Jun 12, 2015 - Senza categoria    Comments Off on SAN GIOVANNI BATTISTA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

SAN GIOVANNI BATTISTA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Sant’Antonio di Padova e San Giovanni Battista sono due santi che sono festeggiati dalla chiesa cattolica nel mese di giugno, ed esattamente il 13 e il 24.
Sono molti vicini nell’elenco del calendario pertanto, nel raccontare la loro storia e la loro vita, li tengo ancora vicini nel mio blog.
San Giovanni Battista è l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo Apostolo di Gesù perché gli rese testimonianza quando era ancora in vita. Ciò conferma il grande interesse che da sempre ha suscitato questo grande profeta così da essere tenuto in alta considerazione da Cristo che lo ha definito “il  più grande tra i nati da donna”.
Il nome Giovanni Battista deriva dal greco “Іωάννης”  “Вαπτιστής”, e dal latino “Iohannes Baptista”. Nome molto usato, nella lingua ebraica “Iehóhanan” significava “Dio è propizio, Dio fa grazia”.
Molto hanno scritto gli  evangelisti su Giovanni Battista.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 5-80), in Apparizione a Zaccaria, si legge: “Al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta.
Erano giunti davanti a Dio, osservavano irreprensibili le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni. Mentre Zaccaria officiava  davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso.
Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso. Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse
: <<Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni.
Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto>>. Zaccaria disse all’angelo: << Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni >>.
L’angelo gli rispose: <<Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio>>. Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo>>.
Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava del suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: << Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini>>. Nel sesto mese della sua gravidanza Elisabetta ricevette la visita della cugina Maria”.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 39- 56), in Visita a S. Elisabetta, si legge: “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito santo ed esclamò a gran voce:<< Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore>>.

Allora Maria disse:

<< L’anima mia magnifica il Signore,

e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

E santo è il suo nome;

di generazione in generazione la mia misericordia

si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia,

come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza,

per sempre>>.

Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Sempre nel Vangelo secondo Luca (1, 57- 80), nella Nascita di Giovanni Battista,  si legge:
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei.
All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome si suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne:<< No, si chiamerà Giovanni>>. Le dissero: <<Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome>>.
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: <<Giovanni è il suo nome>>. Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: <<Che sarà mai questo bambino?>> Si dicevano. E davvero la mano del Signore stava con lui.
Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetò dicendo:<<Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente, nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano.
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia, al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi nella via della pace>>.
Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni diverse fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Dell’infanzia e della giovinezza di Giovanni non si sa molto. Quando raggiunse una certa età, conscio della sua missione, si ritirò nel deserto per condurre la dura vita dell’asceta, a predicare la penitenza in preparazione della venuta del Messia, a battezzare nel fiume Giordano. Da ciò il suo nome “Battista”. Indossava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi. Si nutriva di locuste e di miele selvatico.

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Nel Vangelo secondo Luca, nella Predicazione di Giovanni Battista (3, 1 – 6), è scritto: ” Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tretarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide,, e Lisania, tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:

<<Voce di uno che grida nel deserto,

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!

Ogni burrone sia riempito,

ogni monte e ogni colle sia abbassato;

i passi tortuosi siano diritti;

i luoghi impervi spianati.

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio>>.

Da tutta la Giudea, da Gerusalemme e da tutta la regione intorno al Giordano, accorreva tanta gente per ascoltare le sue parole considerandolo un profeta.
Giovanni, in segno di purificazione dai peccati e di nascita a nuova vita, immergeva nelle acque del Giordano coloro che accoglievano la sua parola. Impartiva loro il battesimo di pentimento per la remissione dei peccati e diceva:” Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: <<Abbiamo Abramo per padre!
Perchè io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. Anzi, la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco >>.
Le folle lo interrogavano: <<Che cosa dobbiamo fare?>> Rispondeva:<< Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto
>> (Lc 3, 7-11).
L’evangelista Luca riferisce che tra le folle, che accorrevano al Giordano per farsi battezzare, c’erano anche dei pubblicani esattori delle imposte per conto dell’autorità romana, i quali, per questa loro professione, erano considerati dei pubblici peccatori; c’erano anche dei militari i quali, per la loro provenienza pagana, erano ritenuti dei “lontani da Dio”. C’è in loro la volontà della conversione per andare incontro al Messia.
Giovanni Battista a loro così rispondeva: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno e contentatevi delle vostre paghe” (Lc 3, 14). Molti pensavano che fosse il Cristo, ma Giovanni assicurò loro di essere solo il Precursore. Sacerdoti e leviti, mandati dai Giudei e arrivati da Gerusalemme, lo interrogarono.
Nel vangelo secondo Giovanni (Gv 1, 19-34), in testimonianza di Giovanni, è scritto: <<Chi sei tu?>> Egli confessò e non negò, e confessò:<< Io non sono il Cristo>>. Allora gli chiesero: <<Che cosa dunque? Sei Elia?>>. Rispose. <<Non lo sono>>. <<Sei tu il profeta?>> Rispose <<No>>. Gli dissero dunque: <<Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?>> Rispose: << Io sono voce di uno che grida nel deserto. Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia>>.
Essi erano stati mandati da parte dei farisei. Lo interrogarono e gli dissero: <<Perché, dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?>>.  Giovanni rispose loro: <<Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo>>.
Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando. Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse:<< Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo>>.
Ecco colui del quale io dissi:<<Dopo di me viene un uomo che mi è passato davanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele>>. Giovanni rese testimonianza dicendo: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua, mi aveva detto:<< L’Uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto ne ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio>>.

Matteo, in Battesimo di Gesù, (3,13-17) così racconta:In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?».  Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».
Allora Giovanni acconsentì. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.  Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».  Allora Giovanni lo battezzò.
L’evangelista Luca (3, 21) in Battesimo di Gesù, scrive: “Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo! << Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto>>.Da quel momento Giovanni confidava ai suoi discepoli “Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 29-30).
La sua missione era compiuta.
Gesù cominciò la sua predicazione seguito dagli apostoli, dai discepoli e da una gran folla. Giovanni aveva predicato proprio per preparare un popolo degno, che accogliesse Gesù e il suo messaggio di Redenzione.
Aveva operato senza esitare davanti a niente, neanche dinanzi ad Erode Antipa, il re d’Israele, che aveva preso con sé la bella Erodiade, moglie divorziata da suo fratello. Secondo la legge ebraica, la “Torah”, termine che significa “insegnamento”, ciò non era permesso perché il matrimonio era stato regolare e fecondo e dal quale era nata la figlia Salomè.
Per questo motivo Giovanni, osservante e rigoroso, sentiva il dovere di protestare contro il re per il suo scorretto comportamento. Irritata, Erodiade gli portava rancore anche perché il battesimo che Giovanni somministrava, perdonando i peccati, rendeva inutili i sacrifici espiatori che, in quel tempo, i sacerdoti giudaici facevano al Tempio.Incitato da Erodiade, che avrebbe voluto che fosse ucciso, Erode Antipa fece arrestare e incarcerare Giovanni anche se lo considerava uomo giusto e santo e preferiva ascoltarlo volentieri.
Per festeggiare il compleanno di Erodiade, Erode Antipa preparò un banchetto invitando la corte e i notabili della Galilea. Al lauto pranzo partecipò anche Salomè, la figlia di Erodiade e nipote di Erode Antipa, che si esibì in una conturbante danza.
La sua esibizione piacque così tanto al re e ai commensali che le disse: “Chiedimi qualsiasi cosa e io te la darò”. Salomé, consigliata dalla madre, chiese la testa di Giovanni Battista. Erode Antipa, a tale desiderio espresso dal Salomè davanti a tutti, rimase sorpreso e rattristato. Poiché aveva promesso di concedere qualsiasi cosa pubblicamente, non potè tirarsi indetro. Ordinò alle guardie di portare la testa di Giovanni che si trovava rinchiuso nelle prigioni della reggia.
Giovanni Battista fu decapitato e la sua testa, poggiata su un vassoio, fu consegnata a Salomé che la presentò alla madre. Erodiade trattenne il capo reciso di Giovanni e fece seppellire il corpo in un luogo segreto del palazzo per timore che la testa potesse ricongiungersi al corpo e il profeta potesse ritornare in vita.
L’uccisione di Giovanni Battista suscitò orrore, ma accrebbe la sua fama. I suoi discepoli, venendo a conoscenza del martirio, recuperarono il corpo e lo deposero in un sepolcro. La sua testa fu tenuta come reliquia a Costantinopoli, a Gerusalemme, ad Amiens e, persino, in una moschea di Damasco.
Dopo essere stato sepolto a Sebaste, in Samaria, nel 361-362, al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, i pagani profanarono il suo sepolcro e bruciarono il corpo disperdendo le ceneri al vento. Alcuni affermano che il capo fu sepolto assieme al corpo e bruciato. A Sebaste, il luogo dove era la sua tomba, era venerato dai maomettani fino all’arrivo dei Crociati. Giovanni battista è onorato nel Corano insieme ai suoi genitori Zaccaria ed Elisabetta.
Fu ripreso nel 1187 dal nipote del Saladino, Hussam ed-Din, che vi fece costruire una moschea. In suo onore sono conservate alcune reliquie. A Genova, nella cattedrale di San Lorenzo, si venerano le sue ceneri portate dall’Oriente nel 1098 al tempo delle Crociate. Nel XII secolo una testa di San Giovanni giunse a Roma e, nel XIII, un’altra giunse a Amiens.
Attualmente a Roma, nella chiesa di San Silvestro in Capite, sarebbe custodita una testa di San Giovanni Battista senza la mandibola, mentre il sacro mento sarebbe custodito nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo. Nel mondo si venerano circa sessanta teste di San Giovanni Battista! Una leggenda riferisce che a Roma, a San Paolo fuori le mura, erano conservati tre crani del santo: uno da bambino, uno da adulto, uno da vecchio! Sono oggetto di venerazione anche i calzari del santo, il vassoio su cui fu deposta la testa, il tappeto su cui riposava in prigione, la sciabola che gli recise il capo, la pietra su cui fu appoggiato. Dita, denti, ossa di san Giovanni sono onorati in tutto il mondo cristiano.
Sulla sua tomba avvennero moltissime guarigioni, soprattutto di indemoniati. Per questo è invocato contro l’emicrania.
San Giovanni Battista è patrono di tante città fra le quali: Torino, Firenze, Genova, Ragusa.  E’ protettore dell’Ordine Ospedaliero dei Cavalieri di San Giovanni. e di associazioni benefiche.
Protegge: albergatori, addetti alle mense, cantori e cantanti, cardatori, coltellinai, conciatori, musicisti e fabbricanti di strumenti musicali (Zaccaria, all’atto della nascita del figlio, intonò il cantico Benedictus), lavoratori e commercianti di pelli, carcerati, condannati a morte.
Il suo capo reciso era l’emblema delle Misericordie e delle altre confraternite che assistevano i condannati a morte.Il culto di San Giovanni Battista si diffuse in tutto il mondo, sia in Oriente sia in Occidente e, a partire dalla Palestina, si eressero innumerevoli Chiese e Battisteri a lui dedicati. Normalmente la Chiesa celebra la festa dei santi nel giorno dell’anniversario della loro morte come memoria del loro ingresso nella vita eterna.
Per Giovanni Battista fa un’eccezione poiché, essendo venuto al mondo innocente, celebra la sua festa nel giorno della sua nascita terrena. La festa della natività di San Giovanni Battista è una delle più antiche della Chiesa e risale fin dal tempo di Sant’Agostino (354-430), che, nel suo sermone di commento alla festa, fissò la data il 24 giugno.
Secondo le indicazioni di Luca, la data della festa di Giovanni Battista doveva essere fissata tre mesi dopo l’annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria e sei prima del Natale, essendo la nascita di Gesù fissata per il 25 dicembre. La sua morte è avvenuta il 29 agosto.
Le celebrazioni religiose, folkloriche, tradizionali, legate al suo culto sono diffuse ovunque per la grande popolarità di Giovanni Battista che seppe condensare in sé tanti grandi caratteri identificativi della sua santità, della sua  parentela con Gesù, precursore di Cristo, ultimo dei grandi profeti d’Israele, primo testimone-apostolo di Gesù, battezzatore di Cristo, eremita, predicatore e trascinatore di folle, istitutore di un Battesimo di perdono dei peccati, martire per la difesa della legge giudaica.
A mio papà Giovanni e a tutti coloro che portano il nome di Giovanni/a, Gianni/a  auguro BUON ONOMASTICO.
Giovanni Battista è stato un soggetto largamente rappresentato nell’arte figurativa di tutti i secoli. Nelle pale degli altari, nei quadri di gruppi di santi, da soli o intorno al trono della Vergine Maria, è presente San Giovanni Battista.
E’ rappresentato come una figura irsuta, tipica di un eremita del deserto, coperto con una pelle d’animale e con in mano un bastone terminante a forma di croce.
I pittori Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca lo hanno raffigurato con le sembianze di un bambino  che gioca con il piccolo Gesù, sempre rivestito con la pelle d’animale e chiamato affettuosamente “San Giovannino.

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La notte di San Giovanni è la più magica dell’anno perché, secondo molte credenze popolari, nel solstizio d’estate avvengono strani fenomeni proposti dalla fantasia popolare.
Si accendono fuochi, si organizzano veglie notturne. Riti, credenze,  malìe,  incantesimi si fondono e danzano alla luce delle stelle. Il giorno prima i romani si radunavano nei prati della chiesa dei Ss. Giovanni in Laterano, (la chiesa è dedicata a Giovanni Battista e a Giovanni Evangelista), e di Santa Croce in Gerusalemme, accendevano i fuochi e aspettavano di veder passare le streghe.
Queste erano guidate da Erodiade-Salomè fuse in un unico personaggio. Si racconta che pentito per aver fatto decapitare Giovanni Battista, questo doppio personaggio coprì di baci e di lacrime il volto di Giovanni Battista.
Dalla sua bocca si levò un fortissimo vento che lo allontanò  costringendolo a vagare per l’eternità. La notte di San Giovanni è quella che soprattutto parla d’amore.
Sono moltissimi gli antichi “riti” di previsione sentimentale e di matrimonio per le ragazze che attendono di fidanzarsi. Ricordo che a Mistretta noi, fanciulle vicine di casa, il pomeriggio del 24 giugno di tanti anni fa ci riunivamo nel pianerottolo della mia scala esterna, in via San Biagio, per compiere il rito del piombo fuso di “San Giuvanni”.
Sedute in circolo attorno ad un fuocherello acceso, in un piccolo recipiente piatto facevamo sciogliere dei pezzettini di piombo.
Quindi, versavamo il piombo perfettamente liquefatto in una ciotola colma d’acqua fredda recitando l’invocazione: “San Giovanni vinni e San Pietru no. Na cunciriti ‘sta razia si o no? ”. “San Giovanni è venuto e San Pietro no. Ce la concedete questa grazia si o no?
Osservavamo con occhi aperti e con tanta curiosità le forme che assumeva la materia contorcendosi per il suo veloce raffreddamento nell’acqua. Ognuna di queste forme, a uccello con le ali aperte, a foglia aperta, a martello, ecc, era un segno premonitore.
Ognuna di noi, in cuor suo, nascondeva un pensiero segreto! I nostri commenti presagivano: il propizio incontro con la persona del cuore, aspirante fidanzato, l’illusione di essere baciati dalla fortuna, o di essere inseguiti dalla sfortuna.
Allora c’era molta ingenuità! Ricordo che ho partecipato a questo rito con le mie vicine di casa per qualche anno, poi la ragione ha vinto la superstizione.
A Mistretta e in tutta la Sicilia c’è l’usanza del comparatico, il vincolo di quasi parentela che lega compari e comari di battesimo e i loro figliocci, ma anche compari e comari di matrimonio. Questo rapporto di comparatico è più importante della parentela stessa perché sfocia nella sacralità. Infatti si dice “C’è u Sangiuvanni”, per dire che esiste questo rapporto di comparanza, di fedeltà reciproca, fra due famiglie.
Il proverbio “San Giuvanni ‘ un voli ‘nganni” significa proprio che il comparatico non concepisce inganni.In Toscana il proverbio “San Giovanni non vuole inganni” si riferisce al comportamento inflessibile di Giovanni verso il rapporto di amicizia che non dovrebbe mai essere tradito.  In Romagna vi è l’usanza per San Giovanni di regalare alla ragazza un mazzo di fiori che viene ricambiato nel giorno di San Pietro. I due innamorati sono chiamati compare e comare di San Giovanni e, in qualche modo, ufficializzano il loro amore.

Su San Giovanni sono stati coniati moltissimi proverbi.

-“Per le guazze di San Giovanni si miete.

La rugiada della notte di San Giovanni fa molto temere i contadini per il raccolto. Mietono il grano prima ch’essa giunga a maturazione.

A San Marco nato, a San Giovanni assettato”.

Il proverbio si riferisce ai bachi da seta che, alla fine di giugno, salivano nel bosco per fare il bozzolo.

La notte di San Giovanni entra il mosto nel chicco”.

In questo periodo il chicco d’uva diventa dolce.  Gli zuccheri fermentano nel mosto dopo la vendemmia.

A San Giovanni l’alveare spande, a San Martino l’alveare è pieno”.
In estate le api sciamano e tornano per il freddo. San Martino è l’11 novembre.

Per San Giovanni si svellon le cipolle e gli agli
Le cipolle e gli agli sono pronti per essere raccolti.

-“Chi non prende aglio a San Giovanni ,è poveretto tutto l’anno”.

Questo proverbio si riferisce all’uso di acquistare in questo periodo l’aglio da piantare per il prossimo raccolto. L’aglio è un ottimo scaccia-maligni, o per lo meno tiene lontano i seccatori.

-“San Giovanni  col suo fuoco brucia le streghe, il moro e il lupo”.

Come dire che scaccia i malanni del mondo.

– “La vigilia di San Giovanni piove tutti gli anni”.
– “Se piove il giorno di San Giovanni tanta saggina e poco pane”.
– “Chi nasce la notte di San Giovanni non vede streghe e non sogna fantasmi”.

Per indicare che è dotato di poteri speciali.
– “Quando la lavanda sente arrivare San Giovanni vuole fiorire”.
– “A San Giovanni l’alveare spande
”.

Arrivare dopo i fòchi di San Giovanni”.

 A Firenze, a giugno, si festeggia San Giovanni patrono della città. Questa festa comprendeva tornei, il palio di cavalli, la fiera. Alla fine c’erano i fuochi sui quali si facevano saltare uomini e bestie in base alla tradizione della benedizione ‘per ignem’. Arrivare a fuoco spento significava arrivare a cose fatte.

– “La guàza ad san Zvan la guarés ogni malàn”

La rugiada di San Giovanni guarisce ogni malanno.

