacra ha proprietà terapeutiche eccezionali. Alle persone anziane si consiglia di ispirare il suo aroma perché aiuta loro a rinvigorirsi. Massaggi profondi, fatti con l’olio d’Alloro, pare stimolino le difese immunitarie e risveglino l’appetito. Masticare una foglia d’Alloro prima dei pasti aiuta la digestione. Le foglie sono ottime anche come infuso utile contro l’insonnia e i dolori, vaporizzato in acqua calma la tosse, le bacche sono eccellenti per l’affaticamento.

In medicina, anticamente, l’Alloro era usato per le tue molteplici proprietà. Dall’Herbario Nuovo di Castore Durante, edito nella seconda metà del XVI secolo, si apprende: “Le bacche di lauro… prese con mele (miele) e vino dolce … sono di gran rimedio ai tisici ed a coloro che soffrono di tosse antica … le bacche peste ed unite con vino giovano ai morsi degli scorpioni, la scorza della radice bevuta al peso di uno scrofolo (poco più di un grammo), con vino, rompe le pietre dei reni, la renella e li caccia fuori … l’olio, che si produce dalle bacche di lauro, mitiga i dolori colici ed i freddi dolori della pancia, della testa, del fegato della milza, dei reni. Attenua le infiammazioni alle parti basse delle donne se lavate con acqua di lauro.”

Ippocrate consigliava fumigazioni di foglie di Alloro per alleviare i dolori del parto. Plinio riteneva efficace l’olio per i casi di sciatica. Le foglie, bollite in acqua, servivano per alleviare il mal di pancia e i dolori reumatici e per combattere l’insonnia. Foglie e bacche insieme convenivano all’inappetenza, alla flatulenza, alla difficoltà di digestione, al catarro polmonare, all’asma, all’amenorrea, all’isterismo, all’ipocondria. Le bacche servivano per curare le malattie epatiche, l’alopecia e per arrestare la caduta dei capelli. Da altri antichi testi di medicina si apprende che l’elettuario (miscela) di bacche e di foglie di Lauro “è utilissimo nelle coliche intestinali, ed al volvolo (occlusione dell’intestino per attorcigliamento) prodotti da crudezze d’umori, tanto preso per bocca, che fattone crestiere” (clisteri), ed ancora che le bacche di Lauro “mangiate dalle donne gravide, quando vanno a dormire, fanno partorire felicemente”.

Agli infusi di foglie e di bacche di Alloro sono state attribuite anche proprietà anticatarrali, antireumatiche, carminative, colagoghe, diuretiche, vermifughe, espettoranti, stimolanti, sudorifere, toniche, utili nei casi di meteorismo, nella amenorrea. L’impiego prevalente dei preparati di Alloro è, però, più idoneo per combattere i disturbi dell’apparato digerente e, in particolare, per trattenere le cacarelle dei bambini. Per uso esterno, l’infuso di foglie di Alloro era ritenuto giovevole contro la scabbia, l’alopecia, i reumatismi e la gotta.

L’acqua, nella quale sono state bollite alcune bacche di Alloro, è considerata ottima per i pediluvi perché  toglie la stanchezza e limita la sudorazione. Le bacche, ridotte in poltiglia, si possono applicare sulle contusioni. Ippocrate prescrive pozioni di Alloro, con una dracma di fango, per irrigazioni vaginali o anche, per la stessa funzione, bacche di Alloro cotte nel vino con semi di Sambuco.

Testi medioevali di medicina attribuiscono alle bacche di Alloro la proprietà di curare il cervello “freddo” di coloro che hanno perso il senno.

Testi rinascimentali assicurano che i decotti di Alloro giovano “sedendovisi dentro, à i difetti della matrice, e alle passioni della vescica”.

Dai frutti si ricava l’unguento od olio laurino utile ai dolori articolari, alle malattie dell’orecchio, agli spasimi, alla sciatica, al mal di testa, alle affezioni dei reni e dell’utero. L’unguento è usato ancora oggi largamente in medicina veterinaria contro i parassiti degli animali. Anticamente l’olio laurino era tenuto in gran considerazione dagli speziali perché si diceva “apre le bocche delle vene”.

La corteccia della radice aveva effetto costrittivo e, se macerata nel vino, era utile per curare i calcoli della vescica. Oggi, in medicina ed erboristeria, l’uso dell’Alloro è quasi scomparso, anche se a torto, perché la composizione chimica delle sue parti vegetative potrebbe essere molto utile nelle diverse terapie.
L’Alloro trova largo impiego anche in cucina tanto che un proverbio siciliano ne consiglia la limitazione “cchiù susizza e menu addauru”. Con le foglie aromatiche si rendono gustosi arrosti, pesci marinati, funghi sott’olio, ragù di carne, fichi secchi, liquori.  Dall’Herbario Nuovo di Castore Durante si impara: “Le foglie di lauro conservano i fichi secchi, si mettono nella gelatina per dare profumo e parimenti nella cotognata e negli arrosti”.

Apicio, famoso gastronomo dell’antica Roma, ha tramandato la ricetta per il Porcellum laureatum, il maiale laureato arrostito con rami e con bacche di Alloro.

Catone ha riportato la ricetta del mostacciolo: una sorta di focaccia al formaggio che veniva aromatizzata adagiandola su alcune foglie di Alloro.

Maestro Martino, cuoco dell’antichità, la cui fama è giunta fino ai nostri giorni grazie all’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, che, alla fine del Quattrocento, ha raccolto le sue ricette nel volume dal titolo “De honesta voluptate”, ha scritto: “Per le frictelle con fronde de lauro frigi de foglie de lo lauro in qualche bon grasso o lardo. Poi cavale fora et lassale scioccare”.

Nella stessa raccolta di ricette Maestro Martino suggerì “alcune foglie de lauro per allessare l’anguilla e per arrostire il cancro marino”, e “doi o tre ramicelle de alloro per preparare la porchetta”.

Il poeta latino Marziale, nei suoi epigrammi risalenti al I° secolo, narra di Mirtale, una vecchia ubriacona che cercava di mascherare l’odore del vino masticando foglie di Alloro. Vedendola ubriaca e con il viso paonazzo, i paesani, deridendola, dicevano: “Mirtale ha bevuto Alloro”.

Gli Etruschi usavano le foglie e i frutti del Lauro nei piatti di cacciagione per aromatizzarli, per togliere il “selvatico” delle carni e per simboleggiare il “trionfo dell’uomo sulla forza dell’animale” che spesso richiedeva, per essere catturato, una buona dose d’astuzia. Chiuse in vasi di vetro, le foglie, disseccate, conservano inalterato il loro profumo per lungo tempo. Le foglie di Alloro si possono raccogliere durante tutto l’anno ma, raccolte nei mesi di luglio e di agosto, hanno una maggiore concentrazione di essenze aromatiche. Publio Virgilio Marone, nella seconda Ecloga, dell’Alloro ricorda il profumo:

“[…] e coglierò voi, allori e mirti che crescete vicini,

perché così disposti mischiate soavi profumi […]”.

I frutti si raccolgono in autunno, quando sono maturi.

Le bacche di Alloro si fanno essiccare al forno a bassa temperatura e si conservano, poi, dentro barattoli di vetro. Mantengono un sapore più forte e più robusto di quello delle foglie.

 In profumeria, l’olio essenziale serve per la preparazione di creme dentifrice, di saponi e di cosmetici antipsorici. In cosmetica, la presenza dell’Alloro nell’acqua calda permette di realizzare un bagno delicatamente profumato, deodorante e stimolante. La pelle, dopo un bagno con un suo infuso, si presenta rosata e distesa. Un decotto di foglie di Alloro dona magici riflessi ai capelli scuri.

Il legno dell’Alloro, duro, molto elastico è usato per costruire mobili che conservano a lungo il fragrante odore. Il fumo delle sue foglie tiene lontani gli insetti.

Nell’arte del fioraio, le fronde sono usate per confezionare corone d’onore e mortuarie.

Infine alcune curiosità. Nel solenne rito della cerimonia del Milite Ignoto a Roma, ai piedi dell’Altare della Patria, è deposto un ramo di Alloro per ricordare tutti gli atti eroici del popolo italiano.

Nel Medioevo la corona che cingeva il capo dei neo – dottori doveva essere esclusivamente di Lauro. “Laurea”, la dignità dottorale conferita dalle Università a coloro i quali  raggiungono il massimo traguardo del sapere, significa “corona di Alloro”.

   Molti comuni italiani hanno dato il suo nome: Lauro (Avellino), Laurana (Fiume), Laureana Cilento (Salerno), Laurito (Salerno), Laurino (Salerno), Laureana di Borrello (Reggio Calabria), Laurenzana (Potenza), Lauria (Potenza), Loreto (Ancona), Lauriano (Torino).

 

Sep 29, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LAGERSTROEMIA INDICA

LAGERSTROEMIA INDICA

1

Gentilissimo Filippo, amico mio, so che apprezzi molto tutte le bellissime essenze vegetali presenti nella nostra villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta, bene unico e prezioso non solo dei mistrettesi ma anche di quanti visitano il nostro paese. L’alberello, che sembra abbracciarti alle spalle, è una bellissima pianta di Lagerstroemia indica.

IMG_20180818_111920 ok

 

CLICCA QUI

 

 Il nome Lagerstroemia è stato attribuito al vegetale in omaggio allo svedese Magnus von Lagerstroem, (1696-1759), direttore della Compagnia delle Indie e fraterno amico di Linneo. La pianta è chiamata “albero di San Bartolomeo” perché il periodo della fioritura è concentrato nel mese di agosto. San Bartolomeo si festeggia il 24 agosto. Classificata come piccolo albero appartenente alla Famiglia delle Lythraceae, la pianta ha un portamento cespuglioso. Originaria delle Indie orientali, dell’Asia meridionale ed orientale, della Cina e delle zone dell’Himalaya e del Giappone, si è diffusa in tutto il Mediterraneo e nelle Americhe. E’ giunta nel nostro Paese verso la metà del ‘700 diffondendosi nei giardini come pianta ornamentale coltivata per i suoi fiori e per il fusto a costole irregolari. Caratteristico è il tronco, che fornisce legni pregiati, perchè la corteccia che lo riveste è chiara e liscia con gradevoli sfumature anche rosate. Le foglie, decidue, semplici, opposte, di forma ellittica o lanceolata, in autunno assumono una colorazione porpora.

LAGEROSTROMIA INDICA ok

LAGEROSTRO ok

I fiori, riuniti in vistose pannocchie apicali, sono di colore rosa, rosso o bianco, secondo la varietà. La fioritura, abbondante, si prolunga da giugno a settembre, e per tutta la durata dell’estate. I frutti sono delle capsule globose a sei spigoli. Bello è il suo fiammeggiante aspetto con il fogliame che passa dal verde scuro in estate a tonalità gialle, poi aranciate e infine rosse fuoco in autunno. Decorativa anche in inverno, propone fusti che, al terzo anno di vita, si privano della corteccia rimanendo la superficie liscia al tatto e assumendo una colorazione nocciola che ben risalta sullo sfondo verde scuro degli altri vegetali. Nella villa comunale di Mistretta la pianta, varietà “indica”, mediamente rustica, di facile coltura, è coltivata ad alberello ed esposta alla luce diretta del sole.

1

hdr

E’ altamente ornamentale per i suoi fiorellini rosa, per la durata delle sue fioriture spettacolari e abbellisce l’aiuola assieme ad altre piante che consentono abbinamenti cromatici molto gradevoli. Si coltiva in tutti i climi grazie alla sua particolare resistenza al caldo, al freddo, al vento, alle malattie, alla polvere e all’inquinamento atmosferico. Si adatta a qualsiasi tipo di terreno, anche se predilige quelli argillosi, ricchi di sostanza organica e sufficientemente irrigati, ma teme i ristagni d’acqua.

