Oct 1, 2017 - Senza categoria    Comments Off on CERIMONIA DI PREMIAZIONE DEI CONCORRENTI AL CONCORSO LETTERARIO “MARIA MESSINA” NELLA SEDE DEL CIRCOLO UNIONE A MISTRETTA

CERIMONIA DI PREMIAZIONE DEI CONCORRENTI AL CONCORSO LETTERARIO “MARIA MESSINA” NELLA SEDE DEL CIRCOLO UNIONE A MISTRETTA

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Il 30 settembre del 2017 è stato un giorno molto importante per la cultura amastratina.
Con la cerimonia ufficiale della premiazione dei partecipanti al Premio Letterario “Maria Messina” 2017,  giunto alla XIII edizione, è stata ricordata ancora una volta la figura della scrittrice siciliana Maria Messina.
Il premio letterario è stato istituito dall’Associazione “Progetto Mistretta” sotto la presidenza del prof. Nino Testagrossa, con la collaborazione del giornale “Il Centro Storico” e col patrocinio della regione Sicilia e del Comune di Mistretta.

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Teatro della manifestazione è stata l’accogliente sala di rappresentanza del “Circolo Unione” a Mistretta.
I premiati della XIII edizione del premio letterario “Maria Messina” sono stati: Alberto Giordani per la narrativa, il maestro Maurizio Diliberto per il cinema e le arti marziali,  Oriana Civile, cantante  folk, per la  musica e la recitazione.

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Riconoscimenti speciali sono stati assegnati agli scrittori  Giuseppe Sciuto e a Ruggero Osnato.
Sono state premiate anche due alunne delle nostre scuole: Ilenia Marinaro e Greta Scalone.
Durante la cerimonia ha coordinato  il grande amico Giuseppe Ciccia.

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Ha aperto i lavori la giornalista Rosalinda Sirni con queste parole:” In questi anni il Premio Maria Messina ha allargato sempre di più gli orizzonti, si è internazionalizzato divenendo una piattaforma relazionale, oltre che un’autentica palestra di confronti per scrittori, intellettuali, poeti, studiosi provenienti da diverse regioni d’Italia e da diverse scuole. I lavori, selezionati quest’anno dalla giuria, presieduta dal prof. Giovanni Ruffino, contribuiscono ad accrescere l’albo d’oro ricco di prestigiose presenze”.

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Sono intervenuti: il sindaco di Mistretta  avv. Liborio Porracciolo, il dott. Francesco Scarito, vicepresidente del Circolo Unione, il presidente del giornale “Il Centro Storico” dott. Massimiliano Cannata.

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Il tavolo dei relatori da sx: Massimiliano Cannata, Rosalinda Sirni, Francesco Scarito, Liborio Porracciolo

L’avv. Liborio Porracciolo ha elogiato l’impegno dell’Ass.ne Progetto Mistretta nel continuare a promuovere la cultura attraverso questa importante cerimonia.

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Il dott.Francesco Scarito ha dato il benvenuto ai presenti, ha portato i saluti del presidente, del dott. Mario Salamone,  ha dichiarato la disponibilità del “Circolo Unione” ad accogliere le tante manifestazioni culturali che avvengono a Mistretta.

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Molto esaustivo il discorso del giornalista dott. Massimiliano Cannata che ha illustrato esaurientemente il percorso del premio “Maria Messina“. “In Oriana Civile, Maurizio Diliberto, Alberto Giordani c’è un pezzo significativo dello stesso DNA del Premio, oltre che uno spaccato importante della contemporaneità.
Talento, memoria e denuncia in Oriana Civile si fondono, nell’emersione della sicilianità cosmopolita che è il tratto distintivo di quel Mediterraneo che ha detto molto bene Sebastiano Tusa, è un mare che corrompe, culla di civiltà, che dovrà essere il cuore della nuova Europa.
Maurizio Diliberto, che siamo onorati di ospitare, ha sperimentato la contaminazione dei linguaggi. Il suo Premio va all’opera cinematografica, con la finalità di allargare il discorso alla civiltà dell’immagine, che vive di frammenti, che articola il significato dei messaggi neltempo contratto di instagram.
Alberto Giordani è una voce significativa della contemporaneità, che pratica un intermodalità della scrittura nella dimensione dell’io frammentato, alla costante ricerca di un percorso di senso plausibile verso traguardi più alti di libertà possibile. Il periodare è interrogante sulla scorta di grande tradizione di pensiero: da Eraclito a Pascal da Marco Aurelio a Nietzsche.
I suoi racconti si caratterizzano per la varietà dei protagonisti e dei fatti narrati. Esercitando quell’arbitrarietà che ogni lettore/critico si illude di potersi arrogare) a individuare alcuni nuclei concettuali: vi sono racconti di taglio filosofico – esistenziale, altri imperniati sul tema della memoria (“Che cosa resta”) in cui l’incendio è la metafora di una combustione di ideali prima che di oggetti, altri ancora sono degli apologhi che hanno il ritmo della favolistica classica (“Il cavallo e il toro”), ve ne sono di ironici,dall’andamento quasi dissacrante, come nel caso di Galileo che smitizza i tanti “falsi” eroi che spesso siamo portati a mitizzare; c’è anche spazio per il canone fantastico a sfondo sentimentale.
La composizione di questo originale “Zibaldone” è finalizzata a creare un universo variegato di tipi e situazioni specchio della <<diversità plurale>> che è poi la cifra essenziale della contemporaneità.
L’autore naviga dentro una ulteriore rivoluzione che non è solo linguistica ma anche epistemologica, quella determinata dalla digitalizzazione della comunicazione e dall’avvento dei social che hanno modificato la nostra vita di relazione. Il protagonista del racconto “Le variazioni dello sguardo” è emblematico perché oscilla tra l’eternità del mai passato e un’inafferrabile teoria del presente.
Siamo dentro quelle forme dell’individuo moderno, che si sono fatte strada dopo la combustione dei grandi ideali rappresentabili, come suggerisce il filosofo Remo Bodei, con delle “scomposizioni”, emblematiche dello spaesamento che oggi segna la nostra vita“.

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La cerimonia di premiazione è continuata con i riconoscimenti speciali.
Ha ricevuto la menzione  speciale lo scrittore  Giuseppe Sciuto per il suo libro dal titolo “L’ultimo tuffo

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Ha consegnato la targa Massimiliano Cannata.

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Ha ricevuto un’altra menzione speciale  lo scrittore Ruggero Osnato per il suo libro dal titolo “L’incrocio”.

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Ha consegnato la targa il poeta Filippo Giordano.

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Maurilio Diliberto si è imposto all’attenzione del grande pubblico per la sua attività di regista televisivo e cinematografico.
Ha ricevuto il premio Maria Messina per il film tratto dal racconto della scrittrice siciliana  “Casa paterna” dove mette in risalto la capacità di Maria di dipingere ambienti e situazioni.
Bravissima nella interpretazione del personaggio è stata l’attrice Maria Teresa Amato.

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Ha consegnato il premio Liborio Porracciolo.

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Oriana Civile è cantante, musicista, ricercatrice e interprete originale della musica etnica siciliana.
Si è confrontata con tutti i generi: dal blues al jazz, dalla bossa nova al flamenco, dal tango argentino alla musica demenziale, dalla riproposta popolare alla World Music.
Ha magistralmente cantato “ A la Fimmina”,  canto di donne di marinai di Trapani tratto dal “Corpus di musiche popolari siciliane” di A. Favara.

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Ha recitato la filastrocca-scioglilingua “Re Befè, Viscuottu e Minè”.

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Ha suonato, accompagnandosi con la chitarra, “Vacci, Amuri”, di Nunziata D’Onofrio di Caronia.

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E’ stata premiata dalll’Ass.re alla cultura e Vicesindaco Vincenzo Oieni.

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Albero Giordani è: scrittore, regista, attore.
Il titlolo dell libro è:“Passaggi”.
Dalla sua viva voce abbiamo ascoltato piacevolmente la lettura dei racconti:
-Il cammello sulla Senna,
-Il vaso,
-L’esperienza.

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E’ stato premiato da Francesco Scarito.

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Per la premiazione dei lavori del laboratorio di scrittura creativa, in collaborazione con l’istituto compressivo “Tommaso Aversa” di Mistretta, sono state premiate le alunne: Ilenia Marinaro, con la camicetta bianca, e Greta Scalone, con la maglietta nera.
Hanno guidato le alunne: la direttrice scolastica prof.ssa Maria Grazia Antinoro e l’insegnante Mariangela Biffarella.

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Ilenia Marinaro ha scritto il racconto: “Biblio-barca”.
Greta Scalone ha scritto il racconto “Il bambino triste e l’elefantino”.
Ilenia e Greta sono state premiate dalla prof.ssa Marisa Antoci.

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Inoltre, l’Associazione “Progetto Mistretta” ha consegnato alle alunne Ilenia e Greta la busta contenente una sommetta di denaro da utilizzare per l’acquisto di libri di lettura.

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La serata è stata ricchissima di emozioni e di applausi da parte di tutti i presenti!

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MARIA MESSINA nacque a Palermo il 14 marzo del 1887 da Gaetano, nato ad Alimena nel 1857 ,  e da Gaetana Traina. La madre, di  nobile casato decaduto,  nacque a Prizzi il 14 maggio del 1863.

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Le poche fotografie di Maria, conservate nell’album di famiglia, mostrano una giovane donna, piccola di statura, dagli occhi  tristi e dal visino pallido, incorniciato da una folta capigliatura castana e dalla delicata personalità.
Maria è vissuta in un ambiente borghese, istruendosi da autodidatta senza frequentare le scuole pubbliche, con l’aiuto della madre e dell’amato fratello Salvatore che la incoraggiò ad intraprendere la strada letteraria.
Maria  giunse a Mistretta nel mese di settembre del 1903, quando aveva compiuto appena 16 anni di età, perché suo padre aveva ricevuto il primo incarico di direttore didattico della scuola elementare.
Abitò a Mistretta,  in una casa di Via Paolo Insinga.
Rimase a Mistretta fino al 1909 quando suo padre, avendo vinto il concorso di ispettore scolastico,  si  trasferì ad Ascoli Piceno con tutta la famiglia.
Costretta a staccarsi dalla sua Sicilia, lontana dalla quale si sente “un uccello senza nido”, lei stessa confessa : “La sicilianità è alimentata di profonde radici nell’animo”.
A Mistretta Maria Messina sviluppò la sua fantasia creativa.
Nei suoi romanzi, nei suoi racconti e nelle sue novelle descrisse personaggi, località di campagna, luoghi urbani, usi e costumi  anche della città di Mistretta che  definisce “paese acchiocciolato ai piedi del castello, con le sue casucce rossastre”.
A 22 anni di età, nel 1909, Maria Messina esordì con “Pettini fini”, lavoro inviato in visione a Giovanni Verga come testimonia la sua prima lettera. Con Giovanni Verga Maria aveva instaurato  un intenso rapporto epistolare definito “idillio letterario“.
Tra il 1909  e il 1919  ” la piccola amica lontana”, ” la scolara”  ha spedito, in una corrispondenza decennale, 23 lettere  e una cartolina postale.
Maria lo chiamava “Illustre Signor Verga” “Illustre, amatissimo Maestro“, “Mio grande buon amico“.

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 Seguirono “Piccoli gorghi”, novelle, pubblicate nel 1911, entrambe le opere lodate dal Verga che, pur schivo com’è di reclame, non le rifiuta la pubblicazione del suo benevolo giudizio.

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La sua produzione letteraria è inarrestabile. Seguirono: Le briciole del destino, 1918; II guinzaglio, Personcine, Ragazze siciliane, 1921.
I romanzi sono: La casa nel vicolo, 1921; Alla deriva e Primavera senza sole, 1920; Un fiore che non fiorì, 1923; Le pause della vita, 1926; L’amore negato, 1928.
La letteratura per l’infanzia comprende: I racconti di Cismè, 1912; Pirichitto, 1914; Cenerella, 1918; I figli dell’uomo sapiente, 1920; II galletto rosso e blu, 1921; II giardino dei Grigoli, 1922; I racconti dell’Avemaria, 1922; Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe, 1926.
Sono tutte  le sue opere?
Maria si arrese alla sofferenza all’alba del 19 gennaio del 1944, alle ore tre del mattino, morendo a Masiano, una frazione a pochi chilometri da Pistoia, nella casa di contadini della famiglia Tarabusi dove si era rifugiata, su consiglio della Tagliaferri, per sfuggire ai bombardamenti della guerra, che aveva diviso in due l’Italia separandola dall’amato fratello e dalle nipoti, e dove viveva in solitudine in campagna, “vinta” dal destino, divorata dalla distrofia muscolare.
A certificare la sua morte al delegato del Podestà di Pistoia fu un certo signor Tarabusi Leopoldo.
Prima di morire, Maria donò alla sua affezionata infermiera Vittoria Tagliaferri “I doni della vita”, un documento di fede e di religiosità, un’esperienza di sofferenza fisica e spirituale.
Fu sepolta nel cimitero della Misericordia Addolorata di Pistoia così come desiderava.
Riesumata nel 1966, i suoi resti mortali, per volontà delle nipoti, furono custoditi nella stessa tomba della madre, signora Gaetana Traina deceduta  il 20 dicembre del 1932.
Maria Messina fu una delle più grandi scrittrici veriste, ammirata da Giovanni Verga, che la guida nella difficile via dell’arte che è il suo rifugio e dà un senso alla sua vita modesta, commentata da Giuseppe Antonio Borghese come la “scolara del Verga”, “una provinciale di onesta e modesta fantasia, aliena da pervertimenti sensuali, da smanie sentimentali, da ambizioni teoriche“.
Il rapporto epistolare con Giovanni Verga Maria è continuato per molto tempo.
In un’altra lettera di risposta a Giovanni Verga Maria così scrisse: ”le Sue parole piene di benevolenza, gonfiandomi il cuore di commozione, m’ànno infuso il coraggio di guardare finalmente davanti a me, m’àn lanciato nel paese dei sogni e delle speranze…”
Tuttavia, completamente dimenticata, è stata assente dalla letteratura italiana del Novecento.

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Abbattere il muro del silenzio attorno a lei, schiudere le porte dell’oscurità, che avevano nascosto per oltre mezzo secolo il nome e l’opera di Maria Messina, aprire quelle della sua fama, fu merito dello scrittore Leonardo Sciascia che, nei primi anni ottanta, ha riproposto la lettura di alcuni dei suoi racconti.
Da allora le sue opere hanno attraversato una nuova stagione di notorietà e sono state tradotte in diverse lingue.
Nelle sue opere Maria ha raccontato, con una commiserazione pervasa di ribellione, la società maschilista dell’epoca, la sottomessa condizione femminile in Sicilia qual era fino agli anni della seconda guerra mondiale.
Ha esaminato i temi della gelosia, dell’adulterio, dei maltrattamenti, dell’abuso sessuale, dei pregiudizi, dei costumi, delle contraddizioni. Descrive quella società provinciale passiva, stagnante, che rende la donna “vinta” tra “i vinti“,  impedita ad esistere pienamente, da cui scaturiscono i dolori trattenti, i sentimenti soffocati, la voce strozzata, fino al silenzio, inchiodando la donna in una condizione di muta e drammatica subalternità.
Sono i  moventi della sua ispirazione narrativa!
L’Associazione “Progetto Mistretta” ha rivolto alla scrittrice grande attenzione assegnando a Maria un posto di rilievo nella cultura amastratina divulgando il suo nome e la sua opera attraverso la promozione del concorso letterario “Maria Messina” con cadenza annuale.
In questo modo Maria è stata ricompensata per essere stata dimenticata dai critici, dagli storici della letteratura italiana del Novecento e dai lettori.

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 Sabato 20 Ottobre 2007,  il Sindaco della cittadina di Mistretta, l’avv. Iano Antoci, e la giunta comunale, seguiti dalla banda musicale, hanno intitolato una via del centro urbano alla scrittrice siciliana.

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Nel mese di febbraio del 2009 Le è stata conferita anche la cittadinanza onoraria a Mistretta.
L’Amministrazione comunale di Mistretta si è anche adoperata per accogliere i suoi resti mortali.
Grazie all’interessamento dell’Associazione “Progetto Mistretta”, al giornale “Il Centro Storico” e al certosino lavoro di ricerca del pistoiese “mistretteseGiorgio Giorgetti le spoglie di Maria Messina sono state trasferite al cimitero monumentale di Mistretta dal cimitero della Misericordia di Pistoia.
Maria riposa lì, accanto alla sua amata madre Gaetana Traina.
Il merito di questo “ritorno” in patria si deve attribuire soprattutto al prof. Nino Testagrossa, il presidente dell’associazione “Progetto Mistretta”, che ha messo in risalto il legame della Messina con quelli che lei stessa in una lettera indirizzata al Verga definì “i miei buoni mistrettesi”.

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La cerimonia di accoglienza e di tumulazione dei resti mortali della scrittrice è avvenuta il 24 aprile del 2009.

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Tutto ciò sta a significare il legame mai interrotto con la città di Mistretta dove Maria trascorse alcuni anni della sua adolescenza e dove trasse motivi per descrivere le umili vicende raccontate nelle sue novelle.
La poetessa Ada Negri, che la chiamava “mia piccola sorella Maria”, poiché le due donne relazionavano in forma epistolare, scrisse a Maria Messina: “Non ti conosco fisicamente, ma mi sembra di conoscere bene la tua grande anima”.
Anche noi mistrettesi non l’abbiamo conosciuta personalmente, ma possiamo dire di conoscere bene la sua anima, i suoi messaggi, la sua arte narrativa.
Anche la città di Licata, sollecitata dalla FIDAPA, dalla dott.ssa Ester Rizzo e da me stessa,  ha voluto onorare la scrittrice Maria Messina intitolandole una strada cittadina.

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Sicuramente, come il popolo di Mistretta, così anche il popolo di Licata, leggendo il nome della strada, ricorda la scrittrice siciliana Maria Messina e apprezza l’alto valore letterario con la lettura della sua abbondante produzione custodita in parte anche nella Biblioteca comunale “Luigi Vitali” di Licata.

Le lettere riportate sono tratte dal libro “ Un idillio letterario inedito verghiano
di Giovanni Garra Agosta
custodito nella Biblioteca Comunale “Luigi Vitali” di Licata.

IL ”CIRCOLO UNIONE” A MISTRETTA

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Il “Circolo Unione” è ubicato nella ex piazza Guglielmo Marconi, oggi rinominata Piazza San Sebastiano.