Oltre ai proverbi su San Giovanni ruotano molte credenze popolari.

La raccolta delle  erbe “magiche”, bagnate dalla rugiada del mattino, trasmette poteri benefici a tutti gli esseri viventi. La rugiada è il simbolo delle lacrime di Erodiade-Salomè ed aveva una funzione fecondatrice. In Normandia era costume rotolarsi sull’erba umida di rugiada, in costume adamitico, per ringiovanire la pelle e preservarla dalle malattie.
Per prevedere il futuro, sotto il guanciale venivano sistemate le “erbe di San Giovanni” legate in mazzetto in numero di nove. La qualità variava secondo la tradizione di ogni paese.
Le “erbe di San Giovanni” sono: l’iperico chiamato anche scacciadiavoli, considerato un antimalocchio, l’artemisia, detta anche assenzio volgare, consacrata a Diana-Artemide, la verbena, simbolo di pace e di prosperità, e il ribes, i cui frutti rossi proteggono dai malefici. Sono dotate di potere magico anche: la ruta, la salvia, la menta, il rosmarino, la melissa, una pianta erbacea spontanea molto ricercata dalle api. Nascoste in soffitta, queste piante esprimono il loro potere benefico contro il malocchio e le malattie.
Chi spera di trascorrere un anno florido deve comperare l’aglio il giorno di San Giovanni. Se vuole possedere molti quattrini, a mezzanotte dovrebbe cogliere un ramo di felce e tenerlo in casa.
Frequente è il sortilegio delle fave. Allo scoccare della mezzanotte si prendono tre fave. La prima non si sveste del tegumento, alla seconda si toglie solo la metà di esso, alla terza si toglie tutto. Dopo aver avvolto le tre fave in un foglio di carta argentato, si nascondono sotto il guanciale. Al mattino la ragazza, appena sveglia, sceglierà a caso una delle tre fave.
Se sceglierà la fava con il tegumento avrà un “marito ricco”, se quella con il mezzo tegumento avrà un “marito benestante”, se quella senza il tegumento avrà un  “marito povero”.
In Veneto la notte di San Giovanni le nubili che avevano diversi corteggiatori su foglietti di carta,tanti quanti erano gli spasimanti, scrivevano i loro nomi. Dopo averli piegati, gettavano questi foglietti in un catino pieno d’acqua. Il bigliettino che, a contatto dell’acqua, si apriva per primo conteneva il nome dell’uomo “giusto”.
I maschietti  devono raccogliere alcune foglie di valeriana, di verbena e di maggiorana, farle seccare, ridurle in polvere e, nella notte di San Giovanni devono gettarle addosso alla donna desiderata, ma ritrosa. Pare che il successo sia assicurato!

Ne “La figlia di Iorio” di Gabriele D’Annunzio, Ornella dice ad Aligi:

E domani è  Santo Giovanni,

fratel caro: è San Giovanni

Su la Plaia me ne vo’ gire

per vedere il capo mozzo

dentro il Sole all’apparire,

per vedere nel piatto d’oro

tutto il sangue ribollire.

E’ il riferimento all’antica abitudine delle ragazze abruzzesi che si svegliavano all’alba per guardare il sorgere del sole. La prima ragazza che avesse visto nel disco luminoso il volto di San Giovanni decapitato dopo la danza di Salomè si sarebbe felicemente sposata nello stesso anno.
La notte di San Giovanni è resa ancor più magica dall’accensione dei falò che illuminano l’oscurità e squarciano le tenebre. Il fuoco era considerato purificatore.
Questa è una antichissima tradizione, comune in quasi tutta l’Europa, tramandata dai Fenici che adoravano il dio Moloch, gestore del Sole e della Paura del Buio. Nella rivisitazione cristiana il fuoco simboleggia la Fede e l’eterno calore dell’Amore. I fidanzati, che vorranno vivere insieme felici per sempre, senza tenersi per mano,dovranno saltare oltre le braci del falò quasi spento ed esprimere desideri di fortuna, di salute, di benessere e di serenità.
A Licata molti ragazzi si riuniscono nelle spiagge, soprattutto in quella di Mollarella, per festeggiare insieme la note di San Giovanni. Accendono un grande falò e, a mezzanotte, si tuffano nella acque del mare per un bel bagno refrigerante. L’acqua assicura buona salute tutto l’anno.
Curiosità: nella pianura Padana, nella notte di San Giovanni le donne staccano la drupa verde delle noci per preparare il nocino, il liquore tipico locale. È una tradizione di origine celtica. Presso i Celti, il noce era un albero sacro.
Per preservare dalle tarme vestiti e coperte la notte di San Giovanni bisogna lasciarli nel balcone affinché si bagnino della rugiada. Pare che funzioni meglio dell’insetticida.

  LA CHIESA DI SAN GIOVANNI BATTISTA A MISTRETTA

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La chiesa di San Giovanni Battista si trova nell’ampia Piazza dei Vespri a Mistretta ed è stata edificata su un precedente tempio pagano dedicato a Bacco o a Diana dell’antica Amistratos.
La data del 1534, riportata sul frontone, non è quella della costruzione, ma quella della ristrutturazione coniugando elementi rinascimentali e gotico-catalani.
Molti caratteri artistico-formali dell’edificio sacro sono riconducibili allo stile romanico.
I due leoni rampanti, scolpiti in pietra, posti alla base delle due lesene che delimitano il portale, sembra che siano a guardia della chiesa.
La chiesa è la casa del Signore e il portale rappresnta il limitare che divide lo spazio sacro da quello profano.
I leoni, pertanto, simboleggiano la forza che atterisce e richiama alla punizione chi osa profanarlo.
Nella simbologa medievale il leone è anche simbolo di Cristo: porlo davanti alla chiesa significa proteggere il popolo di Dio.
Essi sono degli stilofori tipici dell’architettura romanica.
Poggiano le zampe su due tavole che raffigurano le chiavi di San Pietro quella di destra e la mitra quella di sinistra.
Le chiavi richiamano il potere soprannaturale di legare e di sciogliere conferito da Gesù a Pietro.
In (Mt 16,19) è scritto: ” A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai  sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
La mitra è il copricapo liturgico dei vescovi ai quali compete per diritto.
Sia le chiavi sia la mitra sono dei simboli ecclesiastici, ma hanno anche un significato araldico come si apprende consultando l’Araldica Ecclesiastica di Giorgio Aldrighetti.
La chiesa possiede tre ingressi: uno centrale e due laterali.
Vi si accede tramite la caratteristica scalinata a doppia rampa, realizzata in sostituzione dell’antico sagrato, della fine del secolo XIX, protetta dalla ringhiera lavorata in ferro battuto, che conduce all’ingresso principale.

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Il monumentale prospetto principale si pone in una posizione scenografica a cui danno risalto l’unico elegante e svettante campanile, alleggerito dalle raffinate bifore che si aprono nella cella campanaria,

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e il grande portale, con geometrico telaio, a due elevazioni, che associa elementi rinascimentali e gotico-catalani.
Il portale è a due ordini: quello inferiore sormontato da un architrave datato 1534; quello superiore con un arco ad ogiva intelaiato da paraste che si allineano a quelle dell’ordine inferiore.
Lateralmente, sono inseriti due stemmi.

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La chiesa è stata il punto di riferimento del quartiere ebraico costruito intorno ad essa in seguito all’Inquisizione Spagnola nel 1478. Sopra la lunetta è collocata, dentro un tempietto a forma di chiesetta, la statuetta marmorea raffigurante San Giovanni, commissionata ad Antonio Gagini per adornare il frontone principale dell’omonima chiesa. San Giovanni sostiene con una mano il mistico agnello e con l’altra lo addita come colui che lava i peccati del mondo. La statuetta è affiancata da due stemmi.

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Originariamente a pianta basilicale, nel 1818 la chiesa fu trasformata in una struttura a croce latina.
In seguito ad un  violento terremoto che aveva danneggiato la chiesa,  l’edificio fu restaurato con l’impegno della confraternita che allora ne aveva la gestione.
I deboli colonnati in pietra furono rinforzati con massicci pilastri e furono rivestiti le superfici con stucchi che hanno restituito alla chiesa la veste neoclassica e fu realizzata la copertura a volta delle cappelle laterali della zona absidale.

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Entrando a destra è bene leggere la lapide

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La chiesa custodisce diverse sculture di arte sacra e molte tele risalenti ai secoli XVII–XVIII.
La tela centrale, posta al centro dell’abside del presbiterio, all’interno di una monumentale edicola, raffigura il battesimo di Gesù.L’opera è attribuibile a Giuseppe Scaglione, del primo quarto del XIX secolo.

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Nel presbiterio, sopra l’altare maggiore, è raffigurato il martirio di San Giovanni con la testa mozzata.

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Nella cupola è raffigurata La Fede con la Madonna del Santissimo Sacramento.

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La statua del Cristo caduto sotto la Croce, in legno dorato punzonato, del XVII, è la preziosa opera conservata nella cappella a sinistra. La Sua testa è ricoperta da ciocche di capelli che sono stati donati da una devota per onorare il voto promesso per grazia ricevuta.
Le staute del Cristo sotto la croce  e del Cristo alla colonna partecipano alla sfilata delle statue per la rappresentazione dei Misteri durante la processione del Venerdì Santo.
La processione del venerdì santo nasce per annullare il movimento dei flagellati.
Nel 1603 un padre francescano, giunto a Mistretta, ha visto scene di flagellazioni un po’ cruente. Ad essere flagellati erano anche i bambini.
I confrati scendevano dalla chiesa di Santa Caterina e si flagellavano. Il francescano rimase talmente indignato che da quel momento la chiesa tentò di eliminare il movimento dei flagellati sostituendolo  con la processione delle varette. Le varette, provenienti da altre chiese,  si riuniscono davanti alla chiesa di San Giovanni da dove inizia il cammino processionale. Esistevano i cavalieri di San Giovanni. La croce di San Giovanni , scolpita sul pulpito, dimostra che in questa chiesa si riunivano i cavalieri di San Giovanni.

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Poi è stata istituita la confraternita. Gli amastratini nel 1567 hanno partecipato alla difesa di Malta contro l’invasione dei turchi.  I cavalieri di Malta avevano scelto come sede la chiesa dell’SS.ma Trinità, però tra i cavalieri di San Giovanni e i  cavalieri di Malta non c’era sintonia perché solo  loro si consideravano degni di portare Gesù dentro l’urna.
L’altare marmoreo, dentro l’edicola neoclassica in stucco, accoglie la statua lignea dorata e policroma del Cristo che porta la Croce, di ignoto scultore siciliano, del XVII secolo. E’ inginocchiato e porta la croce così pesante per il riscatto dell’umanità.

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L’ altare marmoreo, della fine  del ‘700, accoglie la statua lignea policroma del Cristo alla Colonna, ignoto scultore.

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Di notevole pregio è anche la statua in cartapesta della Madonna Assunta realizzata dall’artista amastratino Noè Marullo. Gli angeli posti ai suoi piedi sono alcuni bambini del quartiere presi a modello dall’artista.  La stauta è accolta nell’ edicola neoclassica sull’altare marmoreo, della fine del ‘700.

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La sua festa del 15 agosto

 

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Le altre statue raffigurano. San Francesco Saverio, statua lignea di  ignoto scultore, della metà XIX secolo,

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la statua lignea, policroma di San Francesco di Paola, di ignoto scultore, del 1750 circa,  posta su altare marmoreo della fine del ‘700,

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San Luigi Gonzaga,  statua lignea policroma di ignoto scultore siciliano risalente alla metà del XIX secolo,

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La statua lignea policroma della Madonna del Carmelo, di Noè Marullo, del 1880,  posta sull’ altare neoclassico.
Le pareti laterali dell’altare della Madonna del Carmelo il 16 luglio sono circondate da ambo i lati da due grappoli di uva nera.
Poiché in questo periodo l’uva a Mistretta non è ancora matura, i possessori di terreni alla “marina” si preoccupano di portare i grappoli d’uva già matura.
In senso laico l’uva rappresenta l’abbondanza.
In senso cristiano rappresenta l’unione dei cristiani in nome di Cristo.

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La Madonna ha la corona in testa, il Bambino sorretto dal braccio sinistro e lo scapolare nella mano destra.

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La statua è stata donata dal dott. Santimaria Panebianco, presidente del tribunale di Mistretta.
Dalle vesti sembra essere San Felice.

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Statua lignea di SAN GIOVANNI BATTISTA ritrovata dentro una nicchia scavata dietro l’attuale pala dell’altare maggiore. Attualmente è custodita nel museo parrocchiale di Mistretta

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Foto di Antonino La Ganga

 La tela raffigura le Anime purganti.
La tela delle Anime del Purgatorio è un olio su tela, di Salvatore De Caro, realizzata agli inizi XIX secolo.

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La cappella della Sacra Famiglia accoglie l’olio su tela, di Salvatore De Caro, degli inizi del  XIX secolo, che raffigura la Madonna col Bambino e Sant’Anna.

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Sull’altare marmoreo, entro edicola in stucco neoclassica, “La Conversione di San Paolo” che scende dal cavallo è un  olio su tela, opera di ignoto pittore realizzata nel periodo ante 1750.

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Sant’Ignazio di Loyola è un olio su tela di Giuseppe Scaglione dipinto agli inizi del XIX secolo.

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Il  piccolo dipinto ottocentesco raffigura San Filippo Apostolo.

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Importante sono anche l’organo posto sopra la cantoria e l’acquasantiera. L’organo, con cassa tardo barocca, è di autore siciliano della seconda metà del XVII secolo. La chiesa necessita di urgenti interventi di restauro.

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Dalla chiesa di San Giovanni Battista inizia la ricorrenza della DOMENICA DELLE PALME

