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Aug 8, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MIO AMICO ALBERO

IL MIO AMICO ALBERO

Questo racconto dal titolo “Il mio amico albero” è stato scritto dal prof. Carmelo De Caro e riportato nel libro “Sintiti, Sintiti” pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara. E’ risultato il 1° classificato (sezione racconti) nel 2° concorso letterario “Natura in festa 1997” organizzato dal WWF sezione di Licata.

Carmelo era un uomo speciale: educato, gentile, buono, generoso, altruista, affabile, istruito. Insegnante di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali ammirava la Natura.

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 Quel mattino gli animali che Gaspare conduceva al pascolo erano per lo più tranquilli e sapevano la strada così da non richiedere il suo intervento o quello dei cani. Mentre faceva roteare il grosso bastone al di sopra della testa, proprio come aveva imparato dal fratello maggiore, pensò alla lunga vacanza che lo aspettava: non sarebbe più andato a scuola almeno fino al prossimo novembre o comunque fino a quando non fosse arrivata la seconda cartolina di sollecito. Anche l’anno precedente era stato così. Gaspare si era convinto che ai professori non interessava quanto lui fosse necessario nell’economia della famiglia, specie da quando l’altro fratello, Peppe, non era più con loro e chissà quando sarebbe tornato. Da quel giorno i rapporti tra il ragazzo e la scuola si erano  incrinati. Il gregge si muoveva per la campagna circondato da trilli e fruscii, immerso in un mare di odori forti e di tonalità sature del giallo e del verde, caratteristici del paesaggio siciliano di inizio giugno. Su tutto incombeva l’azzurro luminoso e profondo del cielo. Gaspare guardò quel cielo ed emise un lungo sospiro quando sentì un brivido percorrergli le vene. In quel momento avrebbe dovuto sentirsi felice, ma dentro di sé non riuscì a trovare alcun segno di felicità o di qualcosa che vi somigliasse. Intanto era giunto al pascolo. Era un vasto pezzo di terra incolto che la sua famiglia aveva preso in affitto fin dalla scorsa primavera, si stendeva su un lieve declivio sul quale le pecore si spargevano nella ricerca, ogni giorno più ardua, di una qualche erba ancora idonea a nutrirle. Andò a sedersi in alto, come ogni mattino, all’ombra di un antico carrubo, in modo da tenere sott’occhio tutti gli animali e impedir loro di sconfinare nella vigna di Ciccio Di Leo, un vicino molto irascibile nonché gelosissimo delle sue viti e il cui limite col pascolo era segnato proprio da quell’albero. Era, quello, un carrubo veramente eccezionale: i grossi rami lisci come lunghe braccia, contorti come titanici pitoni pietrificati, si erano in parte adagiati su alcune rocce circostanti per poter meglio sopportare il loro stesso enorme peso. L’elegante fogliame, cangiante nel vento, formava una cupola verde che poteva riparare egregiamente dai raggi del sole almeno cinquanta persone. Al solo guardarlo, Gaspare si sentiva rassicurato perché quell’albero maestoso, posto in cima al poggio, saldamente radicato al terreno da cui traeva sostentamento, gli infondeva forza e sicurezza. Non aveva molti amici, anzi non ne aveva affatto. Non era riuscito a farsene nemmeno tra i compagni di scuola e aveva rinunciato a cercarseli quando capì che gli altri suoi coetanei lo sfuggivano per l’odore che emanavano i suoi vestiti, i suoi libri, tutti i suoi oggetti. Essere figlio di pecoraio e pecoraio egli stesso, abitare accanto al màrcato, dal quale tutta la famiglia trae sostentamento, significa portare addosso l’icona odorosa dell’ovile come un marchio di fabbrica indelebile che allontana gli altri e che, cosa ancora più terribile, tu non senti, perché le tue nari si sono abituate a quell’odore che per te significa la fragranza del latte appena munto, i salti spensierati e giocosi degli agnelli, il morbido sapore della ricotta e duro lavoro fin dall’alba. Quante volte aveva messo i suoi indumenti all’aperto nella vana speranza che quell’odore svanisse almeno un poco! Era perfino arrivato a spruzzarli col forte profumo della sorella riuscendo solo a macchiarli e col risultato di doversi continuamente guardare dalla ragazza che per parecchi giorni cercò di suonargliele di santa ragione. Così, a dodici anni, Gaspare, che in famiglia chiamavano Rino, non giocava con gli altri suoi coetanei e, da quando Peppe, l’altro suo fratello, il secondo dei maschi, era entrato in comunità, non giocava più nemmeno da solo, perché doveva badare al pascolo degli animali e per il gioco non c’era più tempo. Molto prima degli altri, cosciente di aver perso qualcosa di importante, Gaspare si era lasciato alle spalle i giorni migliori della fanciullezza. Ma un ragazzino di dodici anni, anche se fa il pastore, anche se passa molte delle sue giornate da solo in campagna, ha bisogno di parlare con qualcuno, di confidarsi, di raccontare. E così Gaspare l’amico se l’era fatto. Un amico che lo ascoltava paziente senza interromperlo mai, che sapeva tenere i piccoli grandi segreti che gli venivano confidati e che quando gli parlava lo faceva sempre sottovoce, sussurrando. L’amico di Gaspare era lui, quell’enorme carrubo piantato in cima a una gobba di pietra e terra, che sapeva accoglierlo ogni mattina a braccia aperte e offrirgli il ristoro della sua ampia chioma scura e folta e l’appoggio dei suoi rami possenti dopo la lunga camminata col sole di primo mattino in faccia. Gaspare aveva scoperto l’albero proprio quando il fratello Peppe era entrato in comunità dopo due anni d’inferno ed era toccato a lui assumersi l’impegno del fratello lontano: portare al pascolo gli animali, da solo. Un pastore è sempre solo. Nel silenzio carico dei piccoli quasi impercettibili rumori della natura, il bambino prese il sopravvento sull’adolescente e Gaspare cominciò a parlare all’albero. All’inizio lo fece per gioco, spinto da un incontenibile desiderio di confidarsi e di essere consolato, poi scoprì che, dopo aver parlato, si sentiva più leggero e rilassato, a volte addirittura contento, e continuò ogni giorno a raccontargli tutto quel che gli accadeva, minuziosamente, fin nei minimi particolari. Fu così che quell’albero ricevette le confidenze, i dubbi e i turbamenti tipici di un adolescente senza altri amici che aveva rinunciato da tempo a rivolgersi agli altri componenti della famiglia anche solo per un consiglio o una parola di conforto. Troppe volte i grandi gli avevano dimostrato un assoluto disinteresse, presi com’erano dal lavoro e dalle responsabilità. Tutti, tranne Peppe, che però era andato via quando il ragazzo aveva maggior bisogno lui. E il vento o la brezza imprimevano all’albero quei movimenti naturali e casuali che davano l’impressione che il carrubo partecipasse alle emozioni di Gaspare. Un fremito percorreva quelle sue foglie cuoiose quando gli raccontava i suoi timori. Scuoteva indignato qualche ramo quando il ragazzo gli raccontava di un torto subìto e sembrava proprio che chinasse il capo in segno di consenso ad alcune domande di Gaspare. Nel parlare al suo amico albero spesso Gaspare si straniava tanto da dimenticare il motivo per il quale si trovava lì.