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L’edificio del vecchio “Casino di Conversazione”, come era precedentemente denominato, costruito nella seconda metà dell’800 su progetto redatto dall’ing. Giuseppe Cussetta, presenta un unico piano leggermente rialzato rispetto al livello della strada e circondato da un’ampia terrazza, protetta da un’inferriata metallica, dove si affacciano i soci per assistere al passaggio del cammino processionale dei Santi e per prendersi il fresco durante la bella stagione chiacchierando piacevolmente.

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La facciata, in stile neoclassico, è abbellita dalla partitura centrale a tempietto con frontone e con lo stemma dove sono incisi: l’aquila reale, sormontata dalla corona, i fasci, per ricordare il tempo del fascismo, le sciabole, l’ascia e la lira, lo strumento musicale.

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 Nelle nicchie, nel vaso sotto la conchiglia sono sbocciati i fiori di Hibiscus rosa-sinensis.
La parete laterale sinistra è priva di finestre e di balconi.

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All’interno dei tre grandi saloni è presente l’originario arredamento in stile liberty in perfetto stato di conservazione.

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 dove s’incontrano piacevolmente gli amici.

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L’amico Sebastiano Lo Iacono nel suo libro “Il Circolo Unione di Mistretta 150 anni dopo. Nostalgia dei Gattopardi, borghesia e classe media a Mistretta”, con maestria e con grande capacità letteraria, ha ricostruito la sua storia.

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Come ha detto l’autore: ”La commemorazione dei centocinquanta anni di vita di un sodalizio è l’occasione per riflettere su una piccola fetta di storia mistrettese e affermare una certa identità: quella della classe medio-alta locale. La storia del Circolo è quasi una sorta di <romanzo storico>”.
Durante la presentazione del libro, il presidente del Circolo dott. Mario Salamone si è espresso così: ” […] da quando sono diventato socio, il Circolo è stato un punto di riferimento che mi ha consentito di passare i momenti liberi della giornata nel miglior modo possibile, cioè a dire, socializzando, leggendo, discutendo, dibattendo, scherzando, commentando e (perché no?) giocando a carte, con amici e soci, con la massima onestà e fiducia, pur nell’agonismo più intenso.
Quando, nel lontano mese di luglio dell’anno 1982, l’amico Bettino Di Salvo ha avuto il piacere di farmi presentare la domanda di ammissione, in qualità di socio effettivo, non avrei mai pensato che un giorno sarei diventato il presidente, carica che hanno ricoperto illustri cittadini professionisti e che hanno ricoperto funzioni pubbliche di rilievo nell’ambito della nostra città
[…] ”.
Il dott. Mario Salamone, con le sue parole, ha sinteticamente decritto gli scopi, le finalità e le istituzioni dell’Associazione.
L’idea di istituire il “Casino di Conversazione” nasceva, quindi, dal desiderio di quella società che intravedeva grandi cambiamenti e che sollecitava l’emancipazione di un ceto borghese elevato alla ricerca di luoghi dove potersi incontrare per instaurare buoni rapporti sociali e per trascorrere sereni momenti ricreativi.
Il Circolo nacque, quindi, non solo per scopi ludici, ma anche per l’esercizio dell’arte del bel conversare, indice di un ceto sociale che possedeva  un alto livello d’istruzione.
L’art. 2 dello Statuto recita: “L’onesto intrattenimento in lecita conversazione, in giuochi non proibiti dalla Legge, ed altri innocenti sollazzi”.
Le persone di prestigio, che solevano riunirsi già da tempo alternativamente nelle sale dei loro palazzi privati, nel 1846 chiesero all’Autorità la concessione di una area del “piano di San Sebastiano” con lo scopo di costruire un edificio da “destinarsi in Casino di società del ceto civile”, cioè del “Casino di conversazione”.
Finalmente, disponendo dell’area e delle risorse economiche, iniziarono i lavori e il primo statuto sulla costituzione del “Casino di conversazione” fu redatto nel 1854.
Una tale istituzione non poteva mancare a Mistretta in quanto “un Casino che accoglier deve il fiore della Società, e del Paese, e dei Signori è l’indice della civiltà del Comune; e l’ornato dunque e la Civiltà sono nell’interesse di questo, ed un Capoluogo di Distretto, dove ha sede una Sottintendenza, è ben meritevole che si abbia un luogo di pubblico convegno che faccia onore all’Amministrazione”.
E’ quanto si legge in una lettera del 23.12.1854 dell’allora sindaco di Mistretta, il don Francesco Di Salvo, indirizzata al Direttore del Dipartimento dell’Interno di Palermo e dell’Intendenza della Provincia di Messina.
La calorosa lettera del Sindaco alle superiori autorità nasceva dalla dura contrapposizione che si era verificata tra gli stessi “signori”, tra il clero e tra le suore delle Benedettine il cui monastero era di fronte all’ area dove si sarebbe dovuto edificare l’immobile.
La religiosa Benedetta Scimoncelli, madre superiora del monastero benedettino di Santa Maria del Soccorso, oggi edificio scolastico dell’Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa”, che obbediva alla regola delle suore Benedettine, così giustificava la sua opposizione tramite il ricorso stilato dal legale Giuseppe D’Arrigo: “causa alle suore claustrali gravi danni, disordini, e, appunto, scandalo”.
Il costruendo edificio, che doveva sorgere nel centro della città, doveva essere la sede del “Casino” adatta ad ospitare i soci dell’associazione per svago, per diletto, per conversazione. La contesa giudiziaria, accompagnata da vivaci ed opposte fazioni popolari, si concluse con la sentenza del 1856 che autorizzava la costruzione dell’edificio con la categorica condizione, però, di non aprire finestre sulla parete laterale di fronte al monastero.

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Nel 2010 questa parete è stata arredata con la scultura di Astarte, opera del maestro scalpellino Gaetano Russo.
Astarte era la Grande Madre fenicia e cananea, sposa di Adone, legata alla fertilità, alla fecondità e alla guerra.
Secondo i Semiti settentrionali e i Fenici in particolare, Astarte era la divinità femminile per eccellenza.
Il nome della città di Mistretta deriva dal fenicio Am-Ashtart, ossia città fondata da Astarte.

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Finalmente, ristabilita la concordia nel 1859, per sigillare l’evento il “Casino di Conversazione” si diede l’appellativo di “Unione” come simbolo di unità di classi sociali.
Solo nel 1881 fu decisa la dizione “Circolo Unione”.
Nel 1888 fu approvato il nuovo statuto il cui art. 1 disponeva che fine “precipuamente“ è quello di “mantenere la concordia fra le persone colte e di discutere e promuovere le idee vantaggiose al benessere del paese”.
I fondatori del “Casino di Conversazione” appartenevano alle classi nobili e aristocratiche dell’Ottocento, quelli che credevano di essere i “migliori”, “i gattopardi locali”, “i galantuomini” in quanto detentori, nella realtà o nell’immaginazione, di potere, di prestigio, di ricchezza, di istruzione, di educazione e, soprattutto, quelli che dimostravano di possedere alti valori morali manifestandoli nella vita quotidiana privata e pubblica.
Erano i grossi proprietari terrieri, i professionisti, i funzionari giudici in servizio presso il Tribunale di Mistretta, qualche militare.
Il clero era rappresentato da una sola presenza.
Quando è stato istituito il “Casino di Conversazione” la differenza fra cappedda e birritta, borghesi e contadini era visibile.
Al “Casino di Conversazione” si dibattevano temi di carattere generale e, più strettamente, di carattere amministrativo locale.
La micro-storia del Casino di Conversazione – Circolo Unione s’interseca con la Storia d’Italia, della Sicilia, di Mistretta.
Dice Tatà Lo Iacono: “[…] Nel momento di fondazione del Casino di Conversazione i pregiudizi sociali erano talmente radicati che era naturale pensare che ci fossero naturalmente ricchi borghesi e naturalmente contadini e braccianti senza terra, quindi classi inferiori naturalmente tali. Non c’era, all’epoca, alcuna forma di riscatto sociale, né l’idea che una qualche dinamica sociale, altrimenti detta mobilità sociale, potesse cambiare il destino delle classi subalterne in quelle delle classi egemoni o, caso quanto mai raro, viceversa. I fenomeni di emancipazione o regressione sociale erano controllati e misurati. La mobilità sociale era quasi bloccata.  […]”.
Lo statuto prevedeva buone norme di comportamento anche per quanto riguardava il modo di vestire. L’art. 3 stabiliva che “nell’inverno avuto riguardo alla rigidezza del clima, perché quasi necessita, si permette l’intervento con cappotto e scarpetta. Nell’estate ogni socio dovrà intervenire con cappello permettendosi il baschetto soltanto la sera”.
Tale disposizione, per la cui inosservanza era prevista l’ammonizione e la “depennazione” in caso di recidiva, scatenò le ire di una minoranza solidale con “uno dei fratelli Salamone che soleva accedervi in blusa e scazzetta”.
I membri del “Casino di Conversazione” erano gestiti dagli organi interni: Dall’Assemblea degli iscritti, da un amministratore, dal cassiere, dalla deputazione di tre membri che, restando in carica tre anni, avevano compiti specifici.
Il “Casino di Conversazione” apriva le porte della sede dalle 8:00 alle 13:00 del mattino e dalle 14:00 fino a sera.
Aveva l’obbligo di fornire i giornali per la sala di lettura in numero di “sei testate di diversa ispirazione politica”.
All’atto dell’iscrizione il socio doveva versare 2 onze e 16 tarì e, successivamente, 4 tarì al mese.
Oggi il “Circolo Unione” ha allargato le sue vedute inserendo fra i soci anche quelli appartenenti ad un ceto medio-basso costituendo, così, una classe sociale più eterogenea.
Dal 1954 hanno fatto parte dell’Associazione tutti i sindaci della città e alcuni sono stati anche presidenti.
Nessuna donna era stata socia del Circolo, anche se alcune lo frequentavano durante le feste organizzate dal Circolo o durante qualche partita a carte.
Con delibera del 19/10/1958 è stato modificato lo Statuto con l’aggiunta dell’art.13 che così recitava: “ Possono far parte altresì come soci temporanei le mogli e le figlie dei soci, superati i 16 anni, frequentatrici dei locali sociali, previo pagamento di una contribuzione mensile uguale a quella corrisposta dai soci effettivi”.
La presenza delle donne, grazie alle molteplici attività culturali organizzate nella sede del “Circolo Unione”, oggi  è frequente.
Si contano attualmente quattro donne socie temporanee ammesse.
Il presidente, il dott. Mario Salamone, ha sostenuto: ” Non solo presenza fisica e partecipazione, ma legittimamente per le donne ad essere socie a tutti gli effetti, come quelli di sesso maschile”.
Il Circolo annovera, inoltre, 116 uomini soci effettivi e 44 uomini soci temporanei.
Il “Circolo Unione” è retto dal Consiglio di Amministrazione formato dal presidente dott. Mario Salamone, dai consiglieri Luciano Calunniato, Mario D Franco, Maria Saitta, Francesco Scarito, dal segretario Pietro Iudicello, dal cassiere Mario Testa che raccoglie le quote associative.
Indispensabile è la presenza del signor Antonio Ribaudo.

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Il presidente Mario Salamone

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Adiacente al salone delle feste un’ altra sala accoglie i soci sia per la lettura del giornale,

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L’ambiente è arredato, oltre che dai tavoli e dai divani, anche da un antico pianoforte.

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IL Circolo è dotato anche di una ricca libreria e di uno spazio dedicato all’uso del computer

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Il presidente, il dott. Mario Salamone

Arredano l’ambiente un’antica radio e un quadro di fotografie di vecchi soci.

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Il Circolo Unione si differenzia dagli altri sodalizi di mutuo soccorso per non disporre di una cripta sociale nel cimitero monumentale.
La maggioranza dei soci appartenenti, come già detto, all’alta burocrazia, provvedeva a dare al caro estinto la dignitosa sepoltura in una sfarzosa e ornamentale tomba di famiglia.
Molti soci del Circolo Unione hanno gestito il post mortem con la costruzione di numerose e architettoniche cappelle funerarie di proprietà privata contribuendo all’ampliamento dell’attuale Cimitero monumentale.
Il “Circolo Unione” mette a disposizione la propria raffinata sala di rappresentanza per la realizzazione di moltissime manifestazioni culturali.
Ammirevole è l’azione del Presidente del Circolo Unione, il dott. Mario Salamone che, sotto la sua presidenza, promuove  incontri culturali quali conferenze scientifiche, presentazione di libri, concerti musicali e, principalmente la premiazione del concorso letterario “Maria Messina”.

ALCUNI MOMENTI CULTURALI:

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Il Presidente del Circolo Unione dott. Mario Salamone

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Il presidente dell’Associazione “Progetto Mistretta” prof. Antonino Testagrossa

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Il Prof. Giuseppe Passarello riceve il premio “Maria Messina” della quale era grande estimatore.

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La scrittrice licatese, prof.ssa Angela Mancuso, riceve il premio “Maria Messina” per Il racconto “Breve storia di Salvatore Siciliano detto Sasà”.

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Il libro della scrittrice Mariangela Biffarella

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I Video-libri di Nella Seminara

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 La scrittrice Eva Cantarella  ha presentato il suo libro “L’Amore è un dio”

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La contessa d’Almerita signora  Franca Tasca racconta:

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La nostra storia è scritta nella terra alla quale, da otto generazioni, riserviamo l’attenzione e l’amore che si destina ad un componente della famiglia. I nostri nonni ci hanno insegnato a rispettarla con lo sguardo sempre rivolto al futuro e questa visione, ancora oggi, ci permette di avere vigne rigogliose e di coltivare terreni ricchi e fertili. Alla tenuta storica, Regaleali, attraverso un preciso progetto di valorizzazione delle varietà autoctone e dei territori a maggiore vocazione vitivinicola, si sono aggiunte Capofaro a Salina nell’arcipelago delle Eolie, Tascante sull’Etna, Whitaker a Mozia in provincia di Trapani e Sallier de La Tour nella Doc Monreale. La sfida più grande è quella di preservare questi luoghi per lasciare ai nostri figli un ambiente migliore nella salvaguardia di ogni singolo ecosistema”.

I musicisti:

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I musicisti del Trio Heimath: Marzia Manno al pianoforte, la soprano  Nina Alessi, Salvatore Villardita al clarinetto.

L’amico Vittorio Lo Jacono ha presentato il suo libro

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L’amico Domenico Lo Iacono ha presentato il suo libro

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Giorno 3 settembre 2017 ha a presentato il suo libro “ Utopia mediterranea”  il barone Giuseppe Giaconia di Migaido.

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L’autore Giuseppe Giaconia di Migaido

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Il tavolo dei relatori:
da sx: il presidente della Pro Loco signor Giuseppe Lo Stimolo, l’arch. Angelo Pettineo, l’autore del libro Giuseppe Giaconia di Migaido, il presidente del Circolo Unione dott. Mario Salamone, il prof. Francesco Cuva.

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Tanta gente

Sep 27, 2017 - Senza categoria    Comments Off on PADRE DAMIANO AMATO, L’AMICO PRETE DI MISTRETTA

PADRE DAMIANO AMATO, L’AMICO PRETE DI MISTRETTA

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Carissimo Padre Damiano Amato,
non ti conoscevo, pur essendo dello stesso paese, di Mistretta, e pur essendo quasi della stessa età, ma ho avuto la fortuna di conoscerti su Facebook leggendo i tuoi pensieri del giorno e della settimana e le tue preghiere sul libro che hai pubblicato.
Non dimenticherò mai il tuo caloroso abbraccio quando ci siamo incontrati nella chiesa di San Sebastiano, a Mistretta, il giorno che hai festeggiato con i paesani il tuo cinquantesimo anniversario di sacerdozio.
Mi hai riconosciuta.
Mi hai detto: “Sei Nella Seminara”.
Timidamente ti ho risposto: ”SI, SONO IO”.
Ci siamo abbracciati!
Nell’omelia della Santa Messa che hai celebrato per il cinquantesimo anniversario di sacerdozio hai nominato tutti i tuoi compagni di gioco della via Casazza, anche quelli che sono stati chiamati dal Signore.
Noi non eravamo compagni di gioco.
La via San Biagio, dove io abitavo, e la via Casazza erano distanti l’una dall’altra e poi, allora, noi femminucce non giocavamo fuori, in mezzo alla strada. Le nostre mamme, come gioco, ci avviavano al cucito del vestito alla bambola, quando ne possedevamo una, al lavoro all’uncinetto, al ricamo stando in casa.
Il mio passatempo preferito è stata sempre la lettura.
Mi rifornivo dei libri alla biblioteca comunale di Mistretta. Quasi ogni giorno ne andavo a prendere uno, che riportavo già il giorno dopo avendo gustato il suo contenuto. Il bibliotecario, allora, mi dava in prestito un certo numero di libri per coprire almeno la settimana.
Ricordo, con una certa emotività, il primo libro che ho letto dal titolo “Le trecce della mamma”.
Raccontava la storia di una bambina cieca che riconosceva la sua mamma attraverso il tocco delle trecce dei suoi capelli.
Un giorno la mamma tagliò le trecce.
La bambina non la riconobbe!
Ho pianto!
Caro Damiano, confidenzialmente Jano, ho letto di te nel libro “Miegghiu picca ca nenti”, della signora  Maria Meli.
Eravate vicini di casa. Maria abitava in via Casazza n°8, nella casa che la nonna aveva comprato a sua figlia prima che si sposasse,  e tu in via Casazza n°12, la strada delle mattonelle come era chiamata, perchè ammattonata con le mattonelle, oggi la strada della pietra quarzarenite perchè ammattonata con questa roccia.
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La strada oggi si chiama Via Giosuè Carducci.

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Ancbe Enzo Romano nel suo libro “Muddicati”  descrive “Marianu” sempre scalzo e con i calzoncini laceri sospesi ad una sola bretella :

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Carissimo Jano, abbiamo intrapreso vie diverse:  tu chiamato al sacerdozio, io chiamata all’insegnamento, che ho esercitato come una missione. Entrambi ci siano allontanati da Mistretta, il nostro amato paese.
Ma siamo sempre ritornati!
Mi hai invitato ad essere presente,  il giorno 17 Agosto di quest’anno 2017, nella chiesa di San Sebastiano per festeggiare, assieme ai nostri paesani, il tuo 50° anniversario di sacerdozio. Così hai scritto :” RINGRAZIERO’, con la Santa Messa, il Signore per i miei cinquant’anni di sacerdozio”.
IO c’ero!
Sono tue le parole:VI PORTO NEL CUORE
Giorno due luglio p.v. ricorre il mio cinquantesimo anniversario di sacerdozio. Ringrazio il Signore per avermi chiamato ad essere suo sacerdote. Questo giorno lo passerò in silenzio e in preghiera. Solo. Con il mio Signore. Non amo le cerimonie, i regali ecc. Pertanto giorno 1 Luglio mi ritirerò in un convento per passare l’anniversario del mio sacerdozio, 2 luglio, con il mio PADRE buono.
Prego tutti gli amici di Facebook di ringraziare con me il Signore per tutte quelle volte che tramite me ha fatto del bene e per chiedergli perdono per tutte quelle volte che non sono stato strumento docile nelle sue mani. Grazie! Ci risentiremo presto!!!!!!!!
La chiesa di San Sebastiano era gremita di gente.

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Hai presieduto la concelebrazione con Mon. Michele Giordano, con padre Carmelo Torcivia, con padre Giuseppe Capizzi, con padre Enzo Smriglio, con padre Sebastiano Morsicato, con altri sacerdoti e con i chierichetti.

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  Nell’omelia della Santa Messa hai parlato  dell’Amore di Dio, della fratellanza, della tua famiglia e della tua vocazione.

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CLICCA QUI

Molto ha inciso la famiglia nella tua formazione umana e cristiana.
Tua mamma, la signora Rosaria, donna Sarina, faceva da catechista ai suoi figli: a Nino, a Jano, a Maria, a Graziella.
Tuo padre, uomo giusto e laborioso, collaborava con la famiglia.
Hai iniziato la frequenza  del seminario a 11 anni.
Hai parlato di  Mistretta, con la quale hai sempre mantenuto il legame con la comunità amastratina, del tuo libro “Via Casazza N° 12”.

Non hai dimenticato i tuoi compagni di gioco della via Casazza.
Il mio augurio e quello dei nostri paesani è che Tu possa continuare a vivere la tua vocazione, chiamato a lavorare nella vigna del Signore e, da buon padrone, guidare il popolo di Dio nell’immagine di Gesù Buon Pastore.
Ci hai raccontato che, in occasione della Santa Messa di ringraziamento dei tuoi cinquant’anni di sacerdozio, nella Chiesa di San Sebastiano, a Mistretta, una Signora si è avvicinata per farti gli auguri e ti ha detto: “Padre cinquant’anni fa, in occasione della sua ordinazione, io, piccolina di otto anni, Le ho letto una poesia”. Le ho chiesto: “Ha qualche foto che ricordi l’evento?

ECCOLA!

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Un altro bambino ha letto un’altra poesia.

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 La fotografia è la testimonianza della festa, tenuta in uno dei palazzi nobiliari di Mistretta, per la tua Ordinazione sacerdotale.

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Ricordi questo oggetto? E’ la tua bomboniera! Mancano i confetti!
La signora Manno Maria Bettina conserva ancora gelosamente questo prezioso ricordo.

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Per festeggiare il tuo 50° anniversario di sacerdozio hai regalato una copia del libro “Via Casazza N° 12” a tutti i presenti di cui riporto le testimonianze.

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Nella prefazione l’Arcivescovo Carmelo Ferraro, riferendosi a padre Damiano, ha scritto:” “La grande avventura del sogno che diventa realtà è la storia della Provvidenza del Padre Celeste che gli ha messo nel cuore la passione del ministero sacerdotale, per aiutare i fratelli a proclamare le MERAVIGLIE del Signore”.
Riferendosi al libro,  ha scritto:”Questo libro è veramente prezioso, come è prezioso il ministero sacerdotale di Padre Damiano.
Esso contiene preghiere e foto formulate e prodotte nel corso degli anni da Padre Damiano. Sono suoi anche i pensieri e le mini riflessioni, vere gocce di sapienza che possono svelarci i misteri della vita, come questa:<< La vita è per i bambini gioco, per i giovani sogno, per gli adulti fatica, per tutti mistero>>”.
Questo libro, che racchiude 50 anni di vita missionaria, ci offre gocce di sapienza evangelica da vivere da gustare: “ Sono cristiano non per le preghiere che recito,  ma per l’aiuto che dò al mio vicino”.
“Se vuoi imboccare la strada che porta in paradiso devi passare per i vicoli dei poveri”.
“Più parlo con Dio, più la vita mi sorride. Più ascolto Gesù, più mi sento in pace”.
La prof.ssa Paolina Maniaci, nel paragrafo del libro “La strada”, ricorda Padre Damiano: “ Conosco padre Jano da quando, piccolissimo, la sua mamma lo portava in braccio, tenendo per la mano uno dei figlioletti più grandi.
La strada mi ha dato l’opportunità di conoscere i due fratelli Nino e Jano.
Ricordo quando sconfinavano dal loro quartiere “Casazza” al mio vicino quartiere di “San Giuseppe
”.
Venivano insieme; Nino (oggi padre Nino) che era la guida, e Jano (oggi padre Jano) che si adattava bene al seguito del fratello maggiore. Arrivavano seguiti da uno stuolo di altri ragazzi.
Erano in tanti e si facevano sentire per la loro vivacità: correvano e scorazzavano girando allegramente. Erano così rumorosi che non era possibile non avvertirne l’arrivo. Portavano, comunicandola agli altri, tutta la loro allegria: somigliavano alle rondini che, a primavera, volteggiano cinguettando e tracciando col volo larghe circonferenze nel cielo terso e sereno.
I fratelli Amato, spesso insieme a qualcuna delle sorelle, erano sempre al primo posto, esempio per tutti di sincera devozione.
Chi l’avrebbe detto che in un simile gruppo di ragazzi scorazzanti e simpaticamente un po’ troppo vivaci, il Signore avrebbe scelto due suoi ministri!
Un giorno nel gruppo si notò l’assenza di uno di loro. Si disse che Jano era partito per il seminario.
In pochi si meravigliarono, quasi tutti, invece, dicevano: “Ma si vedeva che era diverso! Faceva già il chierichetto!

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La casa di padre Damiano di Via Casazza N° 12 a Mistretta.

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Nella colonna di sinistra è riportato il nome dello zio materno, il signor Ferlazzo Antonino.

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Nel paragrafo “Seminario”, Don Franco Pisciotta scrive:” Per celebrare il 50° di sacerdozio di Don Damiano Amato mi si chiede di ripercorrere gli anni della formazione, tra il 1955 e il  1966 da lui vissuti nel seminario di Patti con altri confratelli, alcuni dei quali oggi sacerdoti, mentre altri hanno preso altre vie, ed altri ancora, molti, hanno concluso anzitempo il loro servizio sacerdotale.
La disciplina, ritenuta un valore assoluto nel tentativo di normalizzare la vita del clero a partire dal seminario e imposta con implacabile determinazione e ferocia, era mitigata solo in parte da una pietà approssimativa e tradizionale, più epidermica che interiorizzata e intrecciata con la vita vissuta; qualche sfogo si trovava nelle passeggiate e nelle furibonde partite di calcio, ma soprattutto nello studio e in alcune figure luminose di professori che ci educavano al vero e al bello, al desiderio e al metodo, al nuovo e al perenne, alla obbedienza e alla responsabilità, guidandoci con sapienza e affetto alla conoscenza della Chiesa  e del Mondo con i problemi e le necessità, cui da sacerdoti avremmo dovuto rispondere con la parola e con la testimonianza della vita.
In questo habitat è cresciuto e si è sviluppato come persona e come sacerdote Don Damiano Amato. Egli, oltre a relazionarsi con noi compagni ed amici, aveva il conforto di una integrazione anche affettiva in suo fratello Antonino, col quale costituiva un duo invidiabile e ammirato, spesso citato in coppia, (i fratelli Amato) o con i tipici appellativi familiari: Nino e Jano, che costituivano per molti garanzia di simpatia e disponibilità in tutti gli ambiti della difficile, complessa e tuttavia affascinante vita di seminario.
E al seminario, da sacerdote, avrebbe poi dato il suo contributo significativo Don Damiano, con i diversi incarichi di responsabilità a lui assegnati dai Vescovi in periodi diversi, come quello di Padre Spirituale e quell’altro di Economo”.
Racconta “ la prima esperienza parrocchiale
” a Gioiosa Marea negli anni 1967-1968 la dott.ssa Ninita Capizzi.
“Ero una bimba di 4 anni la prima volta in cui vidi un giovane sacerdote entrare all’asilo presso le suore di Sant’Anna, pertanto ho vaghi ricordi, ma uno è rimasto impresso: mi dava le caramelle per farmi stare buona, anzi zitta. Padre Damiano veniva nella nostra scuola materna ogni settimana e intratteneva noi bambini per circa un’ora facendoci cantare e giocare.

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Noi lo aspettavamo con tanta gioia, soprattutto per le caramelle che puntualmente ci portava.
Ricordo che la prima volta in cui Padre Damiano entrò nella nostra aula quasi tutti, se non tutti, abbiamo avuto paura forse per la talare nera che indossava o forse per la sua statura alta e snella.

Ricordo che, quando i miei genitori mi portavano fuori con loro, incontravo questo sacerdote sempre attorniato da giovani e da ragazzini”.
Nel paragrafo del libro  “U chiani i Chiesa” Don Aldo Alizzi ha ricordato il periodo della tua permanenza a Sant’Agata di Militello, nella parrocchia Santa Maria del Carmelo, negli anni 1971-1976 così: “ Padre Damiano, con la sua giovialità di un allora giovane prete, con idee innovative e moderne, fece presto ad attorniarsi di giovani di tutte le età.

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Ricordo con simpatia l’apertura di un <<oratorio>> in un locale vicino alla sagrestia nel quale padre Amato era riuscito a fare arrivare un calcio balilla ed un tavolo da ping-pong. Grandi sfide a calcio balilla e a tornei da pin-pong;
<<a sala>> era un punto di riferimento per i ragazzi di tutte le fasce d’età; per entrare non c’era bisogno di tessera né di aver partecipato alla Messa la domenica.
P. Damiano passava la maggior parte della sua giornata con noi seguendoci non solo nei giochi, ma si interessava del  nostro impegno scolastico, del nostro modo di agire nella società etc. e, quando stava con noi ragazzi, diventava uno di noi, tanto che gli adulti ci chiamavano i ragazzi <<du chiani i chiesa>>, <<i carusi ri Patri Amatu>>.
Quello che colpiva nel tratto di questa persona era la <<semplicità>>.
Una semplicità che era solo l’espressione iniziale, perché bastava stargli vicino per capire la sua profonda spiritualità che ha contraddistinto tutto il suo iter sacerdotale. La profonda fede che trasmetteva, appunto con la <<semplicità>>, ne completava il carattere.
Tutte le sue espressioni, i suoi movimenti riportavano al suo profondo senso religioso.
Ricordo che quando P. Damiano ci comunicò che ci avrebbe lasciati, noi non ci credevamo, nessuno lo prese sul serio, pensando al solito scherzo e quando capimmo che padre Damiano ci lasciava veramente ci invasero una profonda tristezza e tanto rancore che dura ancora oggi… non lo abbiamo perdonato.
P.Damiano sei sempre nei nostri cuori!”.
L’avvocato Masino Bisagni, nel paragrafo del libro “A Simca argentata Librizzi 1976 -1979”, scrive “ Quando, nell’estate del 1976 a Librizzi si era in attesa del nuovo vice – parroco, la curiosità era palpabile.
Padre Damiano, a settembre, giunse in paese alla guida di una Simca che era stata impiegata nelle guerre puniche, tanto era <<scassata>>.
Dalla Simca argentata venne fuori un tizio in tonaca, capelli corti, non certo basso, magro magro e con occhiali da <<cumenda>>. Che il Vaticano avesse inviato, nel piccolo centro nebroideo, un prete attinto dai racconti di Guareschi?
Il feeling, soprattutto con i giovani, fu immediato, non fosse altro per la tenerezza che suscitava per essere uno dei sette tifosi della fiorentina rintracciabili in Sicilia.
Affabile, delizioso e veemente al momento opportuno, di una veemenza passeggera, ma utile quando il caso lo richiedeva.
Ci imbarcavamo in sette per andare anche sulla neve a Floresta o a visitare Gioiosa Vecchia.
Un miracolo sette persone sulla Simca, ma ci voleva l’intervento ancora più autorevole per il ritorno in discesa considerato che i freni erano appartenuti, in anni lontani, ad Automobili di Tazio Nuvolari.
A posteri, e dopo tanti anni, voglio dirLe che non è stato assolutamente bello il suo andare via da Librizzi nel 1979. Troppo presto”
Il prof. Nino Faraci, nel paragrafo “Il mio Padre Spirituale in Seminario 1979-1985”così scrive: “ Rientrando a patti nel Settembre del 1979 per accingermi a frequentare la II Media, trovai, insieme agli altri seminaristi, un nuovo padre Spirituale, Don Damiano Amato.
In quel tempo la comunità era formata sia dagli studenti di Teologia, che dai ragazzi della Scuola Media e del Ginnaio-Liceo.
L’insieme dei semirasti in quegli anni oscillò tra le sessanta e le ottanta unità del primo periodo preso in esame, e tra le venti e le trenta unità degli ultimi anni, quando si chiuse progressivamente sia la Scuola Media sia il Ginnasio–Liceo interno.
Io e i miei compagni di classe vi eravamo entrati nel settembre 1978, a pochi mesi dall’arrivo del nuovo Vescovo, Mons. Carmelo Ferraro, che aveva portato con il suo forte carisma di spiritualità una ventata di novità sia in Diocesi che in Seminario.
Il sistema educativo su cui si fondava la nostra vita comunitaria, infatti, cominciava ad improntarsi su un modello più elastico, mirante al rafforzamento ed alla maturazione del personale senso di responsabilità, piuttosto che su quella rigida disciplina di cui noi nuovi arrivati sentivamo l’eco, quando i più grandi ci raccontavano della proverbiale inflessibilità dei prefetti della disciplina. Adesso si parlava di animatori, di educatori, si aprivano i confini della comunità alla collaborazione delle famiglie e delle parrocchie di origine, visto che ci veniva permesso di tornare a casa quasi ogni fine settimana.
Tutto ciò, sicuramente, era figlio dello spirito conciliatore che, in realtà, aveva cominciato  a soffiare già da tempo anche nella piccola comunità del Seminari pattese…
Il nuovo padre spirituale sembrava incarnare questa nuova realtà educativa: appariva singolare e fascinoso anche nel nome, perché in noi ragazzi destava il ricordo di quel Padre Damiano De Veuster, apostolo dei lebbrosi a Molokai, il cui esempio infiammava i nostri sogni di piccoli seminaristi, proiettandoci nella dimensione della missione esotica ed eroica.
Padre Damiano infondeva in noi fiducia, era cordiale, aperto al dialogo.
Nelle sue meditazioni sapeva toccare le corde del nostro cuore, negli incontri personali di colloquio spirituale ci conduceva sapientemente a scavare dentro di noi, mettendoci nelle condizioni di sondare la nostra intimità spirituale.
A rendere, però, più unico il ministero di Don Damiano come Padre Spirituale vi era il suo contagioso sogno del Villaggio della Pace, di Galbato, la sua parrocchia di campagna.
Egli lo condivideva con noi, ce ne rendeva partecipi con dei gesti concreti , quali la spedizione delle famose cartoline, insieme a delle lettere con cui egli chiedeva aiuti concreti per costruire il Villaggio: l’incipit di una di esse , che ricordo ancora, ciclostilata in caratteri corsivi, così recitava: <<Sono un povero parroco di campagna>>.
Speranza, fiducia nella Provvidenza, instancabile impegno nella Carità costituirono, quindi, i solidi confini entro i quali l’azione formativa del nostro Padre Spirituale si dispiegava in tutti quegli anni, che furono ricchi ed irripetibili per noi, ma sempre più faticosi per lui, visto il cumulo di impegni che lo gravavano.
Cosa dire, in conclusione di questa memoria, se non “Grazie” a Dio, anche per conto di tutti quei ragazzi di allora, per averci offerto nell’età più bella e difficile della nostra vita la guida spirituale di Padre Damiano?
In lui abbiamo scoperto la figura del sacerdote impegnato e sognatore, fattivo e visionario, che ci ha fatto sperimentare cosa significhi spendersi totalmente per il Regno di Dio.
Un ringraziamento insieme al nostro affettuoso augurio, allora, va anche a Padre Damiano per  tutto quello che ci ha regalato e perché, ancora oggi, è capace, con il suo sorriso, di farci sentire il calore della sua amicizia e della sua sollecitudine.

Don Giuseppe Di Martino, nel paragrafo del libro “Un incontro e una coincidenza a Capo D’Orlando 1986” descrive che: “ Era il mese di Settembre del 1986 quando cominciai a frequentate l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “F.P. Merendino” di Capo D’Orlando e ricordo il giorno in cui entrò in classe l’insegnate di Religione.
Si presentò:<<Sono Padre Damiano Amato, ma chiamatemi Jano>>.
Sono state sufficienti queste semplici parole, che hanno accorciato le distanze, per intuire che con quel prete si <<poteva parlare>>.
Nello snodarsi delle settimane e degli anni questa intuizione divenne riscontro concreto, che ci ha fatto sperimentare la semplicità, unita alla profondità di P.Jano, che non impose mai le proprie convinzioni, ma ci trasmise una gran voglia di ricercare il dialogo sempre e comunque.
La nostra classe era formata da ragazzi provenienti da diversi paesi dei Nebrodi, ognuno con la propria storia, ognuno col proprio carattere.