 

 

Sep 20, 2013 - Senza categoria    Comments Off on IL ROSMARINUS OFFICINALIS DELLA MIA CAMPAGNA A LICATA

IL ROSMARINUS OFFICINALIS DELLA MIA CAMPAGNA A LICATA

Rosmarino 1

   Caro Rosmarino, amatissima pianta!
Ti ho scoperto nella valle Romei, lungo il torrente Santo Stefano, nel territorio di Mistretta, a circa 630 metri d’altezza nascosto nell’impenetrabile macchia mediterranea dove stentavi a crescere per il clima molto freddo. Sicuramente avresti avuto poche possibilità di superare l’inverno mistrettese!
Eri una piantina piccola, esile, allungata, con le radici soffocate dalla terra nera di castagno in un incavo della roccia, ma già allora emanavi un intenso profumo aromatico che mi ha fatto scoprire la tua presenza.
Ti ho portato in contrada Montesole – Giannotta, nella  montagna di Licata, dove eri assente e dove ti sei facilmente ambientato. Ti ho curato, ti ho innaffiato, ti ho parlato piano, piano e tu hai ascoltato.
Tu, Rosmarino, hai capito! Sei cresciuto in breve tempo. Sei diventato un arbusto cespuglioso, robusto, sempreverde, ramosissimo. Ti sei riprodotto spontaneamente per divisione del tuo cespo, hai invaso la mia campagna, hai formato siepi alte e vigorose, hai abbellito viali, ti sei messo al riparo dei muri esposti a mezzogiorno o su rupi soleggiate, quasi inselvatichito, hai circondato lampioni. Ti sei bene inserito nella gariga della montagna di Licata e ti sei adattato all’ambiente per te nuovo.
Come me che, ho lasciato Mistretta per vivere a Licata.

 

 

CLICCA QUI

 

 

Il nome del “Rosmarino”, derivante dal latino “Rosmarinus”, composto da “ros”, “rugiada” e “marinus”, “marino“, significa “rugiada del mare”, vuol dire che cresce spontaneo normalmente in prossimità del mare. Oppure il suo nome deriva da “rosa” e “maris”, vale a dire “rosa di mare”. Fournier afferma che “ros” è avvicinato a “rhus” che significa “arbusto”. Allora il Rosmarino è “arbusto di mare”.
I greci, per il suo profumo somigliante a quello dell’olibano, antico nome dell’incenso, lo chiamavano “libanotis” in memoria del giovane sacerdote Libanus il cui sangue, secondo un’antica leggenda, dette origine alla pianta.
I daci lo chiamavano “dracontos”. Nelle regioni d’Italia assume tantissimi nomi dialettali: in Sicilia “ Rosamarinu”, in Sardegna “Arromarin”, o “Ozzipirri” o “Romasinu”, in Toscana “Trosmarina”, in Lombardia “Osmani”, in Veneto “Sgulmarin”, in Campania “Landola”, in Umbria “Tresomarino”, a Roma “Tresmarino”, a Licata “Rusamarinu”, a Mistretta “Rosamarina”.

 Rosmarino 2

 Il Rosmarinus officinalis è una delle più rappresentative piante della flora mediterranea, ma, naturalizzato, si è spinto nella Svizzera meridionale, nella Spagna, sul Plateau-Central in Francia, sui Pirenei.
Si è diffuso spontaneamente, oltre che nel continente europeo, anche in Africa ed in Asia nelle zone che si affacciano sul Mediterraneo. In Italia è presente in tutto il territorio, dalla Liguria alla Sicilia, spontaneo o coltivato, dal piano fino ai 1000 metri d’altezza.
Predilige i luoghi sassosi, le rupi, gli arenili marini in prossimità del mare. Il Rosmarino è un arbusto cespuglioso robusto, sempreverde, ramosissimo, appartenente alla famiglia delle Labiate.
Presenta fusti alcuni prostrati, altri ascendenti e molto ramificati che possono superare i due metri d’altezza. Il fusto è duro, resistente, ma fragile, si spezza facilmente, non si piega alla forza delle intemperie. Le foglie, molto aromatiche, persistenti durante l’inverno, assai coriacee, inserite direttamente sui rami, sono sessili, lineari, intere, opposte, con i margini arrotondati rivolti verso il basso; sono di colore verde scuro intenso e lucide sulla pagina superiore, di colore bianco e tomentose su quella inferiore.
Di solito, il Rosmarino, da gennaio a dicembre, è carico di piccoli fiori di colore azzurro – violetto che, con la loro fragranza, attirano ogni giorno centinaia di insetti impollinatori.

rosamrino ok

rosmarini fiori ok

Le api sono gli assidui pronubi del Rosmarinus officinalis alle quali i fiori forniscono grandi quantità di nettare e di polline.
I fiori, ermafroditi ed irregolari, raggruppati in grappoli, si distribuiscono su corte infiorescenze racemose. Il calice ha forma campanulata, la corolla è imbutiforme con il labbro superiore a forma di elmo bilobo, mentre il labbro inferiore ha tre lobi di cui quello mediano è concavo e molto largo.
Gli stami fertili sono solo due e sono presenti anche due stami superiori sterili. L’ovario termina con un solo stigma. Il nettario è assai sviluppato e composto da un disco indiviso che circonda la base dell’ovario. Ogni fiore produce circa un milligrammo di nettare al giorno. Particolarmente in Spagna, nel Nord Africa e nel sud della Francia si producono ingenti quantità di miele di Rosmarino.
La moltiplicazione avviene per seme, ma più facile è la riproduzione per talea, da prelevare dopo la fioritura, o per propaggine. Le radici producono spesso polloni utilizzabili per la moltiplicazione.
La raccolta dei rami del Rosmarino può essere effettuata durante tutto il periodo dell’anno. Le foglie e le sommità fiorite si utilizzano subito o si fanno essiccare in un ambiente ombroso e ventilato.
Fra i suoi verdissimi rami una coppia di passerotti annualmente costruisce il proprio nido e spesso vi si nasconde il piccolo topo campagnolo.
Fra i fittissimi intrecci dei rami il Rosmarino sa favorire piacevoli  incontri. Il Rosmarino è conosciuto fin dall’antichità ed è stato da sempre coltivato non tanto per le virtù medicinali e per gli impieghi terapeutici, ma per le tradizioni rituali, religiose e magiche. Secondo Ermete, il dio egizio Toth, era la pianta del terzo decano dei Gemelli (il nono decano dello Zodiaco) che presiedeva appunto all’uso delle mani.
Nella simbologia arcaica è stato donato alla terra da Giove per servire alle libagioni, alle purificazioni, alle guarigioni usando le sue soluzioni mediante abluzioni manuali. I capitolati di Carlo Magno registrano che è stato inserito nell’elenco delle 73 specie di piante officinali e aromatiche che non devono mancare mai negli orti del suo regno.
I contadini erano obbligati a coltivare il Rosmarino in abbondanza nei loro campi.

IMG_20171114_113411 ok

Nel Medioevo il Rosmarino era piantato in tutti i giardini e, soprattutto, in quelli dei conventi. I faraoni egiziani, per profumare il viaggio nell’aldilà al momento della morte, mettevano alcuni rametti nella tomba e nelle mani del defunto, come se fosse una coroncina del rosario, per facilitare il viaggio di sola andata. Era la pianta funebre per eccellenza e, assieme al Cipresso, faceva compagnia ai morti.
A tal proposito Pitrè così esprime un suo proverbio siciliano: “Cci su tant’erbi nall’orti e cc’è la rosamarina pi li morti“. Per i romani era il simbolo “dell’amore e della morte”. Intrecciavano i rami del Rosmarino a quelli del Mirto e dell’Alloro le cui corone, durante i riti funebri, erano il simbolo “dell’immortalità dell’anima” assicurando ai morti una serena permanenza nell’oltretomba. Deposti nelle tombe, alcuni rametti di Rosmarino erano bruciati come l’incenso.
Orazio così recitava “Se vuoi guadagnarti la stima dei morti, porta loro corone di rosmarino e di mirto“. Se la morte si lega al passato, il passato è strettamente unito al ricordo, alla memoria. Ofelia, nell’Amleto, dando il rametto di Rosmarino a Laerte, così dice: ”Eccoti del Rosmarino, per i tuoi ricordi”.
Al Rosmarino sono legate le tradizioni che descrivono “la vita, le nozze, la fedeltà coniugale, la felicità, la gioventù, la salvezza”. Col tempo, queste assurde superstizioni popolari sono decadute. Esse facevano comprendere la debolezza dell’uomo, che vedeva, in azioni per lui incomprensibili, il motore che avrebbe dovuto sollevarlo dalla sua deprecabile condizione umana ed elevarlo in un mondo ideale trascendente le leggi a lui note.
Pianta rustica, il Rosmarino è utilizzato per formare siepi e bordure dei giardini. Non necessita di terreni particolarmente ricchi crescendo bene anche in quelli poveri e calcarei, ma asciutti. Posto in posizioni esposte al sole, manifesta il massimo effetto ornamentale. E’ una pianta che patisce l’umidità ed il freddo.
Attualmente, il Rosmarino è coltivato prevalentemente come pianta aromatica.

IMG_20171114_113435 ok

A Mistretta, quando ero bambina e i passatempi di allora non erano quelli di oggi, nei pomeriggi d’inverno, una donna anziana, la “za’ Tana”, faceva disporre in circolo, attorno al braciere riempito di carboni ardenti il cui calore rendeva più sopportabile il freddo intenso della montagna, noi, ragazzini del vicinato, intrattenendoci con lungi racconti siciliani, “i cunti”.
Essi erano ricchi di evocazioni, sempre rinarrati e ridisegnati nei loro ampi, mitizzati valori antropici. Sprofondava comodamente sulla sua vetusta poltrona, si sistemava lo scialle nero sulle spalle, appoggiava entrambe le mani sullo scaldino infuocato posto sulle ginocchia e i gomiti sui braccioli, sovrapponeva l’uno sull’altro i piedi avvolti in pesanti babbucce di lana verde, distoglieva lo sguardo da noi dirigendolo verso il fuoco, che presto avrebbe avuto bisogno di un altro ciocco.
Era molto brava ad animare i quadretti articolando sensi e significati con gesti, con parole, con voce ora aspra, ora suadente, ora lamentosa, ora allegra. Noi bambini pendevamo dalle sue labbra e, quando si fermava per accentuare la scena, la spingevamo a continuare con un “e poi, e poi…”    Così iniziava: “si pigghja e-ss’arracunta” che c’era una volta una regina sterile desiderosa di diventare presto madre.
Un giorno, passeggiando nel suo giardino, si fermò ad ammirare una pianta di Rosmarino carica dei suoi figli, “i fiori”. Inaspettatamente anche lei scoprì d’essere gravida. Diede alla luce una pianta di Rosmarino che innaffiava quattro volte al giorno col suo latte. Il principe, suo nipote, per dispetto, gliela rubò, la nascose fra i fitti tralci di un roseto bagnandola col latte d’asina.
In una magnifica mattina di sole il suono del suo flauto fece emergere dalla pianta di Rosmarino una bellissima giovanetta di cui presto s’innamorò. Dovendo partire per la guerra, egli lasciò la sua preziosa pianta in custodia all’affidabile giardiniere.
Un giorno, la giovane, richiamata dal convincente suono dell’ammaliante flauto, che le quattro curiose e brutte sorelle del principe avevano usato, si distaccò dalla pianta. Invidiose della sua bellezza, cominciarono ad insultarla. Da quel momento la pianta di Rosmarino iniziò a svigorirsi ogni giorno di più.
Il custode giardiniere, ignaro dell’inganno delle sorelle, per paura di essere punito dal principe al suo ritorno, si nascose e si addormentò.
A mezzanotte la possente voce del dragone, che raccontava alla sua compagna la storia della giovanetta – Rosmarino, lo svegliò all’improvviso.
Capì che la pianta sarebbe ritornata verde, rigogliosa, vitale solo se fosse stata innaffiata con il sangue del dragone e della sua compagna. Il servile e fedele giardiniere non aspettò oltre, colpì con pietre e con bastone i due sventurati. Li ammazzò. Con il loro sangue irrorò la pianta. Spezzato l’incantesimo, la giovanetta subito rifiorì.
Al ritorno del principe lei era ancora più bella e pronta a donare il suo amore. Il principe sposò la sua “Rosmarina”. E vissero felici e contenti! Morale della favola? Come alla notte (il sangue del dragone) segue la rosata aurora (L’Aurora che illumina il cielo d’Oriente prima del sorgere del sole), così alla morte segue la vita.

 Rosmarino 3

La tradizione popolare andalusa associa il Rosmarino al concetto di “salvezza”. Durante la fuga in Egitto, per sfuggire ai soldati di Erode, il Rosmarino ha nascosto tra le sue fronde la Vergine Maria e il Bambin Gesù.
I suoi primi fiori sbocciano proprio nel periodo della Passione perché la Madre Maria stendeva ad asciugare sulle fronde del Rosmarino le fasce del suo Figlio diletto. Da allora i fiori hanno il colore del cielo.  Le tradizioni popolari magiche e rituali decadenti lasciano il posto alle sue proprietà medicamentose.
Castore Durante, vissuto nel 1500 alla corte papale di Sisto V, famoso per la sua attività di medico, di botanico e di poeta, nel suo “Herbario Novo” ha descritto gli impieghi terapeutici delle foglie, dei fiori, dei semi, delle radici di piante dell’Europa e delle Indie occidentali e orientali e tra queste, naturalmente, del Rosmarino. Il Codex Julianae Aniciae, trattato in 14 volumi del medico e botanico greco Dioscoride dove sono raffigurate 3100 piante provenienti dai cinque continenti, nel 1500 lo definì la pianta dalla panacea universale e affermò: ”Prendi fiori di Rosmarino, legali in un panno velino et falli bogare in aqua, e così vale a tutte le infermità”.
Era molto utilizzato anche durante le orge, i banchetti, le feste erotiche per il suo profumo inebriante e canforato. Era utilizzato come combustibile, in sostituzione dell’incenso molto costoso, per il profumo acuto e penetrante. Pare che gli etruschi abbiano ricavato dalle sue foglie e dalle sommità fiorite un olio essenziale molto aromatico e balsamico con potere afrodisiaco. Per le sue foglie sempreverdi, nel Medioevo era il simbolo “dell’amore eterno”; le promesse spose, semplici e fiduciose, portavano in mano un rametto di Rosmarino.
I francesi lo chiamavano “incoensier” e lo usavano per le sue proprietà antisettiche, per fumigare le stanze degli ammalati sterilizzando un poco l’ambiente. Degne di essere ricordate sono alcune preparazioni a base di Rosmarino per la cura delle malattie.
Famosissima è l’”Acqua della regina d’Ungheria” che testualmente scrive: ” […] Io, Donna Isabella, regina d’Ungheria, di anni 72, inferma nelle membra ed affetta da gotta, ho adoperato per un anno intero la presente ricetta donatami da un eremita mai da me conosciuto, la quale produsse su di me un così salutare effetto che sono guarita ed ho acquistato le forze, sino al punto da sembrare bella a qualcuno. Il re di Polonia mi voleva sposare, ma io rifiutai per amore di Gesù Cristo. Ho creduto che la ricetta mi fosse donata da un angelo. Prendete l’acqua distillata, quattro volte 30 once, 20 once di fiori di rosmarino, ponete tutto in un vaso ben chiuso, per lo spazio di 50 ore: poi distillate con un lambicco al bagnomaria.
Prendete una volta la settimana una dramma di questa pozione con qualche altro liquore o bevanda o anche con la carne. Lavate con essa il viso tutte le mattine e stropicciate con essa le membra malate. Questo rimedio rinnova le forze, pulisce le midolla, dà nuova lena, restituisce la vista e la conserva per lungo tempo: è eccellente per lo stomaco e per il petto
[…] ”.
Quest’acqua miracolosa ha curato anche Luigi XIV da un reumatismo che lo affliggeva ad una spalla e ad un braccio. Madame de Sevignè, guarita da lancinanti dolori reumatici, così decantò le virtù della sua acqua:   “Essa è divina; io me ne inebrio tutti i giorni. Io la trovo buona contro la tristezza. Io ne sono folle, è il sollievo di tutti i dispiaceri”. Nell’antichità era stato usato in cosmesi come tonico rinfrescante e rivitalizzante.
La regina Elisabetta d’Ungheria ha apprezzato le sue qualità cosmetiche detergendosi quotidianamente il viso con l’acqua del suo infuso, detta “acqua ungherese“, mantenendo miracolosamente fresche le sue guance e garantendole la giovinezza. Caterina Sforza, signora di Forlì, ha battezzato il suo famoso prodotto col nome di “Acqua Celeste” che ha ottenuto distillando tre volte il Rosmarino, la Salvia, il Basilico, il Garofano, la Menta, la Noce moscata, il Sambuco, il Ginepro, la Cannella, le Rose bianche e rosse, l’Anice, l’Incenso.
Nel settecento era stato un importante elemento dell’acqua di colonia “acqua admirabilis“. Come pianta medicinale, secondo Dioscoride, era utilizzata per facilitare la funzione renale ed epatica e per combattere le infezioni intestinali. Era un rimedio efficace contro la gotta, la scabbia e i pidocchi.
Gli arabi cospargono ancora oggi il suo olio sul cordone ombelicale dei neonati per la sua azione antisettica.
E’ tradizionale l’uso dell’olio aromatico estratto dai suoi germogli per combattere le affezioni del cuoio capelluto, per stimolare la crescita dei capelli, per distruggere la forfora.
L’olio è usato anche per preparare profumi, cosmetici, saponi. L’acqua aromatica al Rosmarino, utile in lozioni e in massaggi rigeneranti, energizzanti, rivitalizzanti rende la pelle elastica e lucida grazie al principio attivo, la canfora, che stimola e tonifica i muscoli. Sotto forma di sedativo, agisce contro il mal di testa d’origine nervosa e contro le forme reumatiche.
Con i bagni caldi medicati combatte la stanchezza e l’esaurimento; l’infuso di foglie di Rosmarino è un potente regolatore del ciclo mestruale. Ancora oggi sa essere utile all’apparato digerente perché facilita la digestione, svolge azione colagoga e trova ottima applicazione nelle colecisti croniche perché antispasmodico.
Aiuta l’apparato renale perché è diuretico e il cuore perché fa innalzare la pressione sanguigna.  L’aromaterapia, anche se ha acquistato fama in tempi recenti, tuttavia era anticamente usata.
Il Donzelli, nel “Teatro Farmaceutico”, così descrive l’azione dell’ ”Oglio di Rosmarino distillato”: “ […] Corrobora il cerebro e dilata il cuore, togliendo anche i deliqui d’animo, scalda lo stomaco e fa venire l’appetito, mondifica il sangue, resiste a tutti i veleni, conferma i denti, e toglie le corruzioni di essi, cacciandone anche i vermi. Conferisce al petto, levando l’impedimento del respirare, ed apre l’ostruzioni del fegato e del polmone, e fa buon colore in faccia: conforta i nervi, e conferisce ai tisici, mondifica l’utero, lo ferma nel suo luogo, e lo dispone a concepire, e conforta tutti i vasi e i nervi. Per gli apoplettici, e per chi ha perduto la voce per causa fredda, si esperimenta efficacissimo; onde ragionevolmente le virtù di quest’oglio si equiparano a quelle del vero balsamo. Il modo di adoperarlo è di berne quattro gocce col vino bianco, oppure ponere quelle quattro gocce sopra un poco di zucchero, e poi mangiarselo, e finalmente si può pigliare con qualsiasi sciroppo appropriato. … Circa il tempo proporzionato in questo clima, dovrà farsi nel mese di agosto, perché in altro tempo se ne cava quasi niente […]”. E’ abbastanza!   Per tutte queste sue proprietà, il Rosmarino è stato molto apprezzato dall’uomo da sempre!
Pur tuttavia, nei tempi moderni è scarsamente stimato per scopi curativi e fisioterapici.    Tutte le massaie italiane lo adoperano usualmente in cucina in svariatissimi piatti tanto da trovarlo, raccolto a mazzetti, in tutti i negozi assieme alla frutta e alla verdura. I suoi giovani rametti, carichi di foglie, sono universalmente impiegati perché danno sapore agli arrosti di carne e di pollo a cui donano maggiore digeribilità e aromatizzano il vino detto “al Rosmarino“.
Per il suo potere antisettico è aggiunto alle marinate di carne per preservarle dalla putrefazione. Si valorizza la sua fragranza racchiudendolo in tanti profumatori realizzati con sacchetti d’organdis forati, a forma di cuore, impreziositi da pizzi e da merletti.
Con i suoi ramoscelli, assieme a quelli del Timo, alle foglie di Salvia, ai petali di Rosa e di Lavanda, ai fiori di Gelsomino, tutti preventivamente essiccati all’ombra, a qualche chiodo di Garofano e ad un bastoncino di Cannella, si ottiene una profumazione intensa e raffinata. E’ gradevole togliere la biancheria dai cassetti e dagli armadi e sentirla profumare di aromi dal tono esotico.
Per me è ancora più importante perché ogni volta che incontro una pianta di Rosmarino mi ricordo di mio padre Giovanni che mi ha trasmesso questo grande amore per la Natura.
Mi ha regalato una pianticella di Rosmarino prelevata in campagna, in contrada Scammari, e che ho trapiantato a Licata. Mi risuona ancora alle orecchie la melodiosa voce di mia madre che, per conciliare il sonno a Lucia e a Maria Grazia, le mie nipoti, mentre le cullava teneramente, cantava le note della bellissima ed antichissima ninna nanna popolare siciliana:

La siminzina

Vo e larivò ora vidi lu basicò

e ti porta la siminzina, la rosa marina e lu basinicò.

 

O figlia mia lu Santu passà

e di la bedda minni spiau

e iu ci dissi la bedda durmia

e dormi figlia di l’arma mia.

 

O figlia mia lu Santu passà

e di la bedda minni spiau

e iu ci dissi la bedda durmia

e dormi figlia di l’arma mia.

 

Vo,vo,vo, dormi figlia e fai la vo.

Vo,vo,vo, dormi figlia e fai la vo,

e fai la vo e fai la vo.

L’ho riascoltata dalla calda voce della cantante folk licatese Rosa Balistreri che, nel suo repertorio, ha custodito le tradizioni popolari siciliane. Nel linguaggio dei fiori il Rosmarino significa “potere consolatore”.

Fra storia e leggenda: PLutarco racconta che Giulio Cesare, quando era governatore della Gallia Cisalpina, assieme ai suoi fedelissimi fu invitato a partecipare  una cena presso la casa di una notevole personalità milanese.
Il piatto di asparagi,  invece di essere condito con l’olio di oliva, fu condito col burro allora usato dai romani come unguento cosmetico.
Il piatto fu scarsamente apprezzato dagli invitati lasciando nello stupore i generali romani.
Allora Giulio Cesare, che non voleva guastare i buoni rapporti con le autorità milanesi, pronunciò la famosa frase: “ De gustibus non  disputandum est” “Sui gusti non  si discute”.

 

 

Sep 11, 2013 - Senza categoria    Comments Off on BUDDLEIA COLVILEI L’ALBERO DELLE FARFALLE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

BUDDLEIA COLVILEI L’ALBERO DELLE FARFALLE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

1 OK

Il laghetto del giardino all’italiana “G.Garibaldi” di Mistretta in questo periodo è circondato da diverse  piante di Buddleia dai fiori violetti che richiamano molte farfalle, abbelliscono e profumano l’ambiente.
La Buddleia è un genere di arbusti e di alberi sempreverdi o caducifoglie costituito da circa un centinaio di specie notevoli per le infiorescenze i cui fiori si raccolgono in lunghe pannocchie. L’area nella quale vivono le specie del genere Buddleia allo stato spontaneo è molto ampia: dall’Estremo Oriente all’America del Sud. In quest’ultima regione è diffusa la Buddleia globosa, originaria del Cile, una delle prime piante ad essere importata nei giardini europei.
Dall’Asia invece provengono diverse specie native dell’Himalaya e del Giappone e si sono trovate specie anche nel Madagascar.
L’introduzione delle prime specie nel giardinaggio europeo risale alla fine del 1700 e in Italia sono praticamente presenti ovunque.
Tutte le specie sono costituite da ciuffi di lunghi steli arcuati ricoperti dalle foglie lanceolate, di colore verde scuro, con la pagina inferiore bianca o grigia. Dall’inizio dell’estate fino all’autunno producono grandi spighe di bellissimi fiorellini tubulari, delicatamente profumati e molto colorati di rosa, di bianco o di lilla che, grazie al loro profumo e ai colori vivaci, sovente, durante le ore più calde del giorno e al calar del sole, sono visitati da molte varietà di farfalle. Le farfalle, infatti, si nutrono del nettare di alcune specie particolarmente colorate e fragranti. Per questo motivo la Buddleia èchiamata “l’albero delle farfalle”.

https://www.youtube.com/watch?v=R1AyYwg6tdc

CLICCA QUI

2 OK

Inizialmente, il genere Buddleia fu assegnato alla famiglia delle Buddleiaceae, successivamente alla famiglia delle Loganiaceae e, infine, alla famiglia delle Scrophulariaceae. Benché alcune specie sono utilizzate come piante officinali, la maggior parte di esse è coltivata per i fiori che assomigliano a quelli dei  Lillà. Di tutte le Buddleie, la Buddleia davidii, d’origine cinese, è la specie più resistente e maggiormente coltivata.

2

Il nome del genere “Buddleia” deriva dal pastore inglese Adam Buddle (1662 – 1715), medico, botanico e rettore nell’Essex. Non fu lui lo scopritore del genere Buddleia, ma il dottor William Houston, medico e naturalista scozzese che, nel 1730, si trovava in Sud America per cercare di scoprire nuove piante.
Quando si trovò davanti ad una delle nostre amiche, decise di dedicarla al reverendo Adam Buddle, colui che ha inventato un particolare sistema di costruzione dei “libri viventi“, ossia degli erbari compilati secondo un suo nuovissimo sistema.
Il naturalista svedese Karl von Linné lo usò, poi, nei suoi cataloghi. Nell’ambito del genere Buddleia le varie specie si usano dividere in sezioni e sottosezioni secondo la dimensione della corolla, il tipo d’infiorescenza e il colore dei fiori.
Le specie più diffuse sono:la Buddleia colvilei, a fiori a corolla grande, la Buddleia japonica, la Buddleia lindleyana, la Buddleia asiatica, la Buddleia madagascariensis, la Buddleia globosa, sempreverde che fiorisce sui rami dell’anno precedente, la Buddleia davidii, spogliante e che fiorisce sulla vegetazione nuova attirando un gran numero di farfalle.
Esistono specie rustiche e specie non rustiche, da serra fredda e da serra temperata, a foglie caduche e a foglie persistenti. Un’altra particolarità distingue le piante: quelle provenienti dall’America sono dioiche, mentre quelle provenienti dall’Asia sono monoiche.

4B

6 OK

5 OK

La Buddlea colvei, specie presente nel giardino di Mistretta, originaria dell’Himalaia,  ha un portamento ad alberello su un fusto quadrangolare alto 1,50 metri e sostenuto da radici non molto profonde.
La parte lignificata dell’arbusto presenta una corteccia chiara e fessurata longitudinalmente.
I rami nuovi sono invece ricoperti da una leggera peluriaLe foglie sono caduche, opposte, ellittiche, acute, ruvide, di colore verde scuro nella pagina superiore, glabre e lucenti sulla pagina inferiore.
I fiori, tetrameri, ermafroditi, grandi, tubulari, penduli, di colore rosso-violaceo sono riuniti in racemi terminali lunghi circa 30 centimetri e a sviluppo piramidale. Quando la pianta è in piena fioritura sono ricchi di nettare e le corolle emanano un lieve, ma soave profumo che spazia dalla fragranza della vaniglia a quella del miele.
Sbocciano dal mese di giugno e per tutta l’estate, fino ai primi freddi. La fioritura avviene sui rami dell’anno.
Il frutto è una capsula biloculare che può contenere moltissimi semi minuti. Si riproduce con molta facilità per seme, ma il sistema più usato è la talea legnosa, che si prepara in autunno, e la talea semilegnosa, che si prepara in estate utilizzando i rametti laterali. Solitamente queste piante tendono ad autoseminarsi, ma spesso le piante figlie non producono fiori identici a quelli della pianta madre.
Nei giardini le Buddleie sono coltivate esclusivamente a scopo ornamentale e disposte in modo sparso in quanto la forma arbustiva si presta meglio ad una disposizione isolata. Le Buddleie sono piante poco esigenti, gradiscono posizioni calde e soleggiate, ma anche l’ombra parziale dove, però, non fioriscono copiosamente, e al riparo dai venti.
Crescono in qualsiasi terreno da giardino purché ricco di materia organica, sciolto e ben drenato. Preferiscono il clima secco al clima umido, quindi non necessitano di molta acqua. Esigono normali annaffiature, maggiori qualora l’andamento stagionale è siccitoso e quando il terreno è asciutto e secco. In autunno e in primavera è bene interrare del concime organico ai piedi della pianta per garantire la giusta quantità di sostanze nutritive. Solitamente non temono il freddo, anche se in luoghi con inverni molto rigidi può accadere che la parte aerea si secchi completamente, ma, in primavera, una nuova pianta germoglierà.
Alcune varietà di Buddleie richiedono un’energica potatura primaverile prima della ripresa vegetativa per mantenere una forma compatta della chioma e per ottenere un’abbondante e prolungata fioritura.
La Buddleia colvilei va potata dopo la fioritura poichè produce fiori sul legno dell’anno precedente.
Per prolungare la fioritura, bisogna cimare tutte le spighe dei fiori appassiti.  Le Buddleie non sono colpite facilmente da malattie e da parassiti. Tuttavia le malattie virali provocano macchie e accartocciamenti delle foglie. In questo caso occorre tagliare e bruciare le piante. Gli afidi, che sono i vettori delle virosi, vanno combattuti con prodotti specifici.

Sep 1, 2013 - Senza categoria    Comments Off on SYRINGA VULGARIS

SYRINGA VULGARIS

Syringa 1

   Il nome scientifico Syringa deriva dall’antica denominazione greca “σΰριγξ” “siringa, canna, tubo“, originariamente attribuita a tutte le specie del genere Philadelphus,”fior d’angelo“, che erano chiamate comunemente “Siringa“. Linneo scelse la denominazione latina “Syringa” per indicare gli arbusti chiamati “Lillà” in francese e “Serenelle” in italiano, sinonimi della stessa pianta. Il termine “vulgaris”, “volgare, comune” giustifica il suo frequente incontro nei giardini. Originaria della Turchia, della Persia, della Cina, dell’Asia e dell’Europa orientale, la Syringavulgaris si diffuse negli altri Paesi già nel ‘500. E’ stata introdotta in Austria da un ambasciatore dell’imperatore Ferdinando I° che la ricevette in dono dai giardini di Costantinopoli. Alla fine dell‘800 raggiunse il periodo di maggior apprezzamento ma, nel secolo scorso, andò incontro ad un declino tanto rapido quanto inspiegabile. La pianta è ritornata nei giardini a mostrare la bellezza e il profumo dei suoi fiori accompagnandosi alle ortensie, alle rose, ai girasoli, ai tagetes. Una leggenda popolare, ispirandosi ai miti della Grecia, spiega l’origine del nome scientifico. Siringa era una bellissima ninfa dal portamento morbido e dagli occhi di cerbiatta. Trascorreva piacevoli, tranquille e spensierate giornate a caccia di cervi e di cinghiali nei verdissimi e profumatissimi boschi del Peloponneso in compagnia di Artemide fino a quando Pan, il dio demone dei boschi, dei pastori e del bestiame, per metà uomo e per metà con gambe e coda di caprone, disgustoso nell’aspetto e selvaggio negli atteggiamenti, non s’innamorò disperatamente della splendida fanciulla. Siringa, rifiutando decisamente le attenzioni del rozzo dio, preferì trasformarsi in una semplice pianta, il Lillà appunto. In realtà, secondo il mito greco, Siringa si trasformò in una canna del bosco.

 Syringa 2La “Syringa vulgaris”, o “Lillà comune”, è un arbusto appartenente alla Famiglia delle Oleaceae alto da cinque a sette metri se coltivato in piena terra. Ha il tronco diritto, rivestito dalla corteccia, e i rami ascendenti. Le foglie, caduche, opposte, intere, cuoriformi sono di colore verde vivo. I fiori, profumati, dal caratteristico colore lilla – violetto, riuniti in infiorescenze a pannocchia conica, si formano sui rami dell’anno precedente. Le corolle, dall’aspetto delle quali la pianta ha preso il nome, sono tubolari – campanulate, formate da quattro lobi, e dolcemente profumate. La fioritura avviene nei mesi da maggio ad agosto e, osservando i fiori di Lillà, ritrovo sempre l’essenza gradevole della nuova primavera. Sembra che i suoi fiori, per il loro profumo, attirino moltissimo le farfalle. Sono note circa 500 varietà di piante coltivate e diversi ibridi di Syringa ottenuti in Francia che forniscono fiori odorosi, semplici o doppi, dalle varie tinte e dalle disparate sfumature. I colori sono: l’azzurro, il lilla, il viola, il rosso vivo, il giallo, il rosa, il crema. La moltiplicazione si effettua non solo attraverso il seme, ma anche per talea erbacea in giugno, per talea legnosa in agosto, oppure per divisione dei polloni radicali. La piantagione si esegue in autunno o alla fine dell’inverno. La Syringa ornamentale vegeta bene come esemplare isolato, ma accetta la compagnia in gruppo di altre sue sorelle per colorare, con policrome tinte, le zone meno centrali e meno visitate del giardino di Mistretta. L’arbusto di Syringa era diffusissimo nei giardini privati delle ville patrizie già nei primi anni del ‘900. Il romanziere francese Marcel Proust, ( Parigi 1871 – 1922), innamorato del fiore di Lillà, nella sua “Á la recherche du temps perdu” ,“Alla ricerca del tempo perduto”, così scriveva: “[…] E si usciva dalla città per il sentiero che passava lungo il muro bianco della tenuta di Swann. Prima di arrivarci s’incontrava, venuto ad accogliere i forestieri, il profumo dei suoi lillà. Essi stessi, di tra i piccoli cuori verdi e freschi delle loro foglie, levavano incuriositi al di sopra del muro del parco i loro pennacchi di piume color malva o bianche, lucenti, anche all’ombra per il sole che le aveva irrorate […]”. Oltre agli indiscutibili pregi decorativi, la pianta ne possiede altri di carattere commerciale: dai suoi fiori viene prodotta una costosissima essenza, “l’olio di lilac“, dalle foglie si estrae un principio attivo utile per combattere la malaria, dai frutti e dalla corteccia si preparano rimedi contro la febbre.  Le Serenelle sono piante rustiche, di facile coltivazione, e, nel complesso, hanno poche esigenze ambientali. Crescono vigorosamente su un normale terreno da giardino. Gradiscono un’esposizione in pieno sole, sono resistenti al freddo, ma mal sopportano la prolungata siccità, pertanto necessitano di una discreta umidità del terreno bagnandolo due o tre volte durante la settimana quando l’acqua del cielo si fa desiderare. In autunno è necessaria la concimazione con un buon fertilizzante organico. Non sono necessarie le potature poiché le spighe fiorali si formano proprio all’apice dei rami. Per conservare l’aspetto elegante della pianta è sufficiente asportare le infiorescenze appassite. La Syringa soccombe all’invadente e temibile suo nemico: il “Trochilium denudatum”, la “Zeuzera“, una bellissima farfalla bianca punteggiata di blu.  Essa depone le uova tra i suoi rami. Le larve, appena schiuse, cominciano a rodere il legno del tronco scavando profonde gallerie nelle quali vivono sino al momento della metamorfosi in farfalla. I danni arrecati sono irreversibili tanto da provocare la morte anche alle piante adulte, robuste e sviluppate. Per distruggere le larve di Zeuzera bisogna otturare l’ingresso della galleria, facilmente individuabile per la presenza di mucchietti di segatura ai piedi della pianta, con un batuffolo di cotone imbevuto di benzina e sigillarlo con della colla. Il fiore di Lillà ha anche un suo particolare linguaggio: simboleggia la “giovinezza” perchè richiama immagini di freschezza e di grazia. In molte nazioni europee la varietà a fiore bianco candido è utilizzata, oltre che per ornamento, come tutte le altre, anche per addobbi floreali delle cerimonie nuziali e per i battesimi.  In altri Paesi, invece, al Lillà è attribuito un significato di dolore probabilmente perché i colori lilla e viola dei fiori sono un segno di lutto. In Italia è il fiore dell’”emozione d’amore“. Esprime timidezza nel parlare d’amore con chi si ama. In Asia Minore significa “abbandono” e il messaggio dell’amante, che dona un ramoscello alla sua donna, esprime la volontà di chiudere il fidanzamento. In America e in Inghilterra il popolo crede che le ragazze che si adornano con i fiori di Lillà non si sposeranno mai e che incorreranno sicuramente in disavventure amorose, a meno che non è il primo giorno di maggio, il mese dei fiori.

 

Aug 28, 2013 - Senza categoria    Comments Off on ZINNIE

ZINNIE

zinnie sul laghetto

Fra tutte le entità floreali presenti nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta le Zinnie occupano un posto prevalente per quantità e per varietà di colori. Sul finire dell’estate, quando la Natura è ancora nel suo pieno rigoglio, il giardino di Mistretta si riempie di fiori dalle bellissime corolle dall’ampia gamma di colori e di gradazioni che vanno dal rosso al bianco. Sono le Zinnie, la cui fioritura, soprattutto nel giardino di montagna, prosegue fino all’autunno e rallegra la vista con chiazze di colore ancora brillante nonostante i primi freddi. Pianta originaria del Messico, del Colorado, del Cile, della Cordigliera delle Ande, la Zinnia fa parte della famiglia delle Asteraceae e comprende circa 20 specie. Il nome scientifico “Zinnia” è un omaggio del naturalista Linneo al botanico sir Johann Gottfried Zinn, (1727-1759), professore all’università di Gottinga nel ‘700 e suo allievo prediletto. Le prime Zinnie furono introdotte in Europa verso la metà del Settecento, ma la classificazione di tutte le specie fu completata soltanto verso la fine del secolo scorso. La pianta, però, ottenne poco successo come fiore ornamentale perché ritenuto troppo povero.

zinnia

La coltura di questa graziosa pianta annuale è abbastanza facile. Cresce ovunque con un rapido ritmo. Quasi tutte le Zinnie coltivate nei giardini sono di origine orticola, cioè ottenute mediante ibridazioni e incroci delle specie originarie e, in particolare della Zinnia elegans originaria del Messico e dell’America centrale e dalla quale differiscono in modo notevole per l’altezza e per la forma delle corolle. La specie più coltivata nel giardino di Mistretta è esattamente la Zinna elegans. La Zinnia ha l’aspetto di un semiarbusto cespuglioso, erbaceo, annuale. Ha il fusto alto circa 70 centimetri, rigido, a portamento eretto e da cui si dipartono semplici ramificazioni. Le foglie sono ovali, spesse, allargate, opposte, ruvide, a margine liscio, di colore verde scuro. I fiori terminali, solitari, riuniti in capolini grandi, sono sorretti da peduncoli vigorosi, rigidi, che si gonfiano verso la sommità. I capolini sono forniti del disco cilindrico di fiori ermafroditi e di fiori femminili che spiccano a raggiera per le loro ligule ampie e dai colori più vari: dal bianco, al rosa pallido, al rosso porporino, al giallo aranciato, al violetto. I colori dei fiori sono svariati per le diverse varietà esistenti. La fioritura abbondante, che si estende da giugno ad ottobre, dà la maggiore esplosione alla fine del ciclo biologico. I frutti sono degli acheni appiattiti e non alati. La moltiplicazione avviene facilmente per seme, in primavera, utilizzando i semi dell’anno precedente posti in un luogo riparato e trapiantando le piantine quando hanno quattro foglioline facendo attenzione a non sciupare le fragili radici.

zinnie con farfallla

La Zinnia è una pianta rustica, di facile adattabilità, anche se richiede un clima favorevole e un’esposizione in pieno sole o a mezz’ombra solo per poche ore al giorno. Ama molto le estati calde e tollera male il freddo e il vento. Cresce in qualsiasi substrato da giardino preferendo, comunque, i terreni sciolti, ben drenati e ricchi di materia organica. Non necessita di grandi quantità d’acqua e resiste bene a brevi periodi di siccità. Ogni 20 giorni gradisce il fertilizzante sciolto nell’acqua delle annaffiature. La troppa acqua potrebbe favorire la comparsa della Cocciniglia farinosa e delle muffe. Non sono necessarie violente potature della Zinnia, bisogna solo eliminare i fiori appassiti. La Zinnia è coltivata nel giardino e, grazie alla lunga durata dei capolini e alla varietà di colori, apporta un indubbio valore cromatico alle aiuole. Risponde generosamente alle cure che le si dedicano ripagandole con fioriture smaglianti ed assai prolungate, ma non profumate. Nel linguaggio dei fiori la Zinnia, poiché non ha nulla di fastoso e cresce facilmente, è simbolo di “semplicità”. Infatti, non esiste fiore più semplice e più modesto della Zinnia. La semplicità è una dote che s’impone attraverso il tempo. La Zinnia ha lentamente conquistato il gusto dei floricoltori più raffinati e attualmente non vi è fioraio che non prepari bellissime, variopinte, allegre composizioni floreali di Zinnie. La Zinnia, industrialmente, è coltivata per la produzione del fiore reciso. Un accorgimento: per conservare le Zinnie recise il più a lungo possibile è bene immergere gli steli nell’olio di menta per alcuni secondi. Per evitare che il capo dei fiori appena colti reclini, un buon metodo è quello di introdurre i fusti delle Zinnie in un alto contenitore cilindrico contenente acqua. In questo modo nei vasi conduttori degli steli non s’infiltra l’aria che impedisce l’assorbimento dell’acqua favorendo, così, il reclinare dei fiori. Nel linguaggio dei fiori la Zinnia simboleggia la “civetteria e l’incostanza”.

 

 

Aug 8, 2013 - Senza categoria    Comments Off on GLI HELIANTHUS ANNUUS – I GIRASOLI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

GLI HELIANTHUS ANNUUS – I GIRASOLI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

girasole

 La villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta nel mese di Agosto è un’esplosione di fiori.
Si fa notare per per la sua forma, per la sua bellezza, per la sua altezza, per il suo colore solare il Girasole.
L’Helianthus annuus, il “Girasole”, è una grande pianta erbacea a ciclo annuale della famiglia delle Asteraceae.
Il nome Helianthus deriva dal greco “ήλιος άνθος” ,“sole fiore”, e dal latino “annuus”, “annuale” perché il suo ciclo vitale si esaurisce in un anno. Dai greci era chiamato “elianto”,“fior del sole”, per la doppia particolarità: quella di seguirlo e quella di rassomigliargli un pò.
Il termine italiano deriva dal fatto che il capolino ruota durante la giornata in direzione del sole, movimento noto come eliotropismo.
Il grandissimo capolino, la calatide, è quasi l’emblema stilizzato del sole che, erroneamente, si crede che lo segua nel suo movimento. La maggior parte dei capolini presenti in un campo di Girasoli fioriti guarda ad est, il punto cardinale da dove sorge il Sole.
Anche i boccioli di Girasole non ancora maturi mostrano già questo eliotropismo; in giornate soleggiate seguono il percorso del sole nel cielo da est verso ovest, mentre di notte e al crepuscolo tornano ad orientarsi verso est.
Il movimento è originato dalle cellule motrici del pulvino, un segmento flessibile dello stelo che si trova proprio sotto il bocciolo stesso.
Poiché durante le ore della giornata gira la corolla volgendosi verso il sole, il girasole simboleggia beatitudine e riconoscenza verso l’astro che gli permette di vivere.

https://youtu.be/hmIKqfW5s6o

CLICCA QUI

https://youtu.be/hnhArEOGZYE

CLICCA QUI

 

girasole 1

Il Girasole è una pianta dalle origini antichissime: nell’America settentrionale, infatti, sono stati trovati resti di questo fiore coltivato già mille anni prima di Cristo. Proviene dal Messico e dal Perù.
Nel 1500 il condottiero Francisco Pizarro scoprì che gli Incas consideravano il Girasole l’immagine del loro dio Sole e portò in Spagna semi e riproduzioni in oro del fiore.
La conoscenza del Girasole esisteva, però, già molto tempo prima che l’Helianthus degli Incas fosse portato in Europa. Gli Indiani d’America lo consideravano una pianta sacra in quanto consentiva all’uomo di farne molteplici usi.
Secondo una tradizione inca, i figli del dio Sole partirono alla volta della Terra per salvare gli umani dalla loro condizione selvaggia e brutale portando con sé un cuneo d’oro e l’immagine del padre raffigurata in un fiore, appunto, quello del Girasole.
I fratelli avrebbero deciso di stabilire la loro dimora là dove il cuneo si fosse piantato nella terra senza difficoltà.
Ciò accadde in Perù, nella valle chiamata Cuzco, ovvero “ombelico“, dove i figli del dio Sole si fermarono, piantarono il Girasole e regnarono per lungo tempo in modo magnanimo e tollerante.
In Perù il  Girasole è l’emblema del Paese.
Proprio dal Perù il Girasole fu per la prima volta importato in Europa nel 1596 per scopi ornamentali e officinali.
La pianta è stata usata prima a fini ornamentali fino al XIX secolo, successivamente, essendo di primaria importanza perché oleosa, è stata coltivata in quasi tutto il mondo a fini commerciali. Il Girasole fu molto apprezzato in Francia già dai primi anni del XVII secolo.
Il Re Luigi XIV, detto il Grande, il Re Sole, lo tenne in grande considerazione.
Durante l’età vittoriana, in Gran Bretagna, era disegnato su stoffe, inciso nel legno e forgiato nei metalli.
In Italia i poeti Eugenio Montale e Gabriele D’Annunzio hanno esaltato il Girasole nei propri versi.
Van Gogh li ha dipinti ricorrentemente nei suoi famosi quadri.
ll fiore di Girasole ha stimolato anche la fantasia di Ovidio.
Ne “Le Metamorfosi” racconta che Clizia, una bellissima fanciulla, per aver osservato volare nel cielo il carro di Apollo, il dio del Sole, di cui si era follemente innamorata, al nono giorno è stata trasformata in un bel Girasole. Il grande fiore del Girasole, il capolino, detto calatide, è composto da un affollamento di numerosi fiori.
I fiori che riempiono il capolino interno sono chiamati “fiori del disco“.