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Jun 3, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Sant’Antonio di Padova è il santo più popolare nel mondo anche fuori del cristianesimo. La sua popolarità è così grande che tutta la sua storia potrebbe correre il pericolo di sconfinare nella leggenda. Statue e quadri di Sant’Antonio di Padova sono esposti moltissime chiese.
Auguro a tutti i fortunati che portano il nome di Antonio/a di vivere una vita in santità secondo i suoi insegnamenti.
Antonio di Padova nacque a Lisbona, primogenito di una virtuosa e aristocratica famiglia. Fernando fu il suo nome di battesimo.
Sua madre si chiamava Maria Tarasia Taveira e suo padre Martinho Afonso de Bulhões, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo di Buglione.
Già sulla data di nascita discutono gli storici, anche se la maggior parte di loro concorda che il lieto evento avvenne il 15 agosto del 1195. L’anno di nascita è stato calcolato sottraendo dalla data della morte, avvenuta 13 giugno del 1231, gli anni citati dal Liber miraculorum scritto verso la metà del XIV secolo.
La biografia più antica, sulla base di informazioni concesse da mons. Soeiro II Viegas, vescovo di Lisbona dal 1210 al 1232, fu compilata nel 1232 da un frate Anonimo nell’opera nota come “Vita prima o Assidua” . Essa riporta le poche notizie avute sui primi anni di vita del fanciullo.
“ I fortunati genitori di Antonio possedevano, dirimpetto al fianco ovest di questo tempio, un’abitazione degna del loro stato, la cui soglia era situata proprio vicino all’ingresso della chiesa. Erano essi nel primo fiore della giovinezza allorché misero al mondo questo felice figlio; e al fonte battesimale gli posero nome Fernando. E fu ancora a questa chiesa, dedicata alla santa Madre di Dio, che lo affidarono affinché apprendesse le lettere sacre e, come guidati da un presagio, incaricarono i ministri di Cristo dell’educazione del futuro araldo di Cristo”.
La residenza della nobile famiglia era, infatti, vicina alla cattedrale di Lisbona, dove egli ricevette il sacramento del battesimo e dove fu avviato all’educazione spirituale dai canonici della cattedrale. Si racconta che suo padre, probabilmente, lo voleva indirizzare alla tecnica delle armi.
Fernando crebbe in un ambiente sereno e sano, dove il timor di Dio regnava sovrano. La preghiera quotidiana alimentava e fortificava la sua fanciullezza. Amava il silenzio in modo particolare per poter ascoltare la parola di Dio.
Nel 1210 Fernando, all’età di quindici anni, decise di entrare come novizio nel monastero di San Vincenzo dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino dell’Abbazia di San Vincenzo di Lisbona.
In seguito, nei suoi Sermoni scriverà: ”Chi si ascrive a un ordine religioso per farvi penitenza, è simile alle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recarono al sepolcro di Cristo. Considerando la mole della pietra che ne chiudeva l’imboccatura, dicevano: chi ci rotolerà la pietra? Grande è la pietra, cioè l’asprezza della vita di convento: il difficile ingresso, le lunghe veglie, la frequenza dei digiuni, la parsimonia dei cibi, la rozzezza delle vesti, la disciplina dura, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta… Chi ci rotolerà questa pietra dall’entrata del sepolcro? Un angelo sceso dal cielo, narra l’evangelista, ha fatto rotolare la pietra e vi si è seduto sopra. Ecco: l’angelo è la grazia dello Spirito Santo, che irrobustisce la fragilità, ogni asperità ammorbidisce, ogni amarezza rende dolce con il suo amore”.
Rimase nell’abbazia di San Vincenzo per circa due anni. Temendo che le visite dei parenti e degli amici, che lo andavano ad incontrare di proposito per distrarlo dalla sua vocazione, dallo studio e dalla preghiera, per una più concentrata meditazione chiese di essere trasferito dal monastero di Lisbona al convento di Santa Croce a Coimbra, allora città capitale del Portogallo e distante da Lisbona circa 230 km.
Fernando giunse a Coimbra nel 1212 e rimase nel convento per circa sette anni. S’impegnò nello studio delle scienze e della teologia guidato da ottimi maestri, ampliando la sua vasta cultura con l’ausilio dell’enorme quantità di materiale bibliografico custodito nella biblioteca del convento e preparandosi all’ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, all’età di 24 anni. Il convento, molto esteso, ospitava circa settanta monaci.
Essendo votato alle Sacre Scritture e alla predicazione, gli fu chiesto di esercitare la sua vocazione all’interno dell’Ordine, ma due avvenimenti contribuirono a scrivere diversamente gli eventi.
La storia racconta che sul trono del Portogallo al re Alfonso I succedette il figlio Sancho I e, alla morte di questi, avvenuta nel 1211, il nipote Alfonso II. Alfonso II era un re devoto e rispettoso delle virtù dei religiosi al contrario dei suoi successori che si dimostrarono intolleranti nei confronti del clero. Alfonso II nominò come priore del convento agostiniano di Santa Croce in Lisbona una persona a lui fidata, anche a scapito della sua modesta vita ascetica e spirituale e della sua scarsa capacità di gestire il monastero.
In breve tempo costui dilapidò le ingenti risorse del convento conducendo uno stile di vita mondano e non conforme alle regole di un convento. I frati si divisero in due fazioni: i sostenitori e i contrari. Intanto le cattive voci sulle sue azioni si diffusero rapidamente giungendo a Roma dove il papa Onorio III promulgò la scomunica nel 1220.
Nel 1219, nel fervore delle Crociate, in mezzo ad eccidi ed efferatezze da entrambe le parti, il sultano Elkamil fa all’Occidente un’inaspettata proposta di pace: cedere Gerusalemme ed i luoghi santi ai cristiani a patto che non ne facciano uno stato antagonista dell’Islam, ma un’oasi di pace sacra ad entrambe le religioni  che garantisca la cessazione del fuoco e la libera ripresa dei pellegrinaggi da entrambe le parti.
I confratelli furono entusiasti e ritennero Francesco artefice della pace.
Francesco d’Assisi, infatti, organizzò una spedizione missionaria e giunse in Africa con la precisa intenzione di convertire i musulmani al cristianesimo o di morire martire proponendo al sultano di sottoporlo alla prova del fuoco. Elkamil, al contrario, aveva apprezzato le qualità del santo intelligente ed aveva iniziato quella via d’intesa con l’occidente che culminerà poi nell’alleanza con Federico I. Non pensava di convertirsi al cristianesimo. Francesco, profondamente deluso per la mancata volontà del sultano di convertirsi al cristianesimo, decise di lasciare la direzione dell’ordine ed il suo posto in seno alla comunità francescana e di ritirarsi sul monte Verna dove rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.
Altri membri che parteciparono della spedizione furono: Berardo, Ottone, Pietro, tutti e tre sacerdoti, e i due fratelli laici Accursio e Adiuto. Giunti in Africa, poco dopo l’inizio della loro missione di evangelizzazione, furono decapitati. I loro corpi furono riportati a Coimbra. Fernando, in seguito, riferì che il martirio di questi cinque fratelli francescani suscitò in lui la vocazione per la vita francescana e lo stimolo all’ingresso nell’ordine Francescano del santo d’Assisi nel settembre del 1220. Vinte le opposizioni dei confratelli agostiniani ed ottenuto il permesso dal priore, si unì al romitorio dei francescani e poco tempo dopo chiese a Giovanni Parenti, il suo nuovo superiore, il permesso di partire come missionario per predicare tra i musulmani. Nell’autunno del 1220 Fernando, assieme al confratello Filippino di Castiglia, s’imbarcò alla volta del Marocco. In Africa contrasse la febbre malarica che lo costrinse a ritornare a Coimbra dopo solo alcuni mesi di permanenza. Sono stati i suoi compagni di viaggio a convincerlo a rientrare in patria per curarsi.  Secondo altre versioni Fernado non si fermò mai in Marocco.
I due frati s’imbarcarono diretti verso la Spagna. La nave, durante il viaggio di ritorno, spinta da una violenta tempesta, fu costretta ad approdare sulle coste della Sicilia occidentale e a trovare rifugio nel mare di Messina. Soccorsi dai pescatori, i due frati furono condotti nel vicino convento francescano di Messina. Curato dai francescani della città, Fernando in due mesi riacquistò la salute.
Quindi la missione e la totale disponibilità fino alla morte furono, probabilmente, le forze interiori che lo portarono al francescanesimo.
Tutti i suoi ideali s’infransero sul nascere. Le prediche, preparate con molto fervore per condurre a Dio tante anime, il desiderio sempre vivo del martirio si seppellirono nell’oblio della memoria.
Volendo sottolineare maggiormente questo netto mutamento di vita, Fernando decise di cambiare il suo nome di battesimo: Fernando divenne Antonio d’Olivares.
Etimologicamente  il termine “Antonio” deriva dal latino “anti” “prima” e “natus” “nato” vuol dire “nato prima”.
Scelse questo nome in onore dell’Abate, il monaco orientale a cui era dedicata la residenza francescana di Sant’Antonio degli Olivi di Coimbra che aveva ospitato i primi francescani portoghesi e che Fernando aveva da poco tempo conosciuto.
Qui i due frati, Antonio e Filippino, furono informati che nel mese di maggio, per la Pentecoste, Francesco d’Assisi aveva radunato tutti i frati per partecipare al Capitolo Generale dei Frati Francescani. Nella primavera del 1221 Antonio e tutti gli altri frati si incamminarono a piedi verso l’Italia con l’intenzione di parteciparvi. Arrivarono ad Assisi.
Grazie alla partecipazione al Capitolo Generale, Antonio ebbe l’occasione di incontrare personalmente Francesco d’Assisi di cui aveva conosciuto il suo insegnamento attraverso testimonianze indirette.
Il Capitolo durò per tutta l’Ottava di Pentecoste: dal 30 maggio all’8 giugno 1221. Si analizzarono molti problemi: lo stato dell’Ordine, la richiesta di novanta missionari per la Germania, la discussione sulla nuova Regola.
Le richieste di modifica della Regola primitiva dell’Ordine furono, per Francesco, un rilevante problema. Lassisti e Spiritualisti rischiavano di spaccare l’Ordine in due tronconi. L’Ordine si era troppo esteso.
Ai giovani, accorsi con entusiasmo, mancava una uguale adesione alla disciplina; i dotti contestavano le disposizioni sulla povertà assoluta.
Con la mediazione del cardinale Rainiero Capocci si giunse ad un compromesso che cercava di salvaguardare sia l’autorità morale di Francesco sia l’integrità dell’Ordine. La nuova Regola sarà poi approvata da Papa Onorio III il 29 novembre del 1223. L’ Assidua riporta che: “ Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là l’impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso”.
Il Capitolo Generale ebbe luogo nella valle attorno alla Porziuncola dove si raccolsero oltre tremila frati.
Poiché erano tantissimi, non potendoli ospitare tutti, si disposero alcune stuoie all’aperto per farli riposare. Per questo motivo fu ricordato come il “Capitolo delle Stuoie”. Il fra Giordano da Giano descrisse l’avvenimento: “ Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate”.
Quando quasi tutti i frati partirono per tornare ai loro luoghi di provenienza, Antonio fu notato da fra Graziano, provinciale di Montepaolo in Romagna, che, apprezzando soprattutto la sua umiltà e la sua profonda spiritualità, decise di trattenerlo  e lo assegnò all’eremo di Montepaolo, vicino a Forlì, dove già vivevano altri sei frati. Antonio arrivò nel giugno del 1221 e vi rimase un anno dedito alla preghiera, alla penitenza, al servizio degli altri frati, ad una vita semplice, ai lavori umili. Non è chiaro se fosse già prete, ma sembra che nessuno conoscesse i suoi titoli di studio e il suo dono per la predicazione. Nella seconda metà del 1222 la comunità francescana scese a valle per assistere alle ordinazioni sacerdotali nella cattedrale di Forlì. Alla cerimonia erano presenti sia francescani sia domenicani.
A nessuno di loro era stato affidato l‘incarico di tenere il convenzionale discorso di saluto. L’Assidua racconta che “venuta l’ora della conferenza spirituale il Vescovo ebbe bisogno di un buon predicatore che rivolgesse un discorso di esortazione e di augurio ai nuovi sacerdoti.
Tutti i presenti però si schermirono dicendo che non era loro possibile né lecito improvvisare. Il superiore si spazientì e rivoltosi ad Antonio gli impose di mettere da parte ogni timidezza o modestia e di annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito. Questi dovette obbedire suo malgrado e La sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa
”.
Per risolvere l’imbarazzo, fu chiesto ad Antonio di fare un breve sermone. Egli protestò dicendo che non era capace. Iniziò a parlare, in  modo semplice e con un linguaggio non molto elevato, davanti al vescovo e ai sempre più critici domenicani. Fu la sua prima predica!
La Vita Anonima riferisce: “Come se al suo posto ci fosse un diluvio di eloquenza divina, scaturirono parole brillanti e piene d’ardore”.
La notizia del sermone di Antonio giunse ad Assisi, alle orecchie dei suoi superiori che lo spinsero alla predicazione. Antonio, conosciuto col nome di Antonio da Forlì, cominciò a viaggiare e a predicare.
Scendendo da Montepaolo, Antonio cominciò a predicare nei villaggi e nelle città della Romagna allora funestata da continue guerriglie civili. Predicò anche in Emilia, nella MarcaTrevigiana, in Lombardia e in Liguria. Antonio possedeva una voce bella e affascinante e una particolare abilità nel far sì che i problemi teologici si calassero nella realtà della gente comune.
Nei suoi discorsi rivelò sorprendenti tesori di sapienza. Viaggiava senza sosta esortando alla pace, alla mitezza, debellando le eresie anticattoliche, pacificando le fazioni, riformando i costumi. Il territorio era molto vasto, ma non si scoraggiò.
Sempre a Rimini si colloca il famoso “miracolo” della predica ai pesci. Antonio si era recato a diffondere la parola di Dio quando alcuni eretici tentarono di dissuadere i fedeli che erano accorsi per ascoltarlo. Allora Antonio si portò sulla riva del fiume che scorreva a breve distanza e disse agli eretici in modo tale che la folla presente udisse: “Dal momento che voi dimostrate di essere indegni della parola di Dio, ecco, mi rivolgo ai pesci, per confondere la vostra incredulità”. Incominciò a parlare ai pesci della grandezza e della magnificenza di Dio.
Man mano che Antonio parlava, un numero sempre maggiore di pesci accorreva verso la riva per ascoltarlo, elevando sopra la superficie dell’acqua la parte superiore del corpo e guardando attentamente, aprendo la bocca e chinando il capo in segno di riverenza. Gli abitanti del villaggio accorsero per vedere il prodigio e, con loro, anche gli eretici che si inginocchiarono ascoltando le parole di Antonio. Una volta ottenuta la conversione degli eretici, Antonio benedisse i pesci e li lasciò andare.
Il Fioretti narra:” trascurato dalla gente, Antonio si mette a predicare sulla riva del mare ed i pesci accorrono in gran numero e mettono la testa fuori dall’acqua per ascoltare… inutile dire che tutti quelli che schifavano l’ennesima predica itinerante furono invece attratti dallo strano fenomeno e furono pronti a convertirsi”.
Trattava con particolare rigore quelli che chiamava “cani muti“: i potenti e i notabili che avrebbero dovuto guidare e proteggere le popolazioni, ma di cui si disinteressavano per inseguire gli interessi personali. Nei Sermoni scrisse: “La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti.
Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo”.
 Antonio predicò anche contro i cristiani eterodossi e gli eretici.
Ebbe modo di evidenziare come la riflessione teologica e antieretica era impossibile senza solide basi dottrinali. Per questo motivo, nel 1223,  insistette per ottenere la fondazione del primo studentato teologico francescano a Bologna presso il convento di Santa Maria della Pugliola. Francesco, secondo il quale la preghiera e la dedizione erano sufficienti, approvò la richiesta di Antonio. In una sua lettera scrisse: “Frati Antonio episcopo meo, fr. Franciscus salutem. Placet mihi, quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huiusmodi studium sanctae orationis spiritum non extinguas, sicut in Regula continetur. Vale”.Al mio carissimo fratello Antonio,il fratello Francesco. Approvo che tu insegni sacra teologia ai frati, purché, a motivo di questo studio, essi non spengano lo spirito di preghiera e di devozione, come sta scritto nella Regola. Stammi bene”. Francesco gli scriverà questa breve lettera perché Antonio era indeciso nell’insegnare teologia.
.Tra la fine del 1223 e l’inizio del 1224 Antonio si recò a Bologna, dove si trovava l’Università. L’università era, soprattutto, sinonimo di concentrazione di giovani. Antonio era un esperto “pescatore di giovani“.
Alla fine del 1224, quando papa Onorio III chiese a Francesco d’Assisi di inviare come missionario qualcuno dei suoi fratelli nella Francia meridionale per convertire i catari e gli albigesi, Francesco inviò, appunto, Antonio. Allora i movimenti considerati ereticali più importanti erano i “Catari”  “i puri”, detti anche Albigesi, dal nome dalla città di Albi nella Francia meridionale, e i “Patarini” diffusi in Lombardia.
Per due anni, all’età di 28-30 anni, come teologo insegnò le basilari verità di fede al clero e ai laici attraverso un metodo semplice ma efficace. Partiva dalla lettura del testo sacro per giungere ad una interpretazione che parlasse alla fede e alla vita dell’uditorio. Per questa sua intensa attività di predicatore antieretico ricevette il famoso appellativo di “martello degli eretici” “malleus hereticorum“.
Antonio rimase nella Francia meridionale alcuni anni, esattamente dal 1225 al 1227. La Provenza, la Linguadoca, la Guascogna furono le regioni dove maggiormente predicò. In Francia sembra che inizialmente si recò a Montpellier, città universitaria baluardo dell’ortodossia cattolica e dove la leggenda narra che Antonio ebbe il miracolo della bilocazione poiché predicò contemporaneamente in due luoghi  distanti dalla città.
In seguito andò ad Arles dove partecipò al capitolo provinciale della Provenza. La leggenda narra che ad Arles, mentre Antonio predicava, ebbe l’apparizione di Francesco d’Assisi ancora vivo, stigmatizzato e benedicente la folla. A Tolosa,  poco tempo dopo affrontò direttamente gli albigesi con la profonda dialettica basata su argomenti chiari e semplici. Alcune fonti riportano che a Tolosa si manifestò il miracolo del giumento.
A Rimini, nel 1223, Antonio cercava di convertire un eretico e la disputa si era incentrata intorno al sacramento dell’Eucarestia, ossia sulla reale presenza di Gesù. L’eretico, di nome Bonvillo, lanciò la sfida ad Antonio affermando: “Se tu, Antonio, riuscirai a provare con un miracolo che nella Comunione dei credenti c’è, per quanto velato, il vero corpo di Cristo, io abiurata ogni eresia, sottometterò senza indugio la mia testa alla fede cattolica”.
Antonio accettò la sfida perché convinto di ottenere dal Signore il miracolo della conversione dell’eretico. Allora Bonfillo, invitando a fare silenzio disse: “Io terrò chiuso il mio giumento per tre giorni privandolo del cibo. Passati i tre giorni, lo tirerò fuori alla presenza del popolo, gli mostrerò la biada pronta. Tu intanto gli starai di contro con quello che affermi essere il corpo di Cristo. Se l’animale, pur affamato, rifiuterà la biada e adorerà il tuo Dio io crederò alla fede della Chiesa”.
Antonio pregò e digiunò per tutti i tre giorni. Nel giorno stabilito la piazza si riempì di tanta gente. Antonio celebrò la messa davanti alla folla numerosa e poi, con somma riverenza, portò il corpo del Signore davanti al giumento affamato che era stato condotto nella piazza. Contemporaneamente Bonfillo gli mostrò la biada.
Antonio impose il silenzio e comandò all’animale: “In virtù e in nome del Creatore che io, per quanto ne sia indegno, tengo tra le mani, o animale, ti ordino di avvicinarti prontamente con umiltà a prestarGli la dovuta venerazione affinché i malvagi eretici apprendano chiaramente da tale gesto che ogni creatura è soggetta al suo Creatore”.
Il giumento rifiutò il foraggio e, abbassando la testa fino ai garretti, si accostò genuflettendosi davanti al sacramento del corpo di Cristo in segno di adorazione.
Tutti i presenti, compresi Bonvillo e gli eretici, si inginocchiarono.
Nel mese di novembre del 1225 Antonio partecipò al Sinodo di Bourges convocato dal primate d’Aquitania per valutare la situazione della Chiesa francese e per pacificare le regioni meridionali. All’arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, Antonio, invitato quel giorno a predicare, disse: “Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale… L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna…”.
Lo stesso arcivescovo Simone de Sully chiese ad Antonio il sacramento della confessione per trovare la forza di mettere in pratica ciò che gli aveva ricordato. Giovanni Bonelli da Firenze, il Provinciale della Provenza, lo nominò prima guardiano del convento di Le Puy-en-Velay e poi superiore di un gruppo di conventi attorno a Limoges. Nei pressi di Brive-la-Gaillarde Antonio scoprì una grotta simile a quella del romitorio di Montepaolo, dove egli aveva trascorso alcuni anni, e lì “amava ritirarsi, da solo, in una grande austerità di vita, applicandosi alla contemplazione e alla preghiera”. L’esperienza francese di Antonio terminò nell’arco di un biennio. Antonio rimase in Francia fino alla morte di Francesco d’Assisi.
Il 3 ottobre del 1226, in una cella della Porziuncola morì, all’età di 44 anni, Francesco d’Assisi. Il vicario generale dell’Ordine, frate Elia, per la Pentecoste dell’anno seguente fissò il Capitolo Generale per la nomina del successore. Fu convocato anche Antonio, allora superiore dei conventi di Limoges.
Antonio, di ritorno dalla Francia, arrivò ad Assisi il 30 maggio del 1227, per la Pentecoste e nel giorno d’apertura del Capitolo Generale durante il quale si doveva eleggere il successore di Francesco. Si prevedeva l’elezione di frate Elia, vicario generale di Francesco e suo compagno di missione in Oriente.  Invece di frate Elia che, pur essendo un valido organizzatore, aveva un temperamento piuttosto impulsivo, i superiori dell’Ordine preferirono il più prudente frate Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna.
Egli, che aveva accolto Antonio nell’Ordine francescano, lo nominò ministro provinciale per l’Italia settentrionale. Antonio aveva 32 anni. Antonio cominciò la visita dei numerosi conventi dell’Italia settentrionale. Si recò a Milano, a Venezia, a Vicenza, a Verona, a Trento, a Brescia, a Cremona, a Varese. Come sua residenza stabile scelse, però, il convento di Padova quando non era in viaggio. Alternò la predicazione al governo dei frati e scrisse i “Sermones dominicales”, la sua importante opera dottrinaria di profonda teologia rimasta, però, incompleta, che gli farà acquisire il titolo di “Dottore della Chiesa” nel 1946.
Una folla numerosa lo seguiva nelle sue prediche. Tra predicazioni instancabili e lunghe ore dedicate alle confessioni spesso Antonio saltava i pasti. Di sermone in sermone aumentava la fama di Antonio a Padova provocando un continuo accrescersi dell’uditorio. Una folla incessante si assiepava intorno al suo confessionale.
Era impossibile farvi fronte sebbene alcuni confratelli sacerdoti e una schiera di presbiteri della città cercassero di alleggerirgli la fatica. Non gli restava che aspettare il deflusso dei penitenti al calar della sera. L’Assidua informa che digiunava fino al tramonto. Molti accorrevano al sacramento della penitenza dichiarando che un’apparizione li aveva spinti alla confessione.
Testimonia l’Assidua: “Riconduceva a pace fraterna i discordi; ridava libertà ai detenuti; faceva restituire ciò ch’era stato rapinato con l’usura e la violenza“.
Antonio intervenne anche a modificare la legislazione comunale di Padova. Si trattava di uno statuto relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, lunedì santo.
A richiesta del venerabile fratello Antonio, dell’Ordine dei frati Minori, fu stabilito e ordinato che nessuno sia detenuto in carcere, quando non sia reo che di uno o più debiti in denaro, del passato o del presente o del futuro, purché egli voglia cedere i suoi beni. E ciò vale sia per i debitori che per gli avallatori. Se però una rinuncia o cessione o un’alienazione sia fatta frodolentemente, sia da parte dei debitori, sia degli avallatori, essa non abbia alcun valore e non porti danno ai creditori. Quando poi la frode non possa venir dimostrata in modo evidente, della questione sia giudice il podestà. Questo statuto non possa subire modificazioni di sorta, ma resti immutato in perpetuo”.
Antonio conduceva un esemplare stile di vita. Nei sermoni scrisse: “La vita del prelato deve splendere d’intima purezza, dev’essere pacifica con i sudditi, che il superiore ha da riconciliare con Dio e tra loro; modesta, cioè di costumi irreprensibili; colma di bontà verso i bisognosi. Invero, i beni di cui egli dispone, fatta eccezione del necessario, appartengono ai poveri, e se non li dona generosamente è un rapinatore, e come rapinatore sarà giudicato. Deve governare senza doppiezza, cioè senza parzialità, e caricare sé stesso della penitenza che toccherebbe agli altri… Inargèntino i prelati le loro parole con l’umiltà di Cristo, comandando con benignità e affabilità, con previdenza e comprensione. Ché non nel vento gagliardo, non nel sussulto del terremoto, non nell’incendio è il Signore, ma nel sussurro di una brezza soave ivi è il Signore”.
In un altro sermone scrisse: “Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi”.
In compagnia del giovane padovano Luca Belludi visitò tutti i conventi fondati nella provincia di Padova che, allora, ricopriva un ampio territorio. Da lì si spostò a Conegliano,  a Treviso,  a Venezia per poi tornare a Padova, prima di proseguire per i conventi dell’Emilia, della Lombardia e della Liguria.
Nella quaresima del 1228 Antonio rientrò a Padova dove instaurò buoni rapporti con gli esponenti di altri ordini. Divenne amico dell’abate Giordano Forzatè, superiore dei benedettini, e del conte Tiso VI da Camposampiero, uomo facoltoso e generoso verso i francescani.
La tradizione colloca la pietra sulla quale Antonio saliva per predicare nel giardino dei conti Papafava e dei Carraresi.
Tra le persone conosciute e più fidate Antonio fondò una sorta di confraternita. Dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba, dove i confrati solevano riunirsi, presero il nome di “Colombini“. Avevano per divisa un saio grigio e si dedicavano ad opere caritative. Antonio soggiornò a Padova pochi mesi, ma decise, una volta scaduto il mandato di Ministro Provinciale nel 1230, di tornarvi definitivamente.
Nel mese di marzo del 1228 fra Giovanni Parenti, il Ministro Generale, lo mandò a chiamare “per un’urgente necessità della sua famiglia religiosa”.
Si era nuovamente infiammata la disputa tra l’ala conservatrice e l’ala riformatrice dell’Ordine. Era indispensabile trovare un accordo che salvaguardasse sia l’unità dell’ordine sia l’integrità del messaggio di Francesco. Fu scelto Antonio. La vertenza gravava attorno a punti diversi: c’era chi spingeva ad un maggior impegno negli studi privilegiando il frate sacerdote a discapito del frate laico; c’era chi voleva mitigare la rigida povertà di Francesco con una regolamentazione più consona ad una comunità che da “girovaga” stava trasformandosi in “residenziale“.
L’Ordine decise che era giunto il momento di informare il Papa.
Antonio fu incaricato di andare a Roma e riferire al papa Gregorio IX l’oggetto della questione.
Le cronache non riportano i metodi usati da Antonio per portare a termine questo suo delicato incarico.
Predicò alla presenza di Papa Gregorio IX il quale, ammirato dalla sua singolare conoscenza delle Sacre Scritture, anziché congedarlo, lo trattenne con sé perché predicasse a lui e ai cardinali le meditazioni quaresimali. Predicò ad una folla cosmopolita. Ognuno lo sentì parlare nella propria lingua.
Le prediche furono un tale successo che il Pontefice Gregorio IX, rompendo ogni protocollo, lo chiamò “Arca del Testamento”, “peritissimo esegeta”, “esimio teologo”. Quattro anni più tardi, canonizzandolo, ricorderà quei giorni di quaresima: “personalmente sperimentammo la santità e l’ammirevole vita di lui, quando ebbe a dimorare con grande lode presso di noi”. L’impressione fu molto forte anche tra i cardinali e i prelati della curia, i quali – scrisse ancora l’Assidua – “l’ascoltarono con devozione ardentissima” e qualcuno di loro lo invitò a predicare al popolo.
Erano i giorni della Settimana santa e a Roma confluivano molti pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Antonio, sebbene conoscesse alcune di quelle lingue, iniziò a predicare nella volgata del popolo di Roma.Da lì a pochi mesi Antonio ebbe modo di incontrarsi nuovamente con il Pontefice che giunse in Assisi per canonizzare Francesco, per dichiararlo santo e per benedire la prima pietra della Basilica dove avrebbe riposato il suo corpo.
La basilica fu completata in due anni. L’ordine scelse la Pentecoste per fissare il Capitolo Generale e per traslare il corpo di Francesco dalla chiesa di San Giorgio alla cripta del nuovo edificio. Ancora una volta i frati a migliaia erano accorsi da ogni parte d’Europa e insieme a loro sfilarono in processione autorità di ogni grado, prelati, vescovi e i tre Cardinali Legati inviati per l’occasione da papa Gregorio IX. La folla fu tale che travolse il servizio d’ordine e si temette per le spoglie di Francesco.
Frate Elia fu costretto a sbarrare le porte e a “mettere in salvo” il corpo sotto lastre di marmo. Lì rimase, nonostante le critiche di cui Elia fu incolpato per la decisione, sino al 1818, quando papa Pio VII ne autorizzò la rimozione.
La folla non gradì per niente la piega che gli avvenimenti avevano preso e la situazione degenerò tristemente in una rissa collettiva con grande scandalo e maggiori proteste che misero in imbarazzo l’Ordine Francescano giungendo sino alle orecchie del Papa.
Se nel periodo di costruzione della Basilica la disputa interna all’Ordine si era sopita, con l’apertura del nuovo Capitolo essa, però, si riacutizzò.
Il testamento di Francesco, infatti, affermava la necessità della povertà assoluta e una parte dei Francescani voleva inserirlo come parte integrante della Regola dell’Ordine.
Nell’impossibilità di dirimere la questione, si decise di nominare una commissione di sette frati per sottoporre la questione a papa Gregorio IX. Antonio, chiamato a farne parte, dovette partire nuovamente per Roma. Gregorio IX prese la sua decisione promulgando la bolla Quo elongati per il 28 settembre.
Tornato ad Assisi, Antonio accusò diversi disturbi. Chiese ed ottenne di essere sollevato dall’incarico di ministro provinciale nel Capitolo del 1230. Si ritirò a Padova.
A Padova, nell’inverno del 1231, terminò la stesura del secondo volume dei Sermoni che gli era stato commissionato dal cardinale Rinaldo Conti che diverrà Papa Alessandro IV. Preferì la predicazione e il confessionale. La quaresima del 1231 fu il suo testamento spirituale.
Antonio predicò in favore dei poveri e delle vittime dell’usura: “ Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L’usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove… E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole”. Il linguaggio della sua predicazione era semplice e diretto: “La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo, nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella trappola tesa dal demonio”.
Durante la Quaresima,  dal 6 febbraio al 23 marzo 1231, la sua predicazione fu una novità per quei tempi; secondo l’Assidua gli fu assegnato un gruppo di guardie del corpo, affinchè formassero un cordone di sicurezza tra lui e la folla.
Il 15 marzo del 1231 fu modificata la legge sui debiti. “Su istanza del venerabile fratello, il beato Antonio, confessore dell’ordine dei frati minori” il podestà di Padova Stefano Badoer stabilì che il debitore insolvente senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non fosse più imprigionato né esiliato.
La Quaresima e la predicazione avevano tanto fiaccato Antonio che, in diverse occasioni, aveva dovuto farsi portare a braccia sul pulpito.
Afflitto dall’idropisia e dall’asma,  forse anche da sintomi di cardiopatia, trovava a volte difficile anche il solo camminare. Acconsentì di ritirarsi per una convalescenza nel convento di Santa Maria Mater Domini. Questo suo breve riposo, tuttavia, si interruppe bruscamente. Spadroneggiava in quel tempo, tra Verona e Vicenza,  Ezzelino III da Romano, emissario dell’imperatore Federico II, contro i liberi Comuni.
Riuscito a farsi eleggere Podestà di Verona, città guidata dai conti di Sambonifacio, aveva intrecciato con loro un doppio matrimonio: lui con Zilia, sorella del conte Rizzardo, e questi con sua sorella Cunizza.
Una volta ottenuto il potere, passò sopra i legami di parentela e ruppe l’alleanza con i Sambonifacio mandando in carcere il cognato. Alcuni cavalieri del conte Rizzardo ripararono a Padova e da lì cercarono di organizzarne la liberazione.
Verso la fine di maggio Antonio partì alla volta di Verona per chiedere ad Ezzelino di concedere la grazia al conte Rizzardo.
Non riuscì ad ottenere nulla. Ezzelino fu veramente irremovibile. Anzi risparmiò ad Antonio la stessa sorte toccata al conte Rizzardo soltanto per rispetto dell’abito che indossava.
Dopo i lunghi ed apostolici viaggi in Italia e in Francia, ormai stanco e malato, per ritemprarsi nel corpo e nello spirito, nel giugno del 1231 Antonio si ritirò nel Veneto, in una località denominata Camposampiero, distante venti chilometri da Padova. Dal conte Tiso VI fu invitato a trascorrere un periodo di meditazione e di riposo nel piccolo romitorio nei pressi del castello.
Qui avvenne un mirabile miracolo visto e descritto dal Conte Tiso, suo amico. Dalla celletta occupata da frate Antonio, con la porta socchiusa, il Conte vide una gran luce; temendo un incendio, egli spinse la porta e, con grande stupore, vide il Bambino Gesù tra le braccia di Antonio.
La tradizione narra che sopra un grande albero di Noce Antonio predicava alle folle. Nel bosco del conte Tiso VI, convertito dalla predicazione del Santo, sorgeva un noce poderoso. “L’uomo di Dio, avendone un giorno ammirata la bellezza, tosto, su indicazione dello Spirito, decise di farsi una cella sopra il noce, perché il luogo offriva impensata solitudine e quiete favorevole alla contemplazione. Il nobiluomo, appena venne a conoscere quel desiderio per mezzo dei frati, dopo aver riunito in quadrato e trasversalmente ai rami delle pertiche, preparò con le sue mani una cella di stuoie. […] Salendo lassù, egli mostrava di avvicinarsi al cielo”. Da qui il Santo scendeva solo per predicare e confessare.
Il 13 giugno del 1231,  avendo compreso che non gli restava molto da vivere, chiese di essere riportato nella chiesa di Santa Maria Mater Domini a Padova.
Durante il viaggio, le sue condizioni peggiorano ed i confratelli, vedendolo incosciente, decisero di tornare indietro. Nella nebbia della calura estiva Antonio vide una donna piangente che teneva in braccio un bambino completamente nudo, abbandonato, come se fosse morto. Interrogata prudentemente da Antonio, lei disse di essere fuggita perché uomini cattivi la inseguivano per uccidere il bimbo. Antonio, delicatamente, prese in braccio il bambino che si svegliò e sorrise.
Anche la donna alzò il capo e sorrise. Antonio riconobbe in lei la Vergine Maria. La tradizione vuole che Antonio a questo punto sia tornato giovane e sano e sia morto cantando un inno mariano.
La leggenda narra anche che Antonio fu trasportato sopra un carro agricolo trainato da buoi verso Padova, città dove aveva chiesto di morire.
Nel tragitto incontrò frate Vinotto che, notate le sue gravi condizioni di salute, gli consigliò di fermarsi all’Arcella, un borgo della periferia della città, nell’ospizio accanto al monastero delle Clarisse dove sarebbe stato al sicuro dalle “sante intemperanze” della folla quando si fosse sparsa la notizia della morte.
I confratelli temevano che la folla circondasse il carro per toccare il corpo di Antonio. Al convento di Arcella i confratelli adagiarono Antonio per terra. Ricevuta l’unzione degli infermi, ascoltò i confratelli cantare l’inno mariano “O gloriosa Domina” quindi, secondo quanto riferito dall’Assidua, pronunciate le parole “Video Dominum meum”  “Vedo il mio Signore”, spirò.
Era la sera del venerdì 13 giugno del 1231. Aveva 36 anni. La sua giovane vita, come un fiore profumato, fu trapiantata nei giardini celesti.
Al momento del suo trapasso, per le vie di Padova tanti giovani gridavano: “È morto il  padre Santo!”.
La notizia della morte di Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto si avverò. Le reliquie di un Santo erano viste come portatrici di vantaggi miracolosi, spirituali e di prosperità in tempi di pellegrinaggi e di fede diffusa. Per primi giunsero gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, che dissero: “Qui è morto e qui resta”.
Anche le Clarisse dissero: “Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto”. Giunsero all’Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare e seppellire “il prezioso tesoro” in quella chiesa, sede della comunità francescana alla quale Antonio apparteneva.
Con il concorso delle armi, furono affrontati dagli uomini più giovani di Capodiponte.
Intervenne il Vescovo che, avendo saputo che Antonio desiderava morire nel suo convento, diede ragione ai frati e incaricò il Podestà di sedare gli animi anche con la forza se fosse stato necessario. La cerimonia funebre si svolse all’Arcella il 17 giugno.
La stessa sera la salma di Antonio fu trasportata a Padova, nel convento di Santa Maria Mater Domini, e lì fu sepolto, nel suo rifugio spirituale nei periodi di intensa attività apostolica. Probabilmente non fu posto sotto terra, ma sollevato, in modo tale che i devoti, sempre più numerosi, potessero vedere e toccare la tomba. La tomba di Antonio divenne meta di pellegrinaggi. A causa della folla, le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova “nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi”, e anche di notte.
I devoti sfilavano davanti alla sua tomba toccando il sarcofago e chiedendo grazie e guarigioni. In quel periodo furono attribuiti, per sua intercessione, molti miracoli che il vescovo e il podestà  sottoposero al giudizio del Papa.
La fama dei tanti prodigi compiuti da Antonio convinse Gregorio IX ad accelerare l’iter del processo di canonizzazione. Nominò una commissione di periti, presieduta dal vescovo di Padova, per raccogliere le testimonianze e le prove documentarie utili al processo di canonizzazione.
Secondo l’Assidua la commissione fu sommersa “da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio”. Il Vescovo ascoltò “le deposizioni confermate con giuramento”, mise per iscritto i “miracoli” approvati e promosse le indagini necessarie. Completato l’esame diocesano, inviò al Papa una seconda delegazione.
A Roma l’istruttoria fu assegnata al cardinale Giovanni d’Abbeville, che esaurì il compito in pochi giorni.
Papa Gregorio IX, in considerazione della gran quantità di miracoli, fissò la cerimonia ufficiale di canonizzazione il 30 maggio del 1232, festa di Pentecoste, dopo solo circa un anno dalla sua morte, ed inviando la Bolla ai fedeli e al podestà di Padova.
Nel Duomo di Spoleto papa Gregorio IX, dopo avere ascoltato la lettura dei 76 prodigi approvati, raccolti nel Trattato dei miracoli  e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente santo frate Antonio. La sua festa liturgica ricorre il 13 giugno, giorno della sua ascesa in cielo.
Per contenere l’enorme numero di pellegrini che continuamente affluivano a Padova per vistare la tomba, fu iniziata la costruzione di una chiesa più capiente. I lavori furono ultimati nel 1240.
Nel 1263 Bonaventura da Bagnoregio, Ministro Generale dei francescani, fece trasportare la salma di Antonio di Padova nella nuova basilica.
Si narra che durante l’ispezione, prima del trasporto dei resti mortali, è stata rinvenuta la lingua “intatta e rosea come fosse viva”.
 Presa la lingua tra le sue dita, rimasta miracolosamente intatta, Bonaventura da Bagnoreggio esclamò: “Lingua Santa e Benedetta, che sempre benedicesti il Signore e Lo facesti benedire dagli altri, ora appare chiaro di quanto gran merito fosti davanti a Dio”. Nacque così la devozione alla lingua di Sant’Antonio in quanto strumento portentoso della Parola di Dio che Antonio annunciò sempre tra gli uomini.
Conservata in un prezioso reliquiario, è possibile ammirarla nella basilica di Padova.
Ogni anno, ancora oggi, i frati Antoniani ricordano il ritrovamento della lingua festeggiandolo il 15 febbraio.  Ancora oggi sono milioni le persone che, annualmente, visitano con grande devozione la tomba di Sant’Antonio nella grande Basilica di Padova.
Moltissimi sono coloro i quali partecipano all’imponente celebrazione liturgica e alla sentita processione del Santo per le vie della città di Padova.
Nel 1946 Pio XII inserì Sant’ Antonio tra i Dottori della Chiesa cattolica conferendogli il titolo di “Doctor evangelicus” “dottore della chiesa universale” perchè nei suoi scritti e nelle sue prediche era solito citare il Vangelo.
La denominazione “Sant’Antonio da Padova” non è esatta in quanto non indica la sua originaria provenienza essendo nato e cresciuto nel Portogallo. Il suo nome si riferisce alla città di Padova perché qui ha esercitato la sua attività più efficace.
E’ usanza che i frati prendono il nome del convento a cui appartengono. Quindi è corretto riferirsi a “Sant’Antonio di Padova” e non a “Sant’Antonio da Padova”. In Portogallo egli è chiamato comunemente “Santo António de Lisboa”, ovvero “Sant’Antonio da Lisbona“, la sua città natale.
Sant’Antonio di Padova è patrono del Portogallo, del Brasile e della città di Beaumont, in Texas. In Italia, oltre ad essere patrono della città di Padova, unitamente a San Prosdocimo, Santa Giustina martire e San Daniele, è santo patrono di moltissime altre località in tutte le regioni.
Il culto di Sant’Antonio di Padova si sviluppò per le testimonianze di grazie ottenute per l’intercessione di Sant’Antonio.
Sono evocate diverse situazioni della vita: «Se cerchi i miracoli, ecco messi in fuga la morte, l’errore, le calamità e il demonio; ecco gli ammalati divenir sani. Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono e ritrovano la sanità e le cose perdute. S’allontanano i pericoli, scompaiono le necessità: lo attesti chi ha sperimentato la protezione del Santo di Padova».
Tradizionalmente è invocato anche contro la sterilità coniugale e le malattie dei bambini e da chi cerca gli oggetti smarriti.
Moltissimi sono i miracoli attribuiti a Sant’Antonio di Padova compiuti durante la sua vita: dagli esorcismi alle profezie, alle guarigioni, alle resurrezioni. La fama del suo potere taumaturgico oltrepassò i confini naturali raggiungendo luoghi molto lontani. Per questo è conosciuto con l’appellativo del “Santo dei Miracoli”.
Per citarne alcuni: le apparizioni di Gesù Bambino, il piede riattaccato, il neonato che parla per testimoniare l’innocenza della madre accusata di adulterio, il peccatore pentito,
il riattacco dei capelli ad una donna che il marito geloso aveva tagliato, il giovane resuscitato, il rilevamento del cuore dell’avaro dentro uno scrigno pieno di gioielli, il cibo avvelenato reso innocuo, le ripetute bilocazioni, il ritorno alla vita un bambino che nel sonno si era soffocato avvinghiandosi le coperte al collo, la tempesta del temporale,
le passere rinchiuse dentro una stanza perchè mangiavano i chicchi di grano. Le leggende poi si sono focalizzate sulla sua devozione a Gesù Bambino e sul suo amore per la natura: per gli animali, per gli alberi, per i fiori.
Anche dopo la morte moltissimi prodigi furono attribuiti ad Antonio. Dopo varie ricerche, fatte dall’allora Papa Gregorio IX, si accertò la guarigione di 22 contratti: di 5 paralitici, di 7 ciechi, di 3 sordi, di 3 muti, di 2 epilettici, 2 resurrezioni. L’autore dell’Assidua trascrive che nel giorno della traslazione del Santo “moltissimi colpiti da diverse infermità vi furono portati e tosto ricuperarono la salute per i meriti del Beato Antonio”.
Il giorno della sua sepoltura una donna inferma e storpia pregò davanti all’urna e fu completamente risanata.
Un’altra donna aveva la gamba destra paralizzata. Il marito la condusse al sepolcro di Antonio e, mentre pregava, sentì come se qualcuno la sostenesse. Si stava compiendo il miracolo della sua guarigione. Lasciò le stampelle camminando perfettamente.
Una bimba piccola, con le membra atrofizzate, fu posta sulla tomba del Santo e guarì completamente.
Un singolare episodio accadde al cavaliere Aleardino da Salvaterra che da sempre aveva deriso i fedeli considerandoli ignoranti o ingenui.
In un’osteria iniziò a deridere pubblicamente alcuni che parlavano con entusiasmo dei miracoli di Antonio. Il cavaliere, schernendoli, disse: “E’ possibile che questo frate abbia compiuto dei miracoli quanto questo bicchiere di vetro non si rompa gettandolo con forza per terra. Faccia questo miracolo il vostro santo e io abbraccerò la vostra fede“.
Aleardino da Salvaterrà scagliò con forza il bicchiere a terra. Non si ruppe, anzi scalfì le pietre su cui cadde. Il cavaliere si convertì.
Verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, al rientro dal lavoro per la costruzione della strada in contrada San Giovanni, Romei-Scammari a Mistretta, un camion, carico di giovani lavoratori, si capovolse.
Non ci fu nessun morto, ma tanti feriti. Sant’Antonio li ha miracolati tutti. In segno di devozione e di ringraziamento, è stata edificata nel luogo dell’incidente, in contrada San Giovanni, un’edicola votiva in onore di Sant’Antonio.
Mia mamma, che si recava spesso nella nostra campagna a Scammari, ogni volta si fermava davanti all’edicola per recitare a Sant’Antonio una preghierina e per depositare un mazzo di calle appena raccolte. Giunta a casa, non riuscì trovare gli occhiali, pur cercandoli ansiosamente.
Donna pia e devotissima, la mia mamma Maria Grazia chiese a Sant’Antonio la grazia di farle ritrovare i suoi occhiali.
Ritornando di nuovo in campagna il giorno successivo e fermandosi davanti all’edicola di Sant’Antonio, vide gli occhiali deposti sul davanzale dell’edicola.
Questo miracolo accrebbe in lei maggiormente la sua fede.
La devozione di Antonio per la povertà e per i poveri è sottolineata dalla istituzione del “Pane di Sant’Antonio”. Questa benefica opera, nota dapprima come Pondus Pueri, ebbe notevole sviluppo alla fine del sec. XIX. Era un’istituzione d’assistenza di notevole rilevanza sociale, sotto forma di pia devozione in onore di Sant’Antonio, distribuire ai poveri elemosine sotto forma di pane.
Questa consuetudine ricorda il prodigio di una madre che ottenne dal Santo la rinascita del figlioletto annegato in una vasca piena d’acqua. Aveva promesso di dare ai poveri tanto pane quanto era il peso corporeo del suo bambino. Questa opera caritativa, che distribuisce cibo, è ancora attiva nei paesi del Terzo Mondo. Durante la celebrazione eucaristica per la festa di Sant’Antonio, anche a Mistretta e in tante altre località si ripete tuttora la tradizione del rito della benedizione del Pane di Sant’Antonio.
Per grazia ricevuta per intercessione di Sant’Antonio, le famiglie o le persone miracolate ringraziano il Santo mantenendo la promessa del voto. Esso consiste nel portare ceste colme di piccoli pani che, deposte ai piedi dell’altare, sono benedette dal celebrante durante la funzione religiosa. Alla fine della funzione il panino benedetto è distribuito ai presenti, ai parenti e alle persone care.

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L’iconografia rappresenta Sant’Antonio di Padova vestito con il saio dell’ordine francescano e con il volto giovanile. I simboli rappresentano momenti della sua vita: Gesù Bambino fra le braccia rievoca la visione avuta a Camposampiero, il giglio nella mano indica la sua purezza, il libro simboleggia la sua dottrina e la sua predicazione, il cuore, la fiamma e il pane ricordano il suo amore verso Dio e verso il prossimo, seduto su un noce, simboleggia la solitudine. Gli emblemi sono: il giglio e il pesce.

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Preghiera a Sant’ Antonio

Sant’Antuninu munachieddu finu,
‘n mirazza purtati lu santu Bamminu,
l’abbrazzati, lu strinciti,
la razzia chi v’addumannamu nni cunciriti.
Tririci razzi aviti ri cuntinuu,
facitimmilla a mia, Sant’Antuninu.

Sant’Antonio monachello fine,
in braccio portate il santo Bambino,
l’abbracciate, lo stringete,
la grazia che Vi domandiamo ci concedete.
Tredici grazie avete di continuo,
fatene una a me Sant’Antonio.

 

Oggi è il 13 giugno del 2017.
La comunità amastratina festeggia Sant’Antonio di Padova.

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Foto di Sebastiano Zampino

Dopo la celebrazione ecucaristica, la statua del Santo compie il cammino processionale lungo
le strade principali della città di Mistretta.
Per favorire l’uscita dalla Sua chiesa, gli organizzatori momentaneamente rimuovono una parte della ringhiera della cancellata.

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Foto di Luigi Marinaro

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Foto di Giuseppe Ciccia

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Foto di Paolo Trincavelli

Oggi, 13 giugno 2022, Sant’Antonio di Padova attraversa le vie di  Mistretta in cammino processionale.

https://youtu.be/MSuZwnTeOww

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LA CHIESA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA A MISTRETTA

La chiesa di S. Antonio di Padova, costruita nel  XVI secolo, è un piccolo tempio ad una navata che si può ammirare percorrendo la Via Anna Salamone. Una breve scala esterna e un modesto balconcino protetto da una ringhiera conducono all’interno della chiesa.

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 Importante è il portale che sostiene nella chiave di volta il volto scolpito in pietra di un bambino sormontato da un’altra figura a forma di cuore che protegge all’interno l’immagine del Santo.

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Nell’altare centrale la statua del Santo, opera dell’artista Noè Marullo del 1910, sorregge col braccio sinistro il Bambino che, con la sua manina, tenta di aggrapparsi al bavero di Sant’Antonio.

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La committente della statua di Sant’Antonio di Padova è stata la signora Filippa Marchese Varisano, la moglie del signor Antonino, la nonna della signora Maria Cecilia Marchese.

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Dalla viva voce della signora Maria Cecilia Marchese (nella foto) ascoltiamo il suo racconto:

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https://www.youtube.com/watch?v=yGKyAN33It0&t=14s

CLICCA QUI

 

 Importante è l’altare di marmi polIcromi

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Le altre statue sono quelle di San Ciro e di San Benedetto.

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Da ammirare è la cantoria dove, in diverse lunette, sono illustrati i miracoli del Santo e l’organo posto sopra di essa.

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Dono di una devota

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May 26, 2015 - Senza categoria    Comments Off on SOLANUM VILLOSUM

SOLANUM VILLOSUM

 

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Camminavo di fretta.

Il mio pensiero era lontano.

Stavo facendo l’elenco di tutte le incombenze che dovevo compiere in breve tempo nell’arco di quella mattinata.

Fermati, Nella!  Dove vai così di corsa?

Ci sono anch’io.

Sono il Pomodorino selvatico!

Cerco con gli occhi sbarrati.

Una piccola piantina, nascosta tra la sporcizia del marciapiede di una strada di Licata, sotto la quale sfortunatamente era capitata, mi sorride mostrandosi in tutta la sua modesta bellezza.

Sorrido anch’io.

Le dico piano piano: sei bellissima!

Ti mostrerò ai miei amici.

 

Il nome scientifico del Pomodorino selvatico giallo è Solanum villosum, ma possiede altri nomi: Morella rossa, Belladonna rossa.

Etimologicamente il nome del genere deriva dal latino “Solor” “io consolo” per le sue proprietà narcotiche e sedative. Il nome della specie indica la pelosità della pianta.

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Il Solanum villosum, appartenente alla famiglia Solanaceae, è una pianta erbacea annuale diffusa in Europa, nei Paesi del Mediterraneo, nel Nord dell’Africa, nell’America settentrionale  e in Australia.

Possiede i fusti eretti, molto ramificati, angolosi, alti da 20 a70 cm. Le foglie, verdi, picciolate, alterne, ovate, con la lamina a margine intero o superficialmente lobato o dentato e con evidenti nervature, sono leggermente pubescenti per la presenza di minuscoli peli.

I fiori, ermafroditi, piccoli, peduncolati, sono raccolti in infiorescenze ad ombrella a grappoli di 3-8 fiori. Il calice, infero, gamosepalo, vellutato, è diviso in 5 lobi. La corolla, superficialmente incisa in 5 lobi triangolari, è di colore bianco. Gli stami sono inseriti nel tubo della corolla e sono molti visibili le antere gialle. La fioritura comincia nel mese di aprile e si prolunga fino a dicembre. L’impollinazione e favorita dal vento e dagli insetti pronubi. La pianta emana un forte odore di muschio.

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 I frutti sono delle succose bacche sub-globose o leggermente ovoidali a due logge di 5-9 mm di diametro e, quando sono mature, assumono una colorazione rosso-aranciata. Contengono i piccoli semi, molto numerosi, di colore giallo pallido, lunghi 1,7-2,3 mm che favoriscono la moltiplicazione della specie vegetale.

I suoi habitat preferiti sono: i campi incolti, i margini delle strade e le sponde dei fiumi vegetando bene da 0 fino a 1000 metri sul livello del mare.

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Il Solanum villosum è una pianta commestibile ma velenosa per il contenuto di solanina, un alcaloide tossico, pertanto bisogna necessariamente non eccedere in quantità. Studi recenti hanno accertato che alcuni estratti dalle foglie e dalle bacche mature di Solanum villosum manifestano attività larvicida uccidendo larve di Culex quinque fasciatus, vettore di filariasi, e di Anopheles stephensi, vettore della malaria e di Stegomyia aegypti, vettore della febbre gialla.

In alcune zone dell’Africa,  dell’India, dell’Indonesia e della Polinesia le foglie e le bacche sono state a lungo adoperate come risorsa alimentare. Le foglie erano usate come verdure e dai frutti, anch’essi commestibili, si otteneva la tintura che permetteva di colorare di rosso i tessuti. Qualche utilizzo è stato sfruttato nei vari trattamenti terapeutici come sedativo.

May 17, 2015 - Senza categoria    Comments Off on HELICRYSUM ITALICUM

HELICRYSUM ITALICUM

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Fra tutte le piante che coltivo nella mia campagna di Licata l’Helichriso è quella alla quale rivolgo la mia maggiore cura perché ricorda una persona a me molto cara e che amava questa meravigliosa creatura.

 E’ Carmelo De Caro.

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Il cespuglio di Helichriso è posto nel giardino roccioso, di fronte all’ingresso principale del mio villino, cosi che Carmelo, limitato nei movimenti dalla sua invalidante malattia, poteva facilmente raggiungerlo per ammirare e accarezzare i capolini dei suoi fiori gialli.

L’Helichriso raggiunge il culmine della sua fioritura nel mese di maggio. Il 22 maggio, il giorno della sua morte, ho già pronto il miglior mazzo di Helicrisi da portargli al cimitero. Questo è il 15° anno!

Il genere Helichrysum, che comprende 500-600 specie, è stenomediterraneo. Il suo areale è distribuito prevalentemente nelle zone calde dell’Europa meridionale. E’ spontaneo in tutta Italia, soprattutto nelle regioni meridionali e nelle isole, in particolare in Sicilia dove è rappresentato da popolazioni localizzate in aree molto ristrette e dove forma piccole macchie riconoscibili per l’intenso profumo e per il brillante colore giallo dei suoi fiori. In Italia, a parte il manzoniano “Perpetuino”, le specie spontanee di Helichrysum che vivono fra le Alpi e le Madonie sono state denominate con numerosi appellativi regionali, anche se quelli più frequenti si riallacciano alla loro natura “immortale”. Valgono per tutti il dialetto ligure “sempiternu” e quello toscano “semprevivo”. L’Helichriso è conosciuto con molti altri sinonimi: “Tignamica, Semprevivo, Perpetuino d’Italia, Fiore immortale” proprio perchè i suoi capolini diventano fiori secchi che durano nel tempo.In francese èchiamatoImmortelle hélichryse d’Italie”.In tedescoItalienische strohblume”. In spagnoloSiempreviva italica”.Nel Regno Unito è conosciuto sotto il nome di “Everlasting Flower”.

Il genere Helichrysumappartiene alla famiglia delleAsteraceae e comprende numerose specie annuali e  perenni. Il primo studioso a descrivere e a classificare la specie fu il botanico tedesco Albrecht Wilhelm Roth.

Il nome Helichrysum deriva dal greco ήλιος “sole” e Χρύσεος” “aureo” vale a dire “sole dorato” per lo splendore dei suoi capolini alla luce del sole. Il suo colore e il suo intenso profumo non sfuggirono ai popoli antichi. I sacerdoti greci e romani con i fiori intrecciati, che non marciscono facilmente, formavano collane con le quali incoronavano le statue delle divinità di Apollo e di Minerva in segno di buon auspicio.

Nella mia campagna è presente l’Helichrysum italicum. E’ una pianta perenne suffruticosa che, con le sue numerose ramificazioni ascendenti, forma un piccolo cespuglio alto 30-40 cm di colore biancastro per il tomento di peli lisci, grigio-biancastri, che la ricoprono almeno nello stadio giovanile.

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Presenta un portamento piuttosto compatto per la presenza di numerosi fusti poco legnosi, eretti, provenienti da un’unica radice. Le foglie, eleganti, alterne, sessili, di colore verde-argentato, sono fitte, strette e lineari, filiformi, le inferiori lunghe meno di 3 cm e larghe circa 1 mm, lievemente tomentose e profumate. Hanno il margine ripiegato verso il basso e sono ricoperte sulle lamine da una fitta peluria. La peluria, dall’aspetto vellutato, protegge i rametti e le foglioline dalle condizioni avverse del clima, soprattutto dal calore estivo e dalla siccità dei luoghi rocciosi e aridi in cui l’Elicriso vegeta.

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 I fiori sono riuniti in piccole infiorescenze dette capolini localizzati all’apice dei fusti e disposti ad ombrello. I fiori centrali di ogni capolino sono piccolissimi, tubulosi ed ermafroditi, mentre quelli esterni sono solo femminili. Sono profumati, di colore giallo dorato luminoso e mantengono il colore anche in seguito all’essiccamento.  Numerose squame involucranti circondano i fiorellini veri e propri.

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 A Mistretta, lontano dalla costa,  l’Elicriso è presente più raramente ma, quando c’è, è ugualmente rigoglioso e facile da individuare passeggiando lungo i pendii delle montagne. Nelle giornate assolate si avverte il suo intenso profumo, conferito dalla peluria che lo riveste interamente, prima ancora di intravedere i suoi splendidi fiori. Il profumo è singolare, tanto che per alcuni è gradevolissimo, per altri quasi disgustoso, mentre altri ancora lo considerano piacevole proprio per la sua asprezza.

La fioritura comincia nel mese di maggio e si protrae fino all’inizio dell’autunno. L’impollinazione è entomofila, compiuta dalle api e da altri insetti pronubi. I frutti sono degli acheni lucenti, bianchi, globosi, con un pappo di peli semplici inserito nella parte superiore. La moltiplicazione avviene per talea nel periodo tra l’inizio dell’estate e la fine dell’autunno. Le specie perenni si propagano per divisione dei cespi o da seme in primavera.

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L’Elicriso è una pianta termofila. Preferisce i climi temperati caldi del bacino del Mediterraneo. E’, comunque, in grado di adattarsi anche ad ambienti temperati, perché ben riparato dal freddo. Cresce spontaneo dal mare alle colline litoranee fino a 700-800 metri di altitudine. Essendo una pianta rustica, l’Elicriso è facile da coltivare. I suoi habitat preferiti sono gli ambienti assolati, gli incolti, le garighe, le scarpate, i luoghi aridi, su terreni calcarei e poveri, rocciosi e sabbiosi e ben drenati. Teme il ristagno idrico per cui l’irrigazione è necessaria solo nelle prime fasi del ciclo colturale come “soccorso” nel caso di estati particolarmente asciutte e per favorire l’assorbimento del concime. Sopporta molto bene le alte temperature, ma le gelate prolungate possono causare la morte. Nelle zone a clima invernale si proteggono le radici con uno strato di paglia o di torba.

 La bellezza dell’Elicriso risiede nel portamento, nell’eleganza del fogliame e nelle copiose e durature fioriture, pertanto è adatto alla coltivazione in piena terra, per formare bordure delle aiuole e, soprattutto, come elemento decorativo dei giardini rocciosi. Una leggera potatura, per asportare le parti secche, sfiorite e deperite, migliora l’aspetto della pianta rendendola compatta e gradevole.

L’ Elicriso potrebbe essere attaccato dagli agenti patogeni quali Afidi e Cocciniglie. Si possono eliminare usando prodotti specifici e togliendo regolarmente le parti sfiorite, secche o malate. L’eccesso di acqua, che causa ristagni idrici, potrebbe fare marcire le radici. L’oidio, il “mal bianco“, è una malattia provocata dal fungo Uncinala. Si manifesta con macchie pulverulente grigio-biancastre che ricoprono gli organi verdi della pianta, con una graduale decolorazione della foglia che prima ingiallisce e successivamente appassisce.

L’ Elicriso è una pianta molto apprezzata nella medicina popolare per le tante proprietà terapeutiche, in profumeria e nell’arte culinaria. Le sue qualità officinali furono descritte da Plinio, da Geber, da Dioscoride, da Castore Durante.

Plinio il Vecchio, nella “Storia Naturale” (XXI, 168, 169), così scrive: “Heliochysum alii crysanthemom vocant, ramulos habet candidos, folia subalbida, habrotono similia, ad solis repercussum aureae lucis in orbem veluti corymbis dependentibus, qui numquam marcescunt; qua de causa deos coronant illo, quod diligentissime servavit Ptolemaeus Aegypti rex. Nascitur in frutectis. Ciet urinas e vino pota et menses.Duritias et inflammationes discutit, ambustis cum melle inponitur, contra serpentium ictus et lumborum vitia bibitur. Sanguinem concretum ventris aut vesciae absumit cum mulso.Folia eius trita trium obolorum pondere sistunt profluvia mulierum in vino albo. Vestes tuetur odore non ineleganti”.“Alcuni chiamano l’Eliocryso crisantemo, ha rametti candidi, foglie quasi bianche, simili all’abrotono, per riflettere della luce dorata del sole come con grappoli penzolanti in cerchio, che non marciscono mai; per tale motivo coronano gli dei con quello, cosa che molto diligentemente Tolomeo re d’Egitto conservò. Nasce nei frutteti. Agevola le urine e le mestruazioni bevuta col vino. Rimuove indurimenti ed infiammazioni, viene applicato col miele per le ustioni, si beve contro le ferite dei serpenti e i mali dei lombi. Toglie il sangue rappreso del ventre o della vescica con acqua e miele. Le sue foglie tritate con la dose di tre oboli nel vino bianco fermano i flussi delle donne. Protegge le vesti con l’odore non sgradito”.

Anche Castore Durante confermava che l’Elicriso “ha facoltà incisive, è caldo e secco”. Aggiunge: “I fiori cotti in vino cacciano fuori i lumbrici. Il seme pesto, et preso col vino moltiplica il latte”.

Racconta il Mattioli: “Lo elicrisio il qual chiamano alcuni crisantemo, e altri amaranto (…). Giova la sua chioma bevuta con vino al morso dei serpi, alle sciatiche, alle distillazioni dell’orina, e ai rotti, provoca i mestrui. Bevuto con vino mielato resolve il sangue appreso alla vescica; e parimenti nel ventre. Bevuto medesimamente da digiuno in vino bianco innacquato al peso di tre oboli proibisce il catarro che scende dal capo“.

La droga viene estratta dalle sommità fiorite dell’Elicriso, raccolte all’inizio della fioritura, che è il “periodo balsamico”, cioè il periodo in cui la pianta è maggiormente carica dei principi attivi, e lasciate essiccare in luoghi ventilati e al buio. Esse conservano a lungo il colore e l’aroma anche dopo l’essiccazione. I principi attivi sono: l’elicrisina, un complesso di flavonoidi, un olio essenziale e molti minerali. La via di assunzione potrà essere interna, mediante infusi, decotti ed estratti alcolici, ed esterna sotto forma di pomate, di impacchi e di colliri. Il decotto, ottenuto facendo bollire 2 grammi di capolini in 100 ml di acqua e bevendone due o tre tazzine al giorno, è indicato per sedare la tosse, per favorire l’eliminazione del catarro bronchiale, per attenuare gli attacchi di asma e le infiammazioni di origine allergica della mucosa nasale. Sono stati anche riscontrati utili effetti contro l’emicrania, nell’artrite e nelle forme reumatiche acute.Un ostacolo all’utilizzo dell’infuso è costituito dal sapore molto intenso e non a tutti gradito dell’Elicriso, per cui oggi si preferiscono preparati già pronti in capsule, anche in associazione con altre piante che rafforzano e ampliano la sfera d’azione. Per uso esterno l’Elicriso agisce beneficamente sulla psoriasi e sugli eczemi, lenisce le ustioni, cura gli eritemi solari e aiuta la regressione dei geloni e degli edemi dovuti a stasi della circolazione degli arti inferiori e delle infiammazioni delle emorroidi. Si ottengono ottimi risultati applicando sulle parti interessateimpacchi, pomate, creme, unguenti.Un pugno di sommità fiorite, infuse nell’acqua del bagno, giova alle pelli delicate e irritate dagli agenti atmosferici.

L’olio essenziale di Helichrysum è estratto dalla pianta intera, escluse le radici, per distillazione a vapore. I costituenti principali dell’olio sono: flavonoidi, tannini, oli essenziali, resine, neroli, acetatodi nerile, acido ursolico, acido oleanolico, acido caffeico, geraniolo. Questo olio, per le molte proprietà terapeutiche che possiede, è molto usato in aromaterapia e in profumeria. E’ uno dei migliori oli da utilizzare sulla pelle. Combattere i danni dell’invecchiamento, favorisce la rigenerazione di nuove cellule cutanee. E’ un valido aiuto  nella guarigione di cicatrici, di acne, di dermatiti, di smagliature, di foruncoli e di ascessi. Stimola e tonifica il corpo, rinforza il sistema immunitario e allevia le allergie. Applicato esternamente, si usa come crema idratante. Non ci sono controindicazioni all’uso dei derivati di questa piantatranne l’ipersensibilità individuale. Queste indicazioni non possono sostituire la diagnosi del medico, che bisogna sempre consultare prima dell’assunzione di qualunque rimedio.

 L’Elicriso è apprezzato anche in cucina. Le foglie hanno un aroma simile a quello del curry e si utilizzano per insaporire risotti, minestre, ripieni, piatti di carne e di pesce e per la preparazione di insalate. Il sapore di curry delle foglie si sviluppa quando sono pestate ed è possibile utilizzarle in polvere, frantumandole in un mortaio con uno spicchio d’aglio, peperoncino e olio oppure triturandole in un frullatore. I fiori possono essere utilizzati per la preparazione di infusi e rilassanti tisane. L’olio essenziale aromatizza ed esalta i sapori di: frutta, dolci, gelati, prodotti da forno, bibite e gomme da masticare. L’Elicriso era usato per bruciare le setole del maiale credendo che l’aroma si trasmettesse al lardo.

I fiori secchi, disposti a mazzetti, erano usati per profumare gli ambienti e per proteggere dentro gli armadi gli abiti allontanando tarli e tignole. L’Elicriso, a scopo ornamentale, è utile per formare composizioni di fiori secchi, per addobbare ghirlande e corone di fiori.

Curiosità: L’intenso profumo dell’Elicriso permetteva a Napoleone di riconoscere l’odore della Corsica, la sua terra, quando si trovava ancora in mezzo al mare e lontano dalla vista dell’Isola dove questi fiori crescono particolarmente abbondanti e odorosi.

 

 

May 11, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LE PEONIE

LE PEONIE

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Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta è possibile ammirare in questo periodo un bellissimo e ricco cespuglio di Peonia arbustiva che, grazie alle costanti cure del giardiniere, il signor Orazio Scilimpa, ha saputo resistere alle rigide temperature di questo freddo inverno mistrettese.

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La Peonia, appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, detta anche “Rosa d’inverno”, proviene dalla Peonia, regione della Macedonia settentrionale, dalla quale prende il nome di origine greca “Пαιονία”, e da dove si diffuse in Asia, in Cina, in Giappone e in Europa. Esistono diverse specie di Peonie sia erbacee sia arbustive provenienti per ibridazione con la Peonia officinalis, che nel mese di luglio si copre di fiori rosa,e soprattutto dall’incrocio con la Peonia lactiflora che fiorisce tardivamente. Mostrano un aspetto sublime, emanano una fragranza che incanta, sono un trionfo di colore. Tutte le specie di Peonie arbustive, chiamate anche arboree o legnose, possiedono radici rizomatose, veri e propri rami legnosi che danno alla pianta adulta una forma tondeggiante e sui quali, in primavera, spuntano i getti portanti foglie caduche e fiori ermafroditi magnifici, profumati, soffici, carnosi, di una gran varietà di colori, che presentano stami molto numerosi e semi molto grossi.

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Purtroppo la fioritura delle Peonie è piuttosto breve, appena una quindicina di giorni all’anno, ma i fiori recisi impreziosiscono qualsiasi ambiente. Dopo la fioritura, il ciuffo di foglie ingiallisce progressivamente fino all’autunno. Compariranno subito dopo nuovi getti che, però, non si svilupperanno fino alla primavera successiva.

Per ottenere dalle Peonie il massimo rigoglio fiorale è bene lasciarle indisturbate nello stesso luogo per almeno sei anni. La moltiplicazione avviene per seme in autunno. I semi germineranno lentamente e le nuove piante cominceranno a fiorire dopo 7-8 anni. E’ consigliabile effettuare la divisione dei cespi.

Le Peonie arbustive tendono a crescere in altezza e in larghezza, come tutti i cespugli, raggiungendo, in alcuni casi, dimensioni ragguardevoli fino ad un metro.

Coltivare le Peonie, sia in piena terra sia in vaso, non è difficile perché sono piante di grande adattabilità e poco esigenti. La Peonia è una pianta che si può coltivare nel giardino per tutto l’arco dell’anno, non teme il freddo e si adatta ad un clima rigido sopportando bene le asprezze invernali.

Per uno sviluppo equilibrato è opportuno piantarla in luogo dove non ci sono correnti d’aria e dove può ricevere almeno alcune ore di luce solare diretta o in ombra leggera, particolarmente adeguata alle varietà dai colori scuri che al sole tendono a sciuparsi.

La Peonia arbustiva, però, va collocata al riparo dal sole del mattino che, riscaldando le gocce di rugiada della notte, potrebbe rovinare i boccioli. Vive in quasi tutti i terreni preferendo quelli soffici, profondi, umidi, ben drenati evitando gli eccessi e i ristagni d’acqua. Sopporta sia pH acidi, sia calcarei, ma l’optimum è il pH neutro.

Le Peonie crescono estendendosi, quindi è necessario distanziarle tra loro poiché hanno bisogno di molto spazio per espandere le loro radici.

Le Peonie sono molto longeve: quando si pianta una Peonia, si pianta perché duri per tutta la vita. Non amano essere disturbate, perciò, una volta piantate, non andranno più spostate.

La diffusione delle Peonie nei giardini italiani è ancora relativamente limitata e, solo da pochi anni, grazie al lavoro del giardiniere, si comincia ad apprezzare il grande effetto decorativo.

La fioritura, che avviene fin dalla metà di aprile fino alla fine di giugno, è una delle soddisfazioni più grandi per il signor Orazio Scilimpa  che ha saputo accostare meravigliosamente la morbida opulenza dei loro fiori alle altre varietà di piante vicine.

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 Il periodo migliore per piantare le Peonie va da settembre agli ultimi giorni di novembre. Piantandola in autunno si permette alla Peonia di sviluppare e di ramificare il suo sistema radicale prima dell’inizio della ripresa vegetativa.

Le Peonie possono essere coltivate in aiuole da sole o assieme ad altre piante. Per fare risaltare la loro bellezza, è bene circondarle di una corta siepe di bosso. Le Peonie sono coltivate a scopo ornamentale e, pur non richiedendo cure particolari, sanno esprimere al meglio le proprie capacità decorative grazie alla delicatezza e alle splendide sfumature cromatiche dei fiori.

Sono piante rustiche e resistenti agli insetti ma, in caso di eccessiva umidità, sono facilmente attaccate da agenti che causano rapidi appassimenti delle foglie e dei boccioli.

Il clima primaverile, con un elevato sbalzo termico tra le ore diurne e quelle notturne e le piogge abbastanza frequenti possono favorire lo sviluppo di malattie fungine che vanno trattate preventivamente con un fungicida specifico da utilizzare prima che le gemme ingrossino eccessivamente.

Le Peonie si possono riprodurre per semina, da effettuare verso la fine dell’estate ma, siccome fioriscono lentamente, è sempre preferibile una propagazione per talea, per suddivisione dei cespi o per sfoltimento delle radici. Subito dopo la fioritura, è bene ripulire i cespi della pianta togliendo i rami secchi.

“[…] La Peonia è il capolavoro dei cinesi. E’, bisogna aggiungere, la massima sublimazione del cavolo: guai se nella manifestazione più alta non si percepisse anche un’ombra della più infima. Mi è difficile esprimere la grande passione che ho per le peonie […]”. In accordo con la filosofia orientale, così si è espresso il botanico Ippolito Pizzetti a proposito delle Peonie.

In oriente e in particolare in Cina “la regina dei fiori” è oggetto di un vero e proprio culto. Già mille anni prima di Cristo era protetta dagli imperatori che pagavano generosamente le varietà più belle favorendo così il lavoro d’incrocio e di selezione degli ibridi. Grazie al favore degli imperatori, le Peonie diventarono il principale motivo decorativo delle porcellane cinesi.

Tutte le Peonie erano conosciute nell’antichità soprattutto per le loro virtù medicinali e considerate il rimedio di tutti i mali.

I decotti curavano gli squilibri mentali e tutti i dolori in genere. Infatti i Greci e i Romani usavano gli estratti di Peonia per combattere l’epilessia, l’insonnia e per guarire le piaghe infette. In seguito si scoprì che la Peonia, pur avendo proprietà antispasmodiche, era fortemente tossica quindi si doveva usare con molta precauzione.

Per Plinio il Vecchio la Peonia era la pianta del dio Peone.

Il dio Peone fu tramutato in questo bellissimo fiore, la Peonia appunto, dopo aver liberato Latona dai dolori del parto.

La mitologia greca racconta che Peone, medico degli dei ed allievo di Esculapio, ha curato Plutone da una brutta ferita utilizzando radici di Peonia. Il dio Plutone, per ringraziarlo e per sottrarlo all’invidia dei colleghi, gli diede il dono dell’immortalità. Lo trasformò nel più bel fiore di Peonia.

 In Europa, il valore ornamentale delle Peonie, soprattutto di quelle arboree, sconosciute nel nostro continente, è stato apprezzato già dal XVIIII secolo. Alcuni botanici inglesi e francesi, di ritorno dai loro viaggi, hanno introdotto la pianta e ne hanno favorito la coltivazione. Bisogna aspettare i primi anni del ‘900 perché, grazie al lavoro degli studiosi francesi Louis Henry, Maxim Cornù e Pierre Le Moine, si sono potute ammirare le prime Peonie gialle a grande fiore enorme doppio, ibridi della Peonia suffruticosa, coltivata per secoli in Cina e in Giappone, e i fiori della Peonia lutea descritta per la prima volta e portata in Europa, dalla Cina, dall’abate Delavay alla fine dell’800 insieme a quella che verrà chiamata Peonia delavayi.
Esistono anche diversi ibridi di Peonie arbustive che, in genere, sono precoci ma lente nella crescita: fioriscono per circa un mese a partire dalla metà di aprile. Sono piante bellissime e, tra le migliori varietà, si notano la “Peonia suffruticosa”, la “Fragrans Maxima Plena”’, dai fiori stradoppi di forma perfetta, dal colore rosa salmone chiaro, leggermente profumati.

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I primi ibridi di Paeonia lutea, ottenuti dai francesi, hanno, però, lo stelo floreale debole ed il fiore talmente pesante che tende a piegarsi verso il suolo e si deve sostenere con dei tutori se si vuole apprezzare totalmente l’effetto decorativo. Per ovviare a questo inconveniente Saunders, negli anni ’50, negli Stati Uniti, selezionò, con una serie di incroci miranti ad aumentare la robustezza dello stelo ed il vigore vegetativo della pianta, tutta una serie di ibridi a fiore semplice, di grande effetto ornamentale e ad accrescimento più rapido sia delle varietà di Paeonia suffruticosa, sia degli ibridi francesi di Peonia lutea. Altri appassionati americani proseguirono il lavoro di Saunders.

Nassos Daphnis fu il creatore di alcuni fra i più splendidi ibridi di Peonia lutea come la varietà “Gauguin”, che deve il nome allo splendido effetto cromatico del suo fiore rosso e giallo, la varietà “Leda”, e la varietà “Zephirus”.
Un nuovo fronte dell’ibridazione delle Peonie è stato aperto negli anni ‘70 dal giapponese Toichi Itoh che riuscì ad incrociare una varietà di Paeonia lactiflora con un ibrido di Peonia Lutea. Ha ottenuto una pianta che ha riunito i caratteri di un’erbacea, cioè il disseccamento in autunno della parte aerea erbacea, e di un’arborea, cioè la ramificazione del fusto e un migliore aspetto delle foglie e dei fiori.

 Nel linguaggio dei fiori la Peonia è simbolo “di vergogna, di timidezza, di bellezza che “incanta”.

May 4, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA CLEMATIS SUPERBA NELLA CAMPAGNA DI MISTRETTA

LA CLEMATIS SUPERBA NELLA CAMPAGNA DI MISTRETTA

Il mio amico, il dott. Luigi Marinaro, ancora una volta mi stimola a descrivere un genere di piante semplici, ma molto belle. Sono le Clematidi. Le fotografie, che gentilmente mi ha inviato tramite mail, scattate da Luigi nella campagna di Mistretta, riproducono la Clematide vitalba.

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Foto di Luigi Marinaro

https://youtu.be/8IbY-wLesSQ

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Il genere Clematis, appartenente alla famiglia delle Ranuncolaceae, conta oltre 300 specie fra piante erbacee e legnose, delicate, rustiche e meno rustiche, sempreverdi e caducifoglie e, solitamente, rampicanti. Le specie a portamento rampicante mostrano un aspetto vigoroso per la presenza di fusti flessuosi e parzialmente lignificati.
Il nome generico “Clematis”, attribuito da Dioscoride, deriva dal greco “κλείω”, “richiudere, circondare”, cioè “pianta volubile”, per indicare il portamento della pianta. Per questo motivo preferisce crescere insieme con altre piante alle quali si appoggia come sostegno.
Le Clematidi sono piante cosmopolite: provengono tutte dall’America, dalla Siberia, dalla Cina e sono presenti in Giappone, sull’Himalaya e in Europa. Le Clematidi erano piante ampiamente coltivate dai romani che ne ricoprivano i muri delle abitazioni credendo in un loro potere magico, quello di tenere lontani i fulmini e di scacciare gli spiriti maligni.
In Inghilterra dagli inglesi furono soprannominate “traveller’s joy” ,“gioia del viandante” perché crescevano libere anche nei boschi e ai margini delle strade. Un nome, questo, davvero appropriato!
Viaggiando attraverso l’Inghilterra, quando le Clematidi in primavera iniziano a fiorire, guardare il susseguirsi di queste esplosioni di colori è una vera gioia per lo spirito. Gli inglesi sono stati i primi a coltivare le Clematidi come piante ornamentali verso la fine del 1500 sotto lo scettro di Her Majesty Queen Elizabeth I. Dopo tre secoli d’oblio, furono reintrodotte come piante esotiche decorative esclusivamente per la suggestione dei colori dei fiori. Pur essendo presenti da millenni nel territorio europeo, comparvero nei giardini italiani soltanto nel Medioevo, proprio al ritorno dei Crociati.

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In Italia esistono diverse specie di Clematidi che crescono spontaneamente dagli 800 ai 1900 metri d’altitudine. Nella villa comunale di Mistretta ha trovato il suo habitat favorevole e coltivata per renderlo ancora più bello, la “Clematis jackmanii superba”, l’“azzurra”, considerata da molti la regina di tutte le piante rampicanti. Si trova esattamente dietro il sedile, alla destra del monumento al cav. Vincenzo Salamone, abbracciata ad un sostegno metallico.

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E’ veramente una delle più incantevoli creature che si coltivano nella villa. I suoi pregi sono innumerevoli: la bellezza del fiore, la velocità di crescita, la grande capacità d’adattamento. La Clematis jackmanii superba è una pianta capricciosa, dopo una prima stagione di fioritura incoraggiante muore di colpo, però rifiorisce quando lo ritiene opportuno. E’ una piccola pianta perenne attaccata al terreno mediante le radici fittonanti e sostenuta da un fusto lianoso legnoso, volubile, lungo qualche metro. E’ di colore verde bruno e liscio nella pianta giovane, poi diventa rossiccio e solcato longitudinalmente e a sezione esagonale nella pianta adulta. E’ rivestito da una corteccia fibrosa che si distacca in lamelle.
Le foglie, di colore verde chiaro, decidue, romboidali, semplici o composte da tre foglioline, a margine seghettato o dentato, più o meno appuntite, sono sostenute da un picciolo lungo ed esile avente la funzione di cirro. La struttura del fiore della “Clematide” è in una posizione intermedia tra quella del fiore “classico” con calice e corolla ben distinta e quella tipica delle Monocotiledoni, con un perigonio a tepali indistinti.
Il fiore, secondo la specie, è di varia forma e presenta una vastissima gamma di colori: dal bianco, al rosso, al blu, all’azzurro, al viola, al rosa, al giallo e, qualche volta, è anche profumato. La Clematide mistrettese è di colore azzurro violetto.

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Il fiore è privo di corolla, ma provvisto di un vistoso calice formato, di solito, da 4, 5 sepali che hanno la funzione di proteggere gli organi sessuali quando il fiore è chiuso e la funzione di attirare gli insetti impollinatori quando il fiore è schiuso. Il calice, simile ai petali, ha la forma di campana o di coppa.
Al centro del fiore si trovano gli elementi, chiamati petali staminoidali, derivanti dalla modificazione degli stami e riconoscibili da questi ultimi per la presenza di una nota di colore. L’impollinazione è anemofila, tramite il vento, ma il fiore è frequentato anche da diversi insetti che afferrano il polline, quindi non è esclusa anche l’impollinazione entomofila. La Clematide è molto decorativa proprio per i suoi fiori singoli, vellutati, di colore viola-blu. Fiorisce all’inizio dell’estate e la fioritura di prolunga per un lungo periodo.
Il frutto è composto da numerosi acheni sormontati da un’appendice piumosa per favorire la disseminazione.
Ogni frutto ha un solo seme. La riproduzione avviene per semina, per talea e per propaggine.

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La pianta necessita di un terreno ricco di humus, piuttosto umido, ma ben drenato.
Poiché le Clematidi amano un clima abbastanza umido, dalla primavera all’autunno è indispensabile annaffiare il terreno attorno ai loro piedi con regolarità.
Le Clematidi rampicanti dovrebbero avere la parte aerea esposta al pieno sole del mattino, mentre la base del fusto protetta dall’ombra. Tutte le Clematidi resistono bene a temperature minime invernali che scendono anche di diversi gradi sotto lo zero. Dopo la fioritura, le Clematidi rampicanti non richiedono una vera e propria potatura, piuttosto una regolare ripulitura dai rami secchi o rovinati dal freddo.
Non tutte le Clematis si potano nello stesso periodo. In genere, vanno potate a fine inverno. In primavera nuovi germogli nasceranno dalle gemme presenti sui fusti. Le piante contengono varie sostanze: alcaloidi, anemonina e, in particolare, la saponina, che le rendono velenose. Questa pericolosa miscela di sostanze procura gravi irritazioni cutanee.
Troppo amata nel Medioevo per non finire sul rogo delle streghe nella così detta età della Ragione! In fitoterapia un tempo erano usate le foglie fresche in cataplasmi quale rimedio contro artriti, sciatiche e contusioni, ed essiccate con proprietà diuretiche e depurative. Anticamente, nella cura della scabbia si usava l’olio ricavato dalla macerazione delle foglie ma, a contatto della pelle, provocava fastidiose ulcere.
Una volta era usato dai mendicanti per procurarsi delle dolorose ferite in modo da impietosire i passanti e indurli all’elargizione dell’elemosina, onde il nome popolare di ”erba dei cenciosi”. Oggi l’impiego di questa pianta in campo erboristico è stato completamente sostituito da piante con le stesse proprietà, ma con minori controindicazioni.
In cucina si possono fare deliziose frittelle. I teneri germogli, che in dialetto mistrettese sono chiamati “Liareddi” e sono raccolti nei “ruvietti”, nelle piante di rovo, possono essere cotti e conditi con sale, olio, aceto e aglio, oppure cucinati a frittata con le uova.

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 Le Clematidi che oggi crescono nei nostri giardini sono ammirate per la loro bellezza ed eleganza e non per fra frittate o curare le ferite! I rami della pianta, privati delle foglie, raccolti nel periodo autunnale e sfruttando la loro flessibilità, in passato erano usati per intrecciare panieri, cesti, coroncine.
I fusti secchi erano usati come sigari che provocavano infiammazioni alle mucose della bocca e della gola.
LemClematidi hanno alcuni nemici naturali: le lumache che si nutrono dei germogli giovani. Le strisce argentee di muco indicano il passaggio o la loro permanenza sulla pianta.
La Forbicina è un parassita tipico delle Clematidi e attacca i fiori. E’, comunque, considerato “insetto utile” perchè si nutre anche delle uova di altri parassiti. Altre malattie sono: il seccume, che comporta l’appassimento e la morte dei germogli, e l’Oidio, il mal bianco, che si manifesta come una muffa biancastra sui fiori e sulle foglie.
Nel linguaggio dei fiori, la Clematis indica “intelligenza limpida, onestà e bellezza interiore”. E’ il fiore adatto a chi sogna ad occhi aperti, a chi vive tra le nuvole, tra fantasie personali, a chi ha scarso interesse per la vita, a chi spera in un futuro migliore rispetto al mondo presente.

 

Apr 28, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL CHRYSANTHEMUM CORONARIUM NELLE STRADE PERIFERICHE DI LICATA

IL CHRYSANTHEMUM CORONARIUM NELLE STRADE PERIFERICHE DI LICATA

 

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Chrysanthemum è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Asteraceae e comprende piante erbacee perenni o annuali presenti in  molte parti del mondo, dall’Europa alla Cina. Il termine Chrysanthemum deriva dal grecoΧρύσεος” “aureo” e “άνθος” “fiore” vale a dire “fiore d’oro“. In Corea e in Cina il Crisantemo è il fiore delle feste, mentre in Giappone è il fiore nazionale.
La sua bellezza è celebrata ogni anno dall’Imperatore che, in occasione della fioritura, apre al pubblico i giardini della sua Reggia presentando a tutti gli invitati le più recenti varietà di crisantemi. In questi paesi, e in oriente in generale, il Crisantemo simboleggia la vita.
E’ raffigurato in diverse opere d’arte: nei dipinti, nella letteratura, nei tessuti ricamati. Il Giappone è stato il primo paese a creare un giardino dedicato esclusivamente alla coltivazione di Crisantemi dove si possono osservare esemplari molto belli e decorativi.
Le mie fotografie, scattate nel territorio di Licata, ritraggono il Chrysanthemum coronarium che, in questo periodo, riempie le campagne incolte, i bordi delle strade, i marciapiedi.

https://youtu.be/g3PSZfzh7zo

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Il Chrysanthemum coronarium è conosciuto con i sinonimi: Glebionis coronaria, Crisantemo giallo, Fior d’oro, Bambagella, Pinardia coronaria, Chrysanthemum spatiosum.
Gli inglesi lo chiamano: Crown Daisy, Garland Chrysanthemum, Chop-suey greens.
Il nome specifico “coronarium” deriva dal latino “corona” per la disposizione dei fiori.
Il Chrysanthemum coronarium è una specie originaria delle regioni del Mediterraneo e dell’Asia orientale.

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E’ una pianta erbacea, annuale, cespitosa, alta circa 30-120 cm, che emana un forte odore aromatico. Possiede fusti eretti e molto ramificati.
Le foglie, di colore verde chiaro, sono sessili, profondamente divise in lobi lanceolati, la maggior parte bipennapartite, assai frastagliate, quelle di secondo ordine sono spesso dentate.

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L’infiorescenza a capolini, di 30-50 mm di diametro, sorretta da peduncoli ingrossati all’apice, è formata da un disco centrale di fiori tubulosi giallo-aranciato circondati da fiori periferici ligulati pure di colore giallo.
Le foglie del calice sono ovali e spesso con bordi nerastri.
La fioritura si prolunga da aprile ad agosto, ma è precoce in condizioni di caldo estivo. A Licata grandi quantità di piante sono fiorite già a partire dal mese di febbraio.
I frutti sono degli acheni lunghi 2- 3 mm.
Quelli periferici sono con tre ali laterali, di cui la mediana più sviluppata, quelli centrali sono tetragoni e strettamente alati sull’angolo interno. La riproduzione avviene prevalentemente per seme.

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I suoi habitat preferiti sono: i campi coltivati e incolti, i vigneti, i ruderi, i muri.
E’ presente in tutta la nostra penisola vegetando bene dalla pianura fino a 600 metri di altitudine.

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Il Chrysanthemum coronarium è una pianta spontanea, però, per la sua bellezza e per la vivacità del colore giallo può essere coltivata in un qualsiasi giardino come avviene in Emilia e in Lombardia.
Gradisce vegetare su un terreno fertile, sciolto e ben drenato, con una buona esposizione al sole e una temperatura gradevole che, in inverno si aggira intorno a 4-13 °C.
Le annaffiature devono essere regolari e la concimazione periodica.
Il Chrysanthemum coronarium può essere attaccato da diversi agenti patogeni responsabili di malattie anche gravi.
Gli Afidi attaccano foglie e fiori. Succhiano la linfa rendendo la pianta appiccicosa.
I Tripidi, piccoli insetti neri, saltando da pianta a pianta, pungono i boccioli fiorali, che si deformano, e le foglie sulla cui pagina inferiore compaiono macchie nerastre.
Le larve della Minatrice delle foglie possono distruggerle completamente scavando gallerie.
Il Nematode del crisantemo attacca le foglie determinando, dapprima, la comparsa di macchie brune tra le nervature e successivamente l’annerimento e l’appassimento dell’intera foglia. Nei casi gravi la pianta potrebbe morire.
Piccoli insetti volanti possono attaccare le foglie.
Si riconoscono perché, scuotendo la pianta, si determina la comparsa di una “nuvola bianca”.
l Ragnetto rosso è un acaro che si sviluppa facilmente in ambienti caldi e secchi.
Il Carbone si manifesta con la comparsa di macchie di colore marrone-rosato, piccole come la capocchia di uno spillo, sui fiori del raggio. Successivamente le macchie aumentano di dimensione, assumono un colore nerastro e si coprono di una muffa grigiastra.
Alla fine il fiore diventa bruno-nerastro. Le piante ammalate devono essere eliminate.
Macchie tondeggianti e nerastre sulle foglie di solito sono dovute alla cattiva ventilazione e ad un eccesso di azoto nella concimazione.
La Tracheomicosi è una malattia fungina che colpisce le piante determinandone l’avvizzimento a partire dalla parte inferiore.
Le piante infette devono essere eliminate e il terreno disinfettato.
Per combattere questi agenti patogeni è utile l’impiego di prodotti specifici.
Il Chrysanthemum coronarium è molto usato nella gastronomia asiatica come verdura, perché ricco di minerali e vitamine, e per il suo particolare aroma.
Le foglie e i giovani germogli sono commestibili e possono essere impiegati in stufati, in casseruola, in minestroni o solamente come contorno di altri piatti. Tuttavia, ingeriti in quantità eccessiva, anche se sono state osservati potenziali effetti benefici per la salute umana, a lungo termine possono manifestare tossità.
Ritenuta pianta infestante di alcune colture dell’area mediterranea, ricerche del CNR di Sassari hanno dimostrato che è una buona foraggiera per gli ovini al pascolo stimolando una più abbondante produzione del latte.

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In fitoterapia il Chrysanthemum coronarium è usato per le sue proprietà antiossidanti.
Estratti  di Chrysanthemum coronarium hanno dimostrato di inibire la crescita del Lactobacillus casei, un batterio intestinale.
Nel linguaggio dei fiori il Crisantemo giallo indica un “amore trascurato”.

Apr 17, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA WISTARIA SINENSIS NELLA MIA CAMPAGNA A LICATA

LA WISTARIA SINENSIS NELLA MIA CAMPAGNA A LICATA

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Con grande sorpresa improvvisamente nella mia campagna oggi ho trovato le piante di Glicine cariche dei loro bellissimi fiori.
E’ uno spettacolo ammirarle!

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https://youtu.be/wrw4MOk5hOo

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La denominazione comune “Glicine” deriva dal fatto che, in precedenza, questo rampicante era attribuito al genere “Glycinia”, termine derivante dal greco “γλυκύς”, “dolce” in ricordo del nettare dolciastro e vischioso contenuto nel cuore dei fiori raccolti in lunghi e profumati grappoli e particolarmente ricercato dalle api.
Il nome scientifico è Wistaria, o Wisteria.
Il botanico americano Thomas Nuttall attribuì a questa pianta il nome scientifico “Wistaria” in onore dello studioso tedesco Caspar Wister, (1761-1818), allora famoso docente di anatomia all’Università di Filadelfia e grande promotore delle Scienze. Dal 1818 prese questo nome.
Il suo cognome tedesco era Wüster ma, oltre oceano, è stato storpiato in Wister e pronunciato, in inglese, Wister.
Ecco perché la doppia denominazione odierna del Glicine: Wisteria o Wistaria.
Il primo esemplare di Wisteria,  proveniente dall’America settentrionale, fu introdotto in Europa nel 1724 e fu chiamato inizialmente Glycine frutescens da Carl Linneo.
Oggi è la varietà Wisteria frutescens.
Il Glicine cinese, proveniente dal giardino di un mercante di Consequa, fu portato in Inghilterra dal Capitano Welbank nel 1816 e fiorì tre anni dopo suscitando una grande ammirazione. Fu chiamato Glycine sinensis. La Wisteria sinensis “Alba”, a fiori bianchi, fu introdotta dalla Cina nel 1844 dallo studioso Fortune.

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 Il Glicine giapponese, già conosciuto e descritto da Kaempfer nel 1712, fu trasportato in Europa, assieme ad altri esemplari, dal fiammingo von Siebold nel 1830, ma la guerra in Belgio fece disperdere tutte le piante. Solo quando il grande medico-botanico ne tornò in possesso, allora iniziò a coltivarle. Sicuramente anche la Wisteria brachybotrys fu coltivata dal von Siebold, ma fu De Candolle, nel 1825, a classificare il Glicine giapponese a fiori lunghi come la Wisteria floribunda.
La Wistaria sinensis, proveniente dalla Cina, è stata introdotta in Inghilterra nel 1816 ed è la varietà più comune e coltivataa scopo ornamentale,unitamente alla Wistaria floribunda alba, per la fioritura molto abbondante ed appariscente.
Nel 1920 il naturalista Collingwood, presso Kasukabe, in Cina, incontrò un vecchio Glicine di Wisteria floribunda la cui circonferenza del tronco misurava 9 metri e i grappoli dei fiori furono contati in numero di 80.000.
In Italia le varietà di Wisteria presenti sono raggruppate secondo il colore del fiore e comprendono: Wisteria sinensis, Wisteria floribunda longissima alba, Wisteria frutescens, Wisteria brachybotrys, Wisteria macrostachya.  

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Il Glicine è una meravigliosa pianta rampicante ornamentale che, con grazia e con semplicità, si aggrappa ad un cancello, ad un recinto, ad un muro, a tutto da cui può ricevere sostegno. Probabilmente è la pianta più amata per la sua eleganza e per la sua raffinatezza. La linea sinuosa del fusto, la spettacolare profumata abbondante fioritura imposero il Glicine come elemento decorativo di gran rilievo dello stile Liberty per l’atmosfera romantica che seppe creare attorno a sé. Per la sua facilità d’adattamento ai climi e ai terreni, divenne la pianta rampicante più frequente usata per ingentilire l’androne delle ville italiane distribuite in tutta la penisola.
I Glicini sono originari della Cina, del Giappone, della Corea e dell’America.
Dal punto di vista botanico è interessante osservare il differente attorcigliamento dei fusti delle piante secondo il luogo d’origine: nelle varietà che provengono dal Giappone, Wisteria floribunda e Wisteria Brachybotrys, il fusto si attorciglia in senso orario, nelle varietà che provengono dalla Cina, Wisteria sinensis, e dall’America, Wisteria frutescens, il fusto si attorciglia in senso antiorario.
Le varietà di Glicine presentano fiori di diversi colori. Predominano: il bianco, il violetto, il celeste, il rosa, il porpora.
La Wistaria sinensis, il “Glicine”, presente nel mio giardino a Licata, è una pianta arbustiva rustica e vigorosa appartenente alla famiglia delle Leguminosae. Presenta un apparato radicale robusto, che si espande facilmente nel sottosuolo, da cui partono i fusti sarmentosi e volubili che raggiungono la lunghezza in orizzontale anche di 20 metri.
Nelle prime fasi dello sviluppo i fusti necessitano di supporti di vario genere su cui appoggiarsi. In seguito lignificano e diventano veri e propri tronchi anche di notevole diametro alla base.
I rami sono ricadenti, contorti e ricoperti da una corteccia molto spessa. Le foglie, imparipennate, composte, formate di solito da 11 foglioline ovali, lanceolate, con l’apice acuminato, disposte a coppie lungo un picciolo centrale piuttosto rigido, di colore verde chiaro all’inizio della primavera e di colore verde scuro quando la pianta è in piena vegetazione, ricoperte di peluria setosa allo stadio giovanile, poi glabre, sono decidue, quindi cadono durante i mesi freddi dell’anno.

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I fiori, ermafroditi e intensamente profumati, sono riuniti in vistose infiorescenze a grappolo, pendenti, lunghe fino a 30 centimetri.
La corolla papilionacea è di colore violaceo. Nello stesso racemo fiorale si notano sfumature e tonalità diverse di colore.
La fioritura comincia al 3° anno di vita della pianta e all’inizio della primavera, nei mesi di aprile e di maggio e con qualche altra possibile rifioritura in estate, ma con infiorescenze più piccole. L’apertura dei fiori è graduale. Inizia dalla parte prossimale all’inserto sul ramo per poi procedere verso l’apice. Spesso la pianta fiorisce prima di esporre le foglie regalando uno spettacolo di grande delicatezza.

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 La pianta riprodotta da seme ha un periodo giovanile molto lungo, di 10-15 anni, durante il quale non fiorisce. Questo periodo è necessario per consolidarsi e per sviluppare una struttura legnosa sufficientemente ampia. Alcune piante, anche molto vecchie, purtroppo non hanno mai offerto i propri fiori, oppure hanno generato fiori piccoli, pallidi e ritardati. Ai fiori seguono i frutti, baccelli legnosi lunghi da 8 a15 centimetri che contengono 2-3 semi tossici.

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Sono cuoiosi e tomentosi sulla superficie esterna e contengono pochi semi tondeggianti e piatti di 1-2 cm di diametro. I baccelli sono penzolanti a gruppi a volte molto numerosi. A maturità e con il clima asciutto si aprono lungo la linea longitudinale con un rumore secco lanciando i semi il più lontano possibile.
La moltiplicazione avviene, oltre che per seme, preferibilmente per propaggine nel mese di giugno, oppure per talea legnosa nei mesi di aprile o di agosto. La riproduzione per propaggine o per talea dà fiori precoci e abbondanti. La tecnica della margotta dà fiori già fin dall’anno successivo. La Wisteria sinensis si presta bene come innesto di altre varietà di Glicine.
Il Glicine è una pianta che si può allevare in tante forme diverse: a spalliera, a pergolato, ad alberello. Domenico, il mio giardiniere, che conosce bene le necessità del Glicine, ha saputo sistemare le piante addossandole al muretto e al cancello che le sostengono fin dalle loro fasi giovanili, e dove saranno splendide, spero, per molti anni.

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Domenico sa operare le necessarie potature di crescita e di mantenimento, che servono a contenere l’eccessiva invadenza delle piante, e a dare una forma più assestata. Essendo una pianta rampicante, il Glicine produce rami molto lunghi, anche diversi metri, che vanno cimati.
Una leggera potatura estiva, dopo la fioritura, ed una più energica invernale, dopo la caduta delle foglie, quando la pianta è spoglia e non vi sono rischi di gelate, permettono di contenere il suo sviluppo, di dare un aspetto più ordinato, di garantire abbondanti produzioni di fiori.
Di grande effetto sarebbe piantare il Glicine su un altro albero che gli farebbe da tutore e avvolgerebbe la sua chioma. Si avrebbe un grande albero con una splendida fioritura non sua. Un bel risultato cromatico si potrebbe ottenere piantando vicini un Glicine e un Maggiociondolo che, oltre a fiorire nello stesso periodo, produce fiori a grappoli simili a quelli del Glicine, ma di colore giallo puro.
Il Glicine è una pianta longeva, vigorosa, di poche pretese, di facile coltivazione. Cresce velocemente nei primi anni di vita dando un’evidente impronta cromatica al paesaggio. Vive bene in tutti i climi italiani. In montagna vegeta sino ai 1000 metri d’altezza.
Si accontenta di terreni piuttosto poveri, asciutti, umidi e ben drenati, ma rifiuta quelli calcarei.
Preferisce vivere all’aperto dove può sopportare temperature minime anche molto rigide; ama il sole, quindi gradisce essere collocato in un luogo luminoso per ricevere la luce per alcune ore al giorno, ma cresce anche all’ombra, dove però la fioritura è più tardiva e un po’ più scarsa. Le annaffiature devono essere moderate ed elargite al bisogno.
La concimazione è necessaria al momento dell’impianto e per i primi tre anni di vita.
Il Glicine è una pianta molto rustica e resistente tuttavia, come ogni altro essere vivente, ha dei nemici responsabili di alcune malattie.
L’Afide nero è un pidocchio che si depone sui giovani germogli e sui boccioli specialmente in primavera e nelle stagioni umide.
Il Ragno rosso si manifesta nella stagione calda e asciutta e colpisce tutta la pianta, soprattutto le foglie adulte che sembrano “bruciacchiate“.
L’Agrobacterium tumefacens è un batterio che, collocandosi nell’apparato radicale, può portare alla morte piante anche molto vecchie. Non ci sono cure specifiche a parte la pulizia per asportare le parti malate. In modo preventivo bisogna evitare le ferite.
Le foglie possono essere attaccate dall’Oidio, “il mal bianco”, un fungo che produce macchie irregolari biancastre.
Nei tronchi delle piante vecchie possono installarsi altri funghi che fanno morire progressivamente il legno.
La clorosi non è una malattia, ma una fitopatia, cioè una sofferenza della pianta dovuta alla sfavorevole reazione del terreno che impedisce alle radici l’assorbimento del ferro. Le foglie diventano clorotiche, perdono il colore verde e assumono una colorazione giallastra. La clorosi riduce la vegetazione della pianta e ne compromette la fioritura.
Nel linguaggio dei fiori il Glicine simboleggia la “dolce amicizia“, metafora suggerita evidentemente dal soave profumo e dal tenero colore dei grappoli delle sue corolle che, in primavera, trasformano anche un vecchio muro in una splendida parete fiorita.
Si racconta che gli Imperatori giapponesi, quando giungevano in luoghi stranieri, si facevano precedere dagli uomini del seguito che sostenevano alberelli di Glicine fiorito, simbolo delle proprie “intenzioni amichevoli”.

 

 

Apr 8, 2015 - Senza categoria    Comments Off on CALENDULA ARVENSIS

CALENDULA ARVENSIS


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 La primavera è la stagione dei fiori, soprattutto di quelli spontanei che coprono i campi rivestendoli di una distesa copertura colorata principalmente di giallo in tutte le sue tonalità. Scrisse Chateaubriand che “ il fiore è il figlio del mattino, la delizia della primavera, la sorgente dei profumi, la grazia delle vergini, l’amore dei poeti”.

 Il fiore! Il dono che Gea, la madre Terra, ha fatto alla Natura e all’umanità. Una varietà di colori eterogenei, di profumi, di forme semplici e strane, regolari o irregolari, effimeri o durevoli i fiori sono naturalmente molti; in essi sussiste l’incanto della vita. La Sicilia, grazie al suo clima favorevole, ospita moltissime varietà di fiori spontanei. Dice Guy de Maupassant: “La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito la cui aria, in primavera, è tutto un profumo”. Nelle loro corolle, pur minuscole, grandi o mancanti, è nascosta l’alcova dove si innalzano padiglioni per favorire i più puri fra gli amori nel mondo vivente. Un fiore superbo, un altro semplice, solitario o in infiorescenza, ciascuno ha la stessa funzione: quella di consentire alla specie vegetale di appartenenza di tramandarsi. Spetta ad ognuno dei microscopici granelli di polline, qualora si posino sullo stimma di un fiore della stessa specie, penetrarvi, percorrere lo stilo fino a raggiungere l’ovario e fecondare gli ovuli. Si scatena quella scintilla di vita nuova per cui l’ovario si trasforma in frutto e gli ovuli diventano semi fecondi. I fiori allietano qualsiasi prato, qualsiasi bosco, qualsiasi giardino, qualsiasi aiuola, qualsiasi vaso del balcone.

Di qualsiasi colore: bianco, rosso, azzurro, giallo, le corolle dei fiori, in un ciclo ininterrotto, fioriscono sempre.Tutti i fiori, a modo loro, dimostrano la gioia di salutare il sole.

Gioiamo di questo grande regalo che la Natura ci dà!

  La Calendula arvensis è la pianta che ho fotografato a Licata dove, in questo periodo, è molto presente nelle campagne incolte.

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La Calendula arvensis, appartenente alla famiglia delle Asteraceae, ha un areale molto vasto che abbraccia il Nord Africa,  il Medio Oriente, il Caucaso e l’Europa. In Italia  è presente in tutta la penisola. E’ molto comune nel Centro-Sud e nelle Isole, cresce spontanea dalla zona mediterranea fino alle zone submontane; al nord è presente nelle zone climatiche più favorevoli, quali i laghi, mentre è assente nella Pianura Padana.

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La Calendula arvensis è una deliziosa pianta conosciuta con i sinonimi: Fiorrancio selvatico, Calta selvatica e Cappucina dei campi. In Sardegna è chiamata: Erba pudia, Sittsìa messia.

 Il nome “Calendula” deriva dal latino “calendae” che, per i Romani, indicava il primo giorno di ogni mese. Probabilmente allude al fatto che questa pianta, assai rustica e resistente, inizia la sua fioritura il primo giorno di ogni mese in primavera continuando a fiorire per quasi tutto l’anno. In senso figurato vale a dire che fiorisce tutti i mesi dell’anno. Oppure il suo nome deriva da “calendario”  perchè la corolla del fiore, aprendosi al mattino e chiudendosi al calar del sole, segna il ritmo del giorno. Per questo motivo nei testi medievali si chiama “solis sponsa” “sposa del sole” per il fatto che l’apertura e la chiusura della corolla dei fiori seguono il ciclo del sole e si diceva “…se al mattino i suoi fiori restano chiusi significa che durante il giorno pioverà!…”.

Il nome “arvensis” della specie allude ai luoghi in cui vegeta che sono soprattutto i campi incolti.

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La Calendula arvensis è una pianta erbacea, annuale, intensamente odorosa, termofila, pubescente, terofita perché supera la stagione avversa sotto forma di seme. Possiede una radice fittonante che si interra fino ad una profondità di circa 30 cm. E’ scaposa perché possiede il fusto eretto, ascendente, angoloso, alto 50-70 cm, molto ramificato, vuoto internamente, ricoperto di peli e, il più delle volte, privo di foglie alla base.  Le foglie,senza picciolo, di un bel colore verde chiaro, sono alterne, lanceolate acute, le cauline cuoriformi, leggermente acuminate all’apice e con i margini interi o lievemente ondulati. Le foglie basali sono più piccole e disposte a rosetta rispetto alle foglie superiori amplessicauli che sono più grandi e più slanciate. Sono rivestite da una sottile peluria che conferisce loro un aspetto vellutato. Tutte le foglie emanano un odore alquanto sgradevole.

L’infiorescenza è costituita da capolini lungamente peduncolati. I fiori, numerosi, piccoli, di colore giallo-solfino, i periferici ligulati con ligula tridentata e femminili, si inclinano verso il basso dopo la fioritura. I fiori centrali sono tubulosi e maschili. Le brattee che circondano la corolla sono di colore verde chiaro, di forma ovale e leggermente appuntite. La fioritura inizia nel mese di marzo e si prolunga fino all’autunno inoltrato.

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 I frutti, caratteristici per il loro polimorfismo, sono degli acheni disposti a corona attorno al capolino. Sono di forme diverse: quelli esterni sono sottili, lineari, terminati in rostro, aculeati sul dorso, i mediani sono larghi e alati nei margini e forniti di tubercoli spinosi, quelli interni sono ricurvi quasi ad anello e con striature trasversali. I semi, lunghi 2–3 mm, sono falciformi, uncinati. La  moltiplicazione avviene per seme.

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La Calendula arvensis è una comune erba gregaria ed infestante che vegeta bene nei terreni incolti e soleggiati, nelle vigne, lungo i bordi delle strade e nei sentieri dal livello del mare sino a 600 metri di altitudine.  Predilige i terreni calcarei, una sufficiente quantità d’acqua e una buona esposizione al sole. Come tutte le altre specie vegetali, anche la Calendula arvensis può essere attaccata da diversi agenti patogeni, quali funghi, piccole formiche e afidi, soprattutto perché, essendo una pianta spontanea, non è sottoposta ad interventi protettivi o curativi da parte dell’uomo. La pianta è nutrice delle larve di diverse specie di Lepidotteri, tra cui la Cucullia calendulae.

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la Calendula è una delle piante più versatili e conosciute in Erboristeria.

 Hildegard von Bingen (1098-1179), suora benedettina più conosciuta come Santa Ildegarda, vissuta in Germania e studiosa di medicina, rese famosa questa pianta come rimedio di tante patologie. Gli elementi curativi della Calendula arvensis si trovano solitamente nei capolini quando iniziano la loro fioritura.Tali elementi sono: alcoli triterpenici, cumarine, flavonoidi, glicosidi triterpenici, calendulosidi, polisaccaridi, fenoli, saponine, beta carotene, resine, acidi clorogenici, tracce di acido salicilico, taraxasterolo, oli essenziali, mucillagini. Il pigmento giallo è ricco di licopene, carotene, luteina e xantine, queste ultime danno il caratteristico colore aranciato al fiore. Le foglie sono ricche di vitamine e minerali.

Fino al Medioevo la pianta fu utilizzata dalla medicina popolare  per i suoi benefici effetti, poi fu dimenticata per molto tempo. Riscoperta dalla medicina moderna, grazie ai suoi principi attivi, la pianta di Calendula ha proprietà antiflogistiche, antispasmodiche, diaforetiche, antisettiche, cicatrizzanti delle ferite, astringenti, omeopatiche, stimolanti, lassative, In molte zone è nota come “oro di Maria”  forse per la proprietà del suo infuso di alleviare i dolori mestruali e di regolarne il ciclo. Per uso esterno i principi attivi della Calendula sono utili per il trattamento della maggior parte dei problemi di pelle sensibile senza causare reazioni allergiche. Realizzati sotto forma di creme, di tinture, di  impacchi, di collirio, sono efficaci contro acne, foruncoli, scottature lievi, eczemi, ulcere, micosi cutanee come la Tinea corporis, pedis e la Candida albicans. Sviluppano un’eccellente azione anche in caso di geloni delle mani e dei piedi. Spesso il solo olio di Calendula è un valido presidio per prevenirli se utilizzato con continuità all’inizio della stagione fredda e per tutto l’inverno. Per godere delle proprietà naturali e dei benefici della Calendula  fiori e foglie devono essere raccolti al mattino, quando il sole non è ancora alto. Ad oggi non sono noti effetti collaterali o controindicazioni associate all’uso dei derivati della Calendula. Tuttavia le proprietà e le indicazioni erboristiche della pianta di Calendula sopra descritte sono riportate a solo titolo indicativo e non costituiscono nessun tipo di consultazione, di prescrizione o di ricetta medica. E’ indispensabile il consiglio del medico o dell’erborista.

La Calendula arvensis è utile anche in cucina. Il Fiorrancio selvatico può sostituire lo zafferano in quanto dà un colore giallastro ai piatti cotti al forno, al riso, alle salse. Anche i petali possono essere inseriti nelle insalate, nelle creme e per guarnire antipasti. Essiccati, servono per aromatizzare il vino che, dopo essere stato esposto al sole per 10 giorni, diventa un ottimo aceto aromatico. Possono essere trasformati in deliziosi canditi. I boccioli dei fiori possono essere usati come sottaceti e possono sostituire i capperi. Le foglie possono essere consumate in insalata in aggiunta ad altre erbe. Gli acheni sono ottimi come sottaceti. In tintoria i capolini sono utilizzati per tingere di giallo con sfumature verdi i tessuti prevalentemente di lana e di seta.

 Nel linguaggio dei fiori la Calendula simboleggia sofferenza e dolore. La mitologia greca racconta che Afrodide, addolorata per la morte del giovane amante Adone, pianse lacrime amare. Le sue lacrime, cadute a terra, si trasformarono in tanti fiori di Calendula. Per questo motivo, nell’Ottocentesco il fiore di Calendula era sempre associato a simbologie tristi causate da pene d’amore.

Anche William Shakespeare nel sonetto XXV decanta il fiore di Calendula:

“Coloro che hanno le stelle favorevoli

si vantino pure di pubblici onori e di magnifici titoli,

mentre io, cui la fortuna nega un simile trionfo,

gioisco, non visto, di ciò che più onoro.

I favoriti dei grandi principi schiudono i loro bei petali

come la calendula sotto l’occhio del sole,

e in loro stessi il loro orgoglio giace sepolto,

poiché, a un cipiglio, essi nella loro gloria muoiono.

Il provato guerriero, famoso per le sue gesta,

sconfitto che sia una volta pur dopo mille vittorie,

è radiato per sempre dal libro dell’onore,

e dimenticato è tutto ciò per cui si era impegnato.

Allora felice io, che amo e sono riamato

da chi non posso lasciare, né essere lasciato.”

In questo sonetto Shakespeare insegna che la vita vale solo se si pongono in essa i semi per far crescere l’amore. L’amore è più importante di qualsiasi altra cosa. Senza l’amore non c’è nulla per cui valga la pena di vivere e di lottare. I giorni sono stati trascorsi inutilmente senza amare ed essere amati!

E non c’è nulla di ciò che è terreno che può eguagliare il sentimento e la gioia dell’amore, vero alimento del fuoco della vita.

Si vantino, dunque, i principi e i signori delle loro glorie e delle loro ricchezze, mostrandole al mondo intero, ma nessuna gloria terrena sarà mai uguale alla forza che un sentimento d’amore può dare agli esseri umani.

Occhi di chi amiamo, specchio del puro sentimento, guardarli è già ricchezza che né oro né argento potranno eguagliare!

 

 

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