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Padre Jano era lì presente con noi, sempre pronto a mettere da parte gli argomenti che si era preparato e a scendere con noi in profondità, per aiutarci ad imparare a leggere i segni di Dio nella nostra vita e a coglierne il senso.
Ricordo che un giorno mi disse: <<Giuseppe, sappi che se nel mondo c’è una persona infelice, sicuramente sarà una persona che, senza essere chiamata, è diventata sacerdote; ma ricordati pure che se nel mondo c’è una persona felice, sappi che è una persona, che, chiamata da Dio, diventata sacerdote, vive quotidianamente con ardore e gioia del suo SI>>.
Attualmente sia io, sia padre Damiano, siamo parroci di due parrocchie della diocesi di Patti, dedicate ambedue al Sacro Cuore di Gesù: io in quella di Patti e Padre Damiano in quella della frazione Galbato di Gioiosa Marea.
In occasione del cinquantesimo anniversario di Ordinazione di P. Damiano desidero esprimere la mia gratitudine a lui e a Dio per aver permesso che la sua semplicità, intrisa di profonda radicalità evangelica, sia stata e, ne sono certo, lo sarà ancora per tanti, come lo è stato per me, luce che illumina e calore che riscalda il cuore di chi incontra la sua persona e incrocia il suo sguardo.
La prof.ssa Maria Porracciolo, nel paragrafo del libro ”Il Sogno 1967”,  ha descritto il sogno di Padre Damiano di realizzare il Villaggio della Pace.
Era ancora studente liceale quando gli balenò l’idea del Villaggio della Pace, avvertendo dentro di sé la necessità di fare qualcosa per il Regno di Dio.
Ci son voluti  ben quaranta lunghi anni perché questo suo sogno pastorale divenisse realtà!
Il Villaggio della Pace è opera di Dio e della docilità operosa di P.Jano.
La mattina del 2 luglio 1967  lo smilzo studentino nella cattedrale di Patti venne ordinato sacerdote da Mons. Pullano, vescovo di Patti. Appena ordinato sacerdote, fu destinato come vicario parrocchiale nella Parrocchia di San Nicolò di Bari, a Gioiosa Marea.
Mistretta era lontana, ma il sogno del VdP era sempre vivo nel suo cuore!
Manifestò la sua idea alle sorelle Orioles: Lilla, Maria, Ina, membri attivi dell’Azione Cattolica, che subito la sposarono divenendo sostenitrici e collaboratrici.
Con i soldi raccolti e con i suoi risparmi personali P. Damiano acquistò dal signor Mucio Michele il primo appezzamento di terreno a Galbato, una frazione di Gioiosa Marea.
Il vescovo, per distoglierlo d progetto, decise di allontanarlo da Gioiosa Marea e, nel 1971, lo trasferì a Sant’Agata di Militello per affiancare l’Arciprete Don A. Spiccia, nella Parrocchia Santa Maria del Carmelo dove rimase fino al 1976.
Nel 1976, senza che P. Jano se l’aspettasse, Mons. Pullano decise di avvicinarlo a Gioiosa Marea trasferendolo a Librizzi, un paesino a pochi chilometri da Gioiosa Marea in qualità di vicario parrocchiale.
Nel 1977 il Vescovo, in occasione dell’ultimo suo ritiro con i sacerdoti a Tindari, gli fece l’offerta o in denaro o in materiale edilizio. Padre Damiano scelse i mattoni per pavimetere una stanza.
Nel 1979 il nuovo vescovo di Patti, S. E. Mons. Carmelo Ferraro lo trasferì a Galbato con l’incarico di Padre Spirituale del Seminario. Ben presto sopraggiunse l’incarico di primo presidente della Caritas Diocesana.
Nel 1985, in crisi per lo stress,  P. Damiano scrisse al vescovo, dal Sacro Eremo di Camaldoli, dove quasi annualmente si ritira, pregandolo di rimuoverlo da Presidente della Caritas e da Padre Spirituale.
Fu trasferito come insegnate di Religione a Capo d’Orlando.
Inoltre, gli fu proubito di spedire cartoline e gli venne ordinato di impiegare i soldi raccolti. Investì il denaro delle offerte nell’allevamento dei cincillà. Fallimento totale!
Nel 1990 uscì il primo opuscolo dal titolo VdP e dal sottotitolo <<Padre ho bisogno di te>>, inviato soltanto alle persone più sensibili e alle Congregazioni religiose femminili.
Il 7 ottobre del 2000 iniziarono i lavori di costruzione del VdP.
Dopo la prematura morte della sorella Maria, avvenuta il 15 febbraio del 2003, S.E. Mons. Zambito espresse il desiderio di verificare a che punto fossero i lavori del VdP e offrì una somma di denaro per ultimare l’opera e un’altra la diede in prestito.
P. Jano non si risparmiava improvvisandosi muratore, falegname, elettricista, architetto.
E’ stata sua l’idea di denominare le quattro strutture che compongono il villaggio con questi nomi: Betlemme, Nazareth, Betania, Emmaus volendo sintetizzare la storia della Salvezza.
Finalmente il Villaggio della Pace è una solida realtà.
E’ stato inaugurato da S.E. Mons. Zambito il 13 luglio del 2005 ed operante dal 2006.
Un vero prodigio della Provvidenza  e il frutto più significativo del sacerdozio di Padre Amato.
Posso solo ringraziare per tutto Dio e P. Jano per il suo <<SI>> e dire  col salmista << Grandi cose ha fatto il Signore per noi!>> ”

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Il Villaggio della Pace  sorge in uno dei posti più belli della Sicilia, tra il verde dei monti Nebrodi e l’azzurro del mare Tirreno, con sullo sfondo la suggestiva vista delle isole Eolie.
Il panorama, vastissimo, abbraccia i rilievi dei Nebrodi, dei Peloritani e delle Madonie, l’arco di costa fino a Capo d’Orlando, il caratteristico roccione di Capo Calavà ed il golfo di Patti, con il promontorio di Tindari e la lunga penisola di Milazzo.
E’ immerso in sette ettari di verde.
Dispone di quindici stanze singole, dotate di bagno. All’interno di ciascuna vi è una cappellina per la preghiera personale. Sulla porta della cappellina  è scritto:<< Il silenzio è la musica di Dio>>.
Gli spazi comuni sono il refettorio e la chiesa.
Il Villaggio della Pace è un luogo Sacro aperto a tutti; sono gli ospiti a renderlo tale.

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Un gruppo di giovani, provenienti da Reggio Calabria, da Messina, da Palermo,  al Villaggio della Pace di Galbato – Gioiosa Marea (ME) per due giorni di ritiro spirituale accompagnati dal gesuita Padre Felice Scalia.
In questa oasi di pace ci si ritira, per qualche giorno, perché, aiutati dalla bellezza della Natura, si vuole fare una “esperienza particolare”: rientrare in se stessi, incontrare Dio, conoscere altri fratelli, dare senso alla propria vita, ricevere luce, essere dono per gli altri.
Le persone, che qui si incontrano, raccontano il proprio vissuto, aprono il proprio animo, manifestano difficoltà, dubbi, angustie varie senza giudicare né essere giudicati.
Ritiro spirituale dei corsillisti della diocesi di Patti al Villaggio della Pace.

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La sua struttura stupisce per semplicità e capacità di amicale accoglienza di chi vi si ritira alla ricerca di una libertà, che non significa fuga dalla vita, ma desiderio di una comunione più profonda con Dio.
Il Villaggio della Pace è messo a disposizione delle Parrocchie, delle Diocesi, delle Comunità religiosee laiche, che vogliono soggiornarvi per ritiri  spirituali  e per momenti di riflessione accompagnati da un sacerdote.
Vorrei trascrivere tutte le poesie di Padre Damiano contenute nel  libro, ma sono tantissime.
Lascio a ciascuno di voi la lettura di tutte le poesie raccolte nel libro “Via Casazza N°12” .
Ecco alcune poesie pubblicate sul libro e scritte da Padre Damiano in ordine cronologico:

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Riepilogando la figura di Padre Damiano:

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Alcune fotografie sono tratte dal sito internet

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sep 19, 2017 - Senza categoria    Comments Off on L’ EDICOLA VOTIVA DELLA SACRA FAMIGLIA NEL VIALE DEI TIGLI DELLA VILLA CHALET A MISTRETTA

L’ EDICOLA VOTIVA DELLA SACRA FAMIGLIA NEL VIALE DEI TIGLI DELLA VILLA CHALET A MISTRETTA

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Le edicole votive sono delle piccole casette di pietra, di marmo, di legno, di metallo che s’incontrano frequentemente percorrendo tutte le strade della città di Mistretta, anche quelle di periferia.
Il fervore religioso dei mistrettesi verso i Santi non si manifesta solo nella rappresentazione di quadri, di affreschi, di statue, di bassorilievi, che si trovano nel luogo più indicativo, cioè nelle chiese, ma anche attraverso l’esposizione delle icone votive.
Si ammirano nei prospetti esterni delle case, nei balconi, davanti alle porte d’ingresso delle abitazioni, nelle strade.
E’ un fiorire dell’edilizia sacra.
Ogni icona è la manifestazione di devozione della famiglia che vi abita verso il suo Santo protettore.
Ricordo che la trabbunedda di “Gesù, Maria e Giuseppe” a Mistretta è sempre stata là.

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Quando andavamo a piedi e l’unico mezzo di trasporto erano le nostre forti gambe, per noi ragazze,  la piacevole passeggiata lungo i viali per raggiungere la “trabbunedda ru Chalet” e per odorare l’intenso profumo balsamico emanato dai tigli era un’impresa ardua perchè il percorso era lungo, lontano e in periferia rispetto al centro del paese.

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In seguito al terremoto del 31 ottobre del 1967 la città di  Mistretta si è allargata estendendosi in contrada Giancavaliere.
La trabbunedda di “Gesù, Maria e Giuseppe”, edificata intorno alla metà del XVIII secolo, è posta alla fine della via Libertà, a Mistretta, lungo il viale dei Tigli che circondano la villa Chalet.
Come dimostrano le foto-cartoline gentilmente fornite dall’arch. prof. Mariano Bascì, tratte dal suo libro “Saluti da Mistretta”,  la trabbunedda di “Gesù, Maria e Giuseppe” prima era molto più vicina al ciglio della strada,

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Foto dal sito www.Mistretta.eu

adesso è stata arretrata per dare più spazio al Sagrato.

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La trabbunedda di “Gesù, Maria e Giuseppe” è un’edicola votiva, paragonabile a una piccolissima chiesetta, costruita in muratura.
Poggia su una base cocci di quarzarenite, la famosa pietra estratta dalle cave a Mistretta, incisi a formare tanti parallelepipedi sovrapposti.
Lateralmente le due colonnine scolpite e terminanti con un arco danno un notevole movimento architettonico al monumentino.
La Croce, posta nel centro del tetto triangolare e ricoperto dalle tegole, ricorda che è un luogo sacro, dove sostare per salutare, o per pregare incontrando la Sacra Famiglia.

IL SALUTO ALLA SACRA FAMIGLIA

Santa Famiglia benedetta,
tu sia mille volte benedetta,
poiché con la tua gloria rallegri la Maestà infinita.
A te, beltà incantevole,
piangendo i miei errori
e le mie antiche deviazioni,
consegno il mio cuore.
Guardatemi con compassione
e non abbandonatemi, Amati miei!

O PER RECITARE LA PREGHIERA

O Trinità della terra, o Gesù, Maria e Giuseppe,
sublimi modelli e tutori delle famiglie cristiane,
a Voi ricorriamo.
La vostra pace, la vostra inalterabile serenità ristorano i nostri travagli.
Aiutaci Tu, o Giuseppe, specchio della più mirabile paternità
nella cura assidua che sapesti prestare al Salvatore e alla Vergine;
vieni in nostro soccorso, o Maria,
la più amante, la più pura di tutte le Spose e di tutte le madri;
assistici Tu, o Gesù, il più sottomesso dei figli.
Siate tutti e tre sempre a noi vicini nelle ore tristi e nelle liete,
otteneteci che tutti i focolari, santi a imitazione del vostro,
siano per tutti i loro membri scuole di virtù,
asili di santità, cammino sicuro
verso quella beatitudine che per vostra intercessione fiduciosamente speriamo.

O PER CHIEDERE UNA GRAZIA

Pieno di fiducia e di speranza io vengo a Voi,
o Famiglia Santissima,
per impetrare la grazia che tanto sospiro.
Entro nella vostra casa di Nazareth,
la quale è ricca di tutti i tesori celesti che vi hanno accumulato il Figlio di Dio,
la Madre di Dio, ed il Padre putativo di Cristo.
Dalla pienezza di questa casa tutti possono ricevere,
tutto il mondo se ne può arricchire,
senza che essa tema di impoverire.
Orsù dunque, grande Famiglia,
poiché sei tanto ricca in ogni dono,
poiché hai tanta volontà di aiutare i bisognosi,
dammi quanto ti chiedo;
te lo chiedo umilmente per la gloria di Dio,
per tuo maggior onore,
per il mio bene e per quello del mio prossimo.
Che non parta sconsolato dai vostri piedi!
Poiché accoglieste sempre con volto gioioso
chi si rivolgeva a voi,  accogliete anche me con benevolenza.
Certo che voi non negaste mai la grazia a quanti fecero a voi ricorso qui in terra;
e vorrete negare a me la grazia che imploro adesso che regnate gloriosa in cielo?
Neppure posso immaginarlo;
ma ho una speranza sicura che voi mi ascolterete,
anzi, che già mi abbiate ascoltato e  mi abbiate già concesso la grazia desiderata.
Tre Pater, Ave, Gloria
Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il cuore e l’anima mia.

O PER RINGRAZIARE PER GRAZIA RICEVUTA

Siate benedetta, o Famiglia Santissima,
dalle lingue di tutti gli Angeli, di tutti i Santi,
di tutti gli uomini, dai presenti e dai futuri
per la misericordia che avete usato con me,
concedendomi la tanto sospirata grazia.
Risuonino pure i vostri nomi grandi e gloriosi
per ogni parte del mondo,
vi predichino i vergini, i padri, le spose, le madri, i giovani, i vecchi, il popolo, il Clero;
l’universo intero sia una voce per rendervi il dovuto ringraziamento.
Perché non posso vedere compiuta la vostra piena glorificazione in tutta la terra?
Sì, o Famiglia Santissima, per quanto so e posso,
vi ringrazio,
ed in segno di riconoscenza vi offro il mio povero cuore:
unitelo in un santo nodo ai vostri Cuori purissimi;
legatemi a voi con un vincolo indissolubile per cui,
con i vostri tre sacri Nomi sulle labbra io viva,
con questi tre sacri Nomi sulla bocca io muoia,
e questi tre sacri Nomi io venga a glorificare eternamente in cielo,
per passare così tutti i secoli nell’interminabile ringraziamento alla Trinità divina, Padre e Figlio e Spirito Santo, e a Voi potentissimi Protettori Gesù, Maria, Giuseppe. Così sia.
Tre Pater, Ave, Gloria.

L’edicola, infatti, custodisce il quadro di Gesù, Maria e Giuseppe, dipinto su tavoletta dall’artista G. Lupo.
La cornice è stata realizzata e donata da Pasquale Azzolina. Le foto del quadro e della trabbunedda sono state tratte dal libro dell’amico Vittorio Lo Iacono “Pasquale Azzolina scultore da Mistretta”, nonno materno dell’autore e di suo fratello Domenico.

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Pasquale Azzolina è stato un valentissimo ebanista, scultore e intagliatore, nato a Mistretta il 10 gennaio 1859 e deceduto il 15 febbraio 1934. Ha dimostrato di possedere notevole capacità artistica che ha ricevuto in eredità dal padre Michele.
Ritengo necessario descrivere l’albero di Tiglio e la villa Chalet per meglio conoscere il luogo.
Gli alberi di Tiglio, che adornano l’ultimo tratto della via Libertà, fino alla trabbunedda della Sacra Famiglia, sono molto numerosi.

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Adornano entrambi i lati del viale e si fanno notare per la bellezza delle fronde e per l’intenso profumo che si spande nell’aria anche a notevole distanza.

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Il Tiglio, una pianta appartenente alla famiglia delle Tiliaceae, è originaria dell’Europa e del Caucaso e diffusa nelle zone collinari e montane.
E’ un albero che cresce spontaneo spingendosi fino a 1500 metri di quota.
Il suo nome deriva dal greco ” πτίλον”, “penna, ala“, per la caratteristica brattea laterale dei peduncoli dell’infiorescenza.
Esistono numerose specie di Tiglio, così come esistono numerosissimi ibridi poiché s’incrociano molto facilmente tra di loro.
Per questo motivo l’identificazione delle singole specie non è semplice.
Nel viale della villa “Chalet” e nel giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è presente il Tiglio selvatico il cui nome botanico è “Tilia cordata” o “Tilia parvifolia”.
Il Tilia cordata presenta uno sviluppo colonnare ergendosi verso l’alto fino a un’altezza di 10 metri circa.

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 L’albero è provvisto di un robusto tronco diritto sostenuto da radici profonde ed espanse e rivestito dalla corteccia liscia quando la pianta è giovane, ma che diventa grigiastra, screpolata e fessurata e con venature longitudinali quando la pianta invecchia.

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 Alla base del tronco si sviluppano numerosi polloni che sono normalmente utilizzati per la moltiplicazione della pianta stessa.
Le foglie, decidue, alterne, cuoriformi, con i margini seghettati, cordate alla base ed acuminate alla sommità, provviste di un lungo picciolo, di colore verde più o meno intenso, lucide, hanno dei piccoli ciuffi di peli rossicci agli angoli delle nervature della pagina inferiore. La ramificazione densa e compatta, arricchita dalle foglie, dona alla pianta una forma piramidale.

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I fiori, ermafroditi, molto profumati, di colore bianco-giallastro, riuniti in mazzetti poco numerosi, sono sostenuti da un peduncolo che parte dalla brattea laterale, utile per proteggere il polline dalla pioggia, ma soprattutto per favorire la disseminazione dei frutti maturi per mezzo del vento.

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Ritengo opportuno scrivere notizie sul Tiglio e sulla villa Chalet per meglio individuare il luogo.
Il Tiglio fiorisce nei mesi di giugno e di luglio e i suoi fiori sono molto ricercati dalle api in quanto producono un abbondante nettare.
Bisogna aspettare alcuni anni prima che la pianta fiorisca ma, una volta che comincia a fiorire, la fioritura continua senza interruzione aumentando ogni anno il numero dei fiori.
I frutti, a forma di capsula ovale e dalle dimensioni di un pisello, contengono i semi che maturano ad ottobre.

Il Tiglio si moltiplica per seme, all’inizio della primavera, e per talea. Molto più semplice è la moltiplicazione per polloni prelevandoli dalla base dell’albero unitamente ad un poco di radici durante l’inverno e trapiantandoli immediatamente.
Il Tiglio è un albero che si adatta abbastanza bene alle diverse situazioni crescendo anche negli ambienti urbani e tollerando, quindi, l’inquinamento atmosferico.
Preferisce un’esposizione in pieno sole, non teme il freddo, sopporta temperature minime molto rigide e non gradisce l’eccessiva umidità né i terreni troppo asciutti, ma che devono essere umidi e ben drenanti.
L’albero tende a trovare gran parte dei nutrienti nel terreno poiché le radici si diramano anche per decine di metri.
In genere, non ha necessità di concimazioni durante la sua crescita, solo al momento dell’impianto apprezza una certa quantità di fertilizzante.
Durante l’inverno la pianta di Tiglio deve essere ripulita dai numerosi polloni per contenere il suo sviluppo e per darle una forma elegante evitando le potature eccessivamente drastiche.
Il Tiglio è una pianta molto ricercata in erboristeria. Le parti utilizzate sono: le infiorescenze ancora chiuse e le brattee raccolte all’inizio della fioritura e fatte essiccare. La raccolta si esegue a mano, staccando il fiore con la brattea. E’ utilizzata anche la corteccia raccolta in primavera.
L’infuso dei fiori di Tiglio ha molteplici proprietà sedative, antispasmodiche, antireumatiche, diuretiche, sudorifere ed anticatarrali.
I Tigli sono intensamente visitati dalle api che producono un miele molto conosciuto e largamente utilizzato in tutto il mondo.
La fragranza dei fiori di Tiglio può anche essere gustata in cucina poiché, essiccati e sbriciolati, aromatizzano dolci e sciroppi.
Dai semi della pianta di Tilia si estrae un olio simile nell’aspetto e nel sapore a quello dell’olio di oliva.
Le sue foglie sono un gradito alimento per il bestiame.
Il Tiglio non è un albero famoso solo per le sue innumerevoli proprietà terapeutiche, ma perché produce anche un legno tenero, leggero, utilizzato per lavori d’intaglio e di tornio e per la fabbricazione di mobili e di fiammiferi.
Il carbone è preferito per ottenere la polvere da fucile e per le mine delle matite da disegno. Con le fibre della corteccia si realizzano stuoie, cestini, carta e corde.
Per la sua lunga vita il Tiglio è simbolo di “longevità”.
Dagli antichi greci è stato da sempre considerato l’albero sacro ad Afrodite e, per questo motivo, considerato simbolo della “femminilità”.
La mitologia greca racconta che la ninfa Filira, figlia del dio Oceano e della dea Teti, abitante nell’isola di Ponto Eusino, ha dovuto soggiacere all’amore di Crono che la possedette nascondendosi sotto le sembianze di un cavallo.
Sorpreso dalla moglie Rea, per sfuggire alla sua ira, Crono fuggì al galoppo.
Filira partorì il centauro Chirone.
Il divino neonato era un mostro per metà uomo e per metà cavallo.
Spaventata, chiese al padre di toglierle la vita.
Oceano trasformò Filira in una pianta di Tiglio che, da allora, porta il suo nome.
Il Tiglio è, inoltre, considerato l’albero “dell’amore e della fedeltà coniugale”.
Un’altra antica leggenda mitologica greca, ambientata in epoca schiavistica nella Frigia ellenica e tramandata da Pubblio Ovidio Nasone nell’ottavo libro delle “Metamorfosi”, evidenzia l’amore coniugale di due anziani coniugi contadini e il valore dell’ospitalità.
Bauci e Filemone, due vecchi sposi, anche se era trascorso molto tempo dalla loro antica unione, erano ancora innamorati l’uno dell’altra.
Un giorno Zeus ed Ermes, vagando attraverso la Frigia sotto le fattezze umane, bussando a tante porte, domandavano ovunque ospitalità e ovunque era negata loro l’accoglienza.
Una sola casa offri asilo: era una capanna costruita con canne e con fango.
Qui, la pia Bauci e il forte Filemone, uniti da un casto e da un indissolubile amore, vedevano trascorrere i loro giorni più belli invecchiando insieme e sopportando la povertà resa più leggera dal loro tenero legame.
Zeus scatenò la propria ira contro gli inospitali frigi, ma, grato per l’accoglienza ricevuta, risparmiò i due consorti.
Trasformò la loro capanna in un lussuoso tempio e si offrì di esaudire qualunque loro desiderio.
Bauci e Filemone chiesero di poter essere sacerdoti del tempio di Zeus e di poter morire insieme.
Bauci e Filemone, ormai vecchi, stanchi e prossimi alla morte, improvvisamente da Zeus iniziarono ad essere trasformati: Bauci in una Quercia e Filemone in un Tiglio, due piante abbracciate per i tronchi. Finalmente erano uniti per sempre, l’una accanto all’altro.
Questo meraviglioso albero, che si ergeva dinanzi al tempio, fu venerato dai fedeli per moltissimi anni.

La villa “Chalet” o “a villa ru Callivaniu”, che si trova alla fine di Via Libertà, è la seconda villa di Mistretta, ma non meno importante della prima, della villa “Giuseppe Garibaldi”, per le essenze vegetali presenti.

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Il viale interno in primavera

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Lo stesso viale in autunno

La sua area apparteneva all’orto botanico dei Frati Riformati di Santa Maria di Gesù.
E’ così chiamata per l’aspetto scosceso di tutta la zona.
Infatti, il territorio è spesso sottoposto a movimenti franosi causati dalle sorgenti d’acqua sotterranee che fanno cambiare la fisionomia del terreno.
La villa si estende parallelamente al viale e vi si accede tramite il cancello d’ingresso posto a metà della lunghezza della villa.

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Collocata al centro della villa, la vasca, di forma quasi circolare, alimentata da un fitto getto di acqua e circondata da un’aiuola di fiori variopinti, ospita tantissimi guizzanti pesci rossi, principale attrazione di bambini.

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Recentemente un ampio spazio è stato sottratto alla villa per la realizzazione dell’eliporto per il pronto soccorso del vicino ospedale “SS.mo Salvatore”.
Presenta quasi le stesse essenze botaniche della villa “Garibaldi”, ma in quantità minore anche perché minore è la sua superficie.

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La fontanella, quando è richiesto, distribuisce il suo prezioso liquido: l’acqua!

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Il signor Paolo Mugavero, al quale erano affidate le cure della villa Chalet, e che avrebbe amorevolmente continuato a curarla, se la  morte non l’avesse strappato prematuramente alla vita, aveva saputo trasformare, attraverso l’ars topiaria, cespugli di Cotoneaster horizontalis  in bellissimi cigni.

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Adesso queste suggestive sculture sono dei cespugli incolti e informi pieni di bacche rosse.

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Anche la stessa villa è lasciata nell’incuria!

 

 

 

 

Sep 12, 2017 - Senza categoria    Comments Off on L’AILANTHUS ALTISSIMA NEL GIARDINO DEL PALAZZO ARMAO-RUSSO A MISTRETTA

L’AILANTHUS ALTISSIMA NEL GIARDINO DEL PALAZZO ARMAO-RUSSO A MISTRETTA

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Non è sfuggita alla mia osservazione, durante il mio soggiorno a Mistretta nel mese di agosto del 2017, la presenza delle meravigliose infiorescenze di fiori giallo paglierini che sporgevano dal muro di cinta del giardino del palazzo Armao-Russo compreso fra la Via Del Bevaio e il largo Buon Consiglio.

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Ho notato anche che molti alberi di Ailanthus altissima sono distribuiti lungo la via Nazionale, fuori dalle mura della città, procedendo verso Nicosia.

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  Moltissimi sono questi alberi presenti lungo le strade siciliane!

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Sono le infiorescenze a pannocchia dell’Ailanthus altissima.

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L’etimologia del genere “Ailanto” è incerta.
Secondo alcuni deriva dal francese “ail” “aglio” a causa dell’odore agliaceo emanato dalle foglie quando vengono stropicciate, oppure dal greco “anthòs” “fiore“.
Oppure il nome è un’alterazione del malese “ailant” o “aillanitol” “albero che raggiunge il cielo”, o “albero del paradiso“,  nome col quale l’Ailanto è chiamato nell’arcipelago delle Molucche.
Il nome della specie “altissima” deriva dal latino “altissimus, -a, um”, in riferimento all’altezza che la pianta raggiunge.
Un altro sinonimo dell’Ailantus altissima è Ailanthus glandulosa.

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L’Ailantus altissima è una specie vegetale appartenente alla famiglia delle Simaroubaceae originaria delle regioni meridionali della Cina, dove la specie è conosciuta fin dai tempi molto lontani.
Nel XVIII l’Ailantus fu introdotto in Europa grazie alla sensibilità del gesuita padre Pierre d’Incarville che inviò una buona quantità di semi.
Per la loro grande capacità di germinazione i semi subito generarono le nuove piante.
Infervorati dal risultato ottenuto, anche alcuni botanici francesi cominciarono a spargere i semi e a condividerli con altri studiosi europei, in particolare con gli inglesi.
La specie fu introdotta in Inghilterra nel 1751. Nel 1784 fu introdotta anche negli Stati Uniti. In Italia è stata introdotta alla fine del 1760 nell’Orto Botanico di Padova.
L’Ailantus altissima è un albero a portamento eretto.
Cresce rapidamente ed è capace di raggiungere 25 – 30 metri di altezza in pochi anni e, per questo motivo, è chiamato “Albero del paradiso”.
Si lega al terreno mediante un apparato radicale formato da rizomi che riescono a estendersi profondamente, per cui è difficile l’eradicazione, e anche orizzontalmente per diversi metri emettendo polloni a notevole distanza.
Dalle radici s’innalza il fusto colonnare rivestito dalla corteccia che inizialmente è liscia e di colore grigio chiaro e successivamente diventa ruvida e con screpolature di colore marrone.
Sul fusto sono presenti anche delle lenticelle.
La chioma, molto ramificata ed espansa, è formata dai rami e dalle foglie.
I rami, lisci, lucenti, dal colore grigio chiaro-scuro, man mano che la pianta cresce si formano delle lenticelle prominenti che col tempo si fessurano. Le estremità dei rami sono pendenti.

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Le foglie, disposte alternatamente sullo stelo, sono pennato- composte, lunghe anche 40-50 cm, costituite da 15-20 piccole foglie ovali, disposte in coppie.

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La pagina superiore è di colore verde scuro con venature verde chiaro, mentre la pagina inferiore è di colore verde biancastro. Hanno il margine liscio e intero, l’estremità affusolata e, vicino alla base, presentano una profonda nervatura. Ogni foglia è attaccata al ramo mediante il picciolo lungo da 5 a12 mm.

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 Generalmente l’Ailantus altissima è una pianta dioica. Ci sono esemplari che producono solo infiorescenze maschili e altri che producono soltanto infiorescenze femminili.
Esistono anche esemplari con fiori ermafroditi e quindi capaci di autofecondarsi.
Alla fine della primavera, all’apice dei rami avviene l’antesi.
Compaiono le infiorescenze a pannocchie terminali, lunghe anche 50 cm, di piccoli mazzetti di fiorellini solitari di colore giallo-verde, a volte con sfumature rossastre, composti di 5 petali e sepali.
I petali sono valvari, pelosi, i sepali sono a forma di tazza, lobati e uniti.
I fiori maschili emanano un odore sgradevole mentre i fiori femminili sono inodori.

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Anche le foglie e la corteccia dell’Ailantus emanano un odore sgradevole.
Per questo motivo volgarmente l’Ailantus è definito “L’albero che puzza”.
l’impollinazione è entomogama.
Alla fine dell’estate sono visibili i frutti, numerosissime polisamare costituite da 1-5 piccole samare alate, cartacee, di 3-4 cm, oblungo-lanceolate e sinuate, gialline quando sono giovani, rossastre quando sono mature e persistenti sull’albero per molti mesi.
Contengono al centro un unico seme appiattito, bruno-giallastro o rossastro.

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L’albero comincia a produrre semi precocemente e in abbondanza, fino a 300.000 unità.
La disseminazione è anemocora.
Essa inizia a partire dal mese di  novembre e si protrae fino a maggio. I semi, grazie alla loro forma, anche con il soffio di un vento leggero, si spingono molto lontano dalla pianta madre, fino a 70 metri.
I semi germinano facilmente.
La riproduzione avviene anche per talea da rami e da radici.
La pianta è poco longeva, raramente supera i 50 anni di età sebbene la sua straordinaria capacità di generare polloni, che si allungano anche a grande distanza dalla pianta madre, le consente di replicare se stessa per tempi assai più lunghi.
Spesso tende a diventare infestante e difficile da estirpare.
Ha scelto bene il posto dove poter vegetare bene l’Ailanthus altissima!
Nella piazza San Felice, di fronte alla  villa comunale “Giuseppe Garibaldi”, a Mistretta, stretto ai piedi del Lugustrum acutifolia,  come dimostra la foto del dott. Luigi Marinaro, vegeta una piccola pianta di Ailanthus.

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L’Ailanthus, oltre ad essere una pianta invasiva  è anche vanitosa.
Crescendo rapidamente,  soffocherà il Ligustro?
Che fare?
Nella piazza San Felice ha la possibilità di farsi ammirare per la bellezza della pianta nel suo portamento, nella forma e nella grandezza delle foglie, nelle infiorescenze.
L’Ailantus è poco esigente. Presente in tutto il territorio italiano, ama gli spazi aperti e luminosi.
Preferisce vegetare dal livello del mare fino a 1000 metri di altezza posto su terreni abbastanza aridi, ricchi di azoto e con pH da neutro o poco acido.
E’ una pianta xerofila, che riesce a sopportare la siccità.
Controlla l’evaporazione chiudendo gli stomi presenti sulla pagina inferiore delle foglie.
Sopporta bene temperature invernali rigide, come accade a Mistretta, ma anche il caldo estivo sopportando temperature anche sopra i 40°C per periodi prolungati. Resiste al vento, all’inquinamento ed è immune da parassiti e da altre malattie.
E’ una pianta pioniera. Sempre per la sua adattabilità e per la sua grande velocità di crescita l’Ailanto è utile per il rimboschimento e per consolidamento di aree franose e depresse.
E’ una pianta pioniera. Riesce a colonizzare terreni abbandonati e ruderali, a rinsaldare scarpate e zone attaccate dal fuoco, da altri fenomeni atmosferici, o da insetti defogliatori.

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Non è consigliabile coltivare l’Ailanto nei giardini privati e nei parchi pubblici per il suo cattivo odore e perché è invasivo. Col suo apparato radicale cospicuo e molto profondo soffoca le altre piante .
L’Ailanto possiede un legno tenero e di modesta qualità, buono come combustibile perché produce fiamme di colore chiaro e lascia poche ceneri.
Il legno degli alberi giovani può essere utilizzato nell’industria della carta, grazie alla sua elevata redditività, e per la produzione di piccoli oggetti artigianali.
In Cina l’Ailanto era estesamente coltivato per ospitare la falena Samia cynthia, detta “Bombice dell’Ailanto”, utile per la produzione di una particolare seta ricavata dal bozzolo della larva che si nutre delle foglie dell’Ailanto.
La coltivazione  dell’Ailanto si estese anche in altri paesi per l’allevamento della farfallaper lo stesso motivo.
Essa è una farfalla di grandi dimensioni introdotta in Europa verso la fine del ‘700, e in Italia nel 1856, per produrre seta in alternativa a quella più pregiata prodotta dal Bombix mori, il bruco del Baco da seta che si nutre delle foglie del gelso.
Nel 1856 anche in Italia si cominciò a coltivare l’Ailanto con l‘intento di ospitare la farfalla Samia cynthia.
Tuttavia la scarsa qualità del prodotto e l’invenzione delle fibre sintetiche, fecero cessare i tentativi di produrre questo tipo di seta.
L’Ailanto si diffuse in tutta l’Europa e si naturalizzò, come anche la falena Samia cynthia che continua a vivere sugli Ailanti.
Nessuna parte della pianta dell’Ailanto è commestibile.
Non è gradita neanche agli animali.
I suoi fiori attirano particolarmente le api che, col suo nettare, producono un ottimo miele monoflora, il miele di Ailanto, dal sapore fruttato amarognolo.
Dalla medicina tradizionale cinese l’Ailanto è considerato un albero sacro per le proprietà farmacologiche ottenute dagli estratti della corteccia, dei frutti e dalle radici. Intervengono nel trattamento di malattie mentali, della calvizie e della dissenteria  perchè contengono alcaloidi, triterpeni e flavonoidi quali principali costituenti chimici. Resine e alcaloidi, tuttavia, sono fortemente tossici e possono provocare effetti secondari quali nausee e depressioni. Il contatto con le foglie puzzolenti può provocare irritazioni cutanee, dermatiti e allergie.
Nell’industria le foglie sono utilizzate per tingere di giallo la lana.

 IL PALAZZO ARMAO-RUSSO A MISTRETTA

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Il Palazzo Armao-Russo è conosciuto con questi due nomi perché fu costruito nel 1755, come testimonia la data incisa sul blocco lapideo sottostante il tetto, ( e non nel 1775 come erroneamente riportato nella tabella del Club Lions), dal Barone don Giovan Battista Armao, membro di una facoltosa famiglia del luogo, abilissima nei commerci della seta, dell’olio, dei formaggi.

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 Don Giovan Battista, sposando la signorina Vittoria Valdina, volle ospitarla in una residenza elegante, aristocratica e aperta verso la campagna che guardava le montagne.
Circa un secolo dopo, fu acquistato dal Cavaliere Giovanni Russo in occasione del suo matrimonio con la signorina Remigia Catania.
Il palazzo è un bellissimo esempio di architettura del Settecento, che segna il passaggio dal barocco al neoclassico, formato da un isolato comprendente la Strada Monte,

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  la Via Primavera,

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 la Via del Bevaio, da dove si affaccia nella Via San Biagio,

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  e con la parte posteriore si affaccia sul largo Buon Consiglio.

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Il palazzo comprende il piano terreno, adibito a scuderie e a botteghe varie, il primo piano abitato dalla servitù, e il piano nobile al quale si accede dall’ingresso principale.

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Un ingresso al piano sopraelevato di destra della servitù è dalla via del Bevaio.

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Superato il portone, alcuni gradini interni immettono in due ampi locali a sinistra e alla cucina a destra  dalla quale si accede al giardino privato, anticamente molto rigoglioso nella vegetazione, oggi completamente incolto, circondato da un alto muro di cinta e abbraccia il retro dell’edificio.

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Ricordo che negli anni ’60, giocando con i nipoti del signor Insinga, in particolare con la cara e indimenticabile Maruzza,  abbiamo frequentato questo giardino e andavamo a trovare la signora Maria Grazia Ribaudo, mamma della signora Marana, donna molto anziana e molto ospitale,che abitava in un mini locale all’interno del giardino.
Il palazzo, di forma geometrica a parallelepipedo e bloccato da robusti cantonali, si presenta con due ordini distinti.

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Il portale principale, molto alto, ad arco a tutto sesto, in pietra arenaria, circondato da colonne scanalate, mostra lo stemma nobiliare della famiglia Catania con l’aquila rampante e la corona.

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I balconi, quelli in alto, allo stesso livello, sono abbelliti da ringhiere rigonfie di ferro battuto, di tocco spagnolo, e sostenuti da mensole scolpite.

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Contenuti in lunette sagomate, i quattro personaggi, scolpiti ad alto rilievo in stucco, rappresentano la poesia e la politica.
Di fronte al palazzo Russo c’è il palazzo Salmone.
Le due famiglie, Russo e Salamone, comunicavano all’esterno attraverso la loro ideologia.
Mentre nella famiglia Russo prevalevano la poesia e la politica, nella famiglia Salamone prevaleva la filosofia rappresentata dai filosofi scolpiti nelle lunette.
Nel palazzo Di Salvo, vicino al palazzo Salamone, prevalevano le allegorie delle arti: della musica, della pittura, della poesia, della scultura,  opere create dalla feconda fantasia artistica di Noè Marullo che le ha riprodotte nelle immagini dei personaggi di stucco posti nelle lunette ad arco ribassato sopra ogni balcone.

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Molti sono altri balconi e finestre che abbelliscono le facciate del palazzo.

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All’interno un ampio androne separa due scale, una a destra e l’altra a sinistra, che conducono ai primi piani dei mezzanini del palazzo sicuramente abitati anch’essi dalla servitù.

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Quindi l’androne continua fino a dividersi, superando le due balaustre, in due rampe di scale che conducono all’elegante loggiato del piano nobile.

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Il coro “Monteverdi”

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32a balaustra dello scalone principale del palazzo ok

Quindi, attraverso un’altra rampa di scale si accede al piano nobile.

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Prima di intraprendere le scale, il percorso può continuare con un corto tunnel che conduce ad un’altra entrata nell’ampio giardino.
Le pareti e le volte dei soffitti dei due saloni interni del palazzo sono abbelliti dallo stemma che ricorda la famiglia Russo e da tante altre decorazioni originali  e affreschi realizzati dall’artista Francesco la Farina nel 1832, ma non in buono stato di conservazione.

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Nel grande e fastoso salone si organizzavano feste, i celebravano i matrimoni, si battezzavano i neonati, si programmavano riunioni politiche, si riunivano i liberali, si procuravano l’occorrente per manifestare contro i Borbone e per cacciarli dalla Sicilia.

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L’affresco raffigura il Concilio degli Dei e si trova nel salone d’onore

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 I pavimenti sono rivestiti  da mattonelle in ceramica.

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La sezione nobile del palazzo contiene il camino e moltissimi mobili e oggetti di arredo.

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Nella seconda metà del XIX secolo il palazzo veniva trasferito alla proprietà del cav. Giovanni Russo, convolato a nozze con donna Remigia Catania, nobildonna di Mistretta.
Attualmente il palazzo per metà è di proprietà dei fratelli Prestifilippo, figli del signor Giacomo e della signora Rosaria Calabrò, conosciuta col nome di  signora Marana, e per l’altra metà degli eredi del signor Insinga Giuseppe.
Il restauro del tetto è stato effettuato recentemente dalla ditta Sgrò Vincenzo di Mistretta, su commissione della Soprintendenza ai BBCC di Messina.
Il palazzo avrebbe ancora bisogno di un urgente e attento restauro per conservare ancora a lungo questo prezioso monumento.

 

Sep 3, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL MYRTUS COMMUNIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL MYRTUS COMMUNIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Nascosta sotto un albero di Magnolia grandiflora la pianta di Mirtus communis, posta in un’aiuola della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, abbracciata ai suoi piedi dalla pianta di Laurus nobilis, cerca di difendersi anche dall’aggressione dei bambini.

https://youtu.be/RJXwCZpZIpE

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Il Mirto, Myrtus communis, in Sicilia chiamato “Murtidda”, appartiene alla famiglia delle Myrtaceae.
E’ una pianta che maggiormente si fa notare nel panorama delle piante mediterranee.
Dentro l’Orto botanico di Pisa, in uno spazio denominato “l’orto del Mirto” è presente un vetusto esemplare di Myrtus communis.
Benché gli appartenenti alla sua famiglia siano migliaia, il Mirto, originario dell’Africa del nord, è l’unico elemento delle Mirtaceae ad essere presente in tutta l’Europa specialmente in Grecia, in Italia, in Spagna e nella Francia mediterranea.
Si trova anche nelle contee sud-occidentali dell’Inghilterra, in Irlanda e persino in India e in Argentina.
In Italia è diffusissimo in Sardegna dove cresce spontaneo.

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 Secondo la leggenda, il nome “Myrtus” deriva da Myrsine, mitica fanciulla greca, invincibile nelle gare ginniche che, dopo aver battuto un suo coetaneo in una gara di giochi, è stata uccisa dall’amico del giovane, in un impeto di gelosia, perché accecato dalla rabbia. La dea Pallade, impietosita, trasformò il suo corpo esanime in un delizioso arbusto chiamato Myrsine, da cui il nome Mirto.
Il Mirto è un arbusto non spinoso della macchia mediterranea, sempreverde, perenne, molto ramificato, cespuglioso, alto circa 160 centimetri.
Ha graziose foglie a margine intero, opposte, persistenti, ovali, coriacee, glabre, lucide, di colore verde scuro e, quando sono spezzate, per la presenza nel loro spessore di ghiandole oleifere rotonde, emanano una gradevole fragranza dovuta alla presenza del mirtenolo, un olio dotato di proprietà balsamiche.

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La corteccia, rossiccia nei rami giovani, col tempo assume una colorazione grigiastra.
I suoi fiori bianchi, a 5 petali, solitari, profumati, lungamente peduncolati, crescono all’ascella delle foglie. Gli stami, molto numerosi, dorati, sono ben evidenti per i lunghi filamenti.

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L’ovario, infero, termina con uno stimma semplice.
Il Mirto fiorisce tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate e i fiori si raccolgono nei mesi di luglio e di agosto, le foglie durante tutto l’anno, le bacche in autunno. Fiori, foglie e bacche, dopo averli essiccati al sole, si conservano in scatole dotate di una buona chiusura.
Il frutto è una piccola bacca di consistenza carnosa, ovoidale, dal colore verde e poi bluastro e dal profumo gradevole, molto gradita agli uccelli. Contiene numerosi semi reniformi che maturano da novembre a gennaio. Le bacche persistono per un lungo periodo sulla pianta. La riproduzione avviene per semi e per talea.

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Il Mirto prospera ove il clima è mite, sopporta bene la siccità, ma teme il gelo. Predilige un substrato sabbioso, ben  sciolto e permeabile, ama il sole e desidera un’esposizione aperta e arieggiata.
Può essere soggetto ad attacchi da parte degli Afidi e della Cocciniglia. I funghi provocano l’ingiallimento e le macchie del fogliame.
Nel giardino di Mistretta, dove le temperature invernali scendono sotto lo zero, il  Myrtus è posto in una posizione riparata e protetta. Nel giardino “Garibaldi” è coltivato anche il Mirtus tarentinus

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 che si differenzia dal communis per le foglie piccolissime e per la chioma più compatta.
Per il contenuto in oli essenziali, in tannini e in resine, il Mirto è un’interessante pianta dalle proprietà aromatiche e officinali.
Trova impiego in campo erboristico e farmaceutico per la cura delle affezioni a carico dell’apparato digerente e del sistema respiratorio. Infatti, gli sono attribuite proprietà balsamiche, astringenti, leggermente antisettiche.
Dal nome volgare con il quale spesso è conosciuto il Mirto, “Mortella”, deriva il termine “mortadella” proprio perché essa era aromatizzata con le sue foglie.
L’impiego fitocosmetico del Mirto risale al Medioevo: con la locuzione di “Acqua degli angeli” s’indicava l’acqua distillata di fiori di Mirto usata nell’industria dei profumi per le spiccate proprietà tonificanti e astringenti, ottime per l’epidermide.
Un decotto di foglie e di fiori, applicato esternamente, esercita un’azione decongestionante sulla pelle e sulle mucose della bocca; è indicato.
Le bacche, fatte macerare, sono utilizzate per la preparazione dell’ottimo liquore del Mirto molto conosciuto in Sardegna.
Questo liquore è ormai diventato il digestivo per eccellenza offerto, spesso in omaggio, nei ristoranti sardi al termine del pasto.
Usate in cucina, le sue foglie sono utili per aromatizzare carni, salumi, condimenti e miscele di spezie dando una nota molto fresca.
Già Plinio affermava che la salsa dei frutti di Mirto era uno squisito ingrediente per l’arrosto di maiale.
I rametti di Mirto sono usati frequentemente come ornamento nei banchi delle macellerie e delle rosticcerie.
Il Mirto è Il mirto è sempre stata una pianta sacra fin dal tempo degli egiziani e dei persiani.
Per i romani era simbolo di “pace, di trionfo e di vittoria”. I generali, reduci dalle battaglie vittoriose, erano premiati dal senato con corone di Mirto.
Con i suoi rami s’intrecciavano ghirlande con le quali s’incoronavano i poeti durante le manifestazioni letterarie.
E’ l’arbusto caro ai poeti perchè simbolo di “gloria”.
Nell’Antico Testamento, in Dio salverà il suo popolo, (Isaia 41, 18 – 19), si legge: “ […] Cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in sorgenti. Pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti; perché vedano e sappiano, considerino e comprendano a un tempo che questo ha fatto la mano del Signore. Lo ha creato il Santo di Israele “ […].
In Israele s’intrecciavano ghirlande di Mirto che si offrivano alle giovani donne quando si sposavano.
Il Mirto è stato da sempre il simbolo della “fecondità” tanto che Plinio lo aveva soprannominato “Myrtus coniugalis” in quanto si usava nei banchetti di nozze come augurio di una vita serena e ricca di affetti.
Nei canti cretesi rappresenta da sempre una pianta afrodisiaca tanto che chi vuole essere amato è esortato a raccogliere un ramo.
Ancora oggi in alcuni Paesi, secondo le tradizioni locali, forse per il candido colore dei suoi fiori, la pianta è considerata simbolo della “verginità e dell’amore puro” e, insieme ai fiori d’arancio, è aggiunto nei mazzi floreali delle spose.
In molti cerimoniali religiosi il legno di Mirto si bruciava come l’incenso.
Nella mitologia greca il Mirto era considerato il simbolo “dell’amore e della bellezza” e, per questo, era sacro alla dea Venere.
Si narra che Venere, quando uscì nuda dalla schiuma del mare di Cipro, si rifugiò dietro un cespuglio di Mirto, che simboleggia la bellezza pudica, per nascondersi dagli sguardi vogliosi di un satiro.
Era considerata una delle piante simboliche di Roma e, infatti, nel Foro un’antica ara era consacrata a Venere Mirtea.
Il Mirto, però, ha anche un significato funebre. Infatti, nell’antica Grecia si raccontava che Dioniso, sceso nell’Ade per liberare la madre Semele, aveva dovuto lasciare, in cambio, una pianta di Mirto.
Da allora il Mirto rappresenta l’aldilà.
I Greci lo offrivano ai morti ed Elettra lo richiedeva per l’anima di Agamennone, suo padre.
Nel linguaggio dei fiori il Mirto simboleggia “l’amore”.

 

 

 

 

 

Aug 23, 2017 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERO DI GLEDITSIA TRIACANTHOS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ALBERO DI GLEDITSIA TRIACANTHOS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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In primavera

Continuando il percorso del viale di destra della villa comunale “Giuseppe Garibaldi”, a Mistretta, adiacente al cancello d’accesso all’ex dancing “MILLE LUCI”,  non sfugge al visitatore attento l’albero caratteristico per le sue spine che spuntano anche sui rami.
E’ la “Gleditsia” è un genere di piante comprendente dieci specie di alberi decidui originari della Cina, del Giappone, dell’Iran, dell’America Settentrionale dove forma boschi termofili misti di latifoglie.

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Linneo dedicò il nome del genere Gleditsia al suo scopritore J.G.Gleditsch, direttore dell’Orto Botanico di Berlino nel secolo XVIII.
Il nome “triacanthos” della specie deriva dal greco “τρεϊς”, “tre” ed “άκανθα”, “spina” per significare che le spine acuminate, tripartite, abbondanti sul fusto principale, si presentano spesso con un aculeo lungo centrale e due laterali più brevi.

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La pianta di Gleditsia triacanthos è conosciuta anche con il sinonimo di “Spino di Giuda, Spinacristi, Acacia spinosa”.
L’albero Spino di Giuda è stato introdotto in Europa nei primi anni del ‘700, soprattutto per ornamento, ma poi si è inselvatichito adattandosi al piano e alla montagna fino a 1000 metri di altitudine.
Anche in Italia si è spontaneizzato formando piccoli popolamenti lungo le scarpate e le strade.
E’ presente nelle regioni centro-settentrionali ed in Sicilia ed è una specie molto diffusa nei giardini. Appartenente alla famiglia delle Leguminosae e alla sottofamiglia delle Caesalpinaceae, la Gleditsia triacanthos ha vita abbastanza lunga ma non superiore ai 100-150 anni.
Gli esemplari adulti possono raggiungere i 10-15 metri di altezza, anche se spesso mantengono dimensioni più contenute soprattutto a causa delle potature.
Lo Spino di Giuda nel giardino di Mistretta è un albero di rapido accrescimento, di taglia media, alto circa otto metri.

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 In inverno

Presenta l’apparato radicale ampio e profondo, il fusto diritto e spoglio in basso, mentre la sommità si allarga a formare la chioma globosa e irregolare.

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Il tronco è rivestito dalla corteccia grigio-brunastra, liscia, leggermente fessurata longitudinalmente in età avanzata e provvista di lenticelle.

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Sulla sua superficie spesso si sviluppano ciuffi di numerose robuste spine legnose grigio-rossastre e ramificate.
I rami giovani, lucidi, dal colore bruno-chiaro, sono striati longitudinalmente ed hanno un andamento disordinato e contorto.
Anche i rami ascendenti, che si dipartono spesso fin da breve altezza, sono spinosi.

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Le foglie, picciolate, caduche, sessili, alterne, composte, paripennate, costituite da 12-20 foglioline, lunghe 2-3 centimetri, lanceolate, bipennate quelle dei rami sterili, a bordo minutamente dentato e talvolta intero, sono glabre e di colore verde scuro nella pagina superiore, leggermente pubescenti e di colore verde più chiaro nella pagina inferiore.
In autunno assume una colorazione giallo-dorata.
 L’insieme delle foglie forma una chioma leggera, vaporosa ed espansa verso l’alto. Sono lucide e di colore verde e assumono una tonalità gialla nel periodo autunnale perciò cadono in alcuni mesi dell’anno. Le prime foglie si formano sul legno vecchio.

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 E’ una pianta monoica.
I fiori unisessuali e bisessuali, poco appariscenti, odorosi, posti sulla stessa pianta e disposti in racemi penduli all’ascella delle foglie, sono lunghi circa 10 centimetri e di colore bianco- giallastro.
Le infiorescenze maschili sono formate a grappoli di numerosi e piccoli fiori con una rudimentale corolla di 3 – 4 petali da cui sporgono lunghi stami con antere gialle.

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Le infiorescenze femminili sono composte di pochi fiori di dimensioni ancora più piccole.

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La fioritura avviene alla fine della primavera, da maggio a giugno.
Dai fiori si ottiene un eccellente miele, ma inferire a quello della Robinia.
I frutti, grandi baccelli di colore rosso-bruno, coriacei, indeiscenti, lucidi, appiattiti e nastriformi, semilegnosi, falcati e ritorti, lunghi anche 40 centimetri, contengono numerosi semi ovali e appiattiti avvolti dalla dolce polpa.

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I frutti si formano nel mese di agosto e maturano ad ottobre rimanendo appesi all’albero per un certo tempo prima di cadere interi spontaneamente a terra in inverno.

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La riproduzione avviene generalmente attraverso i semi, anche se il tegumento esterno molto duro ostacola una rapida germinazione.

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Essendo prodotti in quantità elevata, i semi favoriscono l’autodisseminazione.
La pianta si moltiplica anche per talee semilegnose.
I legumi, commestibili e nutrienti, allo stato fresco sono dolciastri pertanto costituiscono un buon alimento per gli animali erbivori.
Anche alcuni uccelli si nutrono dei semi rompendo i baccelli caduti a terra.
I legumi teneri, bolliti e conditi, possono essere usati anche per l’alimentazione umana.
La polpa dei frutti può essere fatta fermentare producendo una sorta di birra.
I frutti, nell’arte floristica, sono utilizzati per realizzare composizioni di fiori secchi.
Lo Spino di Giuda, coltivato in Italia sin dal 1712, per l’aspetto maestoso e per i singolari frutti, è una pianta largamente impiegata a scopo ornamentale nei parchi e nei giardini, per le alberature stradali, per il consolidamento dei terreni unitamente alla Robinia.
Magistralmente potato, è usato per formare siepi impenetrabili.
La presenza delle spine acuminate, che armano il suo tronco e i suoi rami, impediscono agli animali di divorare i legumi e le foglie, pertanto si presta bene alla realizzazione di recinzioni che impediscano l’accesso agli animali al pascolo incontrollato.
Il ramo di spine, nella tradizione religiosa mistrettese, ha un significato molto particolare.
Durante la processione dei Misteri del Venerdì Santo, i confrati delle confraternite della Santissima Trinità, di San Nicola, del Carmine, di San Sebastiano e del comitato della Madonna della Luce usano accompagnare i simulacri intonando a Cristo morto dolorosi canti e, in penitenza, per riparare alle ferite dei peccati inflitti dell’umanità, cingono la testa con una pungente corona di spine realizzata usando esattamente un ramo dello Spinacristi. Da ciò, probabilmente, deriva il nome dell’albero “Spinacristi”. Poco esigente, l’albero si adatta a vegetare in condizioni geografiche ed ecologiche assai diverse.
I suoli possono essere poveri, ma preferisce quelli fertili o profondi, ben drenati, ove si sviluppa rapidamente.
Resiste a condizioni climatiche avverse quali l’inquinamento atmosferico, la bassa temperatura, la salsedine del mare.
La furia del vento potrebbe facilmente spezzare i suoi fragili rami e scalzare le giovani radici poco sviluppate.
Specie eliofila, gradisce un’esposizione soleggiata, ma può tollerare anche una certa ombra e non è danneggiata dalle gelate invernali.
La Gleditsia si accontenta delle acque piovane sopportando anche la siccità estiva. Pertanto bisogna annaffiare solo sporadicamente bagnando bene il terreno in profondità.
In primavera e in autunno è bene fornire del concime ricco in azoto.
E’ una pianta socievole, pertanto è capace di vivere in unione con altre specie arboree, arbustive ed erbacee.
Lo Spinacristi è una pianta abbastanza resistente alle malattie e a parassiti. Talvolta, però, le sue foglie sono attaccate dagli Acari e dagli Emitteri.
La sintomatologia è caratterizzata da arrossamenti e da decolorazioni più o meno diffusi della lamina fogliare, ma, in genere, i parassiti non provocano gravi danni.
La Gleditsia è una pianta molto utile perché ospita insetti adatti al controllo dei parassiti delle altre specie coltivate.
L’azione positiva dello spino di Giuda si articola così: la pianta è infestata dal piccolo insetto Dasyneura gleditchia, la “Cecidomia della Gleditsia, la cui larva, sviluppandosi all’interno delle foglie, provoca il rigonfiamento e l’ispessimento della lamina con la produzione di caratteristiche galle rossastre.
A causa della presenza di quest’insetto, soprattutto nei mesi di agosto-settembre, in prossimità delle piante infestate si manifesta l’Eupelmus urozonus, un insetto entomofago molto utile perché, oltre a dare la caccia alla Cecidomia della Gleditsia, attacca anche la mosca dell’olivo abbassandone la presenza negli oliveti.
Sviluppa la sua azione soprattutto nel periodo estivo-autunnale esattamente quando vengono causati i danni più rilevanti alla raccolta delle olive.

Aug 15, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL RESTAURO DELLA STATUA DEL SS.MO ECCE HOMO, DEL MANTELLO, DEGLI ARGENTI EX VOTO A MISTRETTA

IL RESTAURO DELLA STATUA DEL SS.MO ECCE HOMO, DEL MANTELLO, DEGLI ARGENTI EX VOTO A MISTRETTA

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Il 13 Agosto del 2017 nella chiesa di Santa  Maria di Gesù,  a Mistretta, è stato presentato il lavoro di restauro conservativo della statua lignea dell’Ecce Homo, dell’ottocentesco mantello e degli ex voto  in argento.
Hanno occupano il tavolo di relatori:  il sindaco avv. Liborio Porracciolo, mons. Michele Giordano, arciprete della Chiesa Madre, eletta a Santuario della Madonna dei Miracoli, l’arch. Angelo Pettineo, Vincenzo Mingari, le restauratrici dott.sse  Francesca Antoci, Sebastiana Manitta e Monica Cannillo.

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 Ha aperto i lavori il presidente del Comitato, il giovane Vincenzo Mingari

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 da sx: p. Michele Giordano, Angelo Pettineo, Vincenzo Mingari

con queste parole:
Buona sera a tutti i presenti, autorità civili, militari, religiose, associazioni e confraternite della città di MIstretta e a tutta la cittadinanza qui presente.
Il comitato dei festeggiamenti in onore dell’Ecce Homo si forma nel lontano anno 2009 con un gruppo di 10 giovani. Uno dei principali obiettivi è stato il recupero conservativo della statua lignea raffigurante il Ss.mo Ecce Homo.
Per mancanza di liquidità non è stato possibile effettuare subito questo lavoro perché il modesto introito ricavato dalle donazioni dei devoti e dalla vendita dei biglietti della lotteria serviva a sostenere le spese necessarie per organizzare una dignitosa festa in onore del Ss.mo Ecce Homo.
Con il trascorrere degli anni il comitato è aumentato numericamente e la cittadinanza tutta, apprezzando la trasparenza  della contabilità,elargisce maggiormente il suo contributo incoraggiando sia la buona riuscita della festa sia il restauro conservativo della statua.
La procedura burocratica è stata lunga e difficoltosa in quanto la chiesa di Santa Maria di Gesù, dove si festeggia l’Ecce Homo e dove  è custodita la statua,appartiene al Fec (fondi edifici di culto). Pertanto, dopo la soppressione degli Enti Ecclesiastici, i frati Minori Riformati,
che abitavano nel convento annesso alla Chiesa Santa Maria di Gesù, sono stati allontanati e  la chiesa è diventata di competenza della Prefettura di Messina. Era necessario, per il restauro della statua dell’Ecce Homo, avere il parere favorevole  non solo dalla Curia vescovile di Patti e della Soprintendenza di Messina, ma anche del Fec.
Il comitato ha dovuto attendere cinque lunghissimi mesi!
Grazie alla professionalità del dott. Lione e del dottore Giacobbe, rispettivamente dipendenti della Prefettura e della Soprintendenza di Messina, nel mese di aprile del 2017, il comitato ha ottenuto l’atteso Nulla Osta.
Espletata la regolare gara d’appalto, i lavori di restauro sono stati affidati alle dott.sse Francesca Antoci e Sebastiana Manitta, che hanno effettuato un ottimo lavoro di restauro. Le varie fasi di lavorazione e le tecniche usate saranno mostrate in questa sede dalla proiezione di un video esplicativo.
Contemporaneamente è stato eseguito il lavoro di restauro del mantello ottocentesco dalla dott.ssa Monica Cannillo di Bari, titolare della ditta Textore.
Gli argenti ex-voto sono stati restaurati dalla ditta dall’argentiere signor Antonino Amato di Palermo.
La gestione della festa, così come si evince dallo statuto, è stata affidata alla Società Agricola di M.S fin dal 1889.
Sotto la presidenza del presidente, signor Giuseppe Sorbera,

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essa ha il compito di patrocinare e di solennizzare ogni anno la festa del Ss.mo Ecce Homo che si celebra la seconda domenica del mese di settembre.
l’organizzazione diretta della festa è affidata al comitato dei festeggiamenti formato non solamente dai soci del sodalizio, gruppo che dal 2009 fino ad oggi sostiene la festa dell’Ecce Homo riproponendo antiche tradizioni a cui i nostri padri erano legati.

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 Foto dal comitato del Ss: Ecce Homo

Rivolgo un doveroso ringraziamento ai membri del comitato che si sono fatti carico interamente di tutti gli oneri  inerenti ai lavori.

Ne fanno parte:
Giuseppe Sorbera   (presidente)
Vincenzo Mingari
Sebastiano Zampino
Luciano Lipari
Antonino Sanzarello
Vincenzo Sanzarello
Giovanni Mentesana
Antonino Vinci
Vincenzo Cicala
Vincenzo Lo Prinzi
Vincenzo Rampulla
Giuseppe La Ganga
Giuseppe Ruggieri
Giuseppe Scolaro
Antonino Mazzurco.

Il comitato dei festeggiamenti del SS.mo Ecce Homo di Mistretta quest’anno, per la festa del 15 settembre 2019, ha accolto la confraternita dell’Acerba e Sacrosanta Passione di Cristo di Enna.

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Foto di Sebastiano Zampino

 Il grazie più grande va a tutta la cittadinanza che ogni anno contribuisce alla buona riuscita della festa del Ss.mo Ecce Homo”.
Da parte mia un grazie autentico e leale invio a tutto il comitato per la volontà, l’impegno, la disponibilità, la correttezza, la trasparenza, valori, questi, con i quali portate avanti questo messaggio di fede, di tradizioni e di folklore.
BRAVI!

Il sindaco, avv. Liborio Porracciolo,

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nel suo breve discorso, ha elogiato i giovani del comitato per il meritevole impegno nella custodia e nella salvaguardia di un così importante  bene qual è la statua lignea dell’Ecce Homo e per la responsabilità organizzativa dell’evento religioso e folkloristico che, con tanta devozione e con notevole entusiasmo, riescono ad realizzare.
Mons. Michele Giordano ha illustrato la figura dell’Ecce Homo nella storia della chiesa cattolica. Il culto e la devozione verso il SS.mo Ecce Homo furono istituiti fin dalla metà del 1600 dai Frati Minori Riformati, che abitavano nel convento annesso alla Chiesa Santa Maria di Gesù.
Letteralmente “Ecce Homo” significa “Ecco l’Uomo”, frase che il governatore della Giudea di allora, Ponzio Pilato, rivolse ai Giudei nel momento in cui mostrò loro Gesù flagellato.
L’arch. Angelo Pettineo ha descritto le origini e la storia della chiesa di Santa Maria di Gesù.

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Le dott.sse Francesca Antoci e Sebastiana  Manitta hanno illustrato, attraverso la proiezione del video, lo stato iniziale e finale, dopo il necessario intervento di restauro, della statua lignea dell’Ecce Homo.
La dott.ssa Francesca Antoci, nata nel 1984, è laureata in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali, titolo che ha conseguito all’Università degli Studi di Palermo. Ha frequentato il corso abilitante alla professione di restauratore con una tesi dal titolo: “Studio e restauro di un putto alato, appartenente ad un ciclo decorativo realzzato in stucco, riconducibile alla famiglia  Serpotta“.
La dott.ssa Sebastiana  Manitta, nata nel 1976, è laureata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo redigendo la tesi sugli “Aspetti etico-critici della pulitura con particolare riferimento alle opere mobili quali tele e tavole“.
La dott.ssa Monica Cannillo ha illustrato lo stato primitivo e successivo al restauro del mantello che poggia sulle spalle dell’Ecce Homo.
La statua dell’Ecce Homo, coperto dalla mantellina rossa, è una figura di grande rilievo artistico.
E’ una scultura lignea policroma attribuita a Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, della prima metà del sec. XVII, dove l’artista è riuscito ad esprimere il sentimento dell’umana sofferenza messo in evidenza dalla testa piegata a destra, dallo sguardo assente, dalle braccia incrociate, dalle mani legate, dalle ginocchia piegate e insanguinanti. Raffigura tutta l’Umanità che Lo ha offeso e martirizzato.

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Il mantello, corto, dalla forma semicircolare, è stato realizzato con la stoffa di taffetas di seta rossa e rifinito ai bordi con una argentata e ricamata passamaneria. E’ decorato con i simboli della passione di Cristo: bastone con chiodi, fruste,colonna, dadi e corona di spine. L’opera, restaurata magistralmente dalla dott.ssa Monica Cannillo, ha riacquistato l’originaria bellezza.

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Sono stati restaurati gli argenti ex-voto, l’aureola, la corona di spine,

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  la canna e le corde attorno ai polsi.

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Numerosi e  calorosi sono stati gli applausi dei presenti.

Aug 11, 2017 - Senza categoria    Comments Off on INAUGURAZIONE E BENEDIZIONE DELL’EDICOLA A SAN SEBASTIANO AL LAGHETTO URIO QUATTROCCHI

INAUGURAZIONE E BENEDIZIONE DELL’EDICOLA A SAN SEBASTIANO AL LAGHETTO URIO QUATTROCCHI

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Il 10 agosto del 2017 un religioso evento, organizzato dall’Associazione “Amastra Fidelis”, che cura l’organizzazione delle feste di San Sebastiano  e della Madonna della Luce, ha coinvolto gli amastratini.
Nell’area attrezzata del laghetto “Urio Quattrocchi”, nel  cuore del parco dei Nebrodi, a pochi chilometri di Mistretta, è stata inaugurata e benedetta l’edicola votiva in onore di San Sebastiano, patrono della città di Mistretta.
Moltissime sono state le persone che hanno raggiunto la località.
Caratteristiche sono state: l’ippovia di San  Sebastiano,  percorsa dai cavalli guidati dai loro cavalieri e la performance dei giovani  in mountain bike. Tanta gente, in pellegrinaggio, a piedi, lungo la regia trazzera, attraversando la contrada  Funtana Murata, giunse al laghetto Urio Quattrocchi. Molte altre persone sono giunte con le loro macchine.
Alla cerimonia di inaugurazione e di benedizione della “Trabbunedda” di San Sebastiano sono intervenute: le autorità religiose, civili, militari, le confraternite, le associazioni, i sodalizi,  la banda Euterpe, la banda cittadina che, con le loro note musicali,  hanno animato l’evento.
Hanno preceduto il corteo il gonfalone della città di Mistretta e quello della confraternita di San Sebastiano con il quadro raffigurante San Sebastiano.
Il sindaco di Mistretta, avv. Liborio Porracciolo, nel suo discorso ha messo in luce l’amenità del luogo che, accogliendo la statua di San Sebastiano, sarà meta di pellegrinaggio.
Mons. Michele Giordano, che ha portato la reliquia di San Sebastiano, custodita nella Sua chiesa, ha sottolineato che la devozione dei mistrettesi a San Sebastiano è sempre più forte.
Per la realizzazione della  Trabbunedda di San Sebastiano, ideata dal signor  Orazio Marchese, hanno partecipato maestranze locali  e semplici cittadini  che si sono adoperati nella realizzazione del progetto grafico, nella costruzione muraria, nella elevazione del monumento realizzato con la pietra rosata locale, di quarzarenite, donata dalla ditta SEPAM, di Giuseppe Iudicello, e trasportata dalla ditta MAPES.
Il progetto grafico è stato realizzato dal dott. Salvatore Cicala.
L’edificazione è stata eseguita dal signor Pippo Tamburello.
Il cancelletto in ferro battuto è stato realizzato dal signor Mario Aliberti.
L’impianto elettrico è stato realizzato dal signor Maurizio Pani.
La staccionata in legno è stata realizzata dall’Ente Foreste Demaniali.
L’edicola accoglie la Statua in miniatura di San Sebastiano.
La base, di forma ottagonale, riproduce la Varetta con i ceri votivi e la reliquia del Santo.
La cupola richiama la croce di luce per ricordare quella che si trova all’interno della chiesa di San Sebastiano.
Ha benedetto  l’edicola Mons. Michele Giordano, Arciprete  del Santuario della Madonna dei Miracoli.
Il 10 agosto di ogni anno, a partire da quest’anno 2017, sarà una data da inserire nel programma delle festività in onore di San Sebastiano come pellegrinaggio alla Sua trabbunedda presso l’area attrezzata del laghetto Urio Quattrocchi.

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Foto di Salvatore Cicala

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Foto di Vito Mugavero

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Foto di Antonino La Ganga

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Foto di Peppe Cuva

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Foto di Lorenzo Caruso

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La trabbunedda di San Sebastiano illuminata!

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Foto di Amastra Fidelis

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Grande elogio rivolgo agli operai dell’Azienda Forestale di Mistretta che si sono adoperati per pulire e rendere ancora più accogliente il luogo, per circondare l’edicola di San Sebastiano con lo steccato realizzato con il materiale boschivo e per abbellire l’aiuola con nuove piantine.

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Il cane fa buona guardia

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Personalmente li ringrazio anche per aver creato e posto in loco la scaletta di legno che mi ha permesso di accedere facilmente dentro l’area.

28 gennaio 2018, all’ ottava giornata dalla festa di San Sebastiano, Patrono di Mistretta,  i festeggiamenti invernali si concludono con l’Ippovia di San Sebastiano. Ecco alcuni momenti di “A piedi per San Sebastiano“.

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Foto di Daniela Dainotti‎
Mistretta, la Valle delle Cascate più alte dei Nebrodi

 

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IL LAGHETTO “URIO QUATTROCCHI”

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Un preziosissimo tesoro del patrimonio naturalistico di Mistretta è rappresentato dal’ “L’Urio Quattrocchi”,  un piccolo grazioso lago di forma ellissoidale posto alle pendici del monte Castelli su un’altitudine di 1030 metri. Occupa una posizione strategica poiché si trova all’inizio della Dorsale dei Nebrodi.

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 Si raggiunge percorrendo per circa 6 chilometri la statale 117 che da Mistretta conduce a Nicosia. Intraprendendo il bivio a sinistra si giunge direttamente al lago dove è spettacolare e di grande effetto la sua visione.
Attorno al lago uno steccato, costruito con legni recuperati sul luogo, ne delimita il perimetro.
L’area è attrezzata con casette di legno, con servizi igienici, con semplici mezzi di conforto in maniera tale da rendere il luogo una piacevole meta ai visitatori amanti della Natura che intendono trascorrere un periodo di soggiorno fra i boschi e all’aria aperta.

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Qua la Natura ancora incontaminata mostra un’atmosfera primitiva, pacifica, silenziosa.

Il laghetto è circoscritto da un percorso in parquet, mentre una strada in pietra consente ai visitatori di raggiungere i tavoli e i sedili di legno.
 Il lago ospita una numerosa fauna selvatica. Sono presenti piccoli mammiferi, martore, donnole, volpi, roditori, fra gli anfibi è presente la rana, fra i rettili è probabile incontrare la graziosa testuggine palustre.
Vicino al silenzioso lago “Quattrocchi”, quindi,  non è difficile sentire il gracidio delle rane, osservare il volo degli uccelli acquatici, notare il rettile passeggiare, trovare l’appagante ristoro in una dimensione più naturale.
Molte sono le specie di uccelli acquatici. Tutte queste specie di animali là vivono indisturbati.
Anche se foglie e piante acquatiche coprono quasi interamente tutta la superficie dell’acqua, tuttavia fra di esse si sente palpitare la vita.
Qui la Natura è protagonista suprema e la mano dell’uomo è intervenuta poco nella modificazione del paesaggio.
Attorno al lago un piacevole spettacolo è offerto dai boschi di Pini, di Abeti, di Faggi, di Querce caducifoglie. Fra le specie xerofile è presente il Cardo del Valdemone.
Oltrepassato il laghetto si incontra un bellissimo abbeveratoio in pietra locale con la fonte quasi rotonda, sosta obbligatoria per gli animali: cavalli, giumente, muli, asini, ormai rari, che si dissetavano assieme ai loro padroni dopo il lungo cammino attraverso i boschi e prima di arrivare in paese.

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Oltrepassata questa fontana, l’escursione naturalistica oltre il lago Urio Quattrocchi potrebbe continuare fino ad incontrare il fitto bosco ove esemplari maestosi di Faggio sono consociati a specie quercine come il Cerro e il Rovere.
Bellissime da ammirare sono le numerose siepi di agrifoglio. Le drupe di perle vermiglie dell’agrifoglio ravvivano il grigiore invernale e tingono di rosso vermiglio la bianca neve.

 A proposito dell’agrifoglio una fiaba racconta: “un bambino, che abitava in una casetta sperduta nel bosco e che andava sempre in cerca di legna per accendere il fuoco nel suo focolare, un giorno inciampò in una pianta di agrifoglio. Appoggiandosi alle foglie irte e spinose, si punse il palmo della mano. Il sangue fuoriuscì abbondante. Spaventato, invocò più volte il dio del bosco perché gli venisse in aiuto, ma invano. Un elfo, apparso all’improvviso, lo medicò e lo accompagnò a casa.

 Il bambino, guarito dalle ferite, ritornò sul luogo della caduta. Con gran sorpresa, notò sull’albero spinoso moltissime perle rosse. Intanto che era immerso nei suoi pensieri, gli apparve il dio del bosco che così gli parlò: “Mi hai chiamato ed io ho inviato un elfo perché ti aiutasse. Per premiarti della tua fede ho fatto trasformare le gocce del tuo sangue in lucide drupe rosseggianti. Solo tu potrai usare questa pianta per guarire dai tuoi mali, ma essa sarà molto dannosa per tutti gli altri uomini”. Quindi sparì nel bosco.

Aug 2, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA DEVOZIONE AL SS.MO SALVATORE E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA DEVOZIONE AL SS.MO SALVATORE E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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La devozione al SS.mo Salvatore è antichissima. I Greci solevano indicare lo SS.mo Salvatore col termine “La Divina Sapienza“.
Il culto fu particolarmente coltivato dai Bizantini, come dimostra l’immagine del “Cristo Pantocratore” posta nell’abside del duomo di Cefalù e della chiesetta di Mistretta.
In seguito alla dominazione Saracena, nel periodo compreso tra il 827e il 1085, i Normanni diffusero il culto del SS.mo Salvatore nei principali centri della Sicilia costruendo, in Suo onore, templi e basiliche ottenendo il privilegio di molteplici benefici. Sotto le dinastie angioine e aragonesi il culto del SS.mo Salvatore fu ulteriormente ampliato.
Grande predicatore e divulgatore del culto del Nome di Gesù fu il francescano San Bernardino da Siena (1380-1444) sostenuto da altri confratelli, in particolare dai beati Alberto da Sarteáno (1385-1450) e Bernardino da Feltre (1439-1494) che diffusero con tanto fervore la devozione al SS.mo Salvatore che finalmente fu istituita la festa liturgica.
Nel 1530, papa Clemente VII autorizzò l’Ordine Francescano a recitare l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù. La celebrazione fu estesa a tutta la Chiesa da papa Innocenzo XIII nel 1721.
Il giorno di celebrazione variò tra le prime domeniche di gennaio, per essere fissata al 2 gennaio fino agli anni Settanta del Novecento, quando fu soppressa.
Papa Giovanni Paolo II ha ripristinato la memoria nel Calendario Romano al 3 gennaio. Santissimo Nome di Gesù, il Solo in cui nei cieli, sulla terra e sotto terra si pieghi ogni ginocchio a gloria della maestà divina.
In onore del SS.mo Salvatore, un nome molto diffuso in Italia, si festeggia il famoso onomastico. Auguro buon onomastico a tutti quelli che portano il nome di “Salvatore, Salvo, Totò, Salvatrice”.
L’iconografia del SS.mo Salvatore è quella del Gesù della Trasfigurazione.
La festa della Trasfigurazione, che si celebra il 6 agosto, è una delle 12 feste più importanti della liturgia cattolica e ortodossa.
La Liturgia della Trasfigurazione fu istituita in occidente nell’ambito della liturgia romana solo nel 1457 da papa Callisto III che, con la festività della Trasfigurazione, aveva inteso manifestare la gratitudine della Chiesa come ringraziamento per la vittoria riportata a Belgrado il 6 agosto del 1456 dall’esercito cristiano contro la possente armata dei Turchi di Maometto II votata a distruggere la civiltà europea e cristiana. Nel mondo orientale, invece, la solennizzazione della Trasfigurazione è antecedente al IV secolo, epoca in cui l’Imperatrice Elena fece erigere sul monte Tabor la Basilica della Trasfigurazione.
In Sicilia la Trasfigurazione è contemplata sin dal XII secolo ed è legata strettamente al periodo ruggeriano.
La Trasfigurazione di Cristo avvenne quando i discepoli si trovarono ad attraversare un momento di difficoltà perché erano preoccupati della futura Passione di Gesù che era stata loro annunziata.
Gesù compì questo miracolo per rassicurarli.
Dopo la Trasfigurazione, Gesù raccomandò ai discepoli di non raccontare l’episodio prima della Sua Resurrezione.
L’episodio della trasfigurazione è narrato nei tre vangeli sinottici.
Nel Vangelo secondo Matteo in “La Trasfigurazione” (17,1-8) è scritto: “Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un altro monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Pietro prese allora la parola e disse a Gesù:<<Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia>>. Egli stava ancora parlando quando una nube luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva:<<Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo>>. All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: <<Alzatevi e non temete>>. Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo”.
Nel Vangelo secondo Marco
in “La Trasfigurazione” (9,2-8) è scritto: “ Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè, che discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: << Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!>>. Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: << Questi è il Figlio mio prediletto: Ascoltatelo!>>. E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”.
Nel Vangelo secondo Luca in “La Trasfigurazione” (9,28-36) è scritto: “ Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: << Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia>>. Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce che diceva: << Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo>>. Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono ad alcuno di ciò che avevano visto”.
Lo splendore di Gesù richiama la Sua trascendenza.
La presenza di Mosè e di Elia simboleggia la legge.
I profeti rappresentano coloro che hanno annunciato la venuta del Messia, la Sua passione e la Sua glorificazione.
La nube si riferisce a teofanie già documentate nell’Antico Testamento.

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La festività della Trasfigurazione del SS.mo Salvatore sul monte Tabor, che si celebra il 6 agosto di ogni anno nelle forme legate ai riti di derivazione greco-bizantina prima e cattolico-occidentale dopo, ha luogo da tempo immemorabile.

 LA CHIESA DEL SS.MO SALVATORE A MISTRETTA

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La chiesetta del Santissimo Salvatore è un piccolo tempietto a una navata molto probabilmente edificato in epoca bizantina tra il XIV e il XV secolo per diffondere il culto del Cristo dell’Ascensione, ilSignore del Mondo e, successivamente, la Trasfigurazione nel territorio della diocesi di Cefalù.

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Infatti, la città di Mistretta appartenne alla diocesi di Cefalù per 700 anni. Molto ammirata è la sacra iconografia presente nel Duomo di Cefalù.
La città di Mistretta passò alla diocesi di Patti nel 1844.
Il bellissimo affresco, che raffigura l’episodio dell’Ascensione,del XIV-XV secolo, occupa l’intero catino della piccola abside.

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L’immagine, che attualmente possiamo ammirare, è quella riprodotta da un ignoto pittore siciliano durante l’ultimo quarto del XV secolo riproducendola da un soggetto più antico, ma conforme.
Probabilmente l’artista, un monaco del convento annesso alla chiesa nel periodo in cui la cultura bizantina rifioriva tramite un’attiva tradizione alimentata nei monasteri basiliani, ha raffigurato l’Ascensione di Cristo il cui volto, enigmatico e severo, esprime una carica d’intensa umanità.
In basso sono raffigurati gli Apostoli molto mancanti in dverse parti.
L’altare, innalzato su capitello in pietra, proveniente dalla chiesa della Madonna della Luce, è del XV – XVI secolo.

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Il Tabernacolo è una custodia lignea, abbellita da motivi a intarsio, del XIX -XX secolo, proveniente dalla Parrocchia di Santa Lucia.

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 Il leggio, della seconda metà XVIII secolo, era il piedistallo del pulpito della Parrocchia di Santa Lucia.

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All’esterno la zona absidale conserva tracce di un’antica monofora.

4d ok le tracce di un'antica monofora odiernamente murata

In questa chiesetta i fedeli, dall’anno 2004, singolarmente o a gruppetti, si pongono in religioso silenzio in adorazione eucaristica perpetua del Santissimo Salvatore per 24 ore al giorno e per tutti i giorni dell’anno.

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Qui di seguito trascrivo la testimonianza della signora Graziella Sirni, tratta dai quaderni dove gli adoratori lasciano il loro pensiero per fare comunione con le testimonianze più significative:
Signore Gesù, voglio ringraziarTi perché sei entrato nella mia vita.
Io ti ho cercato con tanto amore e Tu non mi hai lasciata sola.
Ricordo con gioia il primo giorno che è iniziata l’Adorazione Eucaristia.
Alcuni Ti abbiamo accolto vicino alla chiesetta del SS.mo Salvatore, ci siamo disposti da ambo i lati e Tu, maestoso, se passato in mezzo a noi.
Questo ricordo rimarrà nella mia mente per sempre.
Con immensa commozione, i miei occhi si sono riempiti di lacrime.
Mi hai toccato il cuore!
Aspetto con gioia il giorno che vengo ad adorarTi.
Quanto è bello stare con Te!
Che pace, che gioia provo nel cuore!
E questo vorrei gridarlo al mondo intero,quando diciamo che non lasciamo solo Gesù.
E’ Gesù che non lascia da soli noi.
O Gesù, è bello trovarTi  lì dove ci aspetti a braccia aperte in quel bellissimo ostensorio a raccogliere tutti i nostri problemi ed affanni.
Grazie, Gesù”
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La prima domenica di ogni mese sono rinnovate le specie eucaristiche.
L’ostensorio, dalla chiesetta del SS.mo Salvatore, è portato nel Santuario della Madonna dei Miracoli, distante solo alcune decine di metri.
Per circa un’ora le adorazioni sono sospese.
La nuova sacra ostia, consacrata durante la santa messa, viene sostituita  nell’ ostensorio.
Alla fine della funzione religiosa l’ostensorio viene ricondotto nella sua chiesetta del SS.mo Salvatore accompagnato in processione da una moltitudine di persone che illuminano il percorso con le luci delle fiaccole.
Le adorazioni riprendono.

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La chiesetta ha pochissimi arredi.
La nicchia laterale ospita la statua di Maria Ausiliatrice col Bambino in braccio.

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Le pareti sono arredate dalle stazioni della Via Crucis.
Sono14 piccoli dipinti a olio su tela, opera di Francesco Pavone da Palermo, del 1789.

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La chiesetta si trova nella parte posteriore del Palazzo di Città ed è vicinissima alla Rabbica Araba, il vecchio centro amministrativo.
Gradatamente abbandonata, la chiesetta fu parzialmente demolita e adibita a deposito per qualche lungo decennio. Grazie ad un necessario intervento, compiuto alla fine del secolo scorso, è stato restaurato l’affresco, sono state ricostruite in pietra le pareti mancanti ed è stata ripristinata la copertura su mensole lignee risalenti al XVI secolo. Opera di ignoto intagliatore siciliano del XV secolo, sono decorate con motivi floreali e geometrici.

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Jul 24, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA BROUSSONETIA PAPYRIFERA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA BROUSSONETIA PAPYRIFERA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

 

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Subito dopo aver superato il cancello principale della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” a Mistretta, percorrendo il viale di destra, dopo pochi passi, sul lato sinistro, di fronte al Viburnum tinus, s’incontra la pianta di Broussonetia papyrifera, più comunemente chiamata “Gelso da carta, Moro cinese”.

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Arbusto appartenente alla famiglia delle Moraceae e originario dell’Asia orientale, soprattutto del  Giappone e della Cina, è stato importato in Europa nella metà dei secolo XVIII come pianta ornamentale dove si è naturalizzato.
Si trova facilmente ovunque: lungo i bordi delle strade, sui binari ferroviari, nei terreni incolti, lungo le spiagge.

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In Italia la pianta è stata introdotta nel 1760 come essenza botanica rara e coltivata in alcuni giardini solo come elemento decorativo ed è presente in tutta la penisola e nelle grandi isole.
Data la sua rapida velocità di crescita, se il suo sviluppo non viene controllato, si trasforma in una pianta altamente infestante.
Il nome del genere “Broussonetia” è un omaggio al francese Pierre Marie Auguste Broussonet (1761-1807), medico, naturalista e professore di Botanica all’Università di Montpellier, che fu il primo studioso ad introdurre in Francia gli alberi femminili del Gelso di carta.
Il nome di “Gelso da carta” ricorda l’utilizzo della sua corteccia per la produzione della carta in Asia orientale sin dai tempi remoti, da cui anche nome della specie “papyrifera”, perchè utile alla produzione della carta come il Papiro.  La pianta presenta un portamento che può essere sia arboreo, con chioma larga ed espansa, sia cespuglioso, con chioma più bassa e ramificata.

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La pianta presente nel giardino di Mistretta cresce sia in altezza che in larghezza dando origine ad un arbusto arrotondato.
Il tronco ha uno sviluppo eretto e snello alto circa due metri.

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Nella sua terra d’origine può raggiungere anche i 15 metri di altezza.
Il tronco è rivestito dalla corteccia grigio-giallastra chiara, liscia e punteggiata di bianco sui rami della pianta giovane poi, screpolata superficialmente, lascia  intravedere il sughero sottostante di colore bruno-violaceo. I rami giovani sono pelosi ed ispidi.
La maggior parte delle foglie ha una forma ovale, ma questa pianta ha una particolarità: a seconda dell’età e delle condizioni di crescita, le foglie sono dimorfe e possono diventare lobate, palmate o cuoriformi.
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 quelle distali, alle estremità dei rami, presentano da 3 a 5 lobi profondi separati da una insenatura.

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Le foglie, picciolate, semplici, alterne, a lamina col margine dentellato nelle foglie superiori delle piante adulte e negli individui giovani anche in quelle basali, sono ruvide, coriacee e con una sottile peluria. Sono di colore verde intenso nella pagina superiore, grigiastre e tomentose nella pagina inferiore e presentano tre nervature principali.
L’insieme delle foglie forma la chioma ampia, allargata, abbastanza irregolare e non troppo densa che, in estate, assume una colorazione verde viola.

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 Le foglie in inverno non rimangono sulla pianta e assumono un colore dorato.

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La Broussonetia papyrifera è una pianta dioica, quindi i fiori apetali sono portati da individui diversi.
Gli arbusti maschili producono piccoli fiori verdi-giallognoli raggruppati in allungati amenti cilindrici;

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 gli arbusti femminili formano piccoli capolini sferici e compatti di fiorellini di colore bianco crema ridotti al solo pistillo.
La fioritura avviene da maggio a giugno. L’impollinazione è favorita dal vento.
Il frutto, un legume grande, lungo 20-40 cm e largo circa 2,5, cm spesso contorto, falcato e compresso, coriaceo, di colore arancio-rossastro a maturità, commestibile e dal sapore dolciastro, cadono interi in inverno. Non ha impieghi particolari. I numerosi semi sono ovali, appiattiti e avvolti in un mesocarpo polposo.

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La moltiplicazione avviene per seme in autunno, oppure per talea semilegnosa in estate. Si moltiplica normalmente anche tramite il trapianto di polloni basali che è possibile asportare. Facendoli prima radicare in un contenitore, si porranno a dimora la primavera successiva.
Piuttosto rustica, la pianta ha una grande importanza dal punto di vista ecologico poiché, facendosi coltivare con gran facilità e producendo numerosi polloni, si presta per colonizzare i terreni sterili e per stabilizzare quelli mobili e franosi.
Indifferente al substrato, preferisce un terreno di tipo calcareo, sciolto, umoso e con un ottimo drenaggio. Predilige posizioni soleggiate, ma si sviluppa anche in posti scarsamente luminosi.
Non teme il freddo e sopporta gelate anche intense e prolungate. Tollera la siccità, ma è bene ugualmente irrigare il terreno quanto basta.
In genere, non si utilizzano concimazioni, anche se è consigliabile interrare del fertilizzante ai piedi del fusto in primavera.
Prima dell’arrivo dei mesi freddi, si consiglia un trattamento antifungino ad ampio spettro; le piante, che sono state colpite da patologie fungine, vanno curate in maniera particolare raccogliendo e bruciando tutte le foglie affette dalla malattia.
La Broussonetia papyrifera teme particolarmente l’attacco di lepidotteri defogliatori, come il Bruco americano.
La pianta possiede diverse proprietà medicinali: è galattogoga, diaforetica, emostatica, astringente, oftalmica, stimolante, stomachica, diuretica, lassativa, tonica.
In Cina è utilizzata in sostituzione del Gelso per l’allevamento dei bachi da seta.
Dalla corteccia della pianta si ricavano fibre molto lunghe usate in Polinesia per produrre filati e tessuti. Nei territori d’origine la corteccia macerata era un tempo utilizzata per produrre la carta pregiata, dall’aspetto fine e setaceo, conosciuta col nome di “carta cinese o carta di seta”.
La produzione della carta risale al II secolo d.C.
Il ministro cinese Ts’ai Lun si recava ogni giorno presso uno stagno adibito a lavatoio e lì osservava le donne che lavavano i panni.
Un giorno si accorse che le fibre, staccate dai panni logori per lo strofinio e per la sbattitura esercitati dalle lavandaie, si accumulavano in un’ansa dello stagno e si riunivano come un feltro sottilissimo.
Ts’ai Lun raccolse con delicatezza il batuffolo, lo pose ad essiccare e lo distese.
Nacque, così, un foglio di una certa consistenza, di colore biancastro ed idoneo per la scrittura.
Il ministro ordinò di sostituire, nella fabbricazione dei feltri, le fibre animali con quelle vegetali.
Il primo materiale adottato da Ts’ai Lun fu la corteccia della Broussonetia papyrifera.
La parte fibrosa della corteccia era messa a macerare in acqua, risciacquata e, successivamente, battuta in mortai di pietra fino ad ottenere una pasta uniforme di fibre cellulosiche.
La pasta, diluita con abbondante acqua, era versata sopra la “forma“, un reticolo formato da sottilissimi bastoncini di Bambù. L’acqua passava attraverso le maglie del graticcio e le fibre, stringendosi tra loro, restavano in superficie formando un foglio di piccolo spessore che, staccato dalla forma, era posto ad essiccare all’aria. L’impiego della carta come elemento per la scrittura è da ricollegare alla percentuale di diffusione della cultura che, anticamente, era privilegio solo di pochi.
La richiesta della carta per scrivere è stata inizialmente piuttosto ridotta. La carta, infatti, ancor prima di essere usata come supporto per la scrittura, in Cina era stata impiegata per realizzare capi di vestiario. Le prime citazioni relative a quest’uso risalgono al primo secolo a.C. Intorno alla metà del III secolo d.C. i preti taoisti, i poeti e gli scolari indossavano cappelli di carta. Con la carta si costruivano aquiloni, lanterne e ventagli.
I ventagli di carta esistevano già fin dal IV secolo quando gli imperatori della dinastia Chin vietarono, per questioni economiche, l’uso della seta per la loro preparazione.
Al IX secolo risale, probabilmente, l’uso della carta moneta: si ritiene, infatti, che in quel periodo, essendo aumentate le transazioni commerciali, si sia resa necessaria una moneta più leggera di quella metallica, pesante e poco trasportabile.
La diffusione della carta nel mondo si deve attribuire ai musulmani che, nel 751, conquistarono Samarcanda prendendo come prigionieri alcuni cinesi che rivelarono ai conquistatori il segreto della fabbricazione della carta.
Proprio Samarcanda, città dell’Uzbekistan, in Asia centrale, divenne il primo grande centro musulmano di produzione della carta realizzata con un misto di lino e di canapa.
Per almeno cinque secoli la diffusione della carta nel mondo occidentale segue di pari passo le conquiste dell’esercito del Profeta.
La carta raggiunse l’Egitto alla fine dell’VIII secolo. Tra il X e il XII secolo si diffuse in Africa Settentrionale. Nella valle del Nilo si passò dall’antica utilizzazione del Papiro, l’ultimo Papiro egiziano noto risale al 935, alla produzione di una carta simile a quella di Samarcanda, ma molto più fine con la quale sono state realizzate lussuose edizioni del Corano.
Nel X secolo la Sicilia divenne un importante centro di commercio della carta.
Nel 1072 Ruggero di Normandia conquistò l’isola e la carta divenne il materiale ufficiale dei documenti dello stato normanno.
Nel XIII secolo, grazie a Federico II, Palermo divenne uno dei centri più rilevanti in Europa per la produzione della carta.

 

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