Quando gli animali sconfinavano nella vigna di Ciccio Di Leo, Gaspare veniva bruscamente riportato alla realtà dalle grida del suo vicino che, in un affastellamento di improperi e bestemmie, richiamava la sua attenzione perché si portasse via le pecore che, con l’aria più innocente del mondo, andavano a brucare il suo prezioso vino in potenza. «Qualche volta faccio un macello, faccio!» soleva dire Ciccio Di Leo, il volto reso paonazzo dall’ira. Ma restavano parole. Gaspare era particolarmente affezionato al fratello Peppe e, malgrado i guai e le paure patiti quando questi era in cerca di soldi per farsi o quando si azzuffava con il fratello maggiore, il quale era convinto di fargli passare la voglia di bucarsi a suon di pugni e ceffoni, gli voleva sempre bene e sentiva acutamente la sua mancanza. Sapeva che Peppe si trovava lontano per il suo bene. Afferrava, anche se vagamente, l’importanza della comunità che forse sarebbe stata in grado di ridargli il fratello così come era stato un tempo, come egli lo ricordava prima che si bucasse: affettuoso e sempre pronto ad ascoltarlo e consigliarlo, ad aiutarlo e a insegnargli mille piccole cose utili. Con questo stato d’animo era inevitabile che Gaspare parlasse all’albero come fosse un tramite con il fratello lontano, come se davvero quel gigante potesse annullare lo spazio e il tempo e far giungere, per canali misteriosi e inconoscibili, i suoi messaggi malinconici e struggenti a Peppe che, in una comunità di recupero della pianura padana, combatteva la sua battaglia personale per la vita. Nulla è impossibile ai bambini perché essi credono ancora ai miracoli. Anche quel giorno Gaspare si rivolse all’albero fingendo di parlare con Peppe: «Abbiamo venduto nove agnelli e papà mi ha promesso che mi farà l’orologio nuovo; l’altro si è rotto». Perfino il cicaleccio petulante dei passeri era cessato, sembrava che anche loro ascoltassero interessati. «Pé, o Pé, quando torni?». E in quel momento partirono i colpi. Tre in rapida successione, poi un altro isolato quando già Gaspare scendeva dal ramo per vedere cosa stava succedendo. Ma lo sapeva già prima di guardare: era accaduto ciò che non doveva accadere se lui avesse fatto buona guardia. Ciccio Di Leo, il fucile da caccia ancora imbracciato, guardava l’effetto dei suoi colpi. Nella vigna, tre pecore a terra e una, colpita a una zampa, che si trascinava belando al cielo la sua disperazione. « Guarda come mi hanno ridotto la vigna! Io ti avevo avvisato tante volte, ragazzo, ma tu, come al solito, sei andato a dormire sotto il carrubo invece di stare a guardare quegli animalacci. Ora sai che non parlavo a vanvera».

