Mar 31, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A MISTRETTA

I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A MISTRETTA

  I SEPOLCRI

14

Gli altari della reposizione, conosciuti come i sepolcri, “i sabburchi, i lauredda”, nella tradizione cattolica del rito della settimana santa a Mistretta, sono gli altari addobbati nelle parrocchie il giovedì che precede la Pasqua. Si chiamano sepolcri perché caratterizzano i sepolcri in cui è custodito il SS.mo Sacramento per la comunione dopo la Messa del giovedì e per l’azione liturgica del venerdì santo.
In essi è offerto a Cristo, che dovrà risorgere, il frumento.
 I “sabburchi” si preparano facendo germogliare in una ciotola le cariossidi di frumento sparse in una coltura idroponica e nascosta in un luogo buio e umido. Ricordo che mia madre, devotissima, preparava diversi sepolcri facendoli germogliare sotto il forno a legna in cucina.
Il germoglio di frumento, non potendo compiere la fotosintesi clorofilliana, assume la colorazione bionda, anziché verde, e cresce in lunghezza. Quindi i germogli, fitti, uniformi, sono legati da un nastro rosso e adornati con fiori di camelie e di rose.

15

 Gli altari della reposizione sono la continuazione, sotto un altro nome, del culto dei giardini di Adone, la giovane divinità che,  nell’antica Grecia, incarnava la morte e la resurrezione. Come le piante, egli moriva d’inverno e rinasceva in primavera a significare il ritorno della stagione agricola.
Adone era il bellissimo giovane nato dall’amore di Ciniro e di Mirra e ardentemente amato da Astarte. Secondo il mito fenicio, poiché Adone era stato ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia, Astarte piangeva sconsolatamente la perdita dell’amato. Ogni anno le donne di Byblos esponevano il simulacro del corpo del dio sopra un letto di fiori detto “il giardino di Adone”, vi si disponevano intorno e auspicavano la sua resurrezione. In ogni giardino di Adone c’è la fede e la pietà cristiana.
La liturgia cristiana impone ai fedeli la visita ai sepolcri la sera del giovedì e la mattina del venerdì santo. Durante il pellegrinaggio bisogna mantenere un comportamento afflitto, recitare i misteri dolorosi del Santo Rosario, sostare in preghiera davanti al sepolcro.

16

I MISTERI DEL VENERDI’  SANTO

La fede cristiana esprime la propria religiosità materializzandola nei richiami concreti delle raffigurazioni di statue e di immagini di Cristi, di Madonne, di Santi. Il Venerdì Santo è un evento penitenziale e devozionale molto sentito dal popolo amastratino che partecipa con fede e commozione al cammino processionale dei Misteri durante il quale le Vare simulano i momenti della Passione e della Morte di Cristo secondo la successione descritta nei vangeli. A Mistretta le dieci “vare”, trasportate in processione secondo l’ordine dell’evento, sono: Gesù nell’orto degli Ulivi, proveniente dalla chiesa di San Sebastiano,

1

il gruppo di Giuda, proveniente dalla chiesa di San Nicola di Bari e recentemente restaurato dal pittore amastratino Sebastiano Caracozzo,

2

Il  Cristo alla colonna, proveniente dalla chiesa di San Giovanni Battista,

3

 l’Ecce Homo, proveniente dalla chiesa di Santa Caterina,

4

Il Cristo sotto la Croce, proveniente dalla chiesa di San Giovanni,

5

Gesù Crocefisso con Maria e Maddalena, proveniente dalla chiesa di Monte Carmelo,

6

 Gesù in Croce, proveniente dalla chiesa delle Anime Purganti,

7

la Pietà, proveniente dal santuario della Madonna della Luce,

8

 il Cataletto, proveniente dalla chiesa della SS.Trinità,

9

 l’Addolorata, proveniente dalla chiesa del Rosario.

10

 Ogni vara rappresenta un momento della Via Crucis.

 

IL CAMMINO PROCESSIONALE

Il Venerdì Santo il cammino processionale inizia dall’ampia piazza dei Vespri, davanti alla chiesa di San Giovanni Battista, dove si radunano tutti i simulacri che poi snodano lungo i corsi principali della città di Mistretta.

11

12

 

CLICCA QUI

 

Il venerdì, in genere per tutto l’anno, è il giorno della crocifissione e della morte di Cristo Gesù, è tempo di dolore, di pianto.
A tal proposito un proverbio mistrettese così recita: ” Cu ri venniri rriri ri sabbitu chjanci”, “Chi di venerdì ride di sabato piange”.
Io ricordo che ogni vara era seguita dai cantori che intonavano il canto delle parti del Venerdì Santo, vere e proprie storie in versi poetici, chiamate “ i parti ra Santa Cruci, o i parti ru venniressantu”.
Sebastiano Lo Iacono nel suo libro “Ideologia e realtà nella letteratura popolare di Mistretta scrive: ”I cantori che con voce e gestualità rianimano la rappresentazione di una drammatizzazione immobile e muta, diventano attori-protagonisti. Essi, in fase di doppiaggio, inseriscono un audio. La scelta dei cantori dietro una certa vara è determinata anche da particolari motivazioni devozionali. Oggigiorno sopravvive solo un gruppo di cantori dietro la vara della Madonna Addolorata. Questa tradizione tende a scomparire sia perché i cantori-contadini sono ormai defunti, sia perché il senso del cantare come preghiera è venuto meno”.
Pregare cantando dietro le vare è, come dice Sant’Agostino, “pregare due volte”.
Io ricordo mio padre Giovanni e i confrati della confraternita di San Nicolò, con la testa cinta dalla corona di spine, realizzata con l’intreccio dei rami probabilmente della pianta di Gleditsia triacanthos, cantavano dietro la vara di Giuda”:

E ntussicata Maria – povira ronna!-

circannu a lu so figghiu a-ccorchi bbanna.

 

Nun lu circari, no, ch’è a la culonna

bbattutu cu na ranni  virdi canna!

Maria passa ri na strata nova

e a porta ru  furgiaru aperta era:

 

<<Oh, caru mastru, chi fai apiertu a st’ura?>>

<<Fazzu  na lancia e ttri ppuncenti chjova!>>

<<Oh caru mastru, tu pi-ccu l’a-ffari?>>.

<<L’a-ffari pi lu figghju ri Maria!>>

 

<<Oh caru mastru, nun li fari ora:

ri nuovu ti la paju la mastria!>>.

<<Oh, cara ronna, si-fforra pi-mmia,

cchju-lluonghi e-senza punta li farria!>>.

 

<<Oh, caru mastru tuttu mmalirittu

ca r’unni passi tu n-truovi rrisiettu!>>.

Maria passa ri na strata nova,

e a porta  fallignami aperta era.

 

<<Oh,  caru mastru, chi-ffai apiertu a st’ura?>>.

<<Fazzu na cruci e na curune e spini!>>.

<<Facitili cchju-llieggi chi-putiti

pirchì sunu carnuzzi ddilicati!>>

 

<<Oh, cara ronna, si-fforra pi-mmia,

tutti ri rossi e-sciuri li farria!>>.

<<Oh, caru mastru, tuttu bbinirittu

ca r’unni vai tu truovi rrisiettu!>>.

 

<<Sienti, sienti, Maria: to figghju passa

e-pporta na catina longa e ggrossa;

ri quant’è-llonga tuttu lu scuncassa,

ca purpi n-avi cchjui supra ri l’ossa!>>.

 

<<Chiamatimi a Ggiuanni ca lu uogghju.

 quantu m’ajuta a-cchianciri a-mme figghju!

La lampa ora muriu;canciati l’uogghju:

ora ca viu ch’è-mmuortu me figghju!

 

Ora ca viu ch’è-mmuortu me figghju,

ri niviru mi miettu lu cummuogghju!

Manciati carni o sabbitu, ca uogghiu:

 

vardatici  lu venniri a-mme figghju:

a-cu n-ci varda u venniri a-mme figghju

li carni si cci abbbrucinu cuom’ uogghju!>>.      

 

Oh, Santa Croce, voi vengo a trovare;

piena di sangue vi trovo allagata!

Chi fu quell’uomo che venne a morire?

Fu Gesù Cristo ch’ebbe un colpo di lancia!

Acqua domanda, non potè averne:

gli diedero la spugna intossicata!

E intossicata (è) Maria-povera donna!-

cercando suo figlio da qualche parte.

Non cercarlo, no, ch’è alla colonna,

percosso con una grande canna verde!

Maria passa da una strada nuova

e la porta del fabbro era aperta:

<<Oh, caro mastro, che fai aperto a quest’ora?>>

<<Faccio una lancia e tre pungenti chiodi!>>

<<Oh, caro mastro, per chi devi farli?>>

<<Devo farli per il figlio di Maria!>>

<<Oh, caro mastro, non li fare ora:

nuovamente te lo pago il tuo lavoro!>>

<<Oh, cara donna, se fosse per me,

più lunghi e senza punta li farei !>>

<<Oh, caro mastro tutto maledetto,

che dove passi tu non trovi pace!>>

Maria passa da una strada nuova

e la porta del falegname aperta era.

<<Oh, caro mastro, che fai aperto a quest’ora?>>

<<Faccio una croce e una corona di spine!>>

<< Fateli più leggeri che potete

perché sono carni delicate!>>

<<Oh, cara donna, se fosse per me,

tutte di rose e fiori le farei !>>

<<Oh, caro mastro tutto benedetto,

che dove vai tu trovi pace!>>

<< Senti, senti, Maria: tuo figlio passa

e porta una catena lunga e grossa;

di quant’è lunga tutto lo sconquassa,

tanto che non ha più carne sopra le ossa!>>

 << Chiamatimi Giovanni che lo voglio,

perché mi aiuti a piangere mio figlio!

La lampada s’è spenta; cambiate l’olio:

ora che vedo ch’è morto mio figlio!

Ora che vedo ch’è morto mio figlio,

di nero me lo metto il manto!

Mangiate carne il sabato, lo permetto:

ma rispettate il venerdì per mio figlio:

A chi non rispetta il venerdì a mio figlio

le carni gli si brucino come olio!>>

 L’ascolto di questo canto suscitava tanta commozione!

Anche se i vecchi cantori, come mio padre, non ci sono più, la tradizione continua.
Il signor Indovino Orazio, (per gli amici Bettino), e il signor La Ganga Filippo, (per molti anni superiore della vara di San Sebastiano), sono coloro che hanno trasmesso ai confrati della Confraternita di San Sebastiano l’importanza dei canti tradizionali del Venerdì Santo, canti che orgogliosamente da 15 anni ripetono con cadenza annuale.
Già dal 2003 è stata riportata in auge la Confraternita di San Sebastiano e i confrati cantano “i parti ra Cruci” sia in chiesa, prima della processione, sia durante il cammino processionale. Queste tradizioni non si devono perdere!
La quasi totalità dei confrati conosce a memoria le strofe. I nuovi confrati, ammessi da poco tempo, si aiutano leggendo il foglietto con le strofe che discretamente nascondono nella manica della tunica.
Le vare sono accompagnate da “i truocculi”, particolari strumenti musicali che, facendoli girare a mano, producono un suono sgradevole, ma efficace.

13

Almeno questa tradizione ancora si conserva!

 

LA CADUTA DEL TELONE

La chiesa Madre di Mistretta custodisce una preziosa opera d’arte: il telone quaresimale. E’ una tela artistica, di circa 80 metri quadrati di superficie,  ottenuta cucendo insieme parallelamente 14 rettangoli di lino e realizzata dal pittore Matteo Mauro di Trapani nel 1823 su commissione del sacerdote don Paolo Di Salvo. E’ unica ed eccezionale e rappresenta il mistero, la rivelazione della santità di Cristo. Il telone è l’ombra che  cade per rivelare la Redenzione.  La scena della tela rappresenta il primo processo di Gesù. L’evangelista Matteo  racconta che Gesù, dopo essere stato  arrestato, è stato portato davanti ai sacerdoti Caifa e Anna.  Erano presenti anche gli scribi e un folto pubblico.  I sacerdoti chiedono  ai presenti testimonianze contro Gesù, ma nessuno risponde.
Ad un certo momento si presentano due persone che dissero che Gesù si era vantato di ricostruire in tre giorni il tempio che era  stato distrutto.  L’evangelista Giovanni (2, 18-22) così scrive: ” Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: << Quale segno ci mostri per fare queste cose?>>.  Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei:  < < Questo tempio è stato costruito in quarantesei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?>>. Ma Egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi Gesù fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla Sua parola.
Questa frase fa adirare Caifa che è raffigurato nella tela con l’aspetto di persona molto arrabbiata. Anna, invece, punta il dito contro Gesù e un sodato alza la mano come per dare lo schiaffo a Gesù.
Matteo racconta che Gesù è condotto nel palazzo-fortezza.  Gesù sarà bastonato  e poi  crocifisso.
Nel primo piano della tela è raffigurata l’autorità religiosa mentre  in alto è raffigurata l’autorità politica con la scritta “ Senato e Popolo romano”.
In  Gesù c’è la luce mentre  gli scribi e i sacerdoti sono quasi in penombra. Quindi Gesù rappresenta la luce, mentre chi accusa rappresenta l’ombra. In primo piano c’è la colonna. Il telone narra una storia che è venuta prima, una storia reale nel presente, una storia di quello che avverrà dopo.
Il telone quaresimale è stato sottoposto a restauro per tre volte. Alla base della colonna ci sono le date degli avvenuti restauri e i nomi dei committenti. Il primo restauro è avvenuto  nel 1893 con l’arcipretura di don Francesco Portera, il secondo restauro nel mese di luglio del 1961 con l’arcipretura di don Arturo Franchina,  il terzo restauro,  nel 2009, effettuato dalla ditta Rimedi SAS di Bolzano, con l’arcipretura di Mons. Michele Placido Giordano. La cornice del telone richiama foglie di cardo, di alloro e di quercia.
La notte del Sabato Santo si verifica uno spettacolare evento: “a caruta r’u tiluni”.
Questo maestoso telo quaresimale è fatto cadere dal tetto durante la veglia di Pasqua dopo le letture e dopo il GLORIA intonato da mons. Michele Placido Giordano.  Il telone quaresimale era stato issato con le corde nel tetto della chiesa davanti all’altare maggiore del presbiterio con la base arrotolata il mercoledì delle ceneri per coprire tutta la navata centrale. Il venerdì santo il telone è completamente srotolato e nella parte inferiore si possono osservare i simboli della Passione di Gesù: la scala, la corona di spine,  i chiodi della crocifissione, le catene, i dadi, la coppa, il bastone con spugna, il martello, la  croce, le tenaglie, la lancia,  il tamburo. I simboli della Passione sono rappresentati nella collana portata addosso da mons. Michele Placido Giordano.
Questo fenomeno della “A caruta r’u tiluni” genera nei fedeli che partecipano alla funzione religiosa una grande gioia. E’ un modo scenografico per rappresentare il passaggio dal buio della morte alla luce della vita.
Cominciano a suonare le campane,  si accendono tutte le luci,  nell’altare appare Cristo con la bandiera del trionfo.
E’ finito il tempo della passione e del dolore, inizia il tempo della gioia.

17

18

Ringrazio la signora Marisa Cittadino per aver realizzato il film che ci dato  la possibilità di essere presenti all’evento

CLICCA QUI

Il suono delle campane  annunzia al mondo Cristo, il risorto!
Questa è la buona novella che la Chiesa ci dà. Auguri, Buona Pasqua!

 

 

 

Mar 27, 2015 - Senza categoria    Comments Off on Il CERCIS SILIQUASTUM – L’ALBERO DI GIUDA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Il CERCIS SILIQUASTUM – L’ALBERO DI GIUDA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Chi era Giuda Iscariota, figlio di Simone?

Ce lo raccontano i Vangeli.

 Nel vangelo di Giovanni  (Gv 12,4-6) si legge:  Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse:<Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?>. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Giuda tradì Gesù indicandolo ai soldati del Sinedrio ebraico per farlo arrestare. Nel Vangelo secondo Matteo, in Cattura di Gesù ( 26,47-50) è scritto:<Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: “ Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. E subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì!”. E lo baciò. E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”. Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.

0

Matteo continua la sua narrazione nel Suicido di Giuda ( 27,1-8): Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato. Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo:” Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Ma quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò ed andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi.
Ecco qual è l’albero dove s’impiccò l’apostolo Giuda Iscariota preso dal rimorso perché, dopo aver indicato ai soldati il Maestro, lo baciò nell’orto degli Ulivi tradendolo per trenta denari d’argento.

1

E’ il Cercis siliquastrum.
Il Cercis siliquastrum, detto “Siliquastro”, e “Albero di Giuda”, è un albero appartenente alla famiglia delle Leguminosae.
In Italia cresce spontaneo, ma è coltivato come pianta ornamentale nella villa comunale di Mistretta per i suoi fiori rosa – violacei che appaiono anche direttamente sui rami e sul tronco.
E’ un albero che aggiunge valore al giardino per la sua fioritura copiosa che appare quando tutto attorno è ancora quasi completamente spoglio.

CLICCA QUI

2

3

L’albero di Giuda è originario del Mediterraneo orientale e dell’Europa meridionale. Il suo nome botanico deriva dal greco “kερκίς“, che significa “ago, navetta, spola”, per la forma dei suoi frutti, ma, probabilmente, la vera origine del termine proviene da “Giudea”, regione nella quale l’albero è molto comune.
Il Cercis siliquastrum si presenta come un piccolo albero nodoso, perenne, alto fino a cinque metri ed è proprio impossibile non vederlo. L’albero è una nuvola carica di fiori di colore rosa acceso in primavera, poi è spoglio d’inverno, in lunga attesa. Ad aprile grida la sua improvvisa gioia di vivere, anche se solo per una ventina di giorni. La nuvola rosa scompare, d’incanto.
L’albero cresce molto lentamente. Presenta l’apparato radicale ampio e di  media profondità e il fusto, rivestito da una corteccia grigia nerastra, ha un portamento eretto. I rami presentano la corteccia rossastra.
Le foglie, portate da lunghi piccioli, caduche, arrotondate, cuoriformi, con nervatura palmata, sono di colore verde chiaro che, da giovani, possono avere tonalità rossastre; la pagina superiore è liscia e lucida, la pagina inferiore è glauca.
Appaiono abbastanza tardivamente, in primavera, in autunno assumono un bel colore giallo, quindi cadono dall’albero.
L’insieme delle foglie rende la chioma vaporosa, arrotondata, delicata, dai contorni irregolari, dando la sensazione di leggerezza e di freschezza.
I fiori, ermafroditi, con la corolla papilionacea, profumata, sono riuniti in racemi che compaiono abbondantemente in primavera prima delle foglie. La caratteristica di questa specie è la caulifloria: i fiori spuntano direttamente dalla corteccia dei vecchi rami e del tronco nei mesi di aprile e di maggio.
La pianta inizia la sua fioritura sui rami di almeno due anni d’età regalando generose fioriture. Secondo qualche leggenda i fiori rappresenterebbero le “lacrime di Cristo” e il loro colore rosa simbolizzerebbe la “vergogna” per la grande cattiveria di Giuda.

4

5

IMG_20180429_174136 ok

 L’impollinazione è entomofila.
I frutti, baccelli rossastri, che diventano bruni a maturità, appiattiti, pendenti, lunghi anche 15 centimetri, molto numerosi, coriacei restano attaccati alla pianta fino alla fine dell’inverno e persistono anche dopo la caduta delle foglie. La moltiplicazione avviene per mezzo dei semi.

IMG_20180725_115300 OK

cercis semi ok

6

 Albero molto rustico, vive meglio se esposto in un luogo luminoso, con luce solare diretta perché, in condizioni eccessivamente ombreggiate, non svilupperebbe bene la sua bella fioritura.
Predilige un clima mite, ma resiste al freddo, risente delle gelate, soprattutto se tardive. Si adatta a qualsiasi tipo di terreno preferendo quelli ben drenati, sciolti, leggermente calcarei, ma tollera anche quelli moderatamente acidi. Sopporta bene lunghi periodi di siccità, quindi non richiede molta acqua, ma si accontenta di quella delle piogge.
Non richiede particolari potature, se non per limitare la crescita espansa della chioma e per eliminare i rami ineleganti o danneggiati. Non presenta particolari malattie.
Gli esemplari giovani, messi a dimora da poco tempo, sono più esigenti.
Grazie alla sua resistenza all’inquinamento atmosferico è utilizzato per le alberature delle strade e dei viali cittadini, ma si lascia spezzare dall’azione del vento.

Mar 19, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL SALSO, IL FIUME CHE SFOCIA NEL MARE DI LICATA

IL SALSO, IL FIUME CHE SFOCIA NEL MARE DI LICATA

1

La notizia ascoltata al TG3 delle ore 14:00 del giorno 19 Marzo 2015 ha portato la mia memoria indietro nel tempo.
Il Salso, il fiume che sfocia nel mare di Licata, esondando ha causato ingenti danni nel corso degli anni.

15

Il TG3 ha riferito che una bomba d’acqua, della durata di 90 minuti, ha fatto esondare il fiume Salso che ha investito un vasto territorio della provincia di Enna nei pressi delle cittadine di Regalbuto e di Gagliano Castelferrato. La forza dell’acqua ha sommerso case rurali, ha abbattuto alberi, ha distrutto le coltivazioni, ha messo in ginocchio l’agricoltura locale, ha trasportato fango e detriti.
E’ ancora vivo in me il ricordo dell’alluvione del 1976.
Ero andata a comprare la strenna da regalare a un mio amico che convolava a giuste nozze e mi trovavo da sola in Piazza Sant’Angelo a Licata. Sentivo la gente gridare: ” A cina c’è, a cina c’è” “La piena c’è, la piena c’è”.
Non avevo capito subito il significato di quelle parole perché ancora non avevo imparato il dialetto licatese.
Vedevo la gente correre.
Correvo anch’io.
Per fortuna sono riuscita ad arrivare a casa mia in tempo, ma nel mio palazzo, in Corso Umberto 100, già l’acqua del fiume Salso lambiva le scale e aveva raggiunto la cabina dell’ascensore.
Ho visto i vigili del fuoco e i vigili urbani che, con barche e canotti, navigavano in Corso Umberto cercando di soccorrere le persone imprigionate dentro le loro automobili che chiedevano aiuto, le macchine che, sollevate dall’acqua, in Corso Serrovira acceleravano la loro corsa verso il mare. Io, che allora abitavo al 10° piano, ho ospitato a casa mia per quattro giorni una coppia di genitori con tre bambini che, fuggiti dalla loro casa del quartiere Africano, si sono rifugiati nelle scale del mio condominio.
Abbiamo condiviso quello che c’era nella mia dispensa.  La paura dell’alluvione è stata molta.

 

CLICCA QUI

 

Un po’ di storia:
Il Salso è un fiume molto importante e, come tutti i fiumi che si rispettano, è grondante di avvenimenti storici.
Le sue rive videro il fiorire delle civiltà del Bronzo, fu via di penetrazione per i coloni greci in cerca di nuove terre, fu il probabile confine che vide fronteggiarsi e combattere greci e cartaginesi di Sicilia.
Il maggior fiume siciliano, il Salso, detto anche Imera Meridionale, scende da Portella del Bafurco sulle Madonie, nel versante meridionale, nei pressi di Petralia Sottana, a circa 1360 metri d’altitudine e attraversa le province di Palermo, di Caltanissetta, di Enna, di Agrigento con un’estensione di ben 2.002 chilometri quadrati.
Percorre l’altopiano centrale fino a sfociare, dopo un cammino di circa 144 Km, nel mar d’Africa attraversando la città di Licata e dividendola in due parti.
Sfociando al piano, a Nord della città, si divide in due rami gettandosi in mare all’interno del centro abitato con il tratto principale e all’interno della cala di Mollarella con un ramo secondario il “Fiumicello” che agisce da canale scolmatore naturale per piene di modesta entità.
Così racconta il geografo Al Edrisi: “Ma arrivato presso Licata volge a mezzogiorno emette foce a piccola distanza da quella”.
Nell’attraversare terreni franosi e argillosi, spesso salati, raccoglie, in autunno – inverno, le acque piovane di scorrimento superficiale e trasporta a valle, con l’acqua salmastra, i materiali d’erosione del suo vasto bacino.
Il carattere torrentizio del fiume Salso e la stretta dipendenza tra gli afflussi meteorici e i deflussi sono rilevati dalle sensibili variazioni della portata idrica del fiume che, nei mesi estivi, tende a zero, perciò, nei pressi della foce, si assiste all’invasione d’acqua marina che penetra per un buon tratto nel letto fluviale.
Può raggiungere portate notevoli in caso di forti e prolungate piogge fino a riprendere anse abbandonate e a sommergere la piana e la parte bassa dell’abitato.
É il più lungo fiume della Sicilia.

2

Molto prima di giungere al piano, il Salso riceve, infatti, liquami civili e industriali molto inquinanti, non certamente compatibili col suo delicato equilibrio ecologico che è completamente sconvolto nell’attraversamento dell’abitato di Licata. Mancano o non sono funzionanti i depuratori delle acque luride.
Da parecchi anni, infatti, il suo ecosistema è fortemente compromesso. D’estate, quando la portata è minima, è frequente il triste e famoso fenomeno dell’eutrofizzazione, le cui esalazioni sono ben note all’olfatto dei licatesi, che impedisce anche la vita a molti animali che là abitano.
Nel 1154 l’arabo Sherif Al Edrisi, geografo del conte Ruggero, ricorda così un pesce dalle carni grate al palato che vi si pescava abbondante “Il fiume, che mette foce presso Licata, si chiama Salso nel quale abbonda del buon pesce da mangiare, grasso e delicato al gusto”.
Era l’Alosa o Cheppia, specie che risaliva il fiume per riprodursi ed è scomparsa quando, sensibile all’inquinamento fluviale, vi installarono presso la foce un’industria chimica.
Oggi quell’industria è stata smantellata, ma le Alose non sono tornate.
L’Alosa era molto abbondante anche nelle acque del Tevere e dell’Arno da dove, decimata dall’inquinamento e dagli sbarramenti, è oggi ugualmente scomparsa.
Le acque del fiume si caricano di soluti per la presenza di cloruri e solfati quando attraversano l’altopiano interno ricco di depositi evaporatici di salgemma. La concentrazione, variabile da 1,5 a 4,5 gr/l in relazione alla stagione e alla piovosità, ostacola la sopravvivenza degli esseri viventi e rende il corso d’acqua non sfruttabile per scopi irrigui.
Solo quando piogge eccezionali lo rendono impetuoso, ritorna brevemente in vita e, dopo che l’ondata di piena avrà trascinato via i sedimenti inquinanti e soffocanti, il fiume ospiterà la fauna marina delle foci quali anguille e cefali, ma per breve tempo. Portate eccezionali del Salso-Imera hanno determinato frequenti esondazioni della piana e, qualche volta, anche dell’abitato di Licata.
L’esondazione del 1915 ha distrutto il vetusto ponte di legno all’interno della città, ha separato il centro di Licata dal quartiere Oltremonte, ha causato la morte di 109 persone che, incuranti del pericolo, si sono affacciate sul fiume per ammirare lo spettacolo, ed ha danneggiato pesantemente la flora e la fauna.
Un’altra calamità ecologica si è verificata durante l’importante ondata di piena del 1976, quella che ricordo io, quando l’acqua ha sommerso gran parte del centro abitato invadendo le case basse, i negozi e le scuole del quartiere Africano.
Automobili, macchine per cucire, frigoriferi, televisori, materassi, piatti e altri mobili e suppellettili, che la forza dell’acqua, con violenza, ha trascinato via all’esterno delle case, galleggiavano tristemente. Nel 1991 l’onda di piena si riversò sul ramo del Fiumicello distruggendo numerose villette nelle contrade di Ciavarello e di Mollarella. Per questo motivo i terreni della piana sono d’origine alluvionale nella parte più bassa, con prevalenza di argille e di sabbie. L’ultima esondazione si è temuta a Licata il 02/02/2014.

3

4

Un proverbio licatese recita “Caliti juncu ca passa a cina”.
Ora che la qualità delle acque del fiume è migliorata per alcuni interventi, sicuramente non completamente risolutivi, esso sa dare ospitalità a molti esseri viventi, soprattutto agli uccelli migratori che sostano e nidificano presso la sua foce. Lungo gli argini del fiume, la Cannuccia di Palude, nel suo canneto molto fitto di vegetazione, ospita una fauna ornitologica stanziale e di passa molto numerosa e varia accompagnata dalla presenza di vari tipi di insetti, di zanzare, di crostacei, di rettili etc.
Durante i mesi invernali, con un po’ di fortuna, è possibile ammirare il Tuffetto, uccello timido e diffidente, che si nasconde fra le fronde della folta vegetazione.
Ho visto riposare o pescare nelle acque del fiume Salso il Cormorano, dalla nera livrea, solitario o in gruppo, durante tutti i mesi invernali.

5

 Tempo fa in primavera ho ammirato l’Airone bianco, che cacciava le prede immerso nell’acqua e l’Airone cinerino, che preferisce riposarsi appoggiandosi su una zampa sola.
Nascosto nel canneto, raramente sosta il Falco di palude durante la sua migrazione in autunno.
Anche la Gallinella d’acqua preferisce nascondersi nel groviglio del canneto, ma, essendo più socievole, si lascia osservare mentre nuota, si tuffa nelle acque per alimentarsi, corre. La sua visione è più frequente perché sosta lungo la foce del fiume regolarmente per quasi tutto l’anno.
Dal mese d’agosto in poi, fino alla primavera successiva, è possibile osservare la Folaga.
Sono uccelli che vivono in gruppi più o meno numerosi e che, sorvolando il letto del fiume per rifornirsi lungo le rive, attirano l’attenzione con il loro strepitare e rumoreggiare.
Lungo gli argini impervi nidificano il Gabbiano comune e il Gabbiano reale col suo piumaggio bianco e grigio.

6

 Si è perfettamente adattato all’ambiente costiero, si ammira nelle sue spettacolari evoluzioni aeree per poi poggiarsi anche a terra senza temere la presenza di estranei. Lungo l’ultimo tratto del corso del Salso, nonostante l’alto tasso d’inquinamento, durante i periodi di passa, è abbastanza facile osservare la Garzetta.
Il Ramarro, la Testuggine palustre e il Gogilo sono rettili presenti sulla foce del fiume. Nel 1976 la piena che invase le strade dell’abitato, portò con sé numerosi esemplari di Testuggine palustre. Le Testuggini, disorientate, si muovevano per le strade coperte dal fango nel tentativo di riguadagnare il loro habitat naturale. Anche i molti cani randagi amano passeggiare lungo le sponde del fiume Salso.

7

Il fiume Salso è stato capace di plasmare, anno dopo anno, paesaggi di gole e di stretti dalle pareti intarsiate e variopinte, valli silenziose ove ci si aspetta di udire ancora il flauto di Pan; pigre e voluttuose sono le anse tondeggianti nel suo approssimarsi al mare.
Il fiume Salso richiede continui interventi di protezione, di manutenzione, di tutela e di difesa fluviale per la valorizzazione dello stesso paesaggio naturale.

15

Chissà, forse il suo Genio, la cui rabbia improvvisa, violenta, distruttiva e catartica che i licatesi hanno ben conosciuto, li sta solo aspettando. Forse aspetta che “L’Uomo” faccia il passo finale, dell’autodistruzione, cessando così di violentare la sua natura?

Mar 9, 2015 - Senza categoria    Comments Off on SAN GIUSEPPE – LA SUA VITA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

SAN GIUSEPPE – LA SUA VITA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

20 OK

Nella Chiesa universale, con grande solennità, il 19 marzo di ogni anno si celebra la festa di San Giuseppe, il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza”.
In campo liturgico e sociale San Giuseppe è festeggiato anche il 1° maggio, giorno in cui si celebra la festa del lavoro, quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII.
Il nome Giuseppe è originario dall’ebraico “Yosef” e dal  latino “Ioseph” che significa “Dio aggiunga”, come dire “aggiunto in famiglia”.
Giuseppe, nato probabilmente a Betlemme, era di stirpe regale perché discendente della casa di Davide. La famiglia di origine aveva avuto nel passato una parte molto importante nella storia d’Israele, tuttavia le necessità della vita lo costrinsero ad avviare nel paese di Nazareth dove abitava l’attività artigianale nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori, umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, costruiti dall’abilità delle sue ruvide mani.
Sulla sua esistenza non si hanno molte notizie certe ad eccezione di quelle che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca.
I vangeli apocrifi si sbizzarrirono, invece, attorno alla sua figura.
Secondo il Nuovo Testamento San Giuseppe è lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque Gesù. I Vangeli e la dottrina cristiana affermano che il vero padre di Gesù è Dio stesso: Maria lo concepì per virtù dello Spirito Santo. Giuseppe, informato dell’azione miracolosa da una visione avuta in sogno, accettò di sposarla e di riconoscere Gesù come suo figlio legittimo. Giuseppe divenne, così, il padre putativo di Gesù. Dal latino “puto” “credo“, cioè colui che “crede” di essere suo padre. Nel Vangelo di Luca, nella Genealogia di Gesù ( 3,23) si legge:” Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent’anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe…”
La tradizione apocrifa racconta che Giuseppe, già in età avanzata, si unì ad altri celibi della Palestina, tutti discendenti di Davide, richiamati da alcuni banditori provenienti da Gerusalemme. Il sacerdote Zaccaria aveva ordinato che fossero convocati tutti i figli di stirpe reale per sposare Maria, la giovane fanciulla. Su indicazione divina, ognuno avrebbe condotto all’altare il proprio bastone.
Dio avrebbe fatto fiorire il bastone meritevole. Entrato nel tempio, Zaccaria pregò insieme a loro, quindi restituì i bastoni ai legittimi proprietari. Mentre Giuseppe se ne stava nel luogo più lontano e ritirato, perché si considerava indegno, la sua verga fiorì e si ricoprì di candidissimi fiori. Una colomba, vista scendere dal cielo, si pose sul suo capo. Era stato scelto da Dio come sposo della santa fanciulla.

 22 ok

L’emblema di San Giuseppe è il giglio bianco, simbolo di purezza. A Licata la pianta di Asfodelo è chiamata “il bastone di San Giuseppe”. Giuseppe, perplesso dalla scelta caduta su di lui, fece notare la sua anzianità, ma il sacerdote lo esortò a non disubbidire alla volontà di Dio.
Allora Giuseppe, fiducioso, accolse Maria come sua sposa, anche se ella continuò ad abitare nella casa di famiglia, a Nazareth di Galilea, ancora per un anno che era il tempo richiesto presso gli Ebrei tra lo sposalizio e l’entrata della sposa nella casa dello sposo.
Poiché l’Angelo le aveva detto che Elisabetta era incinta (Lc 1,39), accompagnata da Giuseppe, andò a trovare la cugina che era nei suoi ultimi tre mesi di gravidanza. Dovette affrontare un lungo viaggio di 150 Km poiché Elisabetta risiedeva ad Ain Karim in Giudea.
Maria rimane presso di lei fino alla nascita di Giovanni Battista.
Fu proprio in questo luogo che Maria ricevette l’annuncio dell’Angelo Gabriele e lei rispose: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” ( Lu 1,38). Maria accetta la divina maternità con quello slancio e con quella totale disponibilità verso la volontà di Dio che Le proveniva dal suo stato di Immacolata Concezione. “Come è possibile? Non conosco uomo” (Luca 1,34).
Maria, tornata dalla Giudea, rivelò al suo sposo la sua maternità. Giuseppe, dubbioso, per non sapersi spiegare la maternità di Maria, meditò di rimandarla in segreto. In Matteo (1,19) si legge: “ Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” per non condannarla in pubblico. Infatti, denunciando Maria come adultera, la legge prevedeva che fosse lapidata e il figlio del peccato perisse con Lei (Lv 20,10; Dt 22, 22-24).
Ecco, a dissipare i suoi timori, un angelo apparso in sogno a Giuseppe, gli disse: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tu sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” Matteo (1, 20-21).. Destatosi dal sonno, rasserenato, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo e prese con sé la sua sposa accettando il mistero della maternità e le successive responsabilità. Giuseppe fu luce di esemplare terrena paternità. Gli diede il nome “Gesù” “Dio salva”, cominciò a scaldare il figlioletto nella povera culla della mangiatoia, lo mise in salvo in Egitto, lo cercò quando, dodicenne, era “sparito’’ nel tempio, lo educò, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”, lo guidò nel lavoro di falegname.

21 OK

 Tra gli ebrei dell’epoca, i bambini già all’ età di cinque anni iniziavano ad istruirsi nella religione e nell’ apprendere il mestiere del padre. Probabilmente anche Gesù praticò il mestiere di falegname.
Giuseppe, fino a trenta anni della vita del figliolo, gli fu sempre accanto con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i progetti divini.
Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” raggiungesse la maturità e iniziasse la vita pubblica; dunque una volta espletato il suo ruolo di padre putativo. Secondo i Vangeli apocrifi, San Giuseppe morì all’età di 111 anni, colpito da malattia, tra le braccia di Gesù e di Maria, nel modo più sereno possibile.
Venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa, il culto di San Giuseppe si diffuse rapidamente. A diffondere il culto di San Giuseppe, che andò crescendo nella venerazione dei fedeli fino al tempo di Pio IX che ne proclamò la superiorità su tutti gli altri santi, fu San Tommaso d’Aquino.
Leone XIII lo elesse patrono della Chiesa e delle famiglie cristiane: <<In Giuseppe hanno i padri di famiglia il più sublime modello di vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esempio d’amore, concordia e fedeltà coniugale; i vergini un tipo e difensore insieme dell’integrità verginale. I nobili imparino da lui a conservare anche nell’avversa fortuna la loro dignità e i ricchi intendano quali siano quei beni che è necessario desiderare. I proletari, gli operai e quanti sono in bassa fortuna debbono da lui apprendere ciò che hanno da imitare>>.
Non ci sono reliquie di ossa di San Giuseppe. La città di Perugia dal 1477 vanta di possedere l’anello nuziale di San Giuseppe.
Esso proviene da Chiusi, dove è stato portato da Gerusalemme nel XI secolo. Nella chiesa di Notre-Dame di Parigi sarebbero custoditi gli anelli di fidanzamento di Maria e di Giuseppe.
In Francia, nel 1254 il sire di Joinville portò la cintura di Giuseppe i cui frammenti sono nella chiesa parigina di Foglianti. Ad Aquisgrana, in Germania, nel tesoro di Carlo Magno sono conservati le fasce o i calzari che avrebbero avvolto le sue gambe. Nel Sacro Eremo di Camaldoli è conservato il bastone di San Giuseppe. Esso proviene da Nicea, offerto dal cardinale Basilio Bessarione nel 1439. In molti altri luoghi si trovano frammenti delle vesti di San Giuseppe.
Numerose sono le persone e le associazioni e che considerano San Giuseppe il loro patrono.
A Mistretta, nella sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, la statua e il quadro di San Giuseppe accolgono i soci.

Preghiera a San Giuseppe

San Gisippuzzu giustu e santu
‘n testa purtati lu Spiritu Santu,
‘nta li mani lu santu vastuni
siti lu patri ri nuostru Signuri.
Accumpagnastu Maria in Egittu
accompagnati a mmia nna ‘stu bisuognu strittu.
San Gisippuzzu nun m’abbannunati
nne cchiù estremi nicissitati.

San Giuseppuccio giusto e santo
in testa portate lo Spirito Santo
nelle mani il santo bastone
siete il padre di nostro Signore.
Accompagnaste Maria in Egitto
accompagnate me in questo bisogno stretto.
San Giuseppuccio non m’abbandonate
nelle estreme necessità.

39 ok

Statua donata dal barone Carchiamo e si trova all’ingresso della Società Operaia a Mistretta

43 ok

San Giuseppe è protettore specificatamente dei falegnami, degli ebanisti, dei carpentieri, ma anche dei pionieri, dei senzatetto. Nel XV secolo era invocato contro il flagello della peste e contro l’usura. Il Monte di Pietà, il luogo dove si recava la gente che, trovandosi nello stato di bisogno, chiedeva prestiti affidando al Monte oro e qualche oggetto prezioso in cambio di denaro, si chiamava Monte di Pietà di San Giuseppe. E’ invocato dall’infanzia, dagli orfani, dai giovani, dalle ragazze da marito, dalle famiglie cristiane, dai profughi, dagli esiliati.
Si invoca la sua grazia, inoltre, per guarire le malattie degli occhi, per sostenere gli ammalati gravi e, in particolare, per i moribondi.
A Mistretta ancora oggi la signora Gaetatina Lo Menzo Castelluccio osserva la tradizione votiva dei “Virgineddi di San Giuseppe” alla quale anche io ho partecipato tantissimi anni fa quando ero bambina.
Siccome c’era molta povertà, allora le maestranze locali offrivano un pranzo ai bambini poveri e soprattutto abbandonati
La tradizione è stata continuata da quelle famiglie che, per avere ricevuto una grazia per intercessione di San Giuseppe, esprimono il voto di ringraziamento organizzando i “virgineddi di San Giuseppe”.
Oggi a questa cerimonia sono invitati tutti i bambini del vicinato di qualsiasi estrazione sociale.
La padrona di casa, il giorno prima della festa, allestisce l’altare di San Giuseppe addobbandolo nel miglior modo possibile ed esponendo il quadro di San Giuseppe. Davanti all’altare imbandisce una lunga tavola attorno alla quale prendono posto i bambini ordinati e comodamente seduti. La tovaglia bianca, ricamata, adorna la tavola e i fiori, soprattutto i gigli di San Giuseppe, donano una bella nota di colore.
Davanti al posto di ogni bambino è messa in bella mostra un’arancia tagliata già a spicchi per facilitare loro il cibarsi. Come piccola penitenza, obbligatoriamente si deve rispettare il digiuno fino a mezzogiorno. A mezzogiorno il sacerdote, padre Michele Placido Giordano, il parroco della chiesa Madre di Mistretta, si reca in quella casa per benedire l’altare di San Giuseppe e la tavola dei “virgineddi”. Tutti insieme recitano la preghiera di ringraziamento a San Giuseppe. Inizia il lauto pranzo.
Il primo piatto consiste in una porzione di pasta con i finocchietti selvatici e le lenticchie. Il secondo piatto comprende un’abbondante porzione di baccalà fritto. Completano il pranzo gli “sfingi”, i caratteristici dolci di San Giuseppe.

17361934_10210993979944136_6983343682999496059_nok

44 ok

 Terminata l’abbuffata, l’allegria compagnia va via. Ogni bambino riceve un sachetto con la merenda da portare a casa e consumare la sera per cena.
La signora Gaetatina in ogni sacchetto inserisce: un pezzo di pane a forma di bastone di San Giuseppe, un’arancia, alcuni pezzetti di finocchio dolce, un pezzetto di baccalà avanzato, una confezione di cioccolata alla Nutella e tanta devozione a San Giuseppe.
Bisognerebbe evitare di disperdere le vecchie tradizioni paesane istruendo nelle scuole i bambini al mantenimento delle usanze popolari. Auguro a tutti quelli che portano il nome di Giuseppe di essere paterni, buoni e generosi seguendo i Suoi esempi di onestà, di rettitudine, di giustizia, di laboriosità.

Il mio amico, l’ing. Salvatore Pernicone, ha portato la tradizione dei “Virgineddi” da Leonforte, in provincia di Enna, il suo paese d’origine, a Licata, dove abita assieme alla sua famiglia.
Ha imbandito la tavola con tantissime forme di pane, simbolo di ospitalità e di accoglienza, e con il vino dell’Eucaristia.  Nel grande altare, sotto il quadro di San Giuseppe, il pane ha la forma di ostensorio, di croce, di palma, del bastone di San Giuseppe.
La tavola, ricca e abbondante di tanti altri prodotti, ha accolto calorosamente le persone indigenti.
La restante parte, in sovrabbondanza, dei prodotti culinari è stata trasportata nella Parrocchia di Santa Barbara e devoluta in beneficenza. Complimenti a tutta la famiglia Pernicone non solo per la devozione a San Giuseppe, ma anche per  l’alto senso dell’amore del prossimo.

 1 ok

1b ok

1b1 ok

1c ok

1c1 ok

2 ok

2b ok

2c ok

3 ok

4 ok

5 ok

7 ok

8 ok

 LA CULLA DI SAN GIUSEPPE

La culla di San Giuseppe, questa leggenda medievale, è stata tratta dalla raccolta de  “I GRANDI LIBRI DELLA RELIGIONE”, editrice Mondatori, nel volume LEGGENDE CRISTIANE,  Santi, Martiri, Pellegrini, alle pagine 159-161.
Poiché racconta una buona azione di carità umana compiuta dal falegname Giuseppe, voglio condividerla con i miei amici per lodare insieme San Giuseppe.
Sufo, il ricco mercante che vendeva la tela sulla piazza di Nazareth, quel mattino lasciò la sua bottega e si recò dal falegname Giuseppe. La casa di Giuseppe, un dado sotto un albero di datteri, era un po’ fuori mano, e così Sufo dovette sudare un po’ sotto il sole per raggiungerla.
<<Giuseppe!>> chiamò il mercante affacciandosi alla botteguccia del falegname. <<Sono già venuto ad ordinarvi l’arca del pane il giorno prima delle mie nozze; ora vengo a chiedervi la culla per il mio primogenito. Fatemi una culla degna di un re, di buon legno pregiato, che duri, riccamente istoriata e decorata. Sufo può spendere!>>
Il giorno seguente Giuseppe si mise all’opera di buon mattino. Cercò un legno di cedro di bella vena verdiccia, forte ma anche pastoso e docile ai ferri del falegname e ci lavorò tutto il giorno fino a tarda sera, perché aveva bisogno di quel guadagno. Era il mese dei tributi e bisognava dare a Cesare quel ch’era di Cesare. La mattina dopo la culla era finita; Giuseppe l’aveva lavorata con grande amore. Per dondolarla sarebbe bastata la dolce melodia di una ninnananna. Giuseppe si recò alla bottega di Sufo con la culla.
<<Eccovi servito, messere Sufo. Maria m’ha dato i suoi consigli perché fosse fatta come piace alle mamme>>.
Sufo osservò la culla e cadde dalle nuvole. Non c’era segno di ricchezza in quel pezzo di legno. Ai suoi occhi la culla era un giaciglio povero e meschino.
E fu così che Sufo cacciò Giuseppe dalla bottega.
Tornando verso casa, carico della culla e di malinconici pensieri, Giuseppe si imbattè in Lisa, una cara amica di Maria, poverissima, rimasta vedova pochi giorni dopo aver partorito un figlio maschio. Il padre, ammalatosi gravemente, aveva potuto tenerlo in braccio solo per pochi giorni. La donna raccontò di aver camminato tutto il giorno per cercare giunchi lungo il fiume. Voleva fare una culla per il suo piccolo, come si fanno i canestri; ma non aveva trovato che un piccolo fascio di rami marci.
<< Prendete questa già fatta>> le sorrise dolcemente Giuseppe. <<Sufo, il mercante, non l’ha voluta. Il vostro bambino ci starà come il pane nella madia>>.
<<Potessi pagarvela, sì che la prenderei.>>
<<Prendetela, Lisa, è vostra.>>
E le lasciò la culla sulla porta di casa senza aspettare né benedizioni né ringraziamenti.
Lisa sapeva bene che Giuseppe non era meno povero di lei. Tante volte aveva pesato con gli occhi il poco pane che Maria portava al forno per la cottura. Ma la culla era così bella che fece la gioia del piccolo e della madre. Lisa, venuta la sera, vi deponeva il bambino e cominciava a cantare una dolcissima melodia. Quel canto si diffondeva nella contrada silenziosa e giungeva in tutte le case di Nazaterh. Il vento ne trasportava l’eco lontano lontano nell’oscurità della notte. La voce di Lisa era così limpida e serena che chi la udiva ci sentiva i colori della felicità. D’improvviso, però, il tono si faceva mesto e accorato, come se la mamma fosse stata trafitta per un attimo da una punta di malinconia. La sua voce tremava come un filo d’acqua nel vento, si oscurava per un momento come la luna al passar di una nuvola. Sul suo cuore scendeva il pensiero che la sua felicità era costata un dolore al falegname Giuseppe.
Sufo si fece fare da un altro artigiano la culla per il figlio ormai nato :ricca, pesante e massiccia  come un trono. La pagò un prezzo da dire sottovoce per non offendere la povertà. E vi mise a dormire il suo puttino adorato. Ma questa culla regale si dondolava a fatica e, muovendosi, faceva un rumore così sgradevole da tenere sveglio il bambino. La nutrice, a furia di dondolare, finiva per addormentarsi mentre il pargoletto continuava a piangere  e a strillare disturbato dalla nenia lamentosa di quel legno pesante.
Un mattino Sufo, non potendo più sopportare la tortura del neonato e lo stridere di quella culla, andò da Lisa e le disse: <<Datemi la culla del vostro bambino; vi pagherò quel che volete>>.
<<Come potrei farne dono a Voi senza offendere l’animo generoso che me l’ha regalata?
Non ci penso affatto!>>
<<Andrò da Giuseppe ad ordinargliene un’altra>>.
Ma Giuseppe era alquanto indaffarato in quei giorni. Per intervento della Provvidenza, aveva ricevuto alcune ordinazioni urgenti e lavorava di buona lena.
<<Mi spiace, messer Sufo, ma ne avrò almeno per una stagione. Abbiate pazienza se vi dico che non posso soddisfarvi subito>>.
<<E il mio bambino>> sbottò Sufo << dove lo metto a dormire>>?
<<Chiedete a Lisa di fargli posto vicino al suo. La culla è grande>>.
Sufo tornò da Lisa.
<<Se non volete che questo >>, disse la donna, <<portatemi il bambino questa sera. Il mio canto basterà per tutti e due>>.
<<A proposito>>, chiese Sufo, <<cos’è quella nota di dolore che turba ad un certo punto la dolcezza della vostra canzone? Si sente che avete una spina nel cuore>>.
<<Ogni notte, mentre canto, mi viene in mente che la mia gioia è costata un dolore al falegname Giuseppe. Il dolore che gli avete procurato voi>>.
Sufo tornò da Giuseppe e gli disse: <<Lasciate che vi paghi la culla, Giuseppe, se dovrò metterci a dormire il mio bambino>>.
<<Io sono già stato ripagato in benedizioni da quella povera vedova .E quelle benedizioni sono diventate Provvidenza per me. Farei un cattivo affare se scambiassi queste benedizioni con un quattrino. Quella culla è leggera e trotta felicemente perché è la culla della carità. Non pagate me, ma prendetevi piuttosto cura di quella poveretta che non sa di che vivere>>.
Sufo decise di prendere in casa sua la vedova e il figlioletto e le chiese di essere nutrice del suo primogenito.
Quella notte i due bimbi dormirono placidamente nella culla di Giuseppe dondolati dal canto struggente e dolcissimo di Lisa. Anche Sufo, finalmente, trovò sonno nel pensiero che la carità d’un povero aveva riportato a lui, tanto ricco, la pace e la serenità.

  

LA CHIESA DI SAN GIUSEPPE A MISTRETTA

  1 ok

La chiesa San Giuseppe fu edificata fuori delle antiche mura della città come cappella tombale di una nobile famiglia del luogo, probabilmente della famiglia Allegra o Gallegra.
Non si conosce esattamente il periodo della sua costruzione, ma la chiesa esisteva già nel 1595, come riporta l’iscrizione sull’architrave del portale in pietra arenaria locale, opera di  ignoto scalpellino siciliano.

17 ok

La chiesa presenta una facciata semplice. Pochi gradini ne favoriscono l’accesso all’interno costituito da una sola navata. Una grande struttura in ferro battuto circonda la parte bassa del frontale che si eleva su tre livelli. Nel secondo livello si aprono due finestre, mentre nel terzo livello si apre una sola finestra. Il frontale della facciata termina con un triangolo isoscele.

2 ok

4 ok

Lateralmente, a sinistra, s’innalza la torretta campanaria a tre livelli, nel XVIII-XIX secolo, da dove sporgono le finestre di diversa forma protette da grate di ferro. La torre campanaria è provvista di due campane.
In epoca normanna essa era stata costruita come torre d’avvistamento, secondo il programma di potenziamento dell’antico sistema fortilizio della città. Nel 1595 fu annessa alla chiesa e ristrutturata nel 1760, quando furono eseguiti altri lavori edilizi.

5 ok

Le modifiche strutturali e decorative più radicali si datano a partire dal 1760, quando il sacerdote don Felice Mandato, per disposizione testamentaria, con il denaro ricavato dalla vendita dei propri beni, ha promosso l’istituzione del  Collegio di Maria, più precisamente, dell”Istituto del SS.mo Bambino Gesù e della Sacra Famiglia. Il collegio di Maria è addossato al  lato destro della chiesa.
L’istituto religioso è sorto perospitare ed  educare le ragazze povere ed orfane e sostenuto dalle generose offerte dei benefattori.
Secondo il prof. Giovanni Travagliato le modifiche strutturali e decorative iniziarono a partire dal 1760 quando, su incentivo di Mons.Gioacchino Castelli, Vescovo di Cefalù, fu costruito l’adiacente Collegio di Maria, inaugurato ufficialmente due anni dopo e affidato alle religiose che ancora oggi lo abitano.
La storia del sacro edificio da questo momento seguirà dunque le vicende del Collegio, inaugurato ufficialmente il 14 maggio 1762.

6 ok

Ricordo perfettamente che le orfanelle delle suore del collegio di Maria e delle suore della Croce accompagnavano il defunto durante il suo funerale per espressa sua volontà o per scelta dei parenti.
Le suore di “San Giuseppe”, per assistere alle funzioni religiose, fino a qualche decennio fa non si mescolavano all’assemblea dei fedeli, ma partecipavano da dietro le finestrelle della cantoria.

7 ok

Pur rimanendo inalterate le forme e le dimensioni, nel 1818 avvennero notevoli mutamenti negli altari in marmo, negli stucchi, nei lampadari e nei candelieri in legno dorato.
Chiusa per il necessario restauro, la chiesetta fu riaperta al culto nel 2001 quando il nuovo altare è stato benedetto dal vescovo di patti mons. Ignazio Zambito l’undici marzo dello stesso anno.
Dell’originaria struttura decorativa del tempio rimase lo splendido gruppo ligneo della sacra famiglia con  San Giuseppe posto nell’ altare maggiore del presbiterio. La sacra famiglia è una scultura realizzata da di Noè Marullo.
Nell’opera, firmata in basso, è scritto: “Opera d’arte del paesano Noè Marullo per cooperazione di Basilio Porrazzo Anno 1912” . Vuol dire che l’opera è stata realizzata dallo scultore amastratino però la committenza è stata la corporazione degli ebanisti e dei falegnami della quale Basilio Porrazzo rappresentava la categoria.

IMG_20180805_212734 ok

sa giusepep copia

 Il gruppo è formato da tre statue.
Col Concilio di Trento c’è una diffusone non solo della figura di San Giuseppe, ma,  soprattutto,  della sacra Famiglia. Questo culto è stato voluto anche da papa Leone XIII e Noè Marullo  si è attenuto a ciò che ha scritto nell’enciclica Leone XIII.
Il trittico è formato dalla Madonna, vestita con un abito rosso e coperta dal manto celestiale, il Bambino, che tiene in mano il mondo, come per dire che Gesù è il salvatore  del mondo, e San Giuseppe che mostra il bastone fiorito. La Madonna è la moglie di Noè Marullo, la signora Stella Cuva, il bambino è Giustina,  la figlia, morta all’età di 16 anni, San Giuseppe è l’immagine di Marcello Capra, un ebanista aiutante di Marullo.
La sacra famiglia  è in cammino ed è di esempio per le altre famiglie.
La Madonna protegge il bambino tenendolo per mano, mentre poggia  l’altra mano sul  suo cuore come per dire che è  stata l’ancella di Dio e, per amore, ha dato alla luce Gesù, il Redentore. San Giuseppe protegge entrambi  abbracciandoli dalla parte posteriore.
L’espressione dl volto di San Giuseppe è pensierosa, forse perchè  sente la responsabilità  del futuro di Maria edi Gesù.
Secondo l’interpretazione dell’ emerito papa Benedetto XVI Maria rappresenta la Chiesa e San Giuseppe con il pastorale rappresenta il sacerdote della Chiesa.

8 ok

ok

Da ammirare anche il Crocefisso ligneo, statua policroma ante 1734.
L’altare del SS.mo Crocifisso funge da reliquiario con l’aggiunta di riquadri con reliquie di santi e le figure dell’Addolorata e di San Giovanni dipinte su tela poste lateralmente sotto le braccia della croce.

9 ok

 Il gruppo ligneo polocromo raffigura la Sacra Famiglia, opera di Noè Marullo, coadiuvato da Basilio Porrazzo, del 1912.

10 ok

 L’altare di Santa Teresina di Lisieux accoglie la statua lignea policroma, del XX secolo.

11 ok

L’altare del “Noli me tangere” accoglie la pregevole tela di Giuseppe Velasco, detto il Velasquez siciliano, che rappresenta Gesù Risorto e la Maddalena.  Nell’opera emerge un intimo lirismo e una mirabile completezza d’espressione.

12 ok

La tela raffigura San Giuseppe patriarca. E’ un olio su tela probabilmente di Antonino Manno, della seconda metà del XVIII sec.

13 ok

La tela raffigura l’Immacolata Concezione fra gli angeli e la colomba. E’ un olio su tela, di probabile opera di Antonino Manno, della seconda metà del XVIII sec.

14 ok

All’ingresso della chiesa, sul lato destro, si possono ammirare tre busti scultorei e marmorei di fine fattura che ricordano autorevoli e generosi benefattori della famiglia Allegra o  Gallegra, componenti famigliari  insigniti del titolo di “Baroni di San Giuseppe“, accompagnati dallo stemma e dai nomi abbreviati, probabilmente gli abati Benedetto e Giovan Battista, e l’anziana madre o sorella R., della fine del XVIII-inizi del XIX. secolo.

15 ok

 La grande moderna statua di Padre Pio da Pietrelcina accoglie i fedeli a braccia spalancate.
Il 23 settembre si festeggia nella chiesa di San Giuseppe e si porta in cammino processiionale per le vie del paese.

16 ok

CLICCA QUI

 

Mar 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’8 MARZO E LE ACACIE DEALBATA E RETINOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’8 MARZO E LE ACACIE DEALBATA E RETINOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

1

La Giornata internazionale della donna, comunemente definita la “Festa della Donna”, ricorre l’8 Marzo di ogni anno per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne ma, principalmente,  per evidenziare le discriminazioni e le violenze che, purtroppo, ancora oggi subiscono in molte parti del mondo.
Perciò l’8 Marzo non è un giorno di festa, ma una rievocazione della conquista dei diritti di cui godiamo oggi, noi donne moderne: il diritto al voto, l’uguaglianza sul lavoro, la parità tra i sessi, l’amore assoluto.
La storia racconta che la Giornata Internazionale della Donna nacque negli Stati Uniti il 3 maggio 1908 durante una conferenza tenuta ogni domenica dal Partito socialista di Chicago nel Garrick Theater. Alle riunioni erano invitate a partecipare anche le donne.
Quella conferenza fu chiamata “Woman’s Day” “il giorno della donna” .
In assenza del relatore designato, a presiedere quell’assemblea fu  la socialista Corinne Brown, persistente sostenitrice dei diritti delle donne.
Corinne Brown, nel suo discorso, evidenziò lo sfruttamento delle operaie da parte dei datori di lavoro che impegnavano le operaie in lunghe e spossanti ore di lavoro e le retribuivano con paghe bassissime.
Affrontò  anche il discorso sulle discriminazioni sessuali e sull’estensione del diritto al voto alle donne.
Dopo quel discorso, che non ebbe effetto immediato, il Partito Socialista americano decise «di riservare l’ultima domenica di febbraio del 1909 per l’organizzazione di una manifestazione in favore del diritto di voto femminile».
Sull’istituzione della Giornata Internazionale della Donna esistono molte narrazioni più o meno veritiere.
Una, molto famosa, narra che la Festa della Donna fu istituita nel 1908 in memoria delle operaie morte nel rogo della fabbrica “Cotton”, forse mai esistita, di New York.
Un gruppo di operaie dell’industria tessile “Cotton”, scioperarono per protestare contro le disumane condizioni di lavoro alle quali erano sottoposte.
Dopo alcuni giorni di conflitto con le maestranze, l’8 marzo il proprietario, per ripicca, bloccò tutte le porte di uscita dello stabilimento.
Scoppiò uno spaventoso incendio che causò la morte di 129 operaie.
Veramente si tratta di una leggenda nata negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Questo racconto è stato contestato da molte persone.
Successivamente, la data dell’8 Marzo, come giornata di lotta internazionale a favore delle donne, fu proposta da Rosa Luxemburg.
In realtà, pare che si faccia un po’ di confusione con la tragedia verificatasi a New York durante l’incendio della Triangle Waist, la “fabbrica delle camicette bianche”, verificatasi davvero il 25 marzo del 1911. A causa di  un enorme incendio sviluppatosi dentro la fabbrica, perirono nel rogo 126 donne, in maggior numero giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.
La storia delle operaie perite nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company è stata raccontata dalla licatese Ester Rizzo, autrice del libro “Camicette bianche Oltre l’8 Marzo” che ha trasformato il numero 126 nelle concrete sembianze di quelle donne, diverse per età, per provenienza geografica e per religione, ma accomunate dal coraggio dell’espatrio, dalla condizione di operaie in terra straniera e, purtroppo, anche dalla stessa morte, mandate al rogo dall’incuria, dalla superficialità, dall’avidità e dalla cupidigia umana.
Obiettivo dell’autrice di “Camicette bianche Oltre l’8 Marzo” è stato quello di raccontare la storia di queste donne migranti di un secolo fa, di ricostruire le loro identità, le loro origini, i loro nuclei familiari. Le vittime siciliane furono 24 fra cui Clotilde Terranova.
Clotilde era a nata a Licata il 27 settembre del 1887. Aveva 24 anni.
L’8 Marzo è una data davvero rivoluzionaria.
L’8 Marzo del 1917 a San Pietroburgo le donne marciarono lungo le strade per il «Pane per la Pace» chiedendo a gran voce la fine della guerra e manifestando per i propri diritti. Evento che in Russia diede origine alla Rivoluzione di febbraio, alla successiva destituzione dello zar e all’attribuzione del diritto di voto alle donne stesse.
In Italia la Giornata della Donna fu istituita per la prima volta nel 1922  anche se, per iniziativa del Partito Comunista Italiano, inizialmente coincise con il 12 marzo, giornata in cui cadeva la prima domenica successiva all’8 Marzo.
Perché è stata scelta l’Acacia dealbata, cioè la Mimosa, come simbolo della festa delle donne?

1 ok

3

Sembra che in Italia l’idea di eleggere il fiore di Mimosa come simbolo della “Festa della Donna” sia da attribuire all’iniziativa, risalente al 1946, delle femministe Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei.
Avendo saputo che Luigi Longo, il vicesegretario del Partito Comunista Italiano, voleva regalare nel giorno della “Festa della Donna” un mazzetto di viole, gli suggerono di scegliere un fiore più povero e più diffuso nelle campagne.
E’ stata scelta la Mimosa perchè la pianta fiorisce proprio nei primi giorni di marzo, quando la Natura si risveglia dal lungo letargo invernale e Persefone ritorna sulla terra e anche per il bel colore giallo dei fiori.
Perché le foglie della Mimosa, appena accarezzate da un leggero alito di vento, o stimolate involontariamente dalle ali di una farfalla o da quelle di un uccellino, o sfiorate dalla carezza delle nostre dita, o per l’alternarsi del giorno e della notte, si accartocciano, si chiudono per pudicizia, per modestia, per vergogna.
La DONNA è così raffigurata da fiori di Mimosa, per la loro delicatezza, per la loro riservatezza, per la loro purezza.
Un ramo fiorito di Mimosa, offerto alle donne l’otto Marzo, giorno in cui ricorre la “Festa della Donna”, da me non condivisa, deve essere offerto sempre a ciascuna Donna.
La DONNA Dona la Vita! E’ la MAMMA!
Anch’io offro un mazzetto virtuale di fiori di Mimosa e un caloroso abbraccio a tutte le Donne.

2 ok

2

 La donna deve essere sempre rispettata, amata, onorata, protetta, valorizzata e non festeggiata solo quel giorno dell’anno!

Ecco perché dico:

No alla violenza.

No ai maltrattamenti.

No allo stalking.

No ai plagi psicologici.

No alle limitazioni personali.

No agli uxoricidi.

No ai femminicidi.

No! No! No!

Dico Si all’ammirazione della pianta e dei fiori di Mimosa per l’eleganza, la bellezza, la fragranza.
Adesso conosciamo meglio le piante di Acacia, questo bellissimo spettacolo che la Natura benignamente ci regala!

 

CLICCA QUI

CLICCA QUI

 

 ACACIA DEALBATA  E ACACIA RETINOIDES

3

L’Acacia dealbata è un albero sempreverde appartenente alla Famiglia delle Mimosaceae.
E’ originaria dell’isola di Tasmania e coltivata a scopo ornamentale per le sue meravigliose e caratteristiche fioriture precoci e abbondanti.
E’ stata importata in Europa alla fine del ‘700 e dove si è facilmente inserita prosperando quasi spontanea in diversi ambienti. In Italia è molto sviluppata in Liguria, in Toscana e nel Meridione.
E’ coltivata anche lungo le coste dei grandi laghi del Nord dove può beneficiare di temperature più miti. Preferibilmente vegeta bene nelle aree con clima temperato, sopporta il gelo solo se di breve durata, teme gli inverni molto rigidi e le temperature che permangono per lungo tempo al di sotto dello zero e che potrebbero provocare la sua morte. Anche il vento freddo la danneggia.
Il termine “Acacia” deriva dal greco antico “ακίς”, “punta, lancia” mentre il termine ”dealbata” deriva dal latino “dealbo”, “puro, brillante” alludendo al colore giallo-brillante dei suoi fiori. Comunemente è conosciuta col nome di “Mimosa” .
Il nome “Mimosa” deriva dal latino “mimus”  “mimo, attore” alludendo alla sensibilità della pianta capace di cambiare aspetto come i mimi nella scena teatrale. Infatti la pianta compie movimenti fotonastici e seismonastici mediante i quali le foglioline opposte si stringono e il  picciolo della foglia si inarca. Questa sensibilità è massima nella Mimosa pudica.
Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta vegetano molte piante di Acacia dealbata.
La pianta d’Acacia dealbata ha un portamento eretto con il fusto alto fino a 8 metri, mentre nella terra d’origine raggiunge anche i trenta metri d’altezza. Il fusto, rivestito da una corteccia di colore verde-grigio negli alberi giovani e tendente al bruno quasi nero nelle piante anziane, è spoglio in basso, mentre in alto si allarga a formare la chioma ampia e scomposta che, in inverno, assume una colorazione gialla.
Le foglie, alterne, bipennate, di colore verde argenteo, composte da numerosissime foglioline, sono disposte in 8-20 paia di pinnule perpendicolari al rametto e composte a loro volta da circa 20-30 paia di foglioline perpendicolari alla nervatura principale.
Le foglie si richiudono di notte, o quando la temperatura è rigida, o durante i temporali, o quando sono appena sfiorate.
I fiori, plumosi, riuniti in capolini sferici, di colore giallo-limone, si sviluppano all’ascella delle foglie e sono noti come i “fiori di Mimosa”. L’Acacia è molto utilizzata come pianta ornamentale grazie alla sua splendida e profumata fioritura.
La grande quantità di fiori, che emanano un inconfondibile profumo, conferisce a questa pianta un fascino molto particolare.

4

La fioritura avviene tra i mesi di gennaio e di marzo.
Il frutto è un legume lungo da 4 a10 centimetri e, quando è maturo, assume una colorazione nerastra. Al suo interno sono ospitati i semi piccoli, duri e lucidi per mezzo dei quali la pianta si riproduce a primavera. La germinazione avviene dopo circa un mese. La riproduzione può avvenire anche per talea, da praticare sempre nei mesi primaverili.
L’Acacia dealbata è una pianta molto delicata e molto utile per abbellire i giardini pubblici e le ville private.
Desidera essere piantata in posizioni riparate dove può ricevere la luce diretta del sole anche per molte ore del giorno. Preferisce suoli acidi e ben drenati e dove esiste una buona umidità. Per i primi anni di vita, per dare un aspetto più ordinato dopo la fioritura e prima dell’inizio dell’attività vegetativa, anche per prevenire lo spezzarsi dei rami a causa del vento, l’Acacia va potata accorciando abbastanza i suoi rami.
Successivamente le potature possono essere interrotte, tranne che non si vuole stimolare l’albero a produrre nuovi getti.
Nel giardino di Mistretta è presente anche l’Acacia retinoides.
L’Acacia semperflorens o retinoides è la cosiddetta “Mimosa 4 stagioni” perchè la fioritura si prolunga per quasi tutto l’anno nei paesi caldi e con intermittenze irregolari nei paesi freddi. Si usa, in genere, come porta – innesto della “dealbata” per quelle specie di Acacie che non tollerano il suolo calcareo.
L’Acacia retinoides è una pianta sempreverde d’origine australiana e importata in Italia nel 1700. Col suo portamento eretto può raggiungere anche i dieci metri d’altezza.
Il fusto è rivestito dalla corteccia chiara e liscia nella pianta giovane, marrone e squamosa nella pianta adulta. Le foglie, lanceolate, appuntite, coriacee, a margine intero, di colore verde chiaro da giovani e verde scuro da adulte, formano la chioma di forma irregolare e disordinata.
Molto caratteristici sono i fiori bianchi e le foglie dell’Acacia retinoides perché dall’apice fogliare si diramano due foglie dell’Acacia dealbata.

5

Importanti sono i legni di Acacia per l’erboristeria e per i lavori di intaglio artistico.
Il legno d’Acacia nella Bibbia è menzionato tantissime volte per i suoi multipli usi. In Esodo (30,1-2), nell’altare per l’incenso si legge: “Farai un altare sul quale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia. Avrà un cubito di lunghezza e un cubito di larghezza, sarà cioè quadrato; avrà due cubiti di altezza e i suoi corni saranno tutti di un pezzo”.
In Esodo (37,1-2), nella costruzione degli arredi del santuario nell’Arca dell’Alleanza, realizzata in legno di Acacia rivestito d’oro si legge: “Bezaleel fece l’arca di legno di acacia: aveva due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro, dentro e fuori. Le fece intorno un bordo d’oro“. In Esodo ( 37,15-16), “Fece le stanghe in legno di acacia e le rivestì d’oro. Fece anche gli accessori della tavola: piatti, coppe, anfore e tazze per le libagioni; li fece di oro puro“. In Esodo (38,1-2), nella costruzione dell’altare dei sacrifici e della conca: “Fece l’altare in legno di acacia: aveva cinque cubiti di larghezza e cinque cubiti di larghezza, era cioè un quadrato, e aveva l’altezza di tre cubiti.  Fece i corni ai suoi quattro angoli: i corni erano tutti di un pezzo; lo rivestì di rame”.
Nel linguaggio dei fiori l’Acacia simboleggia “sicurezza”.

 

 

 

 

Feb 22, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IRIS PSEUDOPUMILA

IRIS PSEUDOPUMILA

 1 ok

Per me è sempre una gioia grandissima ritornare a Mistretta, al mio paese natio. Ricorrenze particolari mi sollecitanomaggiormente ad intraprendere il lungo viaggio che, da Licata, mi conduce a Mistretta. Una di esse è la festa dell’Immacolata Concezione alla quale mio padre, io e tutta la mia famiglia siamo stati sempre particolarmente devoti.

 I ricordi mi portano lontano nel tempo quando la chiesa di San Nicolò di Bari era guidata dai sacerdoti Antonino Saitta e Filadelfio Longo collaborati da mio padre Giovanni e, ancora prima, da mio nonno paterno Vincenzo. Erano loro ad organizzare la festa e la processione del fercolo dell’Immacolata Concezione.

Oggi questo pregevole incarico è affidato a mio cugino, il signor Antonino Lorello, che lo effettua con grande religiosità e sacra venerazione dell’Immacolata.

Ricordo che anche a me, quando ero giovanetta, era stato affidato un importantissimo incarico che tanto mi onorava: quello di portare il gonfalone che segnalava l’inizio del cammino processionale. Mia madre ogni anno mi comprava un cappellino, una sciarpa e un paio di guanti nuovi, dal colore giallo canarino, per proteggere dal freddo, che a dicembre è sempre molto pungente, la testa, il collo e le mani.

Quest’anno, durante il viaggio di ritorno a Mistretta proprio per partecipare alla festività dell’Immacolata Concezione, lungo la statale 117 che collega Nicosia a Mistretta e, in particolare, nei pressi della Sella del Contrasto, una piccola piantina, appena sollevata dal terreno, dal colore violetto, mossa da un alito di vento di tramontana, ha attirato la mia attenzione. Era l’unica nota di colore perché la vegetazione a 1120 metri di altitudine nel mese di dicembre è dormiente. Avvicinandomi ancora di più al paese, in un campo incolto c’erano talmente tante piantine di colore viole come se fossero state seminate di proposito. La mia macchina fotografica, sempre pronta a compiere il suo dovere, le ha fotografate.

Sono i fiori di Iris pseudopumila.

L’Iris è un fiore meraviglioso appartenente alla famiglia delle Iridacee.

Il genere Iris raccoglie circa 200 specie di piante il cui fiore in Italia è comunemente conosciuto col nome di “Giaggiolo”.

Il nome del genere “Iris” deriva da greco “ίρις” “iride, arcobaleno” per i colori iridescenti dei suoi fiori.Secondo la mitologia greca l’arcobaleno, che congiunge il cielo alla terra, era personificato da Iris,  la dea velocissima messaggera degli ordini celesti. Quando nel cielo appariva l’arcobaleno significava che Iride, con le vesti svolazzanti, dalle evanescenti sfumature luminose dell’arcobaleno, era scesa sulla terra per annunciare agli uomini i messaggi da parte degli Dei che abitavano sul monte Olimpo. Secondo alcune interpretazioni l’arcobaleno era tracciato dal cammino di Iris. Il fiore, che per la varietà dei suoi colori ricorda l’arcobaleno, è chiamato appunto Iris.

Poiché Iris accompagnava le anime delle donne defunte ai Campi Elisi, i greci deponevano il fiore di Irisdal colore viola  sulle tombe delle loro famigliari.

Il nome “pseudopumila” della specie deriva dal latino “pseudo” “falso” e “pumilus” “nano” per la sua piccola altezza.

Sinonimi sono: Iris pupila, Iris panormitana, Iris lutescens.

L’Iris pseudopumila è una piccola pianta erbacea alta 12-20 cm, perenne, rizomatosa. Dal rizoma sotterraneo emergono le foglie disposte a V, sempreverdi, lunghe fino a 20 cm.  Sono numerose, larghe, piatte, lanceolate, glauche, glabre, a lamina con margine intero e con venature parallele. I fiori, singoli, dal profumo dolce e delicato, sono di colore violetto, ma possono essere di diversi colori. Talvolta sono interamente violetti, oppure gialli, più raramente gialli con lacinie bordate di violetto o, viceversa, violetti con lacinie bordate di giallo, bianchi o crema. Esemplari di differenti fenotipi si trovano assieme in popolazioni naturali. Il fiore di Iris è formato da tre segmenti esterni larghi, vistosi detti “cascate”, perché si curvano verso l’esterno, e tre segmenti interni, più piccoli ed eretti, chiamati “stendardi”. La fioritura avviene da dicembre ad aprile. I fiori conferiscono all’ambiente in cui prosperano l’aspetto di un giardino naturale d’impareggiabile bellezza. L’ovario è infero. Gli stami sono tre. L’impollinazione avviene mediante l’aiuto degli insetti. Dopo la fecondazione, i tepali avvizziscono e cadono mentre l’ovario si sviluppa in una cilindrica capsula di frutti contenente molti semi neri e rugosi che si liberano quando la capsula si rompe. La moltiplicazione avviene, oltre che per seme, anche per suddivisione dei rizomi che contengono le scorte nutritive per la nuova pianta.

Iris pseudopumila

L’Iris pseudopumila è una specie molto resistente ed endemica della Sicilia e della Puglia. A Malta è presente la varietà di Iris pseudopumila a fiore giallo ed è una specie protetta per il pericolo di estinzione. In Sicilia si trova sui monti Nebrodi, sui monti attorno a Palermo e in alcuni tratti della costa trapanese. La sua presenza è più rara nella Sicilia sud-orientale e sull’Etna. In Puglia si trova sulle Murge e sul Gargano. I suoi habitat preferiti sono: i boschi, i pascoli,  le garighe, le zone aperte della macchia mediterranea comprese da 100 a 1400 metri di altitudine.

 Gli Iris, a causa della straordinaria bellezza dei fiori, per il loro aspetto leggero ed elegante, sono comunemente utilizzati per abbellire giardini, aiuole e anche terrazze visto che possono essere facilmente coltivati nel vaso. Distribuiti in piccoli gruppi sparsi, donano al verde del giardino uno speciale effetto esotico a macchia di colore. Oppure possono interessare ampi spazi come sono rappresentati nei bei paesaggi dei quadri di Monet e di Van Gogh.

Coltivare il fiore di Iris non è difficile. Bastano alcuni semplici accorgimenti per avere degli Iris lussureggianti. Molto importanti sono: l’umidità, la capacità drenante del terreno, per permettere al bulbo di crescere, e una buona esposizione al sole. I rizomi vanno messi a dimora a partire dal mese di luglio e ricoperti da un sottilissimo velo di terra. Se troppo interrati, infatti, rischiano di marcire e impediscono la fioritura. Bisogna evitare i pericolosi ristagni d’acqua che sono la prima causa della comparsa della muffa. Purtroppo gli Iris non sanno difendersi dall’attacco di diversi nemici. Le femmine del dittero Eumerus strigatus depongono le uova alla base delle piante. Le larve, penetrando all’interno dei rizomi, li divorano danneggiandoli gravemente. Il nematode Ditylenchus dipsaci causa alterazioni dello sviluppo per cui la pianta rimane nana, lo stelo si contorce, la pagina fogliare si raggrinzisce e va in necrosi. La presenza del fungo Sclerotinia gladioli provoca macchie scure sulle foglie con alterazioni più o meno gravi sulla parte ipogea di tutta la pianta. L’attacco dei funghi del genere Penicillium provoca il marciume dei rizomi. Le foglie colpite dalla ruggine Puccinia iridis mostrano macchie giallastre che, nel tempo, assumono una colorazione rosso-brunastra e si polverizzano. Le foglie, attaccate dopo la fioritura dall’Heterosporium gracile, mostrano macchie bruno-giallastre che, disseccando, provocano dei fori sul lembo fogliare. Le foglie e i rizomi attaccati dal Bacterium carotovorum vengono rapidamente ridotti ad una poltiglia maleodorante.

3 ok

Molti racconti e leggende sono legati al fiore di Iris divenuto anche un nome femminile piuttosto diffuso. Si narra che l’Iris sia originario della Siria e che il faraone Thutmosis, particolarmente colpito dalla bellezza di questo fiore,   ne portò molte specie in Egitto.

Un’altra leggenda racconta che Luigi VII di Francia (1120-1180), mentre tornava vittorioso da una battaglia, passò accanto ad un campo di Iris che ammirò molto. Scelse questo fiore come simbolo del Regno di Francia e per lungo tempo è stato considerato l’orchidea dei poveri per la sua notevole bellezza.

Sullo stemma della città di Firenze c’è il Giglio Fiorentino che è una varietà di Iris. Per i giapponesi l’Iris, insieme alla Peonia e al Crisantemo,  è un fiore che rappresenta la nazione.

In Giappone l’Iris é rimasto uno degli emblemi nazionali e rappresenta le gesta eroiche della nobiltà.

 L’iris è anche il fiore dei poeti e dei pittori. Una leggenda toscana narra che Iride era una bellissima donna fiorentina di cui si era perdutamente innamorato un pittore. Lei promise che lo avrebbe sposato se lui avesse dipinto un fiore così naturale da essere capace di attrarre una farfalla sopra il suo dipinto. Il pittore dipinse un fiore così bello che, non solo la farfalla si posò sopra di esso, ma il dipinto divenne vero e il fiore fu chiamato Iris.

L’iris è entrato a far parte delle piante officinali come efficace rimedio contro alcune patologie. Nell’antichità, gli Egiziani, i Greci, i Romani gli si attribuirono proprietà misteriose quali: alleviare e calmare la collera e l’isteria, ridurre l’agonia della gente spinta al suicidio, annullare gli effetti delle punture degli animali velenosi. Nella fitoterapia cinese, l’Iris era impiegato come antinfiammatorio, antibatterico, antivirale e antifungino. Il popolo Navajo, nativo dell’ America settentrionale, preparava il decotto di Iris ad uso emetico. I rizomi secchi erano utilizzati in infusione come antidolorifico contro il mal di denti e, ridotti in polvere, come antisettico in caso di ferite. Il popolo hawaiano dalle foglie e dai fiori ricavava il colorante blu per i tatuaggi; la poltiglia delle foglie macerate con sale, zucchero e spezie serviva per pulire e curare la pelle. In India l’Iris era assunto come diuretico, antielmintico, e rientrava in un preparato vegetale per il trattamento delle malattie veneree. I rizomi essiccati, masticati aiutavano i bambini nel periodo della dentizione. Il rizoma è ricco di tannino e la sua polvere provoca lo starnuto. Assunta in piccole dosi la sua radice fresca è stimolante, espettorante e diuretica, in forti dosi è causa di diarrea. Come rimedio naturale l’Iris può essere utile contro l’emicrania. Blocca il dolore alle tempie e dona una sensazione di sollievo attorno agli occhi dove generalmente il dolore si concentra. L’estratto di Iris è efficace anche per i problemi di digestione spegnendo i bruciori di stomaco e rilassando le pareti addominali colpite dall’infiammazione. Durante il Rinascimento le radici di Iris, introdotte in una corda, profumavano l’acqua bollente per lavare la biancheria. Con il rizoma essiccato e polverizzato si trattavano le parrucche indossate dall’aristocrazia francese e inglese. In Italia, nell’800, si stimolò la produzione della radice perché essiccata poteva soddisfare la richiesta di profumo proveniente dal settore nazionale e straniero. Infatti, per le proprietà aromatiche, officinali, coloranti i fiori e i rizomi di alcune varietà di Iris trovano impiego in profumeria, in cosmetica in farmacia sotto forma di ciprie, creme e lozioni. Dai rizomi essiccati, chiamati ireos, siottiene una polvere che contiene l’irone, una sostanza chimica dal caratteristico profumo di viola mammola con la quale si fabbricano profumi, deodoranti, dentifrici. In cucina il rizoma è usato come correttore del sapore di bevande, per profumare il vino Chianti, che acquista una gradevole fragranza di viola, per mantenere l’aroma della birra nei barili in Germania e il bouquet del vino nelle botti in Francia. Alla polvere dei rizomi sono state attribuite anche proprietà afrodisiache.

 Nel linguaggio dei fiori Iris significa “buona novella” in riferimento ad Iris, la messaggera degli dei. In generale è simbolo di buon augurio e di fedeltá. Disponibile in tantissime varietà, come i colori dell’arcobaleno, l’Iris assume diversi significati. Il colore giallo indica lamore appassionato, il colore bianco rappresenta la purezza. L’Iris blu rimanda alla fede e alla speranza, l’
 viola é l’emblema della saggezza e della sapienza, qualità acquisite durante gli anni di studio. Proprio per questo significato un bouquet di fiori di Iris è donato al neolaureato. Anche nell’Asia orientale l’Iris era considerato il fiore dal significato importante: era utilizzato come talismano efficace contro le forze oscure del male. Fu dipinto sulle armature degli eserciti in guerra per proteggere i militari dai nemici e dalla morte. L’iris trasmette più eloquentemente sentimenti profondi e positivi: l’assoluta fiducia, l’affetto dell’amicizia, il trionfo della verità, la promessa della speranza, l’ultima a fuoriuscire dal vaso scoperchiato da Pandora dopo che tutti i mali si riversarono nel mondo come narra la mitologia greca.

Secondo alcune interpretazioni, il numero tre ricorrente nell’Iris, i petali in posizione verticale e i petali rivoltati verso il basso, rimanda a quello della Trinità. Per questo motivo l’iconografia cristiana ha assunto questo fiore come simbolo di fede, di coraggio e di saggezza. Il fiore di Iris, ritto e proteso verso il cielo, era ritenuto anche simbolo di longevità. Dai cinesi l’Iris è denominato “farfalla porpora” per i vistosi petali posti a ventaglio e svolazzanti sotto il soffio della brezza.

 Nel linguaggio floreale regalare un mazzo di fiori di Iris significa esprimere simpatia, ammirazione, conforto, incoraggiamento nell’affrontare la vita e il futuro.

L’osservazione di questo splendido fiore provoca, comunque, rilassamento e benessere.

Feb 14, 2015 - Senza categoria    Comments Off on RESEDA ALBA

RESEDA ALBA

1 ok

A Licata la primavera giunge molto presto e non aspetta l’arrivo del mese di marzo. Le belle giornate nei mesi di gennaio e di febbraio incoraggiano ad uscite fuori porta. Durante la mia consueta passeggiata, nel tratto di strada che conduce alla baia di Mollarella, comunemente chiamato “La panoramica” per la meravigliosa osservazione del paesaggio collinare e marino, illuminata da uno splendente raggio di sole, ho notato una piccola pianta chiara, quasi trasparente. Se ne stava abbracciata al muro di cinta del bed and breakfast “VILLA SORRISO” in C.da Montesole. Grandi sono: la curiosità nel conoscere meglio la pianta e l’aspirazione di farla conoscere agli amici lettori.

E’ la Reseda alba.

Etimologicamente il nome del genere Reseda deriva dal latino “resedare” “calmare” per le proprietà medicinali attribuite a questa pianta. Il nome della specie “alba” vuol dire “bianca“,  per il colore dei fiori. Altri sinonimi sono: Reseda bianca, Reseda suffruticosa, Erba ruchetta, White mignonette. In Inghilterra è chiamata White Upright Mignonette e negli USA White Upright Mignonette.

La Reseda alba appartiene ad un genere di piante della famiglia delle Resedaceae originarie dell’Africa Settentrionale, dell’Europa e dell’Asia occidentale. Come elemento corologico specificatamente la Reseda alba è un’entità stenomediterranea in senso stretto con areale limitato alle coste mediterranee. E’ presente in tutte le regioni dell’Italia, isole comprese.

reseda ok

2 ok

La Reseda alba è una pianta erbacea glauca, annuale o perennante per mezzo di gemme poste a livello del terreno, alta da 30 a 50 cm. Possiede la radice a fittone e il fusto, di colore verde glauco, eretto, semplice o ramoso, glabro nella parte superiore. Le foglie, glabre, picciolate, alterne, pennatosette ondulate e profondamente incise, lunghe fino a 15 cm, sono disposte a formare una rosetta alla base del fusto. In inverno le foglie scompaiono. L’infiorescenza a racemo denso e molto allungato, da 20 a30 cm,  porta fiori profumati e poco appariscenti. La corolla è formata da 5 petali di color bianco divisi nella metà apicale in tre lacinie lineari. Gli stami si contano da 10 a 14. Fiorisce all’inizio della primavera, da gennaio a marzo. Il frutto è una capsula tetragona, globosa, eretta, lunga circa 5 mm, ristretta all’apice, divisa in 3 o più lobi appuntiti, contenente numerosi semi reniformi scuri, lisci e opachi.

3 ok

4 ok

Gli habitat preferiti della Reseda alba sono: i muri, i ghiaini, le pietraie, i bordi di strade, le zone ruderali, i terreni incolti, aridi e sabbiosi, ma anche i luoghi freschi. Cresce bene da 0 a1300 metri di altitudine.  Per la sua bellezza è una pianta che si può coltivare in qualsiasi giardino pubblico o privato e in qualunque periodo dell’anno osservando alcuni indispensabili accorgimenti. Non teme il freddo, gradisce l’esposizione al sole per alcune ore al giorno. In autunno, poiché la pianta perde il suo vigore, è necessario estirparla dal terreno.  Le annaffiature devono essere moderate e non eccessive lasciando sempre che tra un’annaffiatura e l’altra il terreno rimanga asciutto per almeno un paio di giorni. Prima di porre a dimora la pianta annuale è necessario arricchire il substrato con una piccola dose di concime organico o chimico. Se, durante la primavera, si somministra un concime specifico per piante da fiore mescolato all’acqua delle annaffiature la pianta regalerà una spettacolare e abbondante fioritura. Con l’innalzarsi delle temperature diurne, all’inizio della primavera è bene praticare un trattamento preventivo utilizzando un insetticida ad ampio spettro. Prima che le gemme ingrossino troppo è consigliabile praticare anche un trattamento fungicida ad ampio spettro per prevenire la comparsa di malattie fungine favorite dall’elevata umidità ambientale.

5 ok

 La farmacopea tradizionale attribuisce alla Reseda alba proprietà calmanti, sudorifere, diuretiche, antireumatiche e anticatarrali per la presenza di sostanze estratte dalle sommità fiorifere essiccate.

Curiosità: Nel mondo antico l’uso delle erbe era comunemente associato a riti magici e propiziatori. Plinio racconta che la Reseda alba anticamente curava le infiammazioni ma, affinché il malato potesse trarre giovamento dalla cura, doveva sputare a terra per tre volte recitando l’orazione: “Reseda, allevia questi mali. Tu sai, tu sai quale uccello ha strappato queste radici. Fa che non abbiano né testa né piedi”.

Feb 9, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA NEVE A MISTRETTA UNO SPETTACOLO!

LA NEVE A MISTRETTA UNO SPETTACOLO!


1 ok

A Mistretta, al mio paese, dove gli inverni sono lunghi e rigidi e le estati brevi e non molto calde, la neve è un fenomeno che si manifesta quasi ogni anno. Dico quasi perché la temperatura, a causa dei cambiamenti climatici, rispetto a cinquanta anni fa si è innalzata anche in alta montagna. La neve, a Mistretta e nelle montagne circostanti, in genere, fa la sua apparizione nel mese di febbraio.
Quest’anno 2017 si è presentata il giorno dell’Epifania.

2 ok

3 ok

4 ok

139625702_10225406270051603_5487476572169318600_o OK

 

CLICCA QUI

 

Durante la stagione invernale essa è attesa, anche se temuta per i disagi che arreca soprattutto alla circolazione stradale.

La neve cancella i confini, modifica l’aspetto delle case che sembra che si avvicinino l’una all’altra, copre le montagne, riveste come un manto gli alberi.

139640199_3677066449074223_1667864263455875723_o OK

5 ok

6 ok

139769172_10215871160886684_8526875658834157571_n OK

Mistretta, sotto la neve, cambia la sua fisionomia assumendo l’aria di un tranquillo e silenzioso paese.

7 ok

E’ bella la neve, quando viene giù a fiocchi fitti e larghi, come i fiori di gelsomino.
Se si potesse osservare al microscopio un cristallo di neve, si ammirerebbero, in tutta la loro bellezza, le sue forme stellari, romboidali, prismatiche, aghiformi.
Le diverse forme dipendono dalla struttura molecolare con la quale le singole molecole d’acqua si legano fra loro al momento del congelamento con legami ad idrogeno.
Queste bellissime forme sono il risultato di complesse sequenze di evaporazione, di condensazione e di deposizione che avvengono nel microambiente attorno a ciascun cristallo. Di solito, la neve non cade in cristalli singoli, ma in fiocchi.
I fiocchi più grandi, composti da centinaia di cristalli singoli, si formano tra 0 e 2°C. Se la temperatura sale anche di qualche grado, i fiocchi di neve si sciolgono, lo spettacolo finisce, viene giù la pioggia.

IMG-20180222-WA0000 ok

8 ok

9 ok

 La neve è bella perchè è bianca. E’ bianca perchè riflette la luce del sole grazie alle infinite sfaccettature di ghiaccio che si comportano come dei minuscoli specchi. Il colore bianco della neve dona una sensazione di pulizia e di candore a tutto l’ambiente.
In una giornata di sole e con il cielo azzurro essa assume tutti i colori, dal bianco al blu. Al tramonto si riveste di bellissime sfumature calde.
E’ un evento meraviglioso scoprire la neve quando la mattina si apre la finestra e si osserva il paesaggio imbiancato.
La neve non si fa sentire, viene giù silenziosa, non fa rumore!

10 ok

11 ok

 E richiama alla mente lontani ricordi!

Feb 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on PENNISETUM SETACEUM

PENNISETUM SETACEUM

 

0 ok

La pianta di  Pennisetum setaceum è una delle tante cose belle che Madre Natura ci regala.

E’ bella per il suo aspetto sericeo, è bella per il suo movimento dolce e flessuoso sotto la debole forza del vento, è bella per il colore delle infiorescenze quando sono mature.

E’ facile incontrare la pianta di Pennisetum setaceum perché ama farsi ammirare lungo i bordi delle strade, in particolare quelle adiacenti ai centri urbani, e perché arricchisce i terreni incolti e gli spazi aperti.

La strada statale, quella che congiunge Gela ad Agrigento, dove io l’ho fotografata a circa un Km dopo il bivio per Licata, nel mese di novembre era popolata per tutta la sua lunghezza da questa meravigliosa pianta. Il Pennisetum setaceumpossiede altri sinonimi: Penniseto allungatoPennisetum ruppellii,  Verde Erba Fontana per l’aspetto del ciuffo che ricorda gli spruzzi d’acqua di una fontana.

Il nome del genere deriva dal latino “penna” “penna, piuma”  per l’aspetto piumoso delle infiorescenze.

Il nome della specie “setaceum” si riferisce all’aspetto setato.

Il Pennisetum setaceum  è una pianta erbacea perenne, semirustica, a portamento eretto, appartenente alla famiglia delle Poaceae. L’apparato vegetativo è costituito da culmi ascendenti, rigidi, sottili, alti 50 -100 cm. Una porzione meristematica, in corrispondenza del nodo, conferisce al culmo la capacità di raddrizzarsi nel caso in cui venga piegato. Fitti ciuffi di foglie, che si dipartono dal suolo, gli conferiscono un aspetto cespuglioso. Le foglie, verdi, strette, raccolte a ciuffi, ruvide e lineari, constano di una guaina che avvolge il culmo e di un lembo che si stacca nettamente dalla guaina in corrispondenza di una piccola struttura membranosa detta ligula. Fiorisce tra maggio e giugno. I fiori sono raccolti in infiorescenze a pannocchie compatte e piumose, sericee, di colore giallo-verde, spesso soffuse di porpora, che gradatamente schiariscono con la maturazione, lunghe fino a 30 cm.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Nel fiore si osservano i resti del perianzio, rappresentati da 2 – 3 lodicule, di consistenza membranosa, cui segue l’androceo formato solitamente da 3 stami. Il gineceo, costituito da 2 – 3 carpelli, uniloculare, contiene un solo ovulo ed è sovrastato da 2- 3 stimmi piumosi. Il frutto è una cariosside contenente un seme con endosperma ricco di amido. Ciascuna spiga è in grado di produrre anche 100 semi che restano vitali nel suolo per un periodo di tempo superiore anche a 6 anni. Esperimenti di laboratorio hanno tuttavia evidenziato come dopo 18 mesi la loro germinabilità passi dall’80% al 44%. La produzione di seme è precoce e regolare. Ciascuna pianta è sessualmente matura entro i primi due anni di vita e produce semi ogni anno. Anche se la fioritura è prevalentemente estiva, in Sicilia la specie può riprodursi quasi di continuo durante tutto l’anno, prevalentemente tra marzo e settembre. Sfrutta rapidamente ogni condizione favorevole mostrando un’attività riproduttiva quasi continua producendo una gran quantità di semi con un’elevata germinabilità essendo in grado di germinare entro 3-5 giorni in condizioni di umidità e di temperatura ottimali. Studi approfonditi hanno dimostrato che la specie aumenta la propria attività fotosintetica, il proprio accrescimento e la produzione di seme in presenza delle piogge estive, cioè durante il periodo più caldo dell’anno. Condizioni climatiche sfavorevoli alla germinazione non riducono la quantità di seme presente nel terreno né la capacità della specie di affermarsi e diffondersi in seguito. Tuttavia, nelle zone più fredde in inverno i semi muoiono. L’impollinazione anemofila e la disseminazione anemocora in genere sono affidate al vento. La propagazione dei semi, dispersi a grande distanza, è affidata, inoltre, anche all’intervento antropico, all’acqua, al bestiame, agli uccelli e, soprattutto, ai veicoli, automezzi su gomma, cingolati, aerei, come è avvenuto certamente nella nostra regione.

2 ok

 Il Pennisetum setaceum è una pianta capace di accrescimenti molto rapidi potendo vivere sino a 20 anni di età. E’ una pianta delicata, che supera l’inverno solo nelle regioni con clima più favorevole dove spesso si riproduce spontaneamente inselvatichendosi e diventando leggermente invasiva. Dalla sua area d’origine il Pennisetum setaceum  è stato introdotto dall’uomo in molte altre aree geografiche come pianta ornamentale. In seguito alla sua diffusione oggi è una specie termocosmopolita.

Il Pennisetum setaceum, originario delle zone dell’Africa del Nord, della penisola arabica, del Medio Oriente,  si è diffuso in Arizona, in California, in Florida, nelle Fiji, nel Sud dell’Africa, in Indonesia, in Australia, nelle Hawaii, dove la specie è stata introdotta intorno al 1917 e dove si è affermata rapidamente naturalizzandosi già dal 1926. Ha contribuito in modo decisivo all’alterazione e alla grave compromissione delle foreste tropicali asciutte con l’aumento del rischio e dell’intensità degli incendi. Oggi il Pennisetum setaceum occupa nelle isole Hawaii un ampio range altimetrico crescendo dal livello del mare sino a 2800 d’altitudine.

In Europa è presente nella Spagna meridionale e nelle isole Baleari, nella Francia meridionale e in Italia, soprattutto in Sicilia e in Sardegna dove il clima è più favorevoleprediligendo ilrange da 0 a500 metri di altitudine nelle esposizioni calde.

La prima stazione di Pennisetum setaceum  in Italia è stata segnalata nel 1954 nei dintorni di Bordighera, in provincia di Imperia, dove sembra definitivamente scomparso.

Il Pennisetum setaceum è stato accolto nell’Orto botanico dell’Università di Palermo per essere sperimentato come pianta da foraggio diffondendosi ben presto negli ambienti litoranei del palermitano ove ha trovato condizioni di vita ideali. Il primo riferimento bibliografico relativo alla presenza di Pennisetum setaceum in Sicilia è stato redatto nel 1939 dal prof. Bruno, uno dei promotori e dei fondatori della Facoltà di Agraria di Palermo, che così afferma: “Nella primavera del 1938 mi procurai dei semi di Pennisetum ruppellii Steud. che feci seminare il 2 aprile […] Nell’aprile del 1939 ne feci eseguire un’estesa piantagione nel R. Giardino Coloniale di Palermo…”.

Si può sostenere che questa data segna l’inizio della presenza del Pennisetum setaceum nel territorio della regione Sicilia. Il Giardino Coloniale di Palermo fu affiancato all’Orto Botanico nel 1913 e, successivamente, fu soppresso, ma la parcella di Pennisetum setaceum fu mantenuta almeno fino al 1965. La pianta fu introdotta dall’Abissinia, allora colonia italiana, per l’utilizzo come possibile erba da foraggio.

In seguito, avendo riscontrato un basso valore nutritivo e una scarsa appetibilità per il bestiame, fu invece ritenuta un’interessante pianta ornamentale per via della “splendida fioritura“, motivo per il quale se ne mantenne una parcella all’interno del Giardino Coloniale, che è da ritenersi il centro di diffusione della specie, almeno per quanto riguarda il territorio di Palermo e della sua provincia. Da lì è iniziato un rapido processo di naturalizzazione e di invasione che sembra interessare un territorio sempre più vasto della Sicilia. La sua presenza in aree molto distanti tra loro fa ipotizzare che il Pennisetum setaceum abbia manifestato il proprio carattere di specie invasiva negli anni ‘ 80 del secolo scorso. Da quel momento in poi sembra essere iniziato, e ancora non può dirsi certamente terminato, il rapido processo di espansione della specie sul territorio regionale, soprattutto lungo la costa tirrenica, dove maggiore è l’impatto antropico sulle coste, ed in ambienti marcatamente caldo-aridi.

La notevole diffusione del Pennisetum setaceum è da attribuirsi alla sua capacità di adattarsi, fisiologicamente e morfologicamente, a diversi ambienti. Dopo un breve periodo di sospensione, questa pianta paleotropicale ha cominciato a diffondersi sempre più rapidamente in Sicilia. A distanza di circa 50 anni dal suo primo insediamento si è talmente naturalizzata da costituire una grave minaccia per gli equilibri fitocenotici dell’area colonizzando habitat di solito occupati dall’Ampelodesmos mauritanicus con cui condivide le esigenze climatiche e nutritive. In alcuni casi è divenuto l’elemento dominante della composizione floristica della biocenosi nota come Penniseto setacei-Hyparrhenietum hirtae.

Nei giorni nostri l’adozione di scelte d’intervento assume carattere d’urgenza per via del pesante impatto che la specie ha sulle comunità preforestali, macchie degradate e garighe, sulle praterie perenni e annue, sugli ecosistemi costieri, sulla macchia litoranea.

Il Pennisetum setaceum predilige, infatti, ambienti sinantropici e suburbani come cave dismesse, marciapiedi, linee ferroviarie, margini delle strade spingendosi in contesti seminaturali sub-rupestri, su substrati detritici o con roccia affiorante, sulle colate laviche dell’Etna, adattandosi a fattori di disturbo quali gli incendi intensi e frequenti, i pascoli abituali e la sempre più intensa antropizzazione. Proprio la notevole resistenza ai fattori di stress e di disturbo, come gli incendi, associata alla capacità di avvantaggiarsi rapidamente delle condizioni ottimali, è considerata una delle caratteristiche che contribuisce a rendere la specie altamente invasiva in diverse aree del mondo interferendo con la rigenerazione delle specie vegetali autoctone.

Il Pennisetum setaceum  è elencato tra le “diffuse piante infestanti più invasive“. Anche la lunga vitalità dei semi, che possono rimanere attivi nel terreno per molti anni, rende molto facile la sua diffusione e altrettanto molto difficile il controllo e l’estirpazione della specie con l’aiuto di erbicidi. Metodi meccanici, combinati a tecniche chimiche, possono essere più efficaci di ciascun sistema applicato singolarmente.

Erba Fontana è un’erba ornamentale decorativa e resistente. Non ha bisogno praticamente di nessuna cura una volta che ha scelto il suo habitat preferito su terreni alcalini e ben drenati. Ben tollera l’elevata umidità, il vento, la siccità, le alte temperature, teme le basse temperature che non devono scendere mai al di sotto di O°C. Gradisce una buona esposizione al  sole,  anche se tollera una parziale ombra. In genere è una specie libera da parassiti portatori di malattie e da nemici naturali. Se si riesce a controllare il fenomeno della sua invasività, la pianta può essere coltivata nei giardini pubblici e nelle ville private a scopo ornamentale.  Nel mese di aprile si dividono i cespi delle piante perenni e si ripiantano immediatamente. Le specie coltivate come piante annuali nei mesi di marzo-aprile si possono seminare in vasi o terrine riempiti con una composta per semi alla temperatura di 15-17°C. Le piantine si ripicchettano in cassette e si mettono a dimora in maggio. Sebbene il Pennisetum setaceum può essere coltivato da seme ogni anno, tuttavia nuove piantine possono essere acquistate nei vivai ogni primavera per piantarle nel giardino.

Durante la stagione invernale la pianta assume il colore marrone; comincia ad appassire diventando estremamente infiammabile. Presenze consistenti di cespugli di Pennisetum setaceum, costituiti da materiale facilmente infiammabile che aumenta l’intensità e la velocità di propagazione del fuoco, sono causa di pericolosi incendi che possono influenzare negativamente gli alberi resinosi ad alto fusto, gli uccelli che nidificano, gli animali selvatici terrestri in caso di propagazione del fuoco.

L’adattamento di questa graminacea al passaggio del fuoco è singolare. Per conto suo presenta una grande capacità di riaffermarsi dopo il passaggio del fuoco perché riprende la sua vitalità in pochissimo tempo.

Il signor Ciccio, il mio giardiniere, molto cocciutamente, brucia i cestini dei culmi dell’Ampelodesmos per liberare il terreno dalla sua presenza. Non sono riuscita a fargli capire che il suo lavoro è inutile. Poco tempo dopo la pianta è più vigorosa di prima. Gli dico che bisogna estirpare la pianta dalle radici! Occorrono: più fatica e più tempo.

Nel mio terreno spesso i pastori portano i loro greggi a pascolare. Tuttavia, le pecorelle al pascolo lasciano indisturbati i ciuffi di Ampelodesmos che si moltiplicano sempre di più nel mio giardino roccioso. In compenso hanno tranciato la cima dell’Araucaria. Il Pennisetum setaceum fortunatamente non è presente nel mio terreno. Essendo un foraggio poco nutritivo, gli animali da pascolo evitano di nutrirsi con l’Erba Fontana mangiandola solo quando non sono disponibili altre erbe più appetibili.

Un merito va riconosciuto al Pennisetum setaceum: le infiorescenze, tagliate e fatte seccare, capovolte in un ambiente aerato, asciutto e poco illuminato, diventano bellissime composizioni di fiori secchi.

 

Jan 25, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN BIAGIO E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN BIAGIO E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

 

a ok

Il 3 febbraio è vicino. In questo giorno si festeggia la memoria liturgica di San Biagio, vescovo della chiesa di Sebaste e martire. Venerato in Occidente e in Oriente, il Suo culto è molto diffuso sia nella Chiesa Cattolica sia nella chiesa Ortodossa. E’ venerato in moltissime città e località italiane delle quali, in molti casi, è anche il Patrono. Etimologicamente il nome “Biagio” deriva dal latino e significa “bleso, balbuziente”.
Non si hanno molte conoscenze sulla vita di Biagio. Notizie biografiche si possono riscontrare nelle agiografie di Camillo Tutini dove sono state raccolte numerose testimonianze tramandate oralmente.
Nel sinassario armeno, al giorno 10 febbraio, si legge il compendio riguardante la vita del santo: « Nel tempo della persecuzione di Licinio, imperatore perfido, San Biagio fuggì, ed abitò nel monte Ardeni o Argias; e quando vi abitava il santo, tutte le bestie dei boschi venivano a lui ed erano mansuete con lui, egli le accarezzava; egli era di professione medico, ma con l’aiuto del Signore sanava tutte le infermità e degli uomini e delle bestie ma non con medicine, ma con il nome di Cristo. E se qualcuno inghiottiva un osso, o una spina, e questa si metteva di traverso nella gola di lui, il santo con la preghiera l’estraeva, e sin da adesso ciò opera; se alcuno inghiotte un osso, o spina, col solo ricordare il nome di San Biagio subito guarisce dal dolore. Una povera donna aveva un porco il quale fu rapito da un lupo; venne la donna dal Vescovo e con pianto gli fece capire come il lupo aveva rapito il suo porco; allora il Santo minacciò il lupo e questo rilasciò il porco. Fu ad Agricolao accusato il Vescovo da Licinio il quale mandò soldati che lo condussero avanti ad esso; il giudice gli fece molte interrogazioni, ed egli in tutta libertà confessò che Cristo era Dio, maledisse gli idoli e i loro adoratori e però subito fu messo in prigione. Sentì la vedova che il Vescovo era stato messo in prigione, uccise il porco, cucinò la testa e i piedi d’esso, e gli portò al Vescovo con altri cibi e legumi: mangiò il Santo, e benedisse la donna, e l’ammonì, che dopo la sua morte ciò facesse ogni anno nel giorno della sua commemorazione, e chi ciò facesse in memoria di lui sarebbe la sua casa ricolma d’ogni bene. E dopo alcuni giorni levarono il santo dalla carcere, e lo portarono davanti al giudice, e confessò la sua prima confessione, e chiamò gli idoli demoni, e gli adoratori degli idoli chiamò adoratori del demonio. Si sdegnò il giudice: legarono il Santo ad un legno, e cominciarono coi pettini di ferro a stracciargli la carne, e appresso lo deposero e portarono in carcere. Sette donne lo seguirono, le quali col sangue del Santo ungevano il loro cuore e volto: i custodi delle carceri presero le donne, e le portarono al giudice, e le sante donne confessarono che Cristo era Dio; furono rilasciate; ma le donne non contente di ciò andarono dagli idoli, e sputarono esse in faccia, e racchiusi tutti in un sacco, e quello legato fu da esse gettato in un lago. Ciò fatto tornarono al giudice dicendogli: «Vedi la forza dei tuoi dei, se possono uscire dal profondo lago.» Comandò il giudice, che si preparasse il fuoco, e piombo liquefatto, spade, pettini di ferro, ed altri tormenti; dall’altra parte fece porre tele di seta, ed altri ornamenti donneschi d’oro, d’argento e disse alle donne: «Scegliete quel che volete.» Le donne pure gettarono le tele nel fuoco, e sputarono sopra gli ornamenti. Si sdegnò il giudice, e comandò che si appendessero, e con pettini di ferro fece dilacerare il corpo, e poi le gettarono nel fuoco, da cui uscirono illese, e dopo molti tormenti tagliarono ad esse la testa, e così consumarono il martirio. Ma il Santo Biagio lo gettarono nel fiume, ed il Santo si sedette sopra l’acqua quasi sopra un ponte. Entrarono nel fiume 79 soldati per estrarre il santo e tutti s’affogarono, ed il Santo uscì senza danno: lo presero per tagliargli la testa; e quando arrivarono a quel luogo, orò lunga orazione e domandò a Dio che se alcuno inghiotte osso, o spina, che gli si attraversi la gola, e senta dolore, e preghi Dio col nominar lui, subito sia libero dal pericolo. Allora calò sopra di lui una nuvola, e si sentì da quella una voce che diceva: «Saranno adempiute le tue domande, o carissimo Biagio: tu vieni, e riposa nella gloria incomprensibile che ti ho preparato per le tue fatiche.» Appresso tagliarono la testa al Vescovo Biagio nella città di Sebaste. Uno chiamato Alessio prese il corpo del Santo Biagio Vescovo e lo ravvolse in sindone monda e lo seppellì sotto il muro della città dove si fanno molti miracoli a gloria del nostro Dio Gesù».
Vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia, oggi Anatolia, Biagio era un medico nominato vescovo cattolico della comunità di Sebaste al tempo della “pax” costantiniana. Egli guidava la comunità di Sebaste d’Armenia quando nell’Impero romano fu concessa ai cristiani la libertà di culto. Erano “Augusti”, cioè imperatori, Costantino e Licinio.
Erano anche cognati perché Licinio aveva sposato la sorella di Costantino. Costantino governava l’occidente e Licinio l’Oriente. Un notevole conflitto era scoppiato tra i due imperatori-cognati nel 314 e proseguito, anche se con brevi tregue e nuove lotte, fino al 325 quando Costantino ordinò di strangolare Licinio a Salonicco. Il conflitto provocò in Oriente qualche persecuzione locale, forse a causa di governatori troppo zelanti, come scrisse lo storico Eusebio di Cesarea.
Avvennero distruzioni di chiese, persecuzioni locali, condanne dei cristiani ai lavori forzati, condanne a morte dei vescovi. Quando l’imperatore romano scatenò la persecuzione dei cristiani nell’Armenia, molti fedeli consigliarono al vescovo Biagio di fuggire e di nascondersi in qualche luogo. Egli si ritirò sulle pendici selvagge di un alto monte rifugiandosi dentro una grotta vivendo da eremita, cibandosi del poco che riusciva a trovare e dormendo in un giaciglio fatto di erbe e di foglie secche. Gli animali selvatici cominciarono a recarsi in quella grotta e a fermarsi intorno a Biagio: cervi, caprioli, asini selvatici, serpenti rimanevano tranquilli e non si allontanavano finché il Santo non aveva impartito loro la benedizione.
I cacciatori sempre più spesso tornavano dalla caccia a mani vuote non avendo incontrato nessun animale, perché tutte le bestie erano radunate alla grotta di Biagio. Gli uccelli gli portavano di che mangiare e lui, che era medico, curava le bestie ferite e malate. Qualcuno alla fine scoprì l’affollamento degli animali intorno alla grotta di Biagio e andò a riferirlo all’imperatore. Furioso, mandò una delle sue legioni a prendere il vescovo. Allontanati e dispersi gli animali, entrati nella caverna, i soldati romani catturarono Biagio e lo condussero davanti all’imperatore. Arrestato, fu messo in prigione. Durante il processo si rifiutò di rinnegare la fede in Cristo e di onorare, al contrario, le divinità pagane. Per punizione, fu picchiato, scorticato vivo con i pettini di ferro e, infine, decapitato.
La Passio racconta che il Santo fu torturato con pettini di ferro; in realtà non si sa cosa fossero questi strumenti, ma, nella tradizione, sono i pettini usati dai cardatori di lana. Nell’iconografia San Biagio è raffigurato vestito con i paramenti da vescovo, che regge il pettine per cardare la lana, oppure con le due candele incrociate. È anche raffigurato sotto la tortura mentre, legato ad una colonna, gli vengono dilaniate le carni con i pettini.

b ok

c ok

d ok

 I simboli iconografici sono: il bastone pastorale, la candela, la palma, il pettine per cardare la lana. Quindi, Biagio subì il martirio a Sivas, città dell’antica Armenia, probabilmente nel 316. Il corpo di Biagio fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 alcuni armeni, custoditi i suoi resti mortali in un’urna di marmo, li imbarcarono per esser trasferiti a Roma.
Una furiosa tempesta fermò l’imbarcazione sulla costa di Maratea. I fedeli accolsero le reliquie in una chiesetta, l’attuale basilica, costruita sull’altura detta ora Monte San Biagio. La cappella con le reliquie del Santo fu posta poi sotto la tutela della Regia Curia dal re Filippo IV d’Asburgo con lettera reale datata 23 dicembre 1629. Da allora è nota popolarmente col nome di Regia Cappella. Biagio è stato una delle ultime vittime delle persecuzioni che l’orientale Licinio, nel tentativo di sopraffare l’occidentale Costantino, continuò in Oriente, anche dopo l’editto del 313, che vi aveva posto fine, per trascinare i pagani dalla propria parte. Pare che il culto a San Biagio si sia sviluppato solo cinque anni dopo la Sua morte.
San Biagio è uno dei santi più popolari al mondo ed è patrono di moltissime città. In Italia sono tante le località che hanno eletto San Biagio loro Patrono tra le quali: Maratea, Ostuni, Pietrasanta, San Biagio di Bagnolo San Vito, Spezzano della Sila, Fiuggi. In Sicilia San Biagio è patrono delle città di: Acate, Bronte, Camastra, Caronia, San Piero Patti, Comiso, Maniace, Militello Rosmarino, San Biagio Platani. E’ anche patrono di moltissime località estere quali Dignano d’Istria e Ragusa della Croazia.
San Biagio è il protettore dei malati di gola in ricordo del miracolo del bambino liberato dalla lisca di pesce. E’ protettore egli animali per la sua vita eremitica insieme ad essi. E’ protettore dei pastori, dei guardiani di greggi e delle greggi per proteggerli dalle insidie dei lupi in ricordo del miracolo della vedova alla quale il lupo ha rapito il suo porco. E’ protettore dei pettinai, dei lanaioli, dei cardatori, dei materassai per il pettine per cardare la lana, lo strumento del Suo martirio. E’ protettore dei musicisti di strumenti a fiato per la protezione della gola e dei laringoiatri, i medici che curano l’apparato respiratorio. È invocato anche dalle ragazze per trovare marito.
Moltissime sono le chiese dedicate a San Biagio. A Roma ce ne sono diverse.
In Toscana era particolarmente onorato a Pistoia nella cui cattedrale si conservavano alcune reliquie.
A Montepulciano il magnifico tempio, opera del San Gallo, è dedicato a San Biagio. Costruito sui ruderi di un’antecedente chiesa, si pensa che questa, a sua volta, sia sorta sopra i resti di un tempio pagano. La ricostruzione di chiese dedicate a San Biagio sopra antichi luoghi di culto pagano è un fenomeno frequente. Probabilmente si pensa che San Biagio, per la sua popolarità, sia stato uno dei santi preferiti dalla Chiesa per sostituire culti pagani particolarmente persistenti.
In Italia, non solo le chiese portano il nome di San Biagio, ma anche molti comuni portano il Suo nome. L’elenco è veramente molto lungo. San Biagio della Cima è il comune in provincia di Imperia,  in Liguria, nei pressi di Ventimiglia. Monte San Biagio è il comune in provincia di Latina disposto sul versante sudovest del Monte Calvo e ai confini con la provincia di Frosinone. San Biagio Saracinisco è in provincia di Frosinone.
San Biagio di Callalta è il comune in provincia di Treviso.
San Biase è in provincia di Chieti. San Biagio Platani, in provincia di Agrigento, è la cittadina dove sono allestiti i caratteristici archi di pane nel periodo pasquale. Cittadine col nome di Biagio esistono anche in Francia, in Spagna, in Svizzera e nelle Americhe. In Messico c’è l’arcipelago San Bias.
Moltissime chiese custodiscono almeno un frammento del corpo di San Biagio. Oltre all’antica usanza di sezionare i corpi dei santi e di distribuirne le parti per soddisfare le richieste dei fedeli, esisteva anche la pratica della simonia, una delle cui forme consisteva nel vendere reliquie false o reliquie appartenenti a santi omonimi, ma meno conosciuti.
A Carosino, un paesino in provincia di Taranto, è custodita come reliquia un pezzettino di lingua conservato in un’ampolla incastonata in una croce d’oro massiccio. Ad Avetrana, in provincia di Taranto, in un ostensorio d’argento e d’oro è custodito un frammento della gola di San Biagio. E’ incisa l’epigrafe “gutturre Sancti Blasi” “la gola di San Biagio”. A Caramagna Piemonte, in provincia di Cuneo, è custodito un pezzo del cranio conservato in un busto argenteo.
Si ha notizia della sua presenza già dall’atto di fondazione dell’antica abbazia di Santa Maria di Caramagna datato 1028. Nella parrocchia di San Biagio di Montefiore, una frazione del comune di Recanati, è custodito un osso intero dell’avambraccio in un reliquiario a forma di braccio benedicente con palma del martirio. Un ossicino del braccio è conservato nel santuario di Cardito, in provincia di Napoli.
A Palomonte, in provincia di Salerno, nella chiesa Madre della Santa Croce è conservata un’altra reliquia del Santo. A Mugnano di Napoli una reliquia del santo è custodita nella chiesa dedicata a San Biagio. A Penne, in Abruzzo, è venerato il cranio del santo. Nel duomo di San Flaviano a Giulianova è conservato il braccio di San Biagio racchiuso in un raffinato reliquiario d’argento a forma di braccio con mano benedicente e recante una palma datato 1394 e firmato da Bartolomeo di ser Paolo da Teramo.
Nella parrocchia di Lanzara, una frazione del comune di Castel San Giorgio, in provincia di Salerno, sono conservati due piccole ossa di una mano. Nella cattedrale di Ruvo di Puglia nel giorno di San Biagio si venera un frammento del braccio racchiuso in un reliquiario a forma di braccio benedicente.
A Ostuni, nel santuario di San Biagio è conservato un frammento d’osso. Il sacerdote lo appoggia sulla gola di ogni fedele che il 3 di febbraio si reca in pellegrinaggio sui colli ostunesi dove sorge il santuario. A San Piero Patti, in provincia di Messina, nella chiesa di Santa Maria Assunta è custodito un molare di San Biagio in una teca d’argento. La teca è portata in processione in occasione delle due festività che si celebrano una il 3 febbraio e l’altra la prima domenica del mese di ottobre.
A Baronia, in provincia di Messina, in due preziosi reliquiari sono conservati una falange del dito mignolo e un frammento del braccio. Ad Acquaviva Collecroce, in provincia di Campobasso, nella parrocchia di Santa Maria Ester si conserva una reliquia del santo donata alla comunità intorno alla metà del Settecento. A Napoli, nella Sala del Tesoro della basilica di San Domenico Maggiore, in un reliquiario a forma di braccio si conserva un frammento di un dito di San Biagio.
A Maratea il culto di San Biagio è molto sentito. E’ festeggiato 2 volte l’anno: il 3 febbraio, suo giorno liturgico, e il giorno dell’anniversario della traslazione delle reliquie. I festeggiamenti si protraggono per otto giorni. Iniziano il primo sabato del mese di maggio e si concludono la seconda domenica dello stesso mese. Ad Avellino, nella chiesina dell’Arciconfraternita dell’Immacolata, è conservato un frammento osseo della mano del santo. A Eboli, in provincia di Salerno, nella chiesa di San Nicola si conservano un dito e altre reliquie di San Biagio. Ad Asti, nell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Nuova, si conservano un dente e alcuni altri resti del Santo. A Brescia, nel tesoro della chiesa di San Lorenzo, si conserva il reliquiario di San Biagio contenente alcuni denti e un osso del santo.
Ad Orbetello, in provincia di Grosseto, era conservato il teschio di San Biagio che, rubato alcuni anni fa, non è stato più ritrovato.
I festeggiamenti in onore del santo patrono San Biagio continuano con più devozione. A Casal di Principe, in provincia di Caserta, nella chiesetta dedicata a San Biagio è conservato un ossicino della sua mano. Nella chiesa a Lui dedicata, nella città croata di Ragusa, il cranio del santo patrono è custodito in un ricco reliquiario a forma di corona bizantina.
A San Biagio è stato attribuito il compimento di molteplici miracoli soprattutto durante il periodo della sua carcerazione. Venerato come uno dei quattordici Santi taumaturghi, cioè quei santi invocati per la guarigione di particolari mali, in Francia e soprattutto in Germania, San Biagio è famoso per l’ininterrotto ricorso al suo patrocinio da parte di chi soffre di patologie della gola e dell’apparato respiratorio.Disse allora Biagio che tutti quelli che l’avessero invocato nelle tribolazioni della malattia avrebbero avuto il suo aiuto. L’associazione del patrocinio di San Biagio alle malattie della gola deriva da una famosa leggenda.
Si narra che un giorno, nella sua città natale dove svolse il ministero vescovile, durante il periodo della sua prigionia si recò da lui una donna portando in braccio il figlio morente per avere ingoiato, mentre mangiava, una lisca di pesce che gli si era conficcata nella golae nulla era valso a toglierla. Il vescovo, ponendo le mani sopra il corpo del bambino privo di sensi,benedicendolo lo risanò.
Ancora oggi invochiamo San Biagio per curare i “mali alla gola”. Ancora oggi, nel giorno della sua festa, permane la funzione religiosa, inserita nel Rituale Romano, della benedizione della gola per preservarla dalle malattie. Durante la Santa Messa, il 3 febbraio il sacerdote benedice prima le candele aspergendole con l’acqua benedetta e recitando l’orazione: ”Chiediamo al Signore, Dio, Padre onnipotente, fonte di vita, la salute della gola e la grazia di usare il dono della nostra voce affinché Dio in tutto sia glorificato e il popolo sempre edificato. Dio onnipotente ed eterno, tu hai creato il mondo intero. Per tuo amore hai mandato a noi tuo Figlio Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria, per sanare le nostre malattie, del corpo e dello spirito. San Biagio, glorioso vescovo, testimoniando la sua fede, ha conquistato la palma del martirio. Tu Signore, a Lui hai concesso la grazia di guarire le malattie della gola. Ti preghiamo, benedici queste candele, affinché i tuoi fedeli, per l’intercessione di San Biagio, siano liberati dalle malattie della gola e da ogni altro male e perché possano sempre ringraziarti. Per Cristo nostro Signore. Amen”. Poi, in piedi sul presbiterio, a ciascuno dei fedeli presenti con una mano pone due candele benedette incrociate sotto il mento a contatto della gola recitando le parole della benedizione: ”Per intercessionem Sacti BlasiiI, episcopi et martyris, liberet te Deus a malo gutturis et a quolibet alio malo. In nomine Patri set filii et spiritus sacti, amen”. «Per intercessione di San Biagio il Signore ti liberi dalle malattie della gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo. Così sia” e con l’altra compie un segno di croce.
La più antica citazione scritta sul santo è contenuta nell’Opus medicum libris XVI di Ezio di Amida vissuto nel VI secolo. Riguardo ai mali di gola, nella traduzione latina dell’opera, di Giano Corsaro del 1567, si legge: « Ad eductionem eorum, quae in tonsillas devorata sunt. Statim te ad aegrum desidentem converte, ipsumque tibi attendere jube, ac dic: egredere os, si tamen os, aut festuca, aut quid tandem existit: quemadmodum Iesus Christus ex sepulchre Lazarum eduxit, o quemadmodum Jonam ex ceto. Atque adprehendo aegri gutture dic: Blasius martyr o servus Christi dicit, aut adscende, aut descende. » « Se la spina o l’osso non volesse uscire fuori, volgiti all’ammalato e digli «Esci fuori, osso, se pure sei osso, o checché sii: esci come Lazzaro alla voce di Cristo uscì dal sepolcro, e Giona dal ventre della balena.» Ovvero fatto sull’ammalato il segno della croce, puoi proferire le parole che Biagio martire e servo di Cristo usava dire in simili casi «O ascendi o discendi». Tale rito, sorto nel XVI secolo, attualmente è ancora esercitato. San Biagio è invocato anche per combattere il singhiozzo, la tosse, il torcicollo. Protegge dall’angina pectoris e, in Germania, è invocato per i mali della vescica.
Sulla figura di San Biagio esistono diverse leggende e tradizioni popolari che si sono tramandate nel tempo in occasione dei festeggiamenti del Santo. Si preparano pani e dolci tipici dalle forme particolari che, benedetti dal sacerdote, sono distribuiti ai fedeli. A Mercato Vecchio di Montebelluna, in provincia di Treviso, nella chiesa di San Biagio è custodito un pezzettino di veste. Il 3 febbraio sono benedetti, in onore del santo, pagnotte di pane e arance.
A Bindo di Cortenova, in provincia di Lecco, ogni anno si celebra la grande festa di San Biagio mettendo in evidenza gli usi tradizionali quali: il bacio delle candele benedette, il falò e i tipici ravioli chiamati “scapinasc”. Nella Basilica di San Biagio a Maratea, alla destra della Regia Cappella dedicata al santo, vi è la palla di ferro sparata dai cannoni francesi durante l’assedio del dicembre 1806; su di essa, inesplosa, sono ben visibili le impronte che, secondo la tradizione, sarebbero le dita della mano destra di San Biagio.
Si narra che nella cittadina di Fiuggi nel 1298 San Biagio fece apparire delle finte fiamme sul paese proprio mentre stava per essere messo sotto assedio dalle truppe papali. La cittadina, che all’epoca si chiamava Anticoli di Campagna, era feudo dei Colonna che, a loro volta, erano in guerra con la nobile famiglia romana dei Cajetani. L’intenzione dei Cajetani era quella di attaccare il paese da due lati: dal basso, scendendo dal castello di Monte Porcino, e dall’alto, dalla parte di Torre Cajetani. San Biagio avrebbe fatto emergere finte fiamme che indussero le truppe nemiche, che attendevano fuori le mura pronte ad attaccare, a credere di essere state precedute dagli alleati. Di conseguenza ritornarono nei loro accampamenti. Il giorno successivo i fedeli elessero San Biagio patrono della città.
La sera del 2 febbraio di ogni anno nella piazza più alta del paese si ripete l’antica tradizione di bruciare cataste di legna di forma piramidale denominate “stuzze”, in memoria dell'”apparizione” delle fiamme. A Salemi in provincia di Trapani, San Biagio è compatrono della città dal 1542 assieme a San Nicola di Bari. Si narra che nel 1542 la città di Salemi e le campagne circostanti furono invase dalle cavallette che distrussero i raccolti causando fame e carestia.
I salemitani, fiduciosi, invocarono San Biagio, protettore delle messi e dei cereali, affinché liberasse la città e le campagne da questo terribile flagello. San Biagio esaudì le loro preghiere. Da allora i salemitani il 3 febbraio di ogni anno preparano dei pani in miniatura, i “cavadduzzi”, le “cavallette” e i “cuddureddi”, che rappresentano la gola di cui San Biagio è il protettore. I “cuddureddi” e i “cavadduzzi” sono benedetti durante il rito religioso e distribuiti ai fedeli che accorrono da ogni parte della città per pregare San Biagio e per farsi benedire la gola dal sacerdote con le candele accese ed incrociate.
A Milano, dove il culto di San Biagio è molto vivo, nelle famiglie continua la tradizione di mangiare il panettone raffermo, comprato di proposito durante il periodo natalizio, come gesto propiziatorio contro i mali della gola e del naso secondo il detto milanese “San Bias el benediss la gola e el nas“.
I negozianti vendono a poco prezzo i panettoni di san Biagio, gli ultimi rimasti. A Lanzara, in Campania, è consuetudine mangiare la famosa “Polpetta di San Biagio“, e, per tener viva la tradizione, nel periodo della festa viene realizzata la “Sagra della Polpetta“. A Cannara, in Umbria, il 3 febbraio si festeggia San Biagio attuando giochi di abilità. E’ consuetudine far rotolare forme di formaggio per le vie del centro storico secondo una tradizione già attestata nel XVI secolo col nome di “Ruzzolone”. Altri giochi consistono nella corsa con i sacchi o nel rompere, con gli occhi bendati e forniti di un bastone, recipienti di terracotta appesi fra le case che si affacciano in piazza Garibaldi. Molto seguito è anche il “gioco degli spaghetti” che premia colui il quale riesce ad ingoiare il piatto di pasta con le mani legate dietro la schiena e a svuotarlo per primo. Il 3 febbraio si celebra la festa di San Biagio anche a Taranta Peligna, in Abruzzo.
In onore del Santo protettore dei lanaioli sono preparate le “Panicelle“, pani a forma di mano che vengono distribuite alla popolazione.
Il legame tra Taranta Peligna e il culto di San Biagio è testimoniato anche dalla presenza dei lanifici che hanno dato notorietà al paese per la produzione delle “tarante“, le coperte abruzzesi. A Maratea San Biagio si festeggia due volte l’anno. Il 3 febbraio si benedice la gola dei fedeli.
Il primo sabato e fino alla seconda domenica di maggio si ripete “l’anniversario della traslazione delle reliquie”. In questi giorni il simulacro di San Biagio è condotto in processione per le vie della città per quattro volte. A Caronia, in provincia di Messina, si celebra con grande devozione la festa di San Biagio.
Il giorno della festa si benedicono i “cudduri di San Brasi“, pani e dolci di nocciole e mandorle fuse con il miele e aventi la forma di ciambella. Questi amuleti di devozione, benedetti dal sacerdote durante la Santa Messa solenne, sono donati ai malati e alle persone che ne fanno espressa richiesta in Parrocchia. Nella parrocchia di Montefiore di Recanati il patrono San Biagio si festeggia la prima domenica di febbraio.
Durante la celebrazione liturgica sono benedetti le gole dei fedeli e il pane. A Plaesano, in provincia di Reggio Calabria, prima di rientrare in chiesa alla fine della processione, i portanti il fercolo di San Biagio Lo fanno girare di corsa per tre volte intorno alla chiesa. AD Orbetello il 3 febbraio si celebra la festa liturgica di San Biagio.
I pescatori della laguna regalano il pesce pescato. Il 12 maggio avviene la Traslazione. I fedeli prelevano il teschio del Santo dalla Chiesa di Ansedonia e lo portano in processione lungo la laguna fino alla parrocchia di Orbetello. A San Biagio, frazione di Garlasco, in provincia di Pavia, nella chiesa parrocchiale a Lui dedicata, dopo l’invocazione “San Bias, la gula e al nas“, si procede alla benedizione della gola e del naso. Durante il pranzo di mezzogiorno si consumano i “ravioli di magro” riempiti di grana e il tradizionale “panettone di San Biagio”.
A Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, si benedicono i “friciduzze“, taralli realizzati a forma di mano, di bastone, di piede e di mitra di San Biagio e le “fettuccine di San Biagio” che sono nastrini di pasta colorati. Il culto di San Biagio non ha confini geografici e le leggende e le tradizioni non hanno messo limiti alla fantasia popolare.

   LA CHIESA DI SAN BIAGIO A MISTRETTA

 

1 ok

La chiesa di San Biagio, eretta a Mistretta nell’omonima piazzetta, è un piccolo edificio risalente al XVI secolo. Il prospetto, molto semplice, di pietra locale, è formato da un rettangolo sormontato da un triangolo isoscele il cui vertice è occupato dalla struttura in ferro, unico sostegno della piccola Croce e della campana. Tre gradini semicircolari pongono il visitatore davanti al portone sempre chiuso.
Quindi si accede alla chiesa superando i quattro gradini della scalinata risalente alla seconda metà del XVIII secolo.
Un altro piccolo ingresso esiste nella strada laterale.
Il portale, in arenaria locale, è opera di ignoto scalpellino siciliano della fine del XVI secolo.
Il portone, di legno massiccio, nell’anno 2017 è stato restaurato dal maestro Mario Lombardo grazie alla generosità di alcuni mistretesi.
Scolpito nel lato destro dell’architrave si scorge, a mala pena, la mitria, il simbolo vescovile.

1 a ok

Padre Giovanni Lapin per il Corpus Domini

2 ok

La piccola nicchia, delimitata da mattoni in laterizio, posta nella facciata principale, originariamente accoglieva la campana.
All’interno la chiesa consta di una sola navata.
Al centro dell’altare maggiore, nel presbiterio,  sta comodamente seduto sul trono  San Biagio. La statua di San Biagio rappresenta il vescovo nell’atto di accogliere i fedeli e di benedirli.
E’ una statua lignea, dorata e policroma , del 1598, opera di ignoti intagliatori e pittori siciliani. Nelle formelle sottostanti, dipinte a motivi manieristi, sono scolpite alcune scene del martirio di San Biagio.
Alcuni anni fa la statua è stata restaurata grazie alla generosità di alcuni devoti,  ma ha bisogno di un nuovo restauro perché il legno  fragile facilmente si corrode.

5 ok

1

3 ok

Sulla base che sorregge la statua ci sono dei dipinti che raffigurano la vita ed il martirio del Santo.

3a

3b

foto di Nino Romano

4 ok

San Biagio festeggiato nella Sua chiesa a Mistretta il 3 febbraio 2019

 

https://www.youtube.com/watch?v=JJ8t54_uXkw&t=43s

 

CLICCA QUI

 

Poche statue e qualche quadro completano l’arredamento. Le statue rappresentano i santi: Santa Caterina d’Alessandria e San Rocco.
L’altare di Santa  Caterina d’Alessandria accoglie la statua lignea, dorata e policroma, attribuita a Scipione Li Volsi.
Alla base della statua di Santa Caterina d’Alessandria  c’è il suo martirio: la ruota.
Era posta nell’altare del Sacramento nella chiesa Madre e guardava con umiltà il Sacramento come per dire: “col mio martirio la gloria di Gesù domina nel mondo”.

5 ok

L’altare di San Rocco accoglie la statua lignea, dorata e policroma di San Rocco, opera di ignoto intagliatore siciliano, risalente alla seconda metà del XVI secolo e proveniente dal monastero delle benedettine. San Rocco è il santo protettore contro la peste.
San Rocco pone il dito sulla  sua gamba a dimostrazione di aver  vinto la malattia. Pertanto  aiuta il fedele, che a lui si rivolge, liberandolo da tutte le malattie corporali e spirituali.

6 ok

11 ok

12 ok

13 ok

Le famiglie  Gallegra, Armao, Catania, Russo, il cui palazzo è sito vicino alla chiesa, erano famiglie molto possidenti e furono loro che finanziarono  la costruzione e il mantenimento della chiesetta.
Anche la signora Larcana di Capizzi, cognata di Russo,  nel suo testamento scrisse che lasciava parte dei suoi beni alla chiesetta di San Biagio affinchè i sacerdoti celebrassero la santa messa  in suffragio dei suoi antenati.
Quando, nella seconda metà dell’800, i figli di queste famiglie si trasferirono altrove, la chiesetta fu abbandonata.
Nel 1913  la chiesa fu parzialmente restaurata grazie al munifico lascito dell’arciprete  Sebastiano Cannata, a cura dei suoi eredi, come è riportato sulla lapide,

lapide san biagio copia

affinchè questa chiesetta ritornasse all’antico splendore.
Tuttavia, di nuovo presenta diverse decorazioni in stucco lungo gli angoli delle pareti che necessitano di urgenti interventi.

7 ok

8 ok

9 ok

10 ok

La chiesetta, oltre ad essere luogo di culto, era anche luogo di socializzazione per gli abitanti del piccolo quartiere che si riunivano nello spiazzo davanti alla chiesa.
Il giorno tre di febbraio di ogni anno è festa grande: si festeggia San Biagio. E’ spalancato il portone, è addobbata la chiesa con fiori e con ceri, è celebrata la Santa Messa.
Il celebrante, secondo la tradizione, benedice il pane che viene distribuito a parenti e ad amici anche lontani.
La pagnottella fino ad alcuni decenni fa era prodotta dalla massaia che faceva il pane in casa. Oggi si compra dal fornaio o è sostituita dalla brioche. Aveva la forma di un discetto schiacciato dal diametro di 4-5 cm. Probabilmente si pensa che sia stato San Biagio ad indicare un semplice rimedio per cacciare le spine di pesce che restano nella gola: inghiottire una mollica di pane.

san biagio 2 copia

San Biagio è il protettore della gola.
Anche a Mistretta si ripete il rito della benedizione della gola dei fedeli.
Ciascuno, in fila, si pone davanti al sacerdote Giuseppe Capizzi che, ponendo sotto il mento due candele incrociate e accese, benedice la gola e le corde vocali.

san biagio copia

2

3

4

Foto di Mattia Lo Iacono

I ragazzini si avvicinavano al sacerdote per farsi benedire la gola anche 3, 4 volte!
Ricordo che mamme, nonne e zie accompagnavano nella chiesa di san Biagio i ragazzi, i renitenti a scapaccioni, a prendere la benedizione.
Con la neve e con il ghiaccio si doveva andare in chiesa perché tutti i bambini dovevano farsi benedire la gola da San Biagio.
Negli anni della mia fanciullezza durante l’inverno le affezioni morbose della gola erano molto frequenti e spesso portavano all’impossibilità di respirare. Si comprende bene come la disperazione dei genitori nei tempi lontani li spingesse a cercare protezione da una malattia inesorabile che colpiva soprattutto gli esseri più deboli e amati dalla famiglia.
I ricordi mi portano lontano, ai tempi della mia infanzia. Quando il temporale imperversava con lampi e tuoni, mia madre, affacciandosi alla finestra, esponeva un piccolo pane benedetto durante la celebrazione della Santa Messa in onore di San Biagio e gridava: “Di cchì veni a Scinsioni?”, “ Quando cade l’Ascensione? Io, da un’altra finestra della mia abitazione, e qualche vicina di casa che percepiva il richiamo, rispondevamo:” Di iuovi”, “Di giovedì”. Questo richiamo si ripeteva per tre volte. Era una sorta di esorcismo che, per intercessione di San Biagio, faceva allontanare il temporale. Provavo una grandissima emozione! Ricordo anche che i proprietari dei muli e dei cavalli facevano girare per tre volte intorno alla chiesa di San Biagio l’animale che accusava mal di pancia recitando una particolare orazione. Il mal di pancia andava via come per miracolo. Questo perché San Biagio è anche il protettore degli animali.

 Il 24 giugno del 2017 il Corpus Domini giunge alla chiesa di San Biagio.

14 ok

15

 

16

17

18

19

20

21

22

23

24

25

Pagine:«1...34353637383940...45»