girasole 2

All’interno, il disco centrale più scuro, del diametro anche di 30 centimetri, è formato da piccoli fiori tubulosi, ermafroditi, alloggiati nel ricettacolo e disposti in archi spiraliformi, mentre all’esterno del disco sono disposti i “fiori dei petali”, ligulati, sterili, di colore giallo intenso e disposti radialmente.
La sistemazione dei fiori all’interno del disco avviene secondo la sezione aurea ottenendo uno schema a spirale. Alcune spirali girano in senso orario, altre in senso antiorario. Di solito ci sono 34 spirali in un senso e 55 nell’altro; in Girasoli molto grandi si possono trovare 89 spirali in un senso e 144 nell’altro.
Sul fondo dei fiori si trovano i nettari visitati dagli insetti, in particolare dalle api. L’ovario, l’organo riproduttore femminile, si allunga in uno stilo che si suddivide in due stimmi. Gli stami, gli organi riproduttori maschili, sono cinque ed hanno le antere fuse in una sorta di tubo che racchiude lo stilo.
La fioritura avviene in modo tale da impedire l’autoimpollinazione: durante il primo giorno di fioritura le antere si aprono e liberano i granuli di polline; nel secondo giorno lo stilo si allunga fuoriuscendo e aprendo gli stimmi, le parti recettive del polline, sopra le antere. La fioritura avviene da luglio ad ottobre.
Mediante movimenti di rotazione, durante la fioritura, la calatide tende a mantenersi costantemente perpendicolare alla direzione dei raggi del sole. Durante la notte assume la posizione orizzontale. I fiori del disco fecondati maturano e diventano semi.
Tuttavia, ciò che è chiamato comunemente seme, in realtà è il frutto della pianta. Quando sono impollinati dagli insetti, i fiori tubulosi interni si trasformano in frutti, gli acheni, ovoidali, allungati, dal colore scuro, o bianco o nero, variegati e, a volte, con nervature e ogni fiore ne può produrre da 100 fino a 8000. L
a pianta, sostenuta da una radice fittonante e da numerose radici secondarie, ha un fusto unico, robusto, scanalato, ramificato solo in alto che, in Europa, raggiunge i 2,5 metri di altezza mentre nei paesi d’origine anche i sei metri. Secondo la letteratura scientifica, nel 1567 a Padova è stato notato un Girasole di ben 12 metri di altezza.
Il Girasole “moderno” più alto è stato scoperto qualche tempo fa in Canada: era alto 8 metri. Il fusto, a maturità, tende a piegarsi per il peso della calatide. Il fusto, alla fine della fase della fioritura e della maturazione del Girasole, s’irrigidisce e si blocca in direzione est.
Per questo motivo i Girasoli fioriti non sono più eliotropici, anche se la maggior parte dei fiori si orienta nella direzione in cui sorge il sole. Le foglie, opposte in basso ed alterne in alto, sono cuoriformi, seghettate e sostenute da un lungo picciolo. Il Girasole compie il suo ciclo vegetativo durante la stagione estiva in 110-145 giorni.
La pianta di Girasole è largamente coltivata per la raccolta dei semi utili alla produzione dell’eccellente olio.
Sono commestibili ed hanno un sapore dolciastro.
I semi hanno un alto valore nutrizionale e contengono una buona quantità di proteine e di altre sostanze nutritive. Tostati sono usati come snack, specialmente in Cina, negli Stati Uniti e anche in Europa. Possono essere aggiunti alle insalate e ad altri alimenti per valorizzane il gusto. Sono impiegati, inoltre, nei mangimi per gli uccelli e per i roditori.
L’olio di Girasole è un alimento insapore ed è considerato uno dei migliori grassi alimentari. E’ usato in cucina come condimento e anche per la conservazione del pesce in scatola, dei vegetali in vasetti e per la preparazione delle margarine vegetali. L’olio di scadente qualità è utilizzato nell’industria dei saponi e dei colori.
I germogli chiusi, teneri e senza peli, si mangiano bolliti e ripassati al burro, oppure grigliati e conditi con olio e con sale.
Dal Girasole si produce anche il miele la cui quantità, scarsa fino a pochi anni fa, è molto aumentata a seguito del diffondersi di estese piantagioni soprattutto nell’Italia centrale.
Il miele di Girasole presenta caratteristiche generalmente poco apprezzate dal consumatore e la sua commercializzazione è difficoltosa.
Le regioni italiane più importanti per la coltivazione delle piante di Girasole sono: la Toscana, l’Umbria, le Marche, la Puglia, il Molise ed il Lazio. Nel giardino di Mistretta il Girasole è coltivato a scopo ornamentale per la sua bellezza.
Il Girasole è una pianta poco esigente e di facile adattabilità alle svariate condizioni climatiche.
Pur essendo una pianta termofila, è possibile coltivarla sia nelle pianure fresche ed irrigue dell’Italia settentrionale, sia nelle zone asciutte e calde della collina interna del centro della Sicilia, sia in montagna.
Per crescere bene, il Girasole necessita di un posto abbastanza ampio, di una buona esposizione al sole e di una sufficiente piovosità primaverile. Si adatta a tutti i tipi di terreno, anche se preferisce quelli fertili, umidi, ben drenati. Inoltre, presenta una moderata tolleranza alla salinità. Il Girasole è applicato nella scienza medica.
L’estratto dei suoi petali esercita un’azione esatta nella cura della malaria e della febbre in presenza di affezioni polmonari. L’olio dei semi è prezioso per l’apparato cardiocircolatorio perché, per il minor contenuto di grassi saturi rispetto all’olio d’oliva, previene l’arteriosclerosi.
La medicina russa utilizza le foglie e i fiori di Girasole per curare le malattie della gola e dei polmoni.
Il fiore di Girasole è il simbolo solare per eccellenza, comunica “allegria e orgoglio”, ma ha anche ispirato messaggi particolari: inviare un mazzo di Girasoli potrebbe significare: “accusare di falsità”. In realtà è un fiore che ispira “gioia”. Il Girasole simboleggia “adulazione, riconoscenza”.
Il Girasole è il fiore simbolo dello Stato del Kansas e uno dei fiori emblema della città di Kitakyushu in Giappone.
Nella civiltà inca era considerato il simbolo della “sovranità, la personificazione terrena del Sole divino”.
Il giallo chiaro del fiore esprime “la luce del sole, l’intelletto, l’intuito, la fede e la bontà”.
Per i cinesi è uno dei simboli “dell’immortalità”.
Per gli antichi popoli americani era il simbolo del Sole e ornava gli abiti e il capo dei sacerdoti e delle sacerdotesse durante le cerimonie dedicate al dio Sole.
I sacerdoti incas gli attribuivano poteri magici poiché avevano osservato che i semi, disposti lungo tre serie di spirali, si svolgevano in senso orario.
Nel linguaggio dei fiori il Girasole simboleggia, inoltre, “artificio, finzione”.

Jul 27, 2013 - Senza categoria    Comments Off on LA MAGNOLIA GRANDIFLORA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA MAGNOLIA GRANDIFLORA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

magnolia albero

Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta nella stessa aiuola si fanno compagnia, fiorendo quasi contemporaneamente, l’albero di melograno e l’albero delle magnolie.

CLICCA QUI

 

La Magnolia grandifolia, chiamata semplicemente “Magnolia”, nome attribuitole da Charles Plumier in onore del naturalista e scrittore francese Pierre Magnol (1638-1715), direttore del giardino botanico di Montpellier, in Francia, è una pianta d’origine asiatica ed americana e che si diffuse in Europa grazie a sir Joseph Banks che, di ritorno da un viaggio in Cina effettuato nel 1739, portò un cespuglio dalle foglie caduche e dai fiori bianchi.
La pianta, che apparteneva alla specie Magnolia denudata, in Italia è giunta un secolo dopo,esattamente nel 1823, facendo il suo ingresso in qualche giardino e negli orti botanici di Pavia e di Pisa. Pare che il primo esemplare ad essere inviato in Gran Bretagna nel 1688, da John Banister al Vescovo di Compton, provenisse dalla Virginia.
Allora era denominata Magnolia glauca, oggi, in realtà, è stata classificata come Magnolia virginiana.
La Magnolia grandiflora, che tutti conosciamo molto bene, fiorì per la prima volta in un giardino londinese nel 1737.
La prima Magnolia grandiflora, giunta in Italia dall’America meridionale nel 1786, si trova nell’orto botanico di Padova.
Il profumo dei suoi fiori era: ”il più delizioso che si potesse concepire, di molto superiore a quello della Rosa; in intensità uguaglia il Gelsomino e la Tuberosa, ma è molto più delizioso”.
In Cina era coltivata fin dal lontano VII secolo e si racconta che un esemplare di questa pianta in fiore era così apprezzato da essere ritenuto un dono degno di un Imperatore.
La Magnolia è una pianta sempreverde appartenente alla Famiglia delle Magnoliaceae assieme ad altre 80 specie di piante legnose, decidue o sempreverdi. Le specie più note sono la Magnolia grandiflora, a foglia persistente, albero di grandi dimensioni ma di lento sviluppo, e le specie arbustive a foglia caduca, la Magnolia stellata e la Magnolia soulangeana, che, al sopraggiungere della primavera, mostrano una fioritura precoce che abbellisce qualsiasi giardino.
Dal punto di vista filogenetico, la Magnolia è considerata una pianta piuttosto primitiva, così come indicano l’habitus legnoso, la semplice struttura delle foglie, la disposizione a rete delle nervature. I reperti fossili testimoniano che si tratta di un genere molto antico; sono stati identificati resti fossili di Magnolie risalenti a 5 milioni di anni fa.
E’ considerata una pianta tra le angiosperme più antiche del mondo e giunta fino ai nostri giorni senza avere subito notevoli modificazioni.
E’ una delle piante più eleganti e caratteristiche dei giardini per la forma della sua chioma, per le tipiche foglie e per i suoi bellissimi e appariscenti fiori.
In Italia è distribuita in molti areali e coltivata soprattutto come pianta ornamentale.
Una Magnolia non può mancare in nessun giardino all’italiana accompagnata da almeno un Cedrus atlantica e da un Cedrus deodara.
Nel chiostro della Basilica di S. Antonio, a Padova, si può ammirare  una bellissima Magnolia grandiflora di 150 anni d’età e alta almeno 25 metri.
E’ il gioiello del chiostro! Anche Mistretta vanta la presenza nel suo giardino di molti esemplari di Magnolia grandiflora.
La Magnolia grandiflora è la regina incontrastata non solo dei giardini classici, ma anche dei grandi spazi che circondavano le ville antiche. Maestosa, in piena libertà di espressione, col suo fogliame lucente e cuioso, presente in tutte le stagioni, è un elemento di ricchezza del giardino anche in inverno.
Pur essendo una pianta che preferisce vivere in luoghi a clima temperato, tuttavia le piante di Magnolia, presenti nel giardino di Mistretta, si sono adattate a vegetare in montagna sopportando le rigide temperature degli inverni.Gabriele d’Annunzio nel romanzoForse che sì forse che no” descrive il giardino di Isabella Inghirami parlando del profumo della Magnolia:” […] Ma la vergine e l’adolescente non avevano difesa contro lo strazio, non contro il profumo della magnolia, non contro la pallidezza della palude, né contro l’estasi dell’aria, pieni entrambi di forze discordi che facevano un cupo tumulto disperdendosi e risollevandosi a ogni soffio intorno un’ombra che forse aveva una sembianza da non poter essere guardata fissamente senza terrore. – Ecco il mio giardino – disse Isabella piegandosi sul davanzale […]” .  E ancora “[…] La Magnolia, solitaria nel cortiletto inverdito di muschi, insaporava del suo profumo, il silenzio notturno, possente di mollezza nella notte, contro il grande elce austero, tutta molle della sua cerea carne […]”.
La Magnolia grandifolia è un nobile albero a portamento arboreo eretto che, in Italia, raggiunge altezze modeste rispetto ai luoghi d’origine dove cresce fino a 30 metri. L’apparato radicale è cospicuo e lega strettamente la pianta frondosa al suolo.
Il tronco, spoglio nella parte inferiore, riempito di molte ramificazioni nella parte superiore, è rivestito dalla corteccia di colore grigio scuro che si divide in piccole lamine nell’albero adulto. Il legno è, talvolta, usato per la sua facilità di lavorazione e per la sua durata nel tempo.

IMG_20180903_182754 OK

Le foglie, semplici, grandi, lunghe fino a 30 centimetri, lanceolate, ellittiche, rigide, coriacee, a margine revoluto, con una nervatura centrale molto evidente presentano la parte superiore lucida e di colore verde intenso, la parte inferiore leggermente pelosa e di colore ruggine. Ippolito Pizzetti racconta che nessun indiano dorme sotto la sua chioma in fiore perchè il suo profumo è talmente forte che basta un unico fiore, tenuto in camera da letto, per uccidere una persona durante il sonno.

magnolia bocciolo  MAGNOLIA FIORE OK

IMG_20180903_182723 OK

   I fiori, ermafroditi, solitari, cupuliformi, con i petali carnosi, di colore bianco – crema, di notevoli dimensioni, ma di breve durata, profumati, fioriscono abbondantemente da maggio a luglio. I fiori si aprono durante il giorno mentre di notte o durante le giornate uggiose rimangono chiusi. I fiori regalano non solo la bellezza e il profumo, ma anche la dolcezza di un inverno che muore e la tenerezza di una nuova stagione primaverile carica di fioriture e di colori di una nuova vita.
I grandi fiori primitivi, dall’odore intenso, sono impollinati da coleotteri attirati dall’odore del polline.
E’ una pianta longeva e non fiorisce prima dei venti anni di età. Vita Sackville-West,la grande scrittrice e conoscitrice del mondo vegetale, riferendosi alla Magnolia sosteneva che: ” […] Il fiore è di per sé di una bellezza splendida. Il tessuto dei petali è una densa crema; non dovrebbero essere definiti bianchi, perché sono avorio, se mai potete immaginare l’avorio e il color crema combinati in una pasta densa, con tutta la morbidezza e la levigatezza della pelle umana giovane. Il suo profumo, che evoca il limone, è insostenibile […].
I frutti, acheni, riuniti a forma di pigna ovale-allungata, eretta, a maturità si fendono per lasciare uscire un seme di colore rosso vermiglio penzolante per un filo sottile.

MAGNOLLIA

Tutto l’albero appare decorato quasi come volesse anticipare il Natale.
Sprazzi di rosso fuoco punteggiano, qua e là, il fogliame verde scuro e luminoso.
La moltiplicazione avviene per seme, ma anche per margotta, per talea, per propaggine e anche per innesto. In genere, tutte la Magnolie amano la piena esposizione al sole, anche se una leggera ombra può essere utile, e poste in una parte del giardino protetta dal vento di tramontana.
Sono piante che si adattano facilmente resistendo al freddo e all’inquinamento atmosferico.
Se gli inverni sono lunghi e le gelate arrivano tardivamente, quando i fiori stanno già per schiudersi, allora possono compromettere la fioritura. Coltivare la Magnolia non è difficile.
Il tipo di terreno adatto alle sue esigenze è sciolto, profondo, leggermente acido, soffice e capace di assorbire e conservare una buona quantità di acqua evitando le frequenti ed eccessive annaffiature.
La Magnolia, in genere, non richiede potature se non come interventi di riordino e di ripulitura dai rami secchi o danneggiati.  Da diversi secoli in Giappone i semi di Magnolia vengono mescolati al thé per produrre una bevanda dall’effetto rinfrescante e calmante. Le civiltà antiche utilizzavano la Magnolia per ricavare profumi, aromi e veleni.
Gli Aztechi la usavano nelle cerimonie sacrificali. Anche il linguaggio floreale, così apprezzato e diffuso nell’ottocento, ha tenuto in gran considerazione questa pianta dandole delle espressioni gentili che richiamano la freschezza della gioventù.
I significati più comuni variano secondo la specie: “Amore acerbo” e “passione impaziente” per le piante che entrano in fioritura all’inizio della primavera, “candore” o “ricordo appassionato” per le Magnolie a fiore bianco e a fogliame persistente che si schiudono nei mesi più caldi.

 

 

Jul 21, 2013 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERELLO DI PUNICA GRANATUM DAI GUSTOSI FRUTTI

L’ALBERELLO DI PUNICA GRANATUM DAI GUSTOSI FRUTTI

ALBERELLO

 Nella villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta è fiorito l’alberello di melograno.
Il colore vermiglio dei suoi fiori, assieme al colore bianco dei profumati fiori della magnolia, interrompe il monotono colore verde dell’aiuola. Il sorridente fiore dischiuso trasmette gioia, festosità, vitalità.
L’albero di Melograno è una pianta antichissima, risalente al Pliocene inferiore, che produce un frutto oggi quasi dimenticato ma che, nel passato, ha goduto di grande notorietà perché considerato il frutto della “fertilità”. Ogni popolo che ha conosciuto la melagrana, le ha attribuito un particolare significato simbolico.
Nell’Antico Testamento è citata come uno dei frutti della Terra Promessa. I Fenici e i Cristiani attribuivano ad essa un valore religioso: il rosso della melagrana simboleggiava il “sangue dei martiri e la carità”.
Nell’arte copta  l’albero del Melograno è simbolo di “resurrezione”. Anche per i Romani, dove il Melograno giunse dopo la sconfitta di Cartagine, era il simbolo di “fecondità e di abbondanza” e le spose usavano ornare i loro capelli con i rami della pianta come segno di “buon augurio”.
Nella tradizione asiatica ancora oggi il frutto aperto simboleggia “abbondanza e buon auspicio”.
Gli americani pensavano che bere il succo del frutto combattesse la sterilità. Nel “linguaggio dei fiori“, comunque, prevale il significato di “abbondanza e di amore” per il colore acceso delle fioriture. Nell’Antico Egitto si utilizzavano i frutti nelle cerimonie funebri. All’interno delle tombe egizie, nelle pitture, sono state rilevate testimonianze risalenti al 2500 a.C. Nella necropoli di Tebe, nella Valle dei Re, il sarcofago del faraone Ramsete IV conteneva appunto i suoi frutti essiccati. Le sue origini greche sono molto antiche. In Grecia questa pianta era sacra a Giunone e a Venere. Si racconta che la melagrana era il frutto che Paride offrì a Venere e che lei coltivò a Cipro.
E’ citato nell’Odissea, nel giardino del re dei Feaci. Il Melograno e la melagrana hanno notevolmente ispirato anche l’arte. Giotto dipinse Cristo crocefisso su un albero di Melograno. La melagrana, nel XV e nel XVI secolo, è stata rappresentata frequentemente in sculture e in dipinti da bravissimi e famosissimi artisti.
Nel dipinto laMadonna della melagrana”, di Sandro Botticelli, La Madonna sorregge nella sua mano sinistra una melagrana come simbolo di “fecondità”. Anche il Bambinello appoggia sulla melagrana la sua paffuta manina. Nell’iconografia medioevale e rinascimentale è proprio Gesù Bambino a reggere la melagrana alludendo alla nuova vita. Secondo il mito greco il Melograno nacque dal sangue di Dioniso che, catturato dai Titani, fu ridotto a brandelli. “Amore, fedeltà, prolificità, concordia, ricchezza” sono i numerosi e sorprendenti attribuiti all’albero di Melograno e soprattutto alla melagrana, il suo frutto, per il notevole numero di grani contenuti al suo interno e per il loro colore rosso vermiglio.
Nelle lodi alla bellezza della sposa, nel Cantico dei Cantici (4,1-3), attraverso la metafora della melagrana, eletta a simbolo “dell’amore, della fecondità della Terra Promessa, della “fedeltà e della femminilità”, lo sposo, in rapimento poetico, canta le bellezze dell’amata sposa: “[…] Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna. Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo vel
o […]”, e nel (4,13): “ […] I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti […]”. In Deuteronomio (7-9), nelle prove del deserto è scritto: “ […] Perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato […] ”. L’albero di Melograno, sotto la sua chioma, ha ospitato Saul come si legge nel primo libro di Samuele cap. 14: “ […] Un giorno Giònata, figlio di Saul, disse al suo scudiero: <Su vieni, portiamoci fino all’appostamento dei Filistei che sta qui di fronte>. Ma non disse nulla a suo padre. Saul se ne stava al limitare di Gàbaa sotto il melograno che si trova in Migròn; la sua gente era di circa seicento uomini […]”. Le Melagrane sono anche il simbolo della “benedizione divina”; sono ricamate sulla veste per le funzioni sacre di Aronne e sono scolpite sui capitelli di bronzo che sormontavano le colonne all’entrata del Tempio di Salomone. Nella Bibbia, nella reggia di Salomone, (1Re 7,40-42) è scritto: ” […] Chiram preparò inoltre caldaie, palette e vassoi. E terminò tutte le commissioni del re Salomone per il Tempio del Signore, cioè le due colonne, i globi dei capitelli che erano sopra le colonne, i due reticolati per coprire i due globi dei capitelli che erano sopra le colonne, le quattrocento melagrane sui due reticolati, due file di melagrane per ciascun reticolato […] “.
Nel Cristianesimo medievale la melagrana ha assunto un significato ancora più importante: ha rappresentato la Chiesa, simbolo di “concordia della società e di conservazione dell’unione dei popoli” che, paragonati ai grani, stretti sotto la membrana, pur essendo profondamente diversi per cultura e per tradizione, erano armonicamente riuniti sotto la stessa fede.
La melagrana aperta è invece emblema “dell’amore misericordioso di Cristo”. Per gli ebrei era simbolo di “amicizia, di fratellanza, di abbondanza, di prosperità”. In ebraico “rimonim” vuol dire Melograno perché i puntali del tempio di Gerusalemme hanno la forma di Melograno. In senso più laico, la melagrana fu anche considerata simbolo di “desiderio, di passione, di prolificità”. In Turchia, la giovane sposa, gettando a terra una melagrana matura, dal numero di semi che fuoriescono dal frutto che si apre urtando contro il suolo, conoscerebbe in anticipo quanti figli potrebbe partorire. In Dalmazia lo sposo trasferisce la pianta di Melograno dal giardino del papà della sposa al suo podere come simbolo di “fecondità, di successo in amore e di prole numerosa”. Il nome Punica granatum, dal latino “punicum”, “persiano”, è stato attribuito al Melograno dal botanico Linneo convinto della sua origine africana. Dai Romani l’albero di Melograno era chiamato “Mela punica”, dal latino “malus”, “mela” per la sua forma, e “punicum” perché pensavano che provenisse da Cartagine e lo ritenevano il frutto più gustoso del Mediterraneo. Plinio lo chiamava “malum punicum”, ovvero mela cartaginese.Il frutto, la melagrana, o mela granata, o balausta, deriva pure dal latino “malus granatum” da “granum”, “seme”. Il suo nome scientifico è “Punica granatum” e fa riferimento all’origine mediorientale del frutto nonché alla presenza dei grani. Apprezzato dagli Egizi per le sue proprietà vermifughe, lo onoravano come sacro. In realtà l’albero era originario dalle regioni del sud-ovest asiatico da dove ebbe una larga diffusione in tutta l’Africa settentrionale e, in particolare, nei paesi mediterranei, dalla Turchia alla Penisola Iberica. Dal Marocco, i mercanti lo portarono in Europa, in Italia e in Spagna diffondendone la coltivazione.La città di Granada, dominata dai Mori dal ’700, ha questo nome perché, eretta su tre colli, somiglia ad una melagrana aperta che è divenuta l’emblema del suo stemma. In Italia è presente nelle regioni meridionali e insulari sia spontaneo sia coltivato, soprattutto a scopo ornamentale.Un vecchio esemplare di Melogranogià dal 1867 abita nel Piazzale Sud dei Giardini Hanbury a Ventimiglia.

CLICCA QUI 

Appartenente alla famiglia delle Punicaceae, il Melograno è una pianta rustica, piccola, ma, da adulta, raggiunge circa i tre metri d’altezza, perenne, molto longeva, anche se la sua crescita è piuttosto lenta e modesta. Si presenta con portamento arbustivo, cespuglioso, molto ramificato, con una chioma irregolare ed espansa, con i rami rigidi, esili e un poco spinosi. Nei rami più giovani la corteccia è rossiccia, liscia e molto rugosa, mentre nei rami vecchi e nel tronco è grigio-cinerea e screpolata. Il fusto diventa sinuoso e attorcigliato negli alberelli annosi. Le foglie sono semplici, piccole, caduche, alterne od opposte, di forma ovale, di colore verde lucente sulla pagina superiore, ma che muta con le stagioni: sono rosse nei giovani germogli e, successivamente, diventano di colore verde chiaro. Cominciano a spuntare in primavera inoltrata e, prima di cadere, nel tardo autunno, assumono una colorazione giallo-dorata.

MELOGRANO FIORI

I fiori, ermafroditi, solitari, splendidi, hanno la corolla tubulosa, a campanella, formata da 5-8 petali, di colore rosso vermiglio, che racchiude le antere gialle portatrici di polline, goloso premio per gli insetti impollinatori. La fioritura si estende dalla primavera fino all’inizio dell’estate e i fiori sbocciano all’estremità dei rami di un anno o sui dardi, isolati o riuniti in gruppi di tre. L
a pianta di Melograno comincia a fruttificare dopo 4 anni di età e raggiunge il massimo della sua produzione dopo circa trenta anni.
I frutti sono bacche commestibili, tondeggianti, grosse quanto una mela. Sono rivestiti da una buccia coriacea dapprima verdognola, poi di colore giallo-arancio e, a completa maturazione, di colore rosso-corallo con sfumature soffuse di rosso.
All’interno, i diversi loculi, separati da una membrana sottile, contengono un numero imprecisato di semi di forma prismatica, sfaccettati, avvolti da una polpa rossa gradevolmente dolce-acidula, molto succosa, trasparente. I frutti maturano tra settembre e ottobre, vanno raccolti in autunno e mangiati in inverno.
Per evitare che le piogge provochino la spaccatura dei frutti, è consigliabile raccoglierli con un leggero anticipo; infatti maturano completamente anche dopo essere stati staccati dalla pianta. La moltiplicazione avviene per seme, in primavera, ma non è molto usata poiché le nuove piantine difficilmente mantengono le caratteristiche genetiche della pianta madre. I metodi più diffusi per la propagazione del Melograno sono: la talea, che può essere ottenuta da parti di ramo o di radice, e anche attraverso i polloni radicati che crescono alla base del ceppo della pianta adulta, la margotta e la propaggine.
La pianta di Melograno è molto pollonifera quindi, se lasciata crescere in modo naturale, assume un portamento cespuglioso, mentre, adottando particolari potature, può essere modellata in maniera tale da assumere svariate forme. Il fiore rosso vermiglio del Melograno in primavera sorride festosamente a Persefone che ritorna dalle viscere della terra. Persefone, a Zeus, che le domandò insidiosamente se le fosse stata usata violenza, se durante la sua permanenza negli inferi avesse mangiato o bevuto qualcosa confessò che un giorno, tormentata dalla sete, ha ceduto alla tentazione di accettare da Ade un chicco di melagrana.
Non sapeva che questo inganno le avrebbe impedito di rimanere per sempre sulla terra, nel regno della luce.
Avendo mangiato un chicco di una melograna nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno ed a trascorrere sei mesi di ogni anno con lo sposo Ade e gli altri sei mesi con la madre sulla terra.
Demetra, sua madre, decise che, nei mesi in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo ci sarebbe stato freddo, la Natura si sarebbe addormentata, erano le stagioni dell’autunno e dell’inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, erano le stagioni della primavera e dell’estate. Ecco perché, in primavera, la terra si ricopre di fiori: perché Demetra festeggia il ritorno di Persefone sulla terra. In autunno, quando si reca nel regno dei morti, spoglia la Natura di ogni colore e la riveste di uno squallido manto.
Demetra, grata, da allora regala agli uomini un prodotto particolare: il grano. Attualmente il Melograno è coltivato nei giardini solo come pianta decorativa perchè di grande effetto ornamentale specialmente per il portamento di quegli esemplari con tronchi contorti, per il bel colore del fogliame e per la decoratività dei frutti maturi. L’albero, ben inserito nella macchia mediterranea, predilige i luoghi caldi, con molto sole, ben ventilati.
E’ coltivato anche in zone relativamente fredde, ma mal sopporta temperature molto basse, anche se si è adattato a vivere in montagna dove è bene piantarlo in posizioni riparate. Preferisce i terreni argillosi, sabbiosi, tendenzialmente calcarei e drenati per favorire il rapido assorbimento dell’acqua. Teme le piogge frequenti e l’elevata umidità del terreno e dell’aria durante l’autunno perché danneggiano i frutti in corso di maturazione e fanno sì che la pianta si spogli piuttosto precocemente. Le piante che vivono all’aperto sono poco esigenti e si accontentano dell’acqua piovana e di un po’ di fertilizzante. Una buona luminosità è indispensabile per garantire una considerevole fruttificazione. MELOGRANA La pianta non richiede molte cure e difficilmente si ammala; raramente è colpita da parassiti animali quali gli Afidi e il Ragnetto rosso, un piccolissimo aracnide che vive a spese della pianta succhiandone la linfa, e da agenti patogeni di origine fungina quale il mal bianco.
La pianta colpita deperisce visibilmente fino a  morire se non è aiutata a liberarsi dal parassita. L’albero, prevalentemente, è esposto agli attacchi di parassiti durante la fioritura, pertanto, nella somministrazione dei prodotti insetticidi, occorre avere prudenza per non impedire l’impollinazione naturale. Gli usi tradizionali del Melograno in farmacologia sono molto antichi: le prime indicazioni si trovano in un papiro del 1550 a. C.
Già Ippocrate consigliava l’uso dell’involucro del frutto per combattere la dissenteria.Sono adoperate quasi tutte le parti della pianta.
I fiori e i frutti contengono tannini e mucillagini. I tannini sono indicati in farmacopea per trattare casi di emorragie avendo proprietà astringenti. I fiori si usano in infuso contro la dissenteria. Il tegumento dei semi è astringente e diuretico.
Il frutto possiede proprietà rinfrescanti, diuretiche e toniche, la membrana e le radici sono astringenti ed antidiarroiche. Anche i popoli dell’antica Grecia ne apprezzavano le proprietà medicamentose di antielmintico, di antinfiammatorio, di antibatterico nelle infezioni della pelle e di astringente nei casi di diarrea cronica. In Europa, nel secolo scorso, la corteccia della radice era molto usata per curare la Tenia solium grazie ad una miscela di alcaloidi presenti ma, essendo velenosa, se ne consigliava l’uso con molta cautela.
Le sostanze antiossidanti ad alta concentrazione rendono gli estratti di Melograno adatti a contrastare lo stress dell’organismo, a vincere le malattie del sistema nervoso, a regolare le pulsazioni cardiache, a rallentare l’invecchiamento dei tessuti e della pelle, a combattere l’ipercolesterolemia e l’aterosclerosi.
La corteccia delle radici, inoltre, è utilizzata anche per preservare gli indumenti dalle tarme.
Recentemente il Melograno è stato apprezzato per il suo potenziale uso cosmetico, per preparati ad effetto idratante della pelle. Con i fiori e con le bucce dei frutti si ottengono dei coloranti rossi utilizzati in conceria per ornare il cuoio marocchino. L´uso alimentare della melagrana è antichissimo e nasce già con i Romani. Il frutto, considerato anticamente il re dell’orto per la presenza della corona, è stato apprezzato maggiormente nel Medioevo.
Per essere ricco di vitamine e di diversi sali minerali è entrato nella lista degli ingredienti delle cucine orientali e in tutti quei territori la cui l’aridità non offre una grande varietà di prodotti ad alto valore nutritivo.
Attualmente, nella cucina italiana è scarsamente utilizzato.
Gli chef più creativi impiegano i semi nei dessert, nelle gelatine, nelle granite, nelle marmellate e il succo nella preparazione di sciroppi, di bibite e di prodotti di pasticceria. Il succo era utilizzato per aromatizzare il vino, detto “vinum granatus“, offerto sporadicamente ai commensali in occasioni particolari soprattutto della vita di corte.
Con i grani si prepara la deliziosa e dissetante granatina, tipica bevanda spagnola.
E’ un liquore ricco di virtù medicinali, ottimo da bere in qualsiasi momento della giornata, soprattutto dopo un buon pranzo, per le sue qualità digestive, ideale per chi vuole offrire ai graditi ospiti un liquore unico e per chi vuole ritrovare gli antichi sapori di un tempo. I suoi ingredienti sono: alcool, acqua, zucchero, vino bianco, melagrane e buongusto. Maometto, trecento anni dopo la distruzione dei templi pagani, raccomandava di consumare il succo di melagrane per cancellare l’invidia conservando la ferma tradizione legata all’utilizzo del Melograno come pianta sacra.
Il Melograno è l’albero a cui tendeva la mano Dante, il figlioletto di Giosuè Carducci morto all’età di tre anni nel 1870. Così recita il poeta nella sua breve ma accorata poesia “Pianto antico”:

L’albero a cui tendevi

la pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,

 

nel muto orto solingo

rinverdì tutto or ora

e giugno lo ristora

di luce e di calor.

 

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,

 

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor”.

 Non ci sono parole per esprimere il dolore per la perdita prematura del proprio figlio. C’è solo il pianto, la manifestazione, individuale ed intima, di un’immensa sofferenza interna.
La melagrana è il frutto che, con la sua corona regale, troneggiava nel centro del cestino di vimini ricolmo di frutta secca: di noci, di nocciole, di mandorle, di fichi secchi, di castagne, di semi di pistacchio che le nonne, tanti anni fa, preparavano con cura per i nipoti durante la ricorrenza dei morti.
Oggi lo stesso cestino è riempito dalla frutta martorana.
Nella tradizione mistrettese e siciliana in genere, l’usanza di regalare ai bambini, proprio il giorno dei morti, il cestino traboccante di frutta secca o di frutta martorana simboleggia il “ciclo biologico della Vita”.
La Natura la dona, la toglie, la ridà.
La scelta di tutti questi frutti raggruppati insieme testimonia lo stretto rapporto tra l’Uomo e la Natura, il bisogno di attribuire agli elementi vegetali, che la Madre Terra mette a disposizione, i valori fondamentali per la vita di ciascuno.