Mentre il padre, il fratello e il garzone caricavano le carcasse degli animali uccisi sul cassonetto del fuoristrada, una tensione palpabile avvolgeva la scena. Intimorito dal minaccioso silenzio dei grandi, addolorato per la responsabilità che sentiva pesare su di sè per quanto era successo, Gaspare non riusciva a sollevare gli occhi dal bastone che teneva ancora stretto. Vincenzo, suo padre, era già andato in cerca di Ciccio Di Leo per ottenere spiegazioni, ma non era riuscito a trovarlo. In paese non c’era e moglie e figlia affermavano di non sapere nulla. Non rimaneva altro che vendere in qualche modo gli animali uccisi e curare quello ferito. Fu Vincenzo a rompere per primo il silenzio: «Stasera lo vado a denunciare». A queste parole il figlio Totò esplose: «Ma quale denuncia! Una lezione di quelle che non si dimenticano ci vuole!» Il rimbombo del pugno calato con rabbia sul cofano dal fratello maggiore fece sobbalzare il ragazzo. Vincenzo cercò di calmare il figlio dicendo che non era ragionevole fare giustizia con le proprie mani, ma quelle parole apparvero false e inverosimili a tutti, anche a lui che le aveva dette. E quando, molto più tardi, dopo una cena in cui ognuno mangiò con gli occhi nel piatto, Vincenzo e Totò si appartarono a parlottare, Gaspare, non visto, riuscì a cogliere le loro parole. Queste sapevano di vendetta. «A Rino non diciamo niente, meno sa e meglio è. Così domani mattina, porterà gli animali al solito pascolo e, se qualcuno gli chiederà qualcosa, non potrà dire niente perché non sa niente e, cosa più importante, sarà sincero». «Ma Ciccio Di Leo potrebbe andare a dire tutto ai carabinieri.» « No, non ci va se non esageriamo, perché dovrebbe ammettere di aver cominciato lui per primo. E noi avremo comunque un alibi di ferro». Così quella sera Vincenzo e suo figlio Totò andarono ad appiccare il fuoco al pollaio di Ciccio Di Leo. Accesero semplicemente alcune candele ritte sopra paglia e strame molto asciutti che erano già all’interno della baracca che ospitava gli animali dell’irascibile vicino e se ne andarono a giocare a carte con gli amici, facendo di tutto per farsi notare da più gente possibile. Dopo quasi due ore, le candele si consumarono e le loro fiammelle diedero fuoco all’esca che in pochi minuti appiccò il fuoco alle pareti di legno della baracca. Ma quando il tetto in lamiera cadde, le fiamme si levarono alte e alcune grosse faville incandescenti volarono fino al carrubo accendendo l’erba secca che lo circondava e alcuni arbusti di lentisco. Mezz’ora dopo il grande albero era avvolto dalle fiamme tra il crepitare sinistro delle foglie arse dal fuoco e il ruggito dell’aria rovente. La luce in movimento delle vampe, illuminando a tratti i rami del vecchio albero, davano l’impressione che questi si muovessero, quasi che quella creatura invocasse il cielo a testimone della sua atroce agonia. Nella notte illune la torcia del grande albero arse per molto tempo illuminando di cupi bagliori la campagna.

Il mattino dopo padre e fratello compivano i gesti di sempre ma con lo sguardo perso nel vuoto e le sopracciglia aggrottate. Gaspare partì alla solita ora con gli animali e i cani per il pascolo. Era impaurito poiché temeva che qualcuno potesse leggergli in faccia il suo segreto, ma riuscì a cacciare la paura in un angolino quando disse a se stesso che non avrebbe mai tradito i suoi, neanche con uno sguardo e che non avrebbe parlato neanche se lo avessero torturato. Il ragazzo arrivò ai piedi del declivio sulla cui cima stava il suo amico carrubo e, quando sollevò gli occhi, così come faceva ogni mattina, sentì il sangue gelarsi nelle vene. Là dove era stato il vecchio albero, con la sua maestosa chioma a cupola, verde e invitante, ora stava una cosa orribile da cui spuntavano monconi di rami anneriti e ancora fumanti, protesi verso il cielo come le dita irrigidite di una mano che fino all’ultimo ha chiesto clemenza. Non ebbe il coraggio di proseguire e, dopo aver cacciato le pecore su per il pendio, rimase laggiù, con gli occhi fissi ai refoli di fumo che si levavano dal tronco annerito e consunto dal fuoco.

Per la prima volta della sua breve esistenza sentì acuta e penetrante l’angoