Sep 11, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL TAXUS BACCATA L’ALBERO DELLA MORTE NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL TAXUS BACCATA L’ALBERO DELLA MORTE NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

Amici miei,

venite a visitare la villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta.
E’ bellissima! Questa volta vi mostrerò il Taxus baccata.

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Sebbene classificato da molti botanici nell’ordine delle Coniferales, il Taxus baccata è un albero privo della tipica struttura che produce i semi, il cono, e non possiede canali resiniferi nel legno e nelle foglie. Per questo motivo è stato escluso dalle Coniferales e collocato in un ordine separato, quello delle Taxales e nella Famiglia delle Taxaceae.

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 E’ una pianta sempreverde, molto longeva, che può raggiungere i 1500 anni d’età, ma a crescita abbastanza lenta e, per questo motivo, in natura, spesso si presenta sotto forma di piccolo e attraente albero o di arbusto. E’ difficile stabilire l’età di una pianta perché gli anelli annuali di crescita del legno non sono sempre visibili a causa di particolari strutture che impediscono la corretta datazione e, inoltre, spesso, il duramen, con il trascorrere del tempo, si distrugge lasciando il centro del tronco cavo. Originario dell’Europa, il Tasso ha esteso il suo areale nell’Africa settentrionale e nel Caucaso. Attualmente in Sicilia si conserva solo sui monti Nebrodi che custodiscono le uniche stazioni della specie nell’area fitoclimatica di pertinenza del Cerro e del Faggio. Esattamente in Sicilia, un relitto delle glaciazioni si trova tra Alcara li Fusi, San Fratello e Cesarò. Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta sono presenti diversi  esemplari.

In passato il Tasso era presente anche sulle Madonie, come hanno confermato i dati di apposite ricerche palinologiche che hanno studiato i granuli di polline e le spore fossili, e sull’Etna in base alle segnalazioni di Scuderi e Beccarini risalenti rispettivamente al 1825 e al 1901. Nel Parco dei Nebrodi, all’interno del bosco della Tassita, esteso circa 50 ettari, in contrada Moglia, nel territorio del comune di Caronia, è localizzato un nucleo consistente di piante di Tasso dove si riscontra uno degli individui monumentali più vecchi che ha raggiunto i 25 metri d’altezza e i 4 metri di circonferenza. Altri insiemi significativi persistono alle falde di Monte Soro, in prossimità del Lago Biviere. In questo luogo, esemplari di vetusti Tassi, dai tozzi e ramosi tronchi rossastri, vivono in consorzio col Faggio e con i giganteschi Aceri. Piccoli nuclei si trovano sul versante settentrionale del monte Pomiere là dove la nebbia persiste per buona parte dell’anno. Altri lembi relittuari di foresta di Tasso sono stati segnalati nelle Gole del Catafurco nella zona di Galati Mamertina. La presenza di altre stazioni di Tasso, sparse discontinuamente tra 1.100 e 1.450 metri di quota, sempre dentro il Parco dei Nebrodi, testimonia la notevole frammentazione a cui è andata incontro, in passato, l’originaria vegetazione per via dell’intenso disturbo antropico dimostrabile, principalmente, nell’utilizzo del legno per le recinzioni, nell’eliminazione della specie in quanto velenosa e nell’irrazionale esercizio del pascolo.

In Italia si trova non molto frequentemente nelle zone montane di quasi tutte le regioni. Aspetti peculiari di questa vegetazione relitta e del paesaggio che ne determina si rinvengono specialmente sui freschi ed ombrosi versanti settentrionali interessati per quasi tutto l’anno da correnti umide provenienti dal Mar Tirreno. Nella foresta umbra del Gargano, nella zona di Palena, a Pescocostanzo, in provincia dell’Aquila, e nella Riserva naturale Zompo lo Schioppo, in provincia dell’Aquila, sono presenti diversi esemplari di Tasso molto imponenti.  Nel Giardino Dei Semplici, a Firenze, è presente una pianta di Tasso piantata da Pier Antonio Micheli nel 1720. Si sono ritrovati fossili di Tasso appartenenti all’era terziaria e ne esistono esemplari di 1500 – 2000 anni d’età. Normalmente, gli esemplari adulti, in condizioni ottimali, possono raggiungere anche i quindici metri d’altezza.

Il termine “Taxus” deriva dal greco “τάσσω“, “ordinare”, in riferimento alla particolare disposizione delle foglie disposte ordinate su due file. Il termine “baccata” significa fornito di “bacche” cioè del falso frutto, “l’arillo”.

 E’ detto anche “Albero della morte” per il suo impiego nella fabbricazione di dardi velenosi, per la sua tossicità e perchè, associato alla vita eterna per la sua longevità, era utilizzato nelle alberature dei cimiteri. Una denominazione siciliana è “arvulu vilinusu”. I Greci consideravano il Tasso sacro alle Furie forse perché dai suoi rami si ricavavano gli archi per scagliare le frecce.

Il Taxus baccata presenta il fusto tipicamente squamoso e contorto e rivestito da una corteccia di colore bruno rossastro nella pianta giovane, che diventa grigia nella pianta adulta. Inizialmente è liscia, ma, con l’età, si solleva arricciandosi e dividendosi in placche sottili. I giovani rami sono verdi, penduli, disposti verso il basso. Le foglie, piccole, aghiformi, strette, lineari, leggermente arcuate, lucide, sono di colore verde scuro sulla pagina superiore, di colore verde chiaro sulla pagina inferiore. Sono inserite sui rami con un andamento a spirale, in due file opposte, disposte a doppio pettine. L’insieme delle foglie forma una chioma irregolarmente globosa, tondeggiante, molto densa e ricca, che cresce anche nella parte interna della pianta.

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Il Taxus è molto usato nei giardini per formare siepi ornamentali. Nella villa di Mistretta le piante, isolate, sono modellate secondo i criteri dell’ars topiaria poiché sopportano potature anche notevoli.

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È una pianta dioica. I fiori maschili sono raggruppati in amenti inseriti lungo i rametti tra le foglie, quelli femminili, solitari, piccoli, ovali, verdi inseriti pure tra le foglie, in estate, mediante l’impollinazione anemofila, si trasformano in arilli rotondi, molto vistosi e decorativi. La fioritura avviene da gennaio ad aprile. Gli arilli sembrano dei frutti, ma sono delle escrescenze carnose che ricoprono il seme. Inizialmente gli arilli, polposi, dolciastri, di colore verde, diventano rossi a maturità e contengono un solo seme duro, nerastro e molto velenoso. La tossicità del Tasso ha interessato la letteratura.

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 Shakespeare riferisce che il fantasma del padre di Amleto racconta al figlio di essere stato ucciso dal fratello che gli ha versato nell’orecchio, mentre dormiva, alcune gocce di succo estratto dagli arilli di Tasso. Sempre Shakespeare, nel “Macbeth”, dice che, in occasione di un sabba notturno, le streghe rimestano  un pentolone contenente, fra gli altri ingredienti, rametti di Tasso recisi durante l’eclissi di luna.

La polpa, invece, innocua e commestibile, è mangiata dagli uccelli che favoriscono la disseminazione. Nei punti del giardino ove la terra è smossa e ricca di humus è facile scoprire delle giovani piantine di Tasso germogliate naturalmente, cioè nate da semi trasportati dagli uccelli. Essi non triturano e non digeriscono i semi perché capiscono che sono letali. I semi, espulsi ancora intatti, si depositano nel terreno germinando. Il Tasso è, quindi, una pianta zoofila, che si serve dell’aiuto degli animali per riprodursi. La moltiplicazione avviene più facilmente per propaggine, più difficilmente per seme in autunno. Si possono preparare anche delle talee da interrare in aprile, oppure utilizzare i polloni basali.

La pianta di Tasso preferisce vivere in luoghi umidi e freschi gradendo molto l’ombra e la mezz’ombra.  Non teme l’inquinamento e i venti forti. Non richiede particolari accorgimenti per quanto riguarda il terreno in cui deve essere posta a dimora, anche se preferisce quelli fertili e ben drenati. Non teme la siccità, quindi non esige annaffiature frequenti accontentandosi dell’acqua delle piogge.Essendo una pianta molto rustica, solitamente non è attaccata da parassiti o da altri agenti patogeni responsabili di varie malattie. Molto dannosa è lacocciniglia Parthenolecanium pomeranicum che secerne un’abbondante melata favorevole allo sviluppo della fumaggine. Il Taxomyia taxi è un insetto che colpisce le foglie provocando grosse galle esteticamente sgradevoli anche se poco dannose. La corteccia, le foglie e i semi del Tasso sono velenosi. I cavalli sono gli animali più sensibili alla tossicità della pianta: sono sufficienti da 100 a200 grammi di foglie per uccidere un esemplare in pochi minuti, mentre i bovini, pur nutrendosi spesso dei rami del Tasso, non risentono di nessuna conseguenza. L’avvelenamento da Tasso si manifesta con insufficienza respiratoria e cardiaca. Riscaldata, la sua resina emana un vapore tossico impiegato dagli sciamani per provare piacevoli emozioni e allucinazioni.

La tossicità del Tasso era nota fin dall’antichità richiamando sempre immagini tetre. I romani si cingevano di corone di Tasso nei giorni di lutto. Anticamente il popolo latino, per il colore scuro della sua chioma e perché spesso dai tronchi apparentemente morti spuntano nuovi alberelli, dedicava l’albero di Tasso ad Ecate, la dea degli inferi. La leggenda racconta che Ecate, regina delle streghe e della magia, ma anche divinità positiva, generosa, protettrice e legata alla rinascita, possedeva nelle sue dimore sotterranee un rigoglioso e bellissimo giardino notturno dove erano coltivate piante dai meravigliosi effetti. Tra di esse, anche una pianta di Tasso era custodita e curata delle sacerdotesse Medea e Circe. Ad Ecate si immolavano tori neri adornati con ghirlande di Tasso. Ovidio narra che la strada verso l’inferno era ombreggiata da alberi di Tasso.

Il principio attivo, responsabile della sua tossicità, è una molecola estremamente complessa chiamata taxolo. Ha effetto narcotico e paralizzante sull’uomo e su molti animali domestici. Le foglie vecchie sono gli organi della pianta che ne contengono la maggior quantità. Molte sostanze tossiche, adeguatamente dosate e mescolate insieme dalle industrie farmaceutiche, sono usate come principi attivi di prodotti chemioterapici per la cura di alcune forme tumorali. In Sicilia il Tasso era usato per stordire e pescare le anguille che popolavano i fiumi. Storicamente, il legno del Tasso era eccellente per la costruzione di archi e, sin dalla preistoria, il suo impiego era famoso per la fabbricazione di quest’arma. L’arco della mummia del Similaun è stato realizzato proprio col legno di Tasso. La fama del legno di Tasso si diffuse largamente durante il Medioevo, soprattutto in Inghilterra, proprio per la costruzione degli archi da guerra e di manici di pugnali per l’enorme resistenza alla compressione e alla trazione, e per l’incredibile elasticità. Di legno di Tasso erano gli archi degli invincibili arcieri inglesi.  ATTUALMENTE IL TASSO E’ UNA SPECIE PROTETTA. Nel linguaggio floreale il Tasso, forse per il verde cupo del fitto fogliame o perchè prospera all’ombra, è simbolo di “tristezza”.

Sep 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I MONUMENTI PRESENTI NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

I MONUMENTI PRESENTI NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

Il giardino botanico “G.Garibaldi” della città di Mistretta, oltre alle numerose e rare piante, ospita anche i monumenti  di personaggi importanti.
Per la presenza di questi monumenti, per la struttura del laghetto, disegnato secondo la forma della Sicilia, per la disposizione dei viali indicati dalle aiuole, per l’ampio piazzale centrale,  esso è un “giardino all’italiana”.
La piazza centrale è l’agorà delle statue!
I busti storici, impettiti, di Giuseppe Garibaldi, di Vincenzo Salamone e di Noè Marullo sono stati sistemati attorno al suo perimetro. Sembra che custodiscano la villa attenti a tutte le attività ludiche, ricreative, socializzanti.

https://www.youtube.com/watch?v=MiKCcfrkMMM

 

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La prima statua moderna che si incontra, scendendo dal viale di sinistra, è quella della dea Astarte. Isolata dagli altri monumenti, sembra accogliere e dare il benvenuto a tutti i visitatori della villa.

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la dea Astarte

La scultura, opera dell’artista Domenico Pappalardo, raffigura Astarte, la divinità femminile siro-palestinese.
Simboleggia mitologicamente la città di Mistretta, nome derivante dal fenicio Am-Ashtart, ossia città fondata da Astarte.
E’ la gran madre venuta dal mare, dea dell’amore e della vita strettamente legata al ciclo vegetativo, dea dei boschi, quindi anche dei Nebrodi. Il suo volto, asimmetrico, rappresenta il sole e la luna insieme.

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Le due facce della dea Astarte

Il più antico monumento dei personaggi illustri è quello di Giuseppe Garibaldi (Nizza 04/07/1807 – isola di Caprera 02/06/1882).
Il due giugno del 1889, con una solenne cerimonia alla quale partecipò quasi tutto il paese, la villa comunale di Mistretta fu intitolata a Giuseppe Garibaldi. Dietro il Quercus ilex fu collocato il monumento formato dalla stele e dal busto con la sua effigie.
Promotore dell’iniziativa fu il Municipio di Mistretta.

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Giuseppe Garibaldi

Lo scultore Noè Marullo, autore dell’opera realizzata nel 1884, raffigurò, con lo sguardo penetrante e con gli occhi rivolgenti lo sguardo lontano, sotto la fronte corrugata, il fascino del generale Garibaldi, condottiero e patriota italiano, denominato l’eroe dei due mondi per le imprese militari compiute in Europa e in America meridionale e che aveva suscitato nelle folle la fiducia nei moti insurrezionali.
Noè Marullo lo conobbe a Roma, tramite il professor Masini, quando Giuseppe Garibaldi era già vecchio, stanco e deluso. “Lo sguardo penetrante, gli occhi vispi, intelligenti, sognanti “ (35) Marullo, lettere dell’11-5-1879, A.C.M.
La giunta comunale mistrettese gli assegnò la somma di 1000 lire che Noè Ma rullo utilizzò per acquistare il marmo per realizzare il monumento a Garibaldi, a Vittorio Emanuele e a figure di Madonne e di altre donne.

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Vincenzo Salamone

I concittadini mistrettesi memori ricordano il benefattore Senatore. Vincenzo Salamone, ( Mistretta, 1851-1925), con un busto bronzeo realizzato dallo scultore Vincenzo Balistreri e fatto erigere il 25/11/ 1956.
Promotrice di questa iniziativa è stata la Società Operaia di M.S. di Mistretta collaborata da altri sodalizi presenti nel territorio e da alcuni cittadini che hanno risposto con sollecitudine alla sottoscrizione per la raccolta dei fondi destinati alla realizzazione del busto.
Sensibile ai problemi sociali, il sen. Vincenzo Salamone è ricordato per aver migliorato le condizioni di vita dei paesani.
Ricco proprietario terriero, durante i freddi inverni offriva il calore del fuoco del suo cuore e l’ospitalità del suo palazzo ai mistrettesi bisognosi.
Poichè la fame e la miseria erano allora molto diffuse, metteva a disposizione dei poveri una cucina economica che, giornalmente, in capienti pentoloni, preparava numerosi pasti caldi. Aiutava anche economicamente le classi sociali meno abbienti per affrontare le loro primarie necessità.
Ha fatto realizzare l’acquedotto urbano, ha istituito il servizio automobilistico Mistretta – Santo Stefano di Camastra, ha creato la centrale elettrica a carbone che forniva energia elettrica continua.
Cercò di sistemare il verde pubblico e fece piantare diversi alberi. I mistrettesi, riconoscenti, gli donarono una medaglia d’oro di benemerenza il giorno 08/12/1907. Alla sua morte fu proclamato un giorno di lutto cittadino.
Anche una via cittadina è stata intitolata al suo nome.

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Noè Marullo

Noè Marullo, nato a Mistretta il 13/11/1857 e morto il 05/05/1925, è stato un uomo generoso, dal carattere sensibile, pacato e, nello stesso tempo, irascibile, allegro e malinconico, cordiale e scontroso e, artisticamente, isolato nel suo mondo.
Fu un maestro raffinato, capace di pure, autentiche e geniali creazioni d’arte.
Fu costretto a lottare per l’intero corso della sua esistenza con le durezze della vita che lo oppressero, lo ostacolarono e, talvolta, soffocarono la sua capacità di esprimersi, di dare concretezza alle spinte creatici che in lui si sviluppavano.
Così, nella storia dell’arte, Noè Ma rullo è un valore sommerso.
Chiuso nei ristretti confini di un ambiente provinciale culturalmente limitato, non ha potuto rifulgere della luce che avrebbe meritato.
Il consiglio comunale di Mistretta lo ha aiutato, elargendogli pensioni mensili, assegni e sussidi, per il raggiungimento del diploma di scultore e per la frequenza in Accademia di un corso biennale di perfezionamento.
Studiò alla “Scuola tecnica serale per gli operai” a Palermo e, successivamente, all’istituto di belle arti “San Luca” a Roma.
Dopo i vani tentativi di inserirsi a Roma nel mondo dell’arte e del lavoro, impiantò la sua bottega a Mistretta, in vicolo Gullo N° 6, nel piano basso della casa dove era nato, e là iniziò ad ideare i suoi fantasmi artistici dandovi anima e corpo. In seguito ai buoni successi di mercato, per merito di committenti amastratini e di confraternite di paesi vicini, espleta i suoi filoni dell’arte: quello laico,  in cui in piena libertà ha la possibilità di comunicare i suoi stati d’animo, e quello sacro in cui, con senso oggettivo, raffigura ciò che il popolo sente e desidera.
E’ interessante sapere che l’inizio della grande attività di scultore in Marullo coincide con gli anni di dolore personale per la morte dei congiunti, in particolare dell’amata figlia Giustina, e per l’incomprensione con i rapporti sociali che gli hanno ostacolato la vita.
L’arte diventa per lui il rifugio dello spirito, la rivincita ideale sulle delusioni della realtà. Una via cittadina intitolata al suo nome lo ricorderà per sempre alle generazioni future.
Il busto di Noè Marullo  è stato eretto nell’agorà della villa “Giuseppe Garibaldi” il 12/11/2000 per volontà di signori: Mario Biffarella, che ha realizzato l’opera, Giovanni Mentesana, Francesco Liuzzo, Franco Scarito, che ha eseguito  e sostenuto la pratica presso l’ufficio competente del Comune di Mistretta, riuscendo ad ottenere il finanziamento di buona parte dell’opera.
Anche la Società Operaia di Mutuo Soccorso e il Banco di Sicilia di Mistretta hanno aderito all’iniziativa nel volere ricordare l’illustre artista amastratino. Il busto, con la tecnica cera persa, creato dal signor Mario Biffarella, è stato fuso  in una fonderia di Misterbianco.

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Aug 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VERONICA SPICATA E LA VERONICA VARIEGATA

LA VERONICA SPICATA E LA VERONICA VARIEGATA

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La villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta non finisce mai di stupire il visitatore per le tante essenze vegetali che custodisce. A pochi passi dall’ingresso principale della piazza San Felice, nell’aiuola di sinistra, quasi sotto i piedi dell’altissimo Abies nordmanniana del Caucaso, questa estate la Veronica variegata ha mostrato le sue bellissime spighe fiorite.

La Veronica, dal latino ”vera et unica”, è una pianta originaria dell’Europa Centrale, dell’Asia settentrionale, dell’America del nord e della Nuova Zelanda ed appartenente alla famiglia della Scrophulariaceae. Al suo nome si attribuisce  il significato di ”portatrice di vittoria” perché guaritrice di tante malattie e soprattutto delle ferite della pelle. Nella tradizione popolare cristiana Veronica è il nome della donna che asciugò il volto di Cristo. In Francia era conosciuta come “Herbe aux ladres”,“erba dei lebbrosi”.

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Esistono diverse varietà di Veronica e tutte sono di dimensioni medie. Sviluppano cespi abbastanza compatti costituiti da sottili fusti eretti, semilegnosi. La Veronica spicata è un arbusto di forma arrotondata il cui fusto può raggiungere l’altezza di due metri. Le foglie ovato-lanceolate, dentate ai margini e acuminate all’apice, opposte o riunite in verticilli in numero di tre, sono di un bel colore verde brillante e densamente pelose. Non è una pianta sempreverde, quindi durante i mesi più freddi dell’anno perde la sua parte aerea. Poi, con l’arrivo della primavera, ricomincia rapidamente a rifiorire e a produrre nuovi fusti e nuove foglie. I fiori, piccoli, riuniti in infiorescenze a racemi rivolte verso l’alto, hanno la corolla tubulosa  azzurra. La fioritura avviene in autunno, approssimativamente per la festa di tutti i Santi, ed è rigogliosa e molto prolungata. La Veronica variegata, coltivata nella villa comunale di Mistretta, invece è fiorita abbondantemente durante tutto il mese di luglio.

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Per favorire il protrarsi della fioritura, è bene cimare i fusti che portano i fiori appassiti. Un’antica leggenda racconta che sarebbe stato accecato dall’ira degli uccelli chiunque avesse maltrattato le pianticelle di Veronica distruggendo i delicati fiori. Il frutto è una capsula. La moltiplicazione avviene per semi prelevandoli dalla pianta solo quando sono completamente disseccati. La pianta si riproduce, oltre che per seme, anche per divisione dei cespi che, ogni tre anni, si dividono e si pongono direttamente a dimora tra marzo e aprile, e per mezzo di talee di germogli laterali che vengono sottratti alla pianta a partire dal mese di luglio.

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La Veronica preferisce essere esposta in un luogo soleggiato, o appena in penombra. Resiste al freddo piuttosto intenso, sopporta bene le temperature che scendono sotto lo zero, ma soffre le gelate prolungate. Si adatta a qualsiasi substrato apprezzando un terreno ben drenato, fertile, soffice, sempre umido e senza ristagni d’acqua. Richiede annaffiature abbondanti e regolari durante l’estate e soprattutto in caso di siccità. E’ consigliabile innaffiarla di rado, in abbondanza, piuttosto che spesso e in piccole quantità. La potatura va eseguita solo dopo la fioritura. Pur essendo una pianta rustica, che non necessita di particolari attenzioni, tuttavia può essere attaccata dagli Afidi, che causano una crescita lenta dei fiori e dei nuovi getti, e dai funghi se il terreno è pregno d’acqua.

La Veronica è stata molto usata nella medicina popolare. Il suo impiego si diffuse moltissimo alla fine del XVII secolo. Veniva preparato l’infuso al posto del the che, allora, era assai costoso. L’infuso di Veronica era chiamato “the svizzero”, in ricordo di Fuchs, e la sua diffusione è stata favorita dal medico Frederich Hoffmann che così scrisse “De infusi Veronica efficacia preferenda herbae teae”. In fitoterapia si usano le parti aeree essiccate per preparare misture che, per il contenuto in glicosidi e in tannini, hanno effetti digestivi, tonici, sudoriferi, antinfluenzali, antigottosi, utili anche per combattere la tosse, per alleviare i dolori reumatici e per curare le malattie cutanee pruriginose. Per uso esterno si possono usare per lavare le ferite, come leggero astringente per il viso, e per i gargarismi.

Aug 16, 2015 - Senza categoria    Comments Off on Il PINUS LARIX CANARIENSIS

Il PINUS LARIX CANARIENSIS

 

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La villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta oltre al Pinus pinea ospita anche il Pino laricio.

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Il Pino laricio è una delle più interessanti conifere europee appartenente alla famiglia delle Pinaceae. Autoctono nell’arcipelago delle Canarie e nell’Africa nord-occidentale, è un albero notevole, che stupisce per la sua maestosità.
Larix” è il termine già usato dai Romani per indicare la pianta che ha scelto il suo areale sulle Alpi austriache, francesi, italiane e svizzere, e sui Carpazi. In Italia vive ad altezze comprese tra i 1200 e i 2600 metri, ma può colonizzare zone meno alte, fino a 500 metri.
Può considerarsi l’albero d’alto fusto che, più d’ogni altro, si spinge in alto, coraggioso pioniere delle grandi altezze, in sfida perenne contro le asperità del suolo e le avversità dei fenomeni atmosferici. Trova il clima ottimale nelle regioni calde del meridione, soprattutto in Sardegna dove l’albero è particolarmente diffuso.
Per il suo elegante portamento, per la sua robustezza, per il suo legno pregiato, per i suoi colori autunnali, è attribuito al Larix l’appellativo di “conifera nobile”. In Sicilia è chiamato con i nomi: “Pinu ri vuoscu”, “Zappino”, ”Pino della Calabria.” Il Pino laricio siciliano è una varietà particolare detta “aetnensis” che differisce dai cugini calabresi e corsi.
Una prima identificazione del Pino laricio risale alla fine del ‘700, ma solo nel 1904 fu accertata l’appartenenza degli individui alla specie “canariensis”. E’ ipotizzabile una sua introduzione in Italia al tempo delle Repubbliche Marinare, quando Pisa aveva relazioni e possedimenti in Corsica e quando il legname di Pino laricio canariensis era preziosissimo per le costruzioni navali della Repubblica.
Il Pino laricio canariensis è un albero sempreverde, molto longevo, che può raggiungere i 300 anni d’età. Presenta un portamento eretto, piramidale, un tronco diritto, regolare e slanciato, alto circa 25 metri, poco ramificato e con rami sottili, espansi, disposti a palchi, come un candelabro, e con rametti penduli. I rami più bassi muoiono e cadono portando la pianta a raggiungere altezze sempre più elevate. L’apparato radicale, con un robusto fittone centrale, è esteso.

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La pianta, da giovane, ha un ritmo di sviluppo piuttosto rapido, di 30-40 centimetri l’anno, ma, raggiunta la maturità, cresce molto più lentamente. Il tronco è ricoperto dalla corteccia liscia nella pianta giovane che, in età adulta, diventa molto ruvida e fessurata in placche longitudinali. Nelle fessure la corteccia si colora di rosso, mentre sulle placche compaiono alcuni puntini bianchi.

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Le foglie, aghiformi, persistenti, fino a 3 anni, raggruppate in fascetti di tre, sottili, flessibili, scarsamente pungenti, lunghe 20-30 centimetri, pendule, sono di colore verde chiaro nelle piante giovani e di colore verde scuro nelle piante adulte. L’insieme delle foglie forma la chioma stretta, leggera, rada che, in autunno, muta il suo bel colore verde pisello in splendide tonalità dorate che fanno risaltare la sua presenza in mezzo al verde cupo del Pinus nigra. Gli aghi cadono durante l’inverno. Il Pino laricio è, infatti, l’unica conifera cosiddetta spogliante dei nostri climi. In estate, a causa delle elevate temperature e della ridotta piovosità, il Larice potrebbe perdere le foglie, naturalmente per preservare la pianta dalla disidratazione. Infatti, l’essenza, in questo periodo, consuma più acqua delle altre conifere poichè gli aghi fanno traspirare velocemente quella quantità accumulata.

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 I fiori sono grandi e ovoidali. La fioritura avviene tra i mesi di marzo e di maggio. Gli strobili maschili sono allungati e appuntiti, raggruppati nella parte terminale del ramo. I coni femminili, quasi cilindrici, visibilmente molto più piccoli, si trovano soprattutto nella parte superiore della chioma disposti verticalmente verso l’alto. Sono lunghi circa 20 centimetri, riuniti in gruppi fino a 5, resinosi e di colore bruno lucido. All’interno della squama risiedono 1 o 2 semi provvisti di una grande ala che permette loro di essere trasportati dal vento fino a coprire cospicue distanze. I semi scuri maturano ogni due anni. Nonostante la perdita dei semi, le piccole pigne possono persistere sui rami anche un paio d’anni prima di distaccarsi dalla pianta con le piccole squame molto aperte e ricurve. La moltiplicazione avviene per semina.
Il Pinus laricio canariensis è una conifera che si distingue dalle altre per la capacità di riprodursi anche per via agamica, cioè attraverso il prelievo di polloni o di parti del fusto e della corteccia che, dopo il taglio e anche dopo l’aggressione del fuoco, danno vita ad una nuova pianticella. Per questo motivo il Pino delle Canarie è un albero che rivegeta anche dopo gli incendi perché non è mai intaccato gravemente dalle fiamme e le sue parti rimangono vitali.
Il Pino delle Canarie è un albero di notevole pregio ornamentale non solo per la sua forma slanciata, per la chioma dall’aspetto piacevole, per la leggerezza degli aghi, per cui è felicemente apprezzato nel giardino, ma anche per la sua straordinaria rusticità, per la sua grande semplicità, per la sua capacità di adattamento e di resistenza alle condizioni ambientali e climatiche difficili e avverse. E’ una pianta eliofila, predilige le posizioni asciutte, soleggiate o a mezz’ombra, e gli inverni freddi e nevosi.
Nonostante la neve abbia il suo peso, scivola via senza danneggiare la pianta grazie alla sua ramificazione particolarmente elastica. Solo qualche fulmine, che vuole scaricare a terra la sua carica elettrica, potrebbe colpire la punta dell’albero isolato. Per fortuna, all’interno della villa comunale, questo regale albero è molto “socievole“, quindi consorziato con l’Abies excelsa, col Pino nero d’Austria, con l’Abies pinsapo, con il Cedrus deodara, con l’Abete del Caucaso, col Faggio e con le Betulle. Il fulmine, se proprio si deve appoggiare a qualche albero, ha un’ampia possibilità di scelta!
Preferisce un terreno ben drenato, sufficientemente umido, ma mai acido, al quale si aggrappa saldamente con le sue robuste radici. Colonizza terreni poveri ai quali apporta, con gli aghi che perde in autunno, la materia organica che renderà possibile l’attecchimento di altre essenze. Inoltre, è importante sapere che, in simbiosi con le sue radici, vivono dei funghi simbionti, chiamati micorrize, fondamentali per aiutare l’assorbimento di sostanze nutritive dal terreno.
In genere l’albero è molto resistente alle malattie. A volte è attaccato da parassiti, insetti, funghi e licheni che soffocano la sua vegetazione. La Cocciniglia lanuginosa è la più frequente e porta alla comparsa di fitte macchioline, dapprima decolorate e poi scure, sugli aghi che si deformano ed ingialliscono. La Cloroflora laricella, un afide che sverna nei rami, durante la stagione estiva si alimenta della linfa dell’albero succhiandola dagli aghi che s’indeboliscono fino a cadere.
Oltre ad arricchire il paesaggio, il Pinus larix canariensis è una fonte di preziose risorse. Il suo legno rosso è pregiato, resinoso, profumato, molto duro, compatto, flessibile, resistente agli agenti atmosferici. Sotto la dominazione veneta, con i suoi tronchi si rafforzavano le fondazioni delle chiese e dei palazzi, si costruivano navi e imbarcazioni e relative alberature perché, anche se immerso a lungo nell’acqua, il legno non si decompone. Ancora oggi il legno è impiegato per costruzioni edilizie, navali e idrauliche e per lavori fini di falegnameria, come combustibile e  per ricavare la cellulosa. La resina abbondante, di cui il legno è impregnato, aumenta la durezza e la resistenza all’azione dell’acqua.
Dalla resina si ricava un antisettico utile per il trattamento dei più svariati disturbi di carattere bronchiale o respiratorio. La trementina è usata come solvente nella fabbricazione di tinture e di vernici. Dalla sua corteccia si ricava il tannino. Non sono neanche da trascurare i bellissimi fiori femminili dai quali traggono origine i frutti, le decorative pigne, che bene si prestano per arricchire addobbi e confezioni natalizie. Albero pieno di risorse, quindi, il Pinus larix canariensis, è da conoscere e da valorizzare. Nel corso della sua storia l’uomo ha ricevuto molto da quest’albero e l’Uomo lo ha saputo ringraziare? Lo ha saputo amare e rispettare?
Nel linguaggio floreale il Pino laricio è simbolo di “disinvoltura”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aug 7, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL PINUS PINEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL PINUS PINEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta si fa notare, perché è alto e perché con la sua chioma si affaccia in via Scalinata, il Pinus pinea.

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Appartenente alla Famiglia delle Pinaceae, il Pinus pinea è il Pino conosciuto con moltissimi altri sinonimi: “Pino domestico, Pino italico, Pino mediterraneo, Pino parasole, Pino da pinocchi, Pino da pinoli”. E’ l’albero più caratteristico delle zone circostanti il mar Mediterraneo perchè è la specie originaria dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in particolare sulle coste settentrionali dove forma vasti boschi. Sa regalare alle creature un’ombra molto gradita nel clima caldo dell’estate mediterranea. Vive bene tra i 500 e i 1000 metri d’altezza. Il Pino domestico si trova distribuito in quasi tutta l’Europa. E’ stato coltivato da oltre 6000 anni per i suoi pinoli che sono diventati merce di scambio. Si è naturalizzato in Africa meridionale, dove è considerata una pianta invasiva, e piantato comunemente anche in California e in Australia. In Italia è coltivato praticamente ovunque, ad eccezione delle zone molto montuose. Forma estese pinete associandosi ad altre piante della macchia mediterranea. Le più belle pinete italiane si trovano a Ravenna, a San Rossore, a Grosseto. Per l’alto numero di esemplari presenti in Italia, da molti è considerato l’albero simbolo del nostro paese tanto che dagli anglosassoni il Pino domestico è denominato “Italian stone Pine” e dai francesi “Pin d’Italie“. Nel 1966 fu designata dal Ministero del Turismo la “pianta emblematica italiana”.

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l Pinus pinea è facilmente riconoscibile per il suo portamento ad ombrello, aspetto che assume precocemente per potatura naturale e poiché presto si ramifica in getti tutti approssimativamente della stessa vigoria. Possiede l’apparato radicale robusto, all’inizio lungamente fittonante, il tronco eretto, alto da 20 a 25 metri, spesso biforcato e spoglio nei due terzi inferiori, mentre è ramificato in alto con rami verticillati ed espansi, disposti a raggiera come le aste di un ombrello tanto da fargli attribuire il nome di “Pino ad ombrella“. La corteccia, spessa, di colore rosso bruno, è divisa da larghe placche verticali di forma romboidale.

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Le foglie, aghiformi, sempreverdi, morbide, flessibili, molto appuntite, riunite in coppie di due, decidue, di colore verde scuro, lunghe 12-15 centimetri, avvolte alla base da una guaina trasparente e persistente, formano la chioma. E’ una pianta monoica dicline. I fiori, meglio indicati come sporofilli, sono riuniti in infiorescenze. I macrosporofilli femminili, in strobili ovoidali, di color rosa-viola, crescono all’estremità dei nuovi germogli e, a maturazione, diventano legnosi e liberano i semi. I microsporofilli maschili, in piccoli strobili giallo – dorati, più evidenti di quelli femminili, sono posti alla base del germoglio. La fioritura avviene da aprile a giugno e, nell’autunno dello stesso anno o di quello successivo, nascono le pigne. Il frutto, lo strobilo,lungo fino a 15 centimetri, solitario, grande, pesante, di forma conica, globosa, formato da tante squame romboidali, matura ogni tre anni, il tempo più lungo di qualsiasi altro Pino. Ogni squama, schiudendosi, libera due semi. I semi sono protetti da un guscio osseo di colore rosso scuro ornato da un’ala brevissima che si stacca facilmente. I semi, i pinoli, lunghi 2 centimetri, sono oleosi, commestibili, molto gradevoli e gustosi. In varie zone d’Italia sono chiamati con altri nomi come “pinoccoli” o “pinocchi“. I semi sono dispersi dagli animali, dagli uccelli e anche dall’uomo. La raccolta degli strobili si compie da ottobre fino alla fine dell’inverno lasciandoli esposti al sole per favorire l’apertura delle squame.

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 Il Pino domestico è una conifera molto utilizzata nei viali e nei giardini pubblici. E’ una pianta rustica, a crescita abbastanza rapida, xerofila. Poco esigente nei riguardi del suolo gradisce, però, quelli sabbiosi, sciolti, non aridi ed evita quelli argillosi o troppo calcarei. Pianta eliofila, predilige un’esposizione sufficientemente soleggiata, un clima di tipo La moltiplicazione avviene, quindi, per seme da praticare in qualsiasi periodo dell’anno, preferibilmente in primavera. La fragilità dei giovani esemplari, che sono attaccati facilmente da parassiti e da malattie, rende poco probabile la possibilità di ottenere dal seme nuove piantine.  Più facile è la propagazione per talea in primavera o in estate inoltrata. costiero, non troppo esposto ai venti e resiste ai freddi invernali. Richiede annaffiature solo se il clima è particolarmente siccitoso e raramente ha bisogno di qualche concimazione. Teme l’attacco di Afidi e di Acari e spesso anche la Processionaria del Pino danneggia gravemente la pianta. Come quasi tutte le pinaceae, anche il Pinus pinea produce una resina che allontana la maggior parte dei parassiti. Essendo piante resinose, tutti i Pini si lasciano attraversare dal fuoco con molta facilità. Il fuoco, talora di natura dolosa, ma molto spesso provocato dalla disattenzione dell’Uomo, è uno dei maggiori pericoli per le pinete che vengono enormemente danneggiate o distrutte. Il legno non è un ottimo combustibile poichè produce una fiamma viva e dal colore intenso, ma poca carbonella. Il Pino domestico produce un legno rossiccio e venato di scuro, leggero, tenero, poco resistente, resinoso, non di gran pregio, pertanto non molto ricercato. E’ adatto per lavori di falegnameria comune, per travature, per traverse, per paleria, nell’industria cartaria e per costruzioni navali.

Ugo Foscolo, ne ”I Sepolcri”, ha inserito l’episodio di Nelson, l’inglese che avrebbe tagliato l’albero maestro di una nave francese nemica, costruito con il tronco di Pino, e si sarebbe fabbricato la propria bara.

[…] Pietosa insania che fa cari gli orti

De’ suburbani avelli alle britanne

Vergini dove le conduce amore

Della perduta madre, ove clementi

Pregaro i Genj del ritorno al prode

Che tronca fe’ la trionfata nave

Del maggior pino, e si scavò la bara.[…]

Dalla sua corteccia si estrae il tannino, composto utilizzato per la conciatura di pelli. I suoi frutti, i pinoli, ricchi di proteine, consumati in Europa sin dalla preistoria, hanno notevoli impieghi nell’industria dolciaria e farmaceutica.

I pinoli sono utilizzati per impreziosire torte e per preparare moltissimi piatti della cucina mediterranea italiana. Non possono mancare nel piatto di pasta con finocchietti ricci e sarde della cucina palermitana. Attualmente il Pinus pinea è coltivato anche come pianta ornamentale. Piccoli esemplari sono cresciuti in grandi piantagioni e usati per i bonsai. Pianticelle di un anno d’età, che hanno raggiunto il metro d’altezza, sono usate anche come alberi di Natale da appoggiare sul tavolo. Sacro a Bacco, a Cibele, a Diana e a Nettuno, nella tradizione greca simboleggiava la “resurrezione”.

 

 

 

 

Aug 1, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DEL PINO

LA STORIA DEL PINO

L’articolo sul Pinus nigra mi stimola a raccontare la storia del Pino.

Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta vegetano bene tante specie di Pini.  I Pini sono alberi veramente belli! Il colore sempre verde e le audaci forme delle chiome conducono la mente ad immaginare luoghi montagnosi e tempi invernali quando la neve li ricopre e li rende affascinanti. Sono le piante preferite dagli uccelli e con queste eccezionali creature vivificano l’ambiente che abitano.

Alcune specie di Pino da tempi antichissimi vegetano sui monti e sulle valli del nostro Paese e, più in generale, di tutta l’Europa. L’ampia distribuzione geografica di queste piante le vede rappresentate in regioni molto differenti, anche se la concentrazione più importante si rileva nella fascia a clima temperato o temperato-freddo dell’emisfero boreale arrivando a superare il circolo polare artico a nord e le zone subtropicali a sud. Sono circa una settantina le specie facenti parte del genere Pinus.

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Pinus nigra

 Si tratta della famiglia di conifere più estesa e di maggior importanza economica e forestale. Morfologicamente si tratta di piante arboree sempreverdi. Nella prima fase del loro sviluppo sono caratterizzate da una bella forma piramidale differenziando poi gradualmente parecchie impalcature: invecchiando, mutano la propria sagoma da piramidale in altra con figure più aperte e globose. Col tempo la corteccia della maggior parte delle specie s’ispessisce e si fessura più o meno profondamente. Le foglie sono aciculari e perenni. Gli strobili femminili e maschili sono presenti sulla stessa pianta. Il frutto è un cono che, maturando, si schiude lasciando fuoriuscire i semi alati, a coppie su ciascuna scaglia, protetti da una squama molto lignificata. Tra l’impollinazione e la fecondazione può passare anche un anno di tempo, mentre la maturazione dei semi richiede circa due anni.

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Pinus larix

Pinus è un termine d’origine controversa: forse deriva dal latino ”pix, picis”, “pece, resina”, un prodotto della pianta. Potrebbe anche derivare dalle radici indoeuropee “pic”, “pungere”, in riferimento agli aghi, oppure “pi”, “stillare”, emanare la preziosa resina, oppure ancora dal celtico “pen”, “testa” alludendo alla forma della chioma, oppure dal celtico “pin”, “montagna, roccia” per la capacità della pianta di vivere in terreni pietrosi. Secondo la mitologia latina, fu la ninfa Pitis ad attribuire il nome alla pianta.

 La ninfa Pitis chiese agli dei di essere trasformata in un albero di Pino per sfuggire al dio Pan che voleva violarla. Secondo un’altra versione, Pitis era contesa tra il dio Pan e Borea, il vento del nord. Allorquando Pitis scelse Pan, il vento Borea, per vendicarsi, la gettò giù da una rupe con un impetuoso soffio. La Terra, impietosita, la trasformò in un albero di Pino. Quando, in autunno, il vento soffia forte tra i boschi, staccando la resina dalla corteccia, allora è Pitis che stilla le sue lacrime.

 Nelle mitologie latina e  greca il Pino ha avuto un valore ambientale e storico davvero importante sfruttando ampiamente il simbolismo ed il suo nome. È menzionato spesso nelle citazioni poetiche di Ovidio, di Virgilio, di Plinio, di Orazio ritenendolo spesso un albero sacro. Molti sono i miti legati a questa pianta maestosa, ma tutti collegati a grandi eventi luttuosi del mondo maschile. Ovidio, nel libro X de “Le Metamorfosi”, così racconta il mito di Attis, il giovane mutato in un Pino: “E voi pure veniste, edere dalle radici aggrovigliate, e le viti piene di pampini, gli olmi avviluppati di viti, e ornielli, pìcee, corbezzoli carichi di frutti rosseggianti, tranquille palme che si danno in premio ai vincitori, e il pino che si erge con la sua chioma arruffata raccolta in cima, il pino, caro a Cibele, la madre degli dei, se è vero che per lei Attis si spogliò del suo corpo per fissarsi in quel tronco”.

 Nella mitologia greca il Pino è testimone del sacrificio del giovane Attis. Attis era un fanciullo di straordinaria bellezza di cui si era innamorata Cibele, la dea frigia che lo assisteva nella caccia assicurandogli prede abbondanti. Attis, tuttavia, si era innamorato della figlia del re Mida. Alle nozze di Attis, Cibele, innamorata tradita, manifestò la sua gelosia provocando disordine fra tutti gli invitati presenti alla festa e facendo impazzire Attis. Attis, allora, rinunciando al matrimonio con la figlia del re Mida, si evirò, morendo dissanguato, all’ombra di un albero di Pino. Cibele, addolorata, trasformò il corpo di Attis in un Pino sacro. Ogni goccia del suo sangue caduto a terra si trasformò in un fiore di viola. Cibele ottenne poi da Zeus che il corpo di Attis non marcisse, che i capelli continuassero a crescere e che potesse muovere il dito mignolo della mano. Cibele diede sepoltura ai genitali di Attis che diventò così il dio della vegetazione che sboccia a primavera dopo la sospensione della vita durante l’inverno. Una festività funebre, istituita in suo onore, si celebrava ogni anno il giorno dell’equinozio di primavera per ricordare che il Pino moriva e resuscitava.

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Pinus pinea

La pianta di Pino, con la sua eleganza, simboleggia “la rinascita della vita” e trasmette il senso d’immortalità considerato che sopporta il freddo invernale e mantiene la chioma verde in tutte le stagioni. E’ anche simbolo “di fecondità e di buon augurio”. In Grecia il Pino era consacrato a Rea, la Grande Madre, come simbolo di “morte, ma anche d’immortalità”: di morte perché, se tagliato, non riesce a ricrescere, d’immortalità per la sua straordinaria capacità di resistenza e d’adattamento agli ambienti più sfavorevoli. Per i Romani il Pino era simbolo di “verginità” e lo dedicarono a Bacco, il dio della vegetazione e della fertilità. In Giappone lo strobilo, fino a non molto tempo fa, compariva nelle cerimonie nuziali rappresentando la costanza e la fedeltà dell’amore coniugale e la perpetuità del genere umano. In Giappone ancora oggi il Pino evoca l’immortalità ed il suo legno è utilizzato per costruire i templi scintoisti e gli strumenti rituali. Per gli Assiri il Pino era il guardiano della vita. La tradizione medievale europea racconta del paladino Orlando, l’eroe perito sotto le sue fronde nella battaglia di Roncisvalle.

 Oltre all’importanza mitologia, il Pino è utile perchè fornisce il legno e la resina. La raccolta della resina è legata alla storia dell’uomo già dall’epoca preistorica ed è sopravvissuta fino a pochi decenni fa per i molteplici utilizzi di questo materiale naturale. L’uomo preistorico fissava le sue frecce e i suoi strumenti litici a manici di legno utilizzando un impasto di resina mescolata al carbone e alla cera d’api e i cui resti sono ancora oggi reperibili negli scavi archeologici. Le ferite a lisca di pesce, finemente incise, che ancora oggi si possono vedere su alcuni vecchi pini, riconducono ad un antico mestiere praticato in Maremma fino alla metà degli anni 60: quello del resinatore. Questa attività è oggi totalmente scomparsa essendo l’industria chimica in grado di estrarre la resina dai legnami in lavorazione e di produrla con processi di sintesi. Con la pece si trattavano i legni per le navi, s’impermeabilizzavano le corde e gli spaghi per cucire le calzature, si calafatavano le imbarcazioni. Dalla resina si ricavava l’essenza di trementina, un materiale usato per preparare le sostanze balsamiche.

In fitoterapia, secondo le antiche ricette, il Pino trovava impiego nei casi d’impotenza, come a significare che “il simile cura il simile”. Chi ne faceva uso rinasceva a nuova vita maschile, proprio come la pianta. Le parti della pianta di Pino avevano anche altre applicazioni. Gli indiani d’America utilizzavano il decotto degli aghi per prevenire lo scorbuto e i soli aghi per riempire i giacigli dove dormivano e per tenere lontani insetti e pulci. Nella tradizione popolare i germogli si aggiungevano all’acqua del bagno per curare disturbi circolatori, ferite, infezioni della pelle e dolori artritici. Alla fine dell’800, quando era diffusa la tubercolosi e si avevano pochi mezzi per combatterla, i “sanatori” erano costruiti in luoghi temperati, soleggiati e vicini ai boschi di Pini per sfruttare le proprietà balsamiche delle piante. La moderna fitoterapia utilizza i derivati del Pino per la cura delle vie respiratorie, dei reumatismi e della sciatica. I pinoli sono degli ottimi ricostituenti soprattutto per le persone malate o convalescenti. Plinio esaltava le proprietà del seme come rinvigorente delle forze debilitate e come ottimo rimedio per guarire le affezioni delle vie urinarie. Fin da tempi remoti i pinoli sono considerati potenti afrodisiaci. Galeno, nel II secolo d.C., raccomandava agli uomini di bere un bicchiere di miele e di mangiare 20 mandorle e 100 pinoli prima di mettersi a letto. L’utilizzo più poetico della trementina, ancora oggi non superato dal tempo, è rappresentato dal trattamento delle corde degli archi per suonare gli strumenti musicali. In un raffinato evento musicale dal vivo, le note che si sprigionano da viole, violini e violoncelli scaturiscono dall’inimitabile attrito che la resina del Pino produce sulle tese corde metalliche. E’ stata data grande importanza anche al legno del Pino utilizzato per la costruzione delle navi da guerra, ambiente esclusivamente maschile. Era usato per fabbricare sponde e fondi di carri agricoli, per cassapanche e, raramente, per costruire mobili. Plinio il Vecchio parla di arnie delle api costruite con assi di legno di Quercia, di Faggio, di Pino e di Fico. Il legno di Pino era anche utilizzato come combustibile facilmente infiammabile.

Nemico del Pino, dalla quale rischia di essere danneggiato, è la processionaria, la Thaumetopoea pityocampa, un insetto parassita le cui larve si nutrono delle foglie di diverse specie di Pini e che, durante la loro vita larvale, si rifugiano entro bianchi nidi sericei che costruiscono sulle chiome degli alberi. Queste larve possono defogliare la chioma dell’albero indebolendolo anche pesantemente. Le larve sono provviste di peli urticanti che provocano dermatiti e infiammazioni agli occhi ed alle mucose delle vie respiratorie alle persone che, inavvertitamente, vengono in contatto con loro.

 

Jul 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL PINUS NIGRA

IL PINUS NIGRA

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Ogni volta che mi  trovo al  mio paese, a Mistretta, giornalmente mi reco alla villa comunale “Giuseppe Garibaldi” per incontrare le mie amiche PIANTE che saluto, ammiro e chiamo ciascuna con il proprio nome. Nell’agorà, seduta su uno dei tanti sedili, in particolare oggi osservo il Pino nero. E’ maestoso, è bello! Ammiro la sua cima, fitta di rametti e di foglie, già affacciandomi dal balcone belvedere.

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Da questo magnifico giardino non vorrei uscire mai! Le emozioni che ricevo sono tante! Al primo posto c’è l’amore per la Natura. Seguono:i buoni rapporti sociali intrattenuti con le persone che entrano nella villa, la piacevolezza della frescura, molto apprezzata da me che fuggo da Licata dove il caldo è insopportabile, il profumo e i colori dei fiori che inebriano l’olfatto e la vista, la sensazione di riposo e di benessere generale. Vincenzo Consolo, scrittore appartenente a quella particolare specie di intellettuale siciliano di consistenza così essenziale e compatta, così scrive:”Ma tant’è: dal giardino e dal labirinto si esce con le ali, sia pure attaccate con la cera, coi voli della fantasia, si esce attraverso la ricerca, la conoscenza, per la porta che dalla Natura immette nella storia”.

Il Pinus nigra è una specie del genere Pinus presente esclusivamente nelle regioni montuose mediterranee. Il nome scientifico è “Pinus nigra”, il nome comune è “Pino austriaco” perché appartiene ad una sottospecie originaria dell’Austria e della Croazia. Il Pino nero d’Austria è una conifera di rapida crescita appartenente alla famiglia delle Pinaceae. I rametti, tipicamente grigio-brunastri con sfumature nere, insieme alle foglie formano la chioma verde, scurissima da cui l’appellativo di “Pino nero”.

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I Pini sono stati introdotti in Europa da Maria Teresa d’Austria e, inizialmente sono stati i primi a proliferare. Successivamente si è dato ampio spazio alle Querce e ad altri alberi ad alto fusto. Così, il Pino nero si trova quasi dovunque, come l’Abete. Il Pinus nigra ha esteso il suo areale dall’Europa meridionale all’Asia Minore, alle montagne dell’Africa settentrionale fino all’Anatolia. Si è naturalizzato in qualche area dell’America settentrionale. In Italia è presente con tre sottospecie spontanee nelle Alpi orientali, nell’Appennino centrale e nell’Appennino meridionale. E’ spontaneo nel Veneto, nel Friuli, in Calabria e in Sicilia vegetando bene nelle zone più fredde dell’area del Castagno e del Faggio. Sotto il aggruppamento tassonomico di “Pino nero” in Italia rientrano molti Pini che presentano alcune varietà con adattamenti geografici e con condizioni morfologico-strutturali diversi fra loro. Sono esempi: il Pino laricio in Calabria, il Pino di Villetta Barrea in Abruzzo, il Pino d’Austria in Sicilia che è presente anche nella villa comunale di Mistretta.

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 Il Pinus nigra è un albero sempreverde, longevo, che può contare 250 anni d’età, dalle dimensioni elevate di circa 30 metri. L’albero è fissato al suolo mediante una radice fittonante dotata di notevole capacità penetrativa. Presenta lo sviluppo del tronco colonnare e diritto che si eleva verso l’alto ed è rivestito dalla corteccia ruvida, grigio-scura, quasi nera, profondamente fessurata e suddivisa in placche irregolari e allungate.

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5 okE’ ramificato sin dalla base con palchi secondari orizzontali. I rami sono ricoperti da lunghi aghi di colore verde scuro. Le foglie, aghiformi, rigide, persistenti, erette e poco innervate, di colore verde intenso, sono appaiate ed avvolte da una guaina. Gli aghi, lunghi da 8 a18 centimetri, hanno l’apice appuntito e pungente. Le foglie formano la chioma asimmetrica, densa, molto scura e dall’aspetto pesante. Il Pinus nigra è vestito di un abito verde anche nella stagione fredda. D’inverno, quando tutto dorme e la Natura si rinchiude in se stessa e i colori sfumano e si disperdono nella neve, il Pino nero è sempre bello e verde. I suoi rami fitti e spioventi formano un ombrello sempre aperto, una tettoia sotto la quale si rifugiano gli uccelli quando scoppia il temporale. Le infiorescenze maschili sono formate da piccoli coni ovoidali giallastri riuniti in gruppi che crescono alla base dei getti nuovi; le infiorescenze femminili, che crescono sulla stessa pianta, sono costituite da piccoli coni solitari o a piccoli gruppi di colore rosato e sono posti in cima ai rami. La fioritura avviene da maggio a giugno.

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 I frutti, gli strobili, di forma ovale-conica, riuniti in gruppi di 2 e di 4, sono lunghi fino a 15 centimetri e larghi anche 3 centimetri. Gli strobili, formati da squame con un’unghia nera e con un rilievo al centro, sono verdi in età giovanile, giallastri a maturazione. Maturano alla fine del secondo anno dalla fioritura o nella primavera del terzo. Contengono dei semi alati lunghi circa 8 millimetri che si aprono poco dopo e favoriscono la riproduzione.

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 Il Pinus nigra è una pianta molto diffusa dall’uomo a scopo ornamentale e paesaggistico per la sua adattabilità, per il suo rapido e vigoroso sviluppo, per la capacità di colonizzare ambienti difficili e per il notevole effetto estetico. Pianta estremamente rustica, moderatamente termofila, resiste bene al freddo e alla neve e sopporta temperature minime molto rigide. Vegeta dalla pianura fino a 2000 metri di quota ma, di solito, predilige un’altezza da 200 a 1500 metri. Il Pino nero è una pianta che si può coltivare in giardino per tutto l’arco dell’anno. Ama i terreni abbastanza soffici, tendenzialmente calcarei, non troppo profondi, poco fertili, non eccessivamente drenati dove le radici, che si diramano anche per decine di metri, trovano i nutrienti necessari. Mal sopporta la competizione spazio-luce con altre essenze vicine e l’inquinamento atmosferico. Ogni 2-3 anni, in primavera o in autunno, è consigliabile aggiungere al terreno, ai piedi del tronco, una certa quantità di fertilizzante in modo da garantire il giusto apporto di sali minerali. Specie eliofila, necessita di almeno alcune ore al giorno d’irradiamento solare. Il Pinus nigra è attaccato dalla Processionaria, il Thaumetopoea pityocampa, un insetto che deve il suo nome all’abitudine di muoversi sul terreno in fila formando una sorta di “processione” quando è alla ricerca di un luogo dove deporre le uova. La processionaria è attiva solo durante i periodi freddi dell’anno dal momento che trascorre i mesi estivi in bozzolo sotto terra. Riemerge a settembre. Ogni femmina produce un cumulo di uova che si fissano alla foglia.Dopo circa quattro settimane, si schiudono le larve che, dotate di forti mandibole, fagocitano i duri aghi di Pino spogliando completamente il ramo, quindi si muovono in fila alla ricerca di un nuovo ospite. Le femmine, per prime, si recano sugli alberi dove sono fecondate dal maschio. Il ciclo ricomincia. La vita è molto breve: 2 giorni appena. La processionaria causa gravi danni alla pianta fino a procurarle la morte.

 Il Pino nero può essere utilizzato come essenza da legno o per rimboschimenti nelle zone montane. Il legno è tenero e resinoso e dal quale si possono ricavare delle ottime tavole da impiegare solo all’interno delle abitazioni. Il legname, che non ha molto valore commerciale, può essere utilizzato per lavori edili, ma, in prevalenza, s’impiega per la produzione di carta e di cellulosa. Dalla macerazione degli aghi si ricavava una sorta di lana che serve per riempire i materassi; l’acqua della macerazione degli aghi era riutilizzata anche per usi medicinali. Dalle gemme si ricavava un olio utile nella cura delle affezioni respiratorie. Un ottimo liquore si otteneva dalla fermentazione degli strobili giovani.

Nel linguaggio dei fiori il Pino è simbolo di “audacia”.

 

Jul 16, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL CONVOLVULUS ALTHAEOIDES DAI BEI FIORI VIOLACEI

IL CONVOLVULUS ALTHAEOIDES DAI BEI FIORI VIOLACEI

 

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 Quale emozione si prova nell’osservare i gioielli che madre Natura regala a noi umani che, molto spesso, neanche li ammiriamo?
Le dico soltanto GRAZIE!
Il Convolvulus althaeoides è uno di questi gioielli.
Esso è una piacevolissima ed allegra pianta che incontro molto facilmente osservando le campagne di Licata.
Infatti preferisce vivere nei luoghi aridi e aperti della macchia mediterranea. Vegeta bene da zero e fino ad un’altitudine di 600 metri sul livello del mare.
E’ una pianta che facilmente tende a diventare invadente.
E’ poco esigente, gradisce un terreno povero, ma ben drenato e una buona esposizione al sole.
In Italia è conosciuto con i sinonimi: Vilucchio rosso, Convolvolo.
Etimologicamente il nome del genere deriva dal latino “convolvo” “avvolgere” per i suoi fusti volubili ed avvolgenti.
Il nome della specie “althaeoides” deriva dal greco “αλθαίνομαι” “guarire, risanare

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Il convolvulus althaeoides è originario del bacino del Mediterraneo limitando la sua distribuzione all’Europea meridionale, alle isole Canarie, all’Africa settentrionale. In Italia è presente in Toscana, in Emilia Romagna, nei territori centro-meridionali a partire dal Lazio e dall’Abruzzo. Nelle isole è presente in Sicilia e in Sardegna. E’ assente in Umbria. E’ stato trovato anche in altre zone, dove il clima è favorevole, come in California.

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Appartenente alla famiglia delle Convolvulaceae, il Convolvulus althaeoides è un pianta erbacea rustica, perenne, alta da 5 a 8 cm e dal portamento semi-rampicante o prostrato. Possiede lunghi rizomi e fusti, sottili, lunghi, flessuosi, striscianti e rampicanti, legnosi alla base, totalmente ricoperti da una fitta peluria bluastra, quale espressione di adattamento agli ambienti aridi. Si allargano per un ampio raggio. Le foglie, delicate, di colore verde argentato, sono picciolate e con la lamina variamente conformata.
Le foglie inferiori hanno la lamina a forma di cuore o irregolarmente triangolare, quelle superiori sono profondamente divise in 5-9 lacinie molto differenti tra di loro. A partire dal  mese di aprile la pianta si riveste di numerosi fiori, solitari o appaiati, di grandi dimensioni, posti all’ascella delle foglie e sostenuti da lunghi peduncoli. La corolla dei fiori, a forma di imbuto e lunga 4 volto il calice, è di un bel colore rosa- lilla più intenso al centro. Il calice è formato da sepali a denti lanceolati e ottusi I fiori si chiudono di sera. L’antesi si protrae fino al mese di giugno. L’impollinazione è favorita dalle api, dalle farfalle e dagli insetti pronubi. Il frutto è una capsula tetrasperma mono o biloculare, sferica-acuminata dal diametro di circa 6 mm.

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Il Vilucchio rosso viene usato poco in cucina.
Nel Salento i suoi teneri germogli vengono raccolti e utilizzati come gli asparagi selvatici. Si preparano ottime frittate con le uova. Si possono conservare sott’olio. Inoltre, lessati e conditi con olio e aceto di vino sono ottimi in insalata. Non bisogna eccedere con le quantità perché è una specie leggermente tossica.
Il Vilucchio rosso possiede qualche proprietà officinale. Le foglie e le radici, raccolte nei mesi di aprile e di maggio, contengono amido, gomme, resine, zuccheri, sali, saponine con effetti lassativi. Nella medicina popolare gli estratti del Vilucchio rosso erano usati per curare le febbri di origine epato-biliare, nell’idropsia epatica, nell’inerzia intestinale causata da insufficienza epatica. Infatti, i fiori sono ritenuti febbrifughi.

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Curiosità: Ovidio racconta che la ninfa  Smilax, innamorata del giovane guerriero Krocus, in un primo periodo di amore idilliaco è lusingata dalle sue attenzioni ma presto comincia a stancarsi fino ad allontanarlo. Krocus, che non vuole rassegnarsi alla fine dl loro amore, continua ad attirare l’attenzione dell’amata fino a perseguitarla. Krocus, per disperazione, si suicida. Smilax impazzisce.
Poiché il legame univa una divinità immortale e un uomo mortale e questo amore, diventato causa di infelicità, rendeva gli amanti  litigiosi, gli Dei, impietositi della sorta toccata ai due sventurati giovani amanti, li trasformarono in due bellissime piante. La ninfa  Smilax  è trasformata nella pianta di Smilax aspera, volgarmente chiamata “stracciabraghe“, dalle foglie a forma di cuore e dai rami flessibili e spinosissimi, simbolo di un amore tenacissimo, ma esasperato.
Krocus è trasformato nella pianta di  Crocus sativus, dal fiore viola come la passione superba per aver osato innamorarsi di una divinità, ma dal cuore dal colore del sole. A ricordo di questa infausta passione di Smilax e di Krocus, nell’antica tradizione il Croco diventò il fiore simbolo del desiderio d’amore e, per questo motivo, fu posto sulla tomba dei morti. Questa  tradizione si tramanderà fino ai tempi di Roma.
Anche Plinio il Vecchio attribuiva al genere Convolvulus lugubri significati. Con i rametti carichi di fiori erano allestiti ornamenti sacrificali e ghirlande mortuarie. Credevano che  in essi fosse rimasto imprigionato lo spirito della ninfa Smilax trasformata in pianta per essersi innamorata del giovane Krocus.
Euripide Le Baccanti (III episodio 700) “Tutte si incoronavano con ghirlande di edera, di quercia e di smilace in fiore”

 

Jul 4, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA DEVOZIONE ALLA SS. VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO, LA SUA CHIESA E LA SUA FESTA A MISTRETTA

LA STORIA DELLA DEVOZIONE ALLA SS. VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO, LA SUA CHIESA E LA SUA FESTA A MISTRETTA

Il monte Carmelo, in aramaico “Karmel” “giardino, paradiso di Dio”, è un rilievo montuoso calcareo alto 528 metri che si trova nella sezione nord-occidentale di Israele, nell’Alta Galilea. Si estende da SE a NW tra la piana di Esdraelon e quella di Sharon giungendo fino al mar Mediterraneo e articolando la costa nell’omonimo capo ai piedi del quale sorge la città di Haifa.
Possiede una vegetazione bella e rigogliosa.
E’ ricoperto di boschi, uliveti, vigneti. E’ citato più volte nell’Antico Testamento, in connessione con la vita del profeta Isaia (III Re 18,19 ss) e di Eliseo (IV Re 2,25), rispettato, per questo motivo, dagli israeliti, dai cristiani, e da musulmani.
Al monte Carmelo è legato l’Ordine dei carmelitani. Fin dal tempo dei Filistei il monte Carmelo fu luogo di sosta di asceti. Dopo la morte di Gesù su questo monte si ritirarono alcuni cristiani per attuare i suggerimenti evangelici.

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Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si legge che Elia, il primo profeta d’Israele, raccogliendo proprio sul monte Carmelo un insieme di seguaci, operò in difesa della purezza della fede in Dio vincendo il confronto contro i sacerdoti del dio Baal. Elia, dimorando sul monte Carmelo, ebbe la visione della Vergine che, come una piccola nube, si alzava dalla terra verso il monte portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In seguito, sul monte Carmelo si stabilirono alcune comunità monastiche cristiane.
La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo sul monte Carmelo si ritirarono gli eremiti vicino alla fontana del profeta Elia. I crociati, nell’XI secolo, incontrarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di San Basilio.
Il monte Carmelo, data l’affluenza di quanti si raccoglievano intorno ai primi Carmelitani, divenne incapace di ospitarli tutti. Così molti eremiti, devoti alla Vergine, si diffusero prima in Palestina e, successivamente, in Egitto ed in tutto l’Oriente. Verso il 1150 finalmente gli eremiti si organizzarono a condurre una vita comune e realizzarono dei monasteri carmelitani che si diffusero anche in occidente, in Sicilia e in Inghilterra. Attorno al 1154 sul monte Carmelo si ritirò anche il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina assieme al cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia. Insieme decisero di riunire sul monte Carmelo alcuni eremiti invitandoli a trascorrere una vita monastica. Gli eremiti continuarono ad abitare sul monte Carmelo anche dopo l’avvento del cristianesimo.
Alcuni eremiti sul monte Carmelo, vicino alla fontana di Elia, edificarono il primo Tempio dedicato alla Vergine che, per questo motivo, si chiamò Madonna del Carmelo o del Carmine. Questo gruppo di eremiti prese il nome di “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”. Il monte Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame alla Vergine Maria.
Iniziò così il culto a Maria, “amata da Dio”, il più bel fiore del giardino di Dio, laStella Polare”, la “Stella Maris” del popolo cristiano.
Nella seconda metà del sec. XII giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo che, continuando il culto mariano, si riunirono in un Ordine religioso, l’ordine carmelitano, fondato in onore della Vergine alla quale si professavano particolarmente legati. L’Ordine non ebbe, quindi, un vero e proprio fondatore, anche se considera il profeta Elia il suo patriarca. Il patriarca di Gerusalemme Sant’Alberto Avogadro (1206-1214), originario dell’Italia, dettò la “Regola di vita” dell’Ordine Carmelitano.
Veglie, digiuni, astinenze, pratica della povertà e del silenzio furono i principi dominanti della “Regola di vita”.
Essa fu approvata da papa Onorio III con la bolla “Ut vivendi normam” il 30 gennaio del 1226. Nel 1251 papa Innocenzo IV approvò la nuova Regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede. Una conferma più solenne dell’Ordine Carmelitano fu data nel 1273 con il Concilio di Lione che aboliva tutte le nuove Congregazioni facendo rimanere in vita solo i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani.
Intorno al 1235, a causa delle incursioni dei saraceni, i frati dovettero abbandonare la Palestina per stabilirsi in Occidente. Il loro primo monastero trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Altri monasteri sono stati edificati a Marsiglia nel 1238, a Kent nel 1242, a Pisa nel 1249, a Parigi nel 1254 diffondendo il culto di Colei a cui “è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron” (Is 35,2).
Il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno.
Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”.

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Detto questo, la Vergine Maria scomparve in un profumo di Cielo lasciando nelle mani di Simon Stock il pegno della Sua Prima “Grande Promessa”. La Madonna, dunque, con la Sua rivelazione ha voluto dire che chiunque indosserà e porterà questo Scapolare, la divisa carme­litana, non solo sarà salvato eternamente, ma sarà anche difeso in vita dai pericoli. Non bisogna credere, però, che la Madonna, con la sua Grande Promessa, voglia ingenerare nell’uomo l’intenzione di assicurarsi il Paradiso conti­nuando a peccare, oppure generare la speranza di salvarsi, anche senza meriti, piuttosto Lei si adopera per la conversione del peccatore che indossa con fede e devozione l’Abitino fino al giorno della sua morte.  Lo scapolare consiste nella promessa della salvezza dall’inferno per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Queste parole pronunciate dalla Vergine Maria, quindi, non ci dispensano dal vivere secondo la legge di Dio; ci promettono soltanto l’intercessione della Beata Vergine Maria per una santa morte. Lo “Scapolare” detto anche “Abitino”, non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di “rivestimento” che richiama la veste dei carmelitani, l’affidamento alla Vergine per vivere sotto la sua protezione e in comunione con Maria e con i Suoi fedeli.
Fu San Simon Stock, dunque, a diffondere il culto per la Madonna del Carmelo. Compose per Lei il “Flos Carmeli” “Fiore del Carmelo”, una delle preghiere più importanti e famose dedicate alla Madonna del Monte del Carmelo:

Flos Carmeli, vitis florigera, splendor coeli, Virgo puerpera, singularis.

Mater mitis, sed viri nescia, carmelitis esto propitia, stella maris.

Radix Iesse, germinans flosculum, hic adesse me tibi servulum patiaris.

Inter spinas quae crescis lilium, serva puras mentes fragilium, tutelaris!

Armatura fortis pugnantium, furunt bella tende praesidium scapularislo

Per incerta prudens consilium, per adversa iuge solatium largiaris.

Mater dulcis, Carmeli domina, plebem tuam reple laetitia qua bearis.

Paradisi clavis et ianua, fac nos duci quo, Mater, coron

Fior del Carmelo, vite fiorita, splendore del cielo, tu solamente sei vergine e madre.

Madre mite, pura nel cuore, ai figli tuoi sii propizia, stella del mare.

Ceppo di Jesse, che produce il fiore, a noi concedi di rimanere con te per sempre.

Giglio cresciuto tra alte spine, conserva pure le menti fragili e dona aiuto.

Forte armatura dei combattenti, la guerra infuria, poni a difesa lo scapolare.

Nell’incertezza dacci consiglio, nella sventura, dal cielo impetra consolazione.

Madre e Signora del tuo Carmelo, di quella gioia che ti rapisce sazia i cuori.

O chiave e porta del Paradiso, fa’ che giungiamo dove di gloria sei coronata. Amen.

Scarse sono le conoscenze sulla vita di San Simon Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265). Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, egli maturò la decisione di entrare a far parte dei Carmelitani e, completati gli studi a Roma, fu ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva 82 anni, fu scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani facendone un ordine mendicante.
Un secolo dopo l’apparizione a San Simone Stock la Beata Vergine del Carmine apparve al Pontefice Giovanni XXII e, dopo avergli raccomandato l’Ordine del Carmelo, gli promise di liberare i suoi confratelli dalle fiamme del Purgatorio il sabato successivo alla loro morte.

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Questa seconda promessa della Vergine porta il nome di “Privilegio Sabatino” che ha origine dalla Bolla Sabatina dello stesso Pontefice Giovanni XXII e datata il 3 marzo del 1322 ad Avignone.
Per usufruire della Grande Promessa fatta a San Simon Stock, bisogna ricevere lo Scapolare da un sacerdote, portarlo sempre addosso devotamente e iscriversi alla Confraternita. Per usufruire del Privilegio Sabatino bisogna osservare la castità del proprio stato e recitare alcune preghiere assieme al sacerdote nell’atto di consegnare e di ricevere lo Scapolare.
Durante la Novena della Madonna del Carmelo il coro “Fiore del Carmelo“, appartenente alla chiesa della Madonna del Carmelo di Licata, ha recitato cantando il santo rosario:

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I mistrettesi dicono: ” Staiu o carminu,  e pieri mi curcu” fiduciosi nella protezione della Madonna del Carmelo.

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LA CHIESA DELLA MADONNA DEL MONTE CARMELO A MISTRETTA

Alla Madonna del Carmine sono dedicate un po’ ovunque chiese e santuari.
Anche a Mistretta c’è la caratteristica piccola chiesa intitolata alla Madonna del Carmelo col Bambino.
La chiesa della beata Vergine Maria Santissima del Monte Carmelo, meglio conosciuta col nome di chiesa del Carmine, sorge alle falde del castello, nel quartiere arabo-normanno, e vi si accede da una stretta stradina laterale quasi alla fine di via Libertà.
Vista da lontano, la chiesa e il quartiere attorno sembrano un presepe vivente.
Fu il conte Ruggero che ha dato l’impronta alla chiesa.  Adelaide, la moglie del conte Ruggero, ha finanziato non solo la costruzione degli edifici vicino al castello, ma anche il ritorno dei monasteri, dei sacerdoti e il ripristino di quella religiosità che era venuta a mancare durante la dominazione araba. C’erano i carmelitani, forse religiosi, forse laici.

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Data la  posizione elevata della chiesa, dall’ampio balcone, che si conquista salendo una larga scala, lo sguardo attento del visitatore ammira i meravigliosi paesaggi di montagne, dove spicca la vetta del monte Soro, di boschi, di casette, di tetti rossicci, di stradine contorte e può toccare con mano il campanile della chiesa di San Nicolò e della chiesa Madre.

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La chiesa, molto piccola, del XVI secolo, è stata costruita sulla roccia e si possono ammirare nel lato destro le antiche fondamenta.

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Originariamente era un piccolo tempio della comunità cristiana di Mistretta con un altare adornato in basso dal paliotto.
Si venerava l’immagine della Madonna col Bambino.
Nel 1675, data riportata sul portale, l’interno della chiesa fu ingrandito di almeno tre volte rispetto alla costruzione precedente.
L’ampliamento della chiesa si deve a Domenico Cinnirella che si occupò di arricchirla con stucchi barocchi e con contemporanei dipinti murali. Nell’originaria cappella dell’altare, in stile tardo barocco in stucco dipinto, della scuola di Li Volsi, si conserva l’antica immagine della Madonna col Bambino dipinta su lastra di ardesia“a balata”, ante 1593.

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La cappella della Madonna col Bambino è affiancata da due colonne tortili e dalle statue delle Sante Agata e Apollonia.

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Sopra la volta dell’originaria cappella è rimasta la parte centrale dell’affresco che rappresenta la Vergine Maria incoronata dalla Trinità.

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Dalla cappella della Madonna si accede, attraverso il superamento di alcuni scalini, ad un ampio spazio adibito a sagrestia e per le riunioni dei confrati.
La pianta della chiesa, così ampliata, ad un’unica navata, diventa a croce latina.
L’attuale altare maggiore, posto in fondo alla navata, è di stile neoclassico.

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La facciata mostra il portale in arenaria locale, opera di ignoto scalpellino siciliano,  realizzato nel 1675,  i due oculi ed il fregio del cornicione decorato a palmette e la costruzione del campanile .
Nel 1903, come recita una lapide posta all’interno della chiesa, la facciata, il campanile e il cornicione interno sono stati sottoposti a interventi di restauro.
Il campanile, di stile normanno, e  la chiesetta sembrano due realtà diverse.

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Grazie al contributo dei fedeli, dei benefattori laici e dei membri della confraternita, che ne cura la conduzione dal 1793, attualmente la chiesa custodisce importanti opere d’arte figurativa e decorativa fra le quali: il singolare regale paliotto, che porta la data del 1665, prima posto sotto l’altare della Madonna col Bambino e poi spostato sulla parete destra per proteggerlo, fatto realizzare dal committente Domenico Cinnirella con minuscole scaglie di paglia intrecciate a mosaico e unite da un particolare collante.
Era un segno devozionale del committente Cinnirella per uno scampato naufragio.
In questo mirabile lavoro, opera di maestranze locali, sono ricamate: una scena di naufragio,  la pianta di una città e del suo territorio e sopra di essa la Madonna del Carmelo, tra sole e luna, che benedice, Domenico Cinnirella in atteggiamenti devozionali, e sua moglie, l’imperatore Costantino, Carlo II re di Sicilia, Sant’Anna, San Gioacchino, angeli e anime purganti.
Probabilmente la pianta della città è quella di Mistretta o quella di Palermo.
Ciò si evince dalla presenza nel paliotto di una chiesa locale, di una fonte con Nettuno, denominata “fonte aquarum gratie”, forse in riferimento alle vasche purificatrici del tempio di Cerere di cui Vito Amico confermò l’esistenza per averle viste nel 1759 alle porte di Mistretta, e dalla presenza di altre chiese.

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Sono presenti anche alcune statue che risalgono ai secoli XVI e XVII.
Il presbiterio, nell’edicola dell’altare maggiore, di stile neoclassico, in stucco e legno, della fine del XVIII secolo, custodisce l’antica statua della Madonna del Carmine col Bambino.
E’ lignea, dorata e policroma e non è più portata in processione durante la Sua festa del 16 luglio di ogni anno.
E’ condotta in processione una seconda statua policroma, databile agli inizi del XIX secolo.

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Simmetricamente alla cappella della Madonna, a sinistra del transetto fu realizzata la cappella dove fu sistemata la statua del Crocefisso spirante, con Maria e l’Apostolo Giovanni, dall’espressione sofferente, ma serena. E’ una scultura lignea risalente alla metà del XVII secolo. Il gruppo partecipa alla processione del Venerdì Santo.  I Dolenti, opera di Giuseppe Barbera, della metà XX secolo, sono di moderna fattura.

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Le statue in legno raffigurano San Benedetto Abate con il puttino che gli regge la mitria, proveniente probabilmente dalla locale chiesa di San Rocco in seguito alla soppressione e alla demolizione dell’abbazia benedettina di Santa Maria del Soccorso (1866-1881),

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 Santo Stefano primo martire della chiesa.
E’ una scultura lignea, policroma, del XVI secolo realizzata alla lucchese.  Il vestito è ricamato con oro zecchino.

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 Sant’Alfonso Maria dè Liquori, che si venera nel secondo altare di destra, è una statua lignea, policroma di post 1839 .

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L’altare di Santa Teresa d’Avila accoglie il dipinto ad olio su tela, ante 1750,  di Santa Teresa col Bambino.
Il tempo ha scolorito i colori degli stucchi e degli affreschi barocchi, pertanto sarebbero necessari urgenti interventi di restauro.

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 E’ da ammirare la cantoria in legno dipinto con l’organo  a cassa policroma attribuibile ad Onofrio Guzzio (Lo Gussio) da Castelbuono che lo ha realizzato alla fine del XVIII secolo.

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Dal 1780, per decreto del papa Pio VI, la chiesa gode di tutte le indulgenze accordate alle chiese carmelitane.

 

LA CONFRATERNITA E L’ASSOCIAZIONE FEMMINILE

La Confraternita di “Maria SS.ma del Monte Carmelo”, meglio conosciuta come la “Confraternita del Carmine”, formata da artigiani e da operai, è associata alla chiesa di Maria SS. ma del Monte Carmelo e si regola tramite la stesura dello statuto.
E’ stata costituita nel 1793 ed attualmente il suo superiore è il signor Franco Lo Menzo.

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Lo stemma della Confraternita

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La confraternita ha la funzione di gestire principalmente la chiesa omonima e il suo patrimonio immobiliare, anticamente molto consistente e oggi molto impoverito, fonte di sostegno per la manutenzione della chiesa e per l’esercizio del suo culto.
La Confraternita organizza la festa della Madonna del Carmelo, che cade il 16 luglio.

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Parallela alla confraternita maschile è l’Associazione femminile della Madonna del Carmelo fondata dal sac. Filadelfio Longo nel 1962.
Il merito di avere continuato a gestire l’Associazione femminile di “Maria SS.ma del Monte Carmelo” dal 1967 è anche della signorina Maria Lo Stimolo che ha lasciato l’incarico di gestire l’attuale presidenza alla signora Luisa Lo Menzo.
L’Associazione femminile ha il compito di curare l’ordine della chiesa e degli arredi sacri.
La confraternita e l’Associazione partecipano alla processione del Corpus Domini e a quella dei Misteri del Venerdì Santo con il trasporto del simulacro di Gesù spirante in Croce.
La confraternita del Carmine possiede la cappella funeraria al cimitero monumentale per la sepoltura dei confrati defunti.

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LA FESTA E IL CAMMINO PROCESSIONALE DELLA MADONNA DEL MONTE CARMELO

La devozione alla Madonna del Carmelo è uno dei più antichi e amati culti dalla cristianità perché è legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati carmelitani.
La festa liturgica della Madonna del Carmelo, molto importante nella tradizione della Chiesa, ricorre il 16 luglio per commemorare l’apparizione della Vergine a San Simon Stock nel 1251 e al quale consegnò lo scapolare rivelandogli i notevoli privilegi connessi alla sua devozione.
Il culto della Madonna del Carmine comincia a Mistretta con la novena nella sua chiesa dove i fedeli recitano  “Le sette allegrezze di Maria SS. del Carmelo”.

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Fino a poco tempo fa, esattamente fino agli anni ’90 del secolo scorso, il 15 luglio, giorno anteriore alla festività, la festa della Madonna del Carmelo era preceduta dalla processione dei “busci”, mazzi di spighe che incorniciavano il quadro della Madonna del Carmelo.

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Il popolo, portandoli in processione, simbolicamente ringraziava la Dea Cerere, molto venerata dal popolo amastratino, per l’abbondante raccolta del frumento.
Fino a qualche anno fa le spighe mature e appena raccolte si sistemavano in eleganti canestri di vimini e, dopo essere state benedette dal sacerdote, erano distribuite ai fedeli.
Oggi, purtroppo, a Mistretta il frumento non è più coltivato per cui le spighe sono sparite e così anche la tradizione della processione dei “busci”.
La mattina del giorno 16 di luglio il sacerdote celebra in chiesa la funzione liturgica.

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Foto do Mattia Lo Iacono

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Foto da Mistretta.info

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Esattamente a mezzogiorno avviene la consacrazione dei nuovi “consacrati” alla Madonna del Carmelo, anche dei bambini, ai quali sono consegnati lo “Scapolare” e il foglietto delle preghiere de “Le sette allegrezze di Maria SS. del Carmelo”.
Il sacerdote, imponendo lo scapolare, recita la sacra formula di consacra­zione alla Beata Vergine Maria denominato “rito di imposizione dello scapolare”.
O Maria, Madre e decoro del Carmelo, a te con­sacro oggi la mia vita, quale piccolo tributo di gratitu­dine per le grazie che attraverso la tua intercessione ho ricevuto da Dio. Tu guardi con particolare benevolenza coloro che devotamente portano il tuo Scapolare: ti supplico perciò di sostenere la mia fragilità con le tue virtù, d’illuminare con la tua sapienza le tenebre della mia mente, e di ridestare in me la fede, la speranza e la carità, perché possa ogni giorno crescere nell’amore di Dio e nella devozione verso di te. Lo Scapolare richiami su di me lo sguardo tuo materno e la tua protezione nella lotta quotidiana, sì che possa restare fedele al Figlio tuo Gesù e a te, evi­tando il peccato e imitando le tue virtù.
Desidero of­frire a Dio, per le tue mani, tutto il bene che mi riu­scirà di compiere con la tua grazia; la tua bontà mi ottenga il perdono dei peccati e una più sicura fedeltà al Signore. O Madre amabilissima, il tuo amore mi ottenga che un giorno sia concesso a me di mutare il tuo Scapolare con l’eterna veste nuziale e di abitare con te e con i Santi del Carmelo nel regno beato del Figlio tuo che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen” .
Chi indossa l’Abitino, pur non essendo obbligato, è bene che reciti la supplica: “O Maria Santissima del Carmelo pregate per noi”.
Lo scapolare è formato da due pezzi di stoffa di saio, di colore marrone, di forma quadrata o rettangolare, uniti da una cordicella o da un lungo nastro bianco come quello dei confrati di Mistretta.
Il nastro bianco lega due immagini sacre. In un’immagine è incisa la Madonna del Carmelo, nell’altra la Madonna che consegna lo scapolare a San Simone Stock.
Lo scapolare si appoggia sul petto e sulle scapole del consacrato, del confrate, dell’associata, da cui il nome “scapola” “spalla”.

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Lo Scapolare è segno dell’amore di Maria, specchio della bontà e della misericordia della SS.ma Trinità.
L’impegno di vita è la risposta a questo amore ed è frutto delle ricchezze e delle energie spirituali riversate nel cuore dei devoti.
La consacrazione alla Madonna, mediante lo Scapolare, si traduce nello sforzo generoso di imitarLa.
Esso è un richiamo a penetrare il mistero della Sua vita interiore, del Suo servizio amoroso e della Sua unione continua con Cristo Gesù.
Colui che indossa lo Scapolare s’impegna ad ossequiare Cristo e Maria come è inteso e vissuto secondo il carisma dell’Ordine carmelitano.
La consacrazione alla Vergine Maria richiede di operare in Suo onore.
Come figli affezionati, i fedeli di Maria cercheranno sempre di farLa amare anche dagli altri e coopereranno alla diffusione del suo culto.
È, quindi, una devozione che si vive in profondità, una devozione che si inserisce nel tessuto della vita cristiana come motivo di speranza e come stimolo ad una maggiore fedeltà nel servizio di Dio e della Chiesa.
Il pomeriggio dello stesso giorno la Madonna del Carmelo esce dalla sua chiesa per percorrere le principali vie di Mistretta accompagnata dai sacerdoti: da mons. Michele Placido Giordano o da padre Giovanni Lapin o da padre Giuseppe Capizzi, dalla banda musicale del paese e dalla folla festosa dei fedeli.
La Madonna del Carmelo ritorna nella sua chiesa in tarda serata.

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A tutte quelle persone che portano il nome della Madonna del Carmelo auguro Buon Onomastico.
Un augurio particolare esprimo a Carmelo De Caro perchè la Madonna del Carmelo lo tenga stretto fra le sua braccia perché anche lui è un angelo del paradiso.
Ringrazio la signora Luisa Lo Menzo per la sua preziosa collaborazione nel fornirmi le notizie riportate in questo articolo.

 

 

 

 

Jun 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I FIORI DI KERRIA JAPONICA PLENIFLORA NEL GIARDINO DI MISTRETTA

I FIORI DI KERRIA JAPONICA PLENIFLORA NEL GIARDINO DI MISTRETTA

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 Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta è possibile ammirare in questo periodo alcuni bellissimi e ricchi esemplari di Kerria japonica che, grazie alle costanti cure del giardiniere, il signor Orazio Scilimpa,  contribuiscono a vivacizzare, con una luminosa nota di colore giallo dorato, il verde delle piante circostanti.

Il genere Kerria comprende una sola specie, la Kerria japonica, con diverse varietà, tra cui si conoscono: la Kerria pleniflora e la Kerria picta. Nel giardino di Mistretta è presente la Kerria pleniflora, che tanto regala all’ornamento del giardino. E’ una pianta originaria del Giappone, come indica la denominazione latina, e non solo, poichè si è diffusa in modo spontaneo anche in Cina. La Kerria appartiene alla grande famiglia delle Rosacee. Il suo fiore non sembra quello tipico della famiglia perchè è “doppio”, termine botanico che indica un numero di petali superiore alla norma, e di colore giallo dorato, tinta insolita per le Rosacee. La Kerria fu introdotta in Europa, più precisamente nell’orto botanico inglese di Kew nel XVIII secolo, da Wiliam Kerr dal quale prese il nome. Giunse in Italia nell’800 tramite l’esperto botanico Saccardo.

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La Kerria japonica pleniflora, denominata così per i fiori doppi, conosciuta anche col sinonimo “Corchorus japonicus”, è un delizioso arbusto molto decorativo dall’aspetto cespuglioso, espanso,fittamente ramificato, a crescita rapida, che può raggiungere i 2 metri d’altezza. Presenta fusti sottili, arcuati, scarsamente ramificati. I rami, snelli, eretti e di colore verde, rivestiti da una lucente corteccia verdina, si ramificano abbondantemente e tendono ad allungarsi. Ogni pianta produce numerosi germogli basali che si sviluppano abbastanza rapidamente. Le foglie, caduche, di piccole dimensioni, di colore verde scuro che in autunno cambia in violetto, presentano il margine seghettato o dentellato. La Kerria è famosa per la sua fioritura che avviene precocemente in primavera, da febbraio ad aprile, e prima dell’emissione delle foglie. La pianta si ricopre di tantissimi fiori del colore del sole che illuminano il giardino ancora in riposo vegetativo. L’allegra e precoce fioritura della Kerria è uno dei primi fenomeni ad annunciare la fine dell’inverno. I numerosi e vistosi fiori doppi di colore giallo dorato, con la corolla a cinque petali, sono simili a piccoli pompon.

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Sono  lunghi circa 3centimetri, solitari e disposti intorno ai rami nudi ricoprendoli interamente. Essi originano da gemme laterali dei rami della stagione precedente. In genere, la fioritura primaverile è molto abbondante e a fine estate è seguita da una seconda fioritura con la produzione di pochi boccioli sparsi. Ai fiori seguono i frutti, le piccole capsule che contengono i semi. La moltiplicazione avviene anche per talea legnosa e semilegnosa. La forte capacità pollonifera, da ottobre a marzo, permette la produzione di nuove piante dal cespo principale che si può dividere. Infine è possibile propagare la Kerria attraverso la propaggine flettendo verso il terreno un giovane ramo e fissandolo al suolo con una forcella. L’anno successivo si saranno già formate le radici e la nuova pianta è pronta per vivere indipendente. La riproduzione per seme può essere eseguita in primavera, anche se non sempre le piante novelle sono geneticamente identiche alla pianta madre. Dopo la fioritura, è necessario potare un poco i rami vecchi recidendoli alla base per favorire la formazione di nuovi polloni. La Kerria pleniflora una volta era una pianta molto diffusa nei giardini del passato ed ora sembra stia riacquistando una seconda popolarità. Infatti, è coltivata per creare bordure e siepi nelle quali le piante adiacenti la sorreggono perché tende ad allargarsi assumendo un portamento un pò scomposto. In commercio molto apprezzati sono i suoi rami fioriti.

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La pianta, rustica, vigorosa, coltivata perchè resistente e decorativa, di facile coltivazione, è davvero preziosa perché si adatta bene alle diverse condizioni ambientali nelle zone di mare e di montagna. Sa resistere all’inquinamento atmosferico, alla siccità e sopporta il freddo del gelido inverno mistrettese e il caldo di Licata. Preferisce essere posta su un qualunque terreno, ma vegeta meglio su quelli sciolti, freschi, molto ben drenati, escludendo quelli troppo umidi e molto calcarei. Pur preferendo il sole pieno, che ne esalta la fioritura, vive bene anche nelle zone di semi-ombra dove sembra trasportare i raggi del sole. Generalmente le piante poste in ombra totale tendono a produrre pochi fiori, mentre i boccioli delle piante poste in pieno sole sono di breve durata e tendono a scolorire. Una posizione scarsamente illuminata potrebbe causare fioriture poco abbondanti o assenti. Poiché le piante fioriscono sui rami dell’anno precedente, si consiglia di effettuare le potature solo dopo la fioritura primaverile.

Teme i ristagni idrici, pertanto bisogna intervenire con abbondanti annaffiature solo se la pianta avvizzisce. Le radici si conservano fresche se protette da pacciamature. Non necessita di concimazioni particolari. In primavera gradisce concimazioni ricche di azoto e di potassio che favoriscono lo sviluppo di una nuova vegetazione e la produzione di tanti fiori.Normalmente piuttosto resistente alle malattie, può subire infestazioni causate da batteri, da insetti e da funghi. Il batterio Agrobactterium tumefaciens provoca la formazione di rigonfiamenti, le galle. Per evitare che la malattia si propaghi alle altre piante è prudente eliminare gli individui colpiti. Particolarmente pericolosi sono i funghi del genere Cylindrosporium che attaccano i germogli e portano al disseccamento delle foglie. La cura consiste nel tagliare gli apici e le foglie malate. Tra gli insetti, i bruchi possono attaccare le radici e causare gravi danni. Acari e Afidi rovinano notevolmente il fogliame. Ammiriamo questa pianta. E’ molto bella!

 

 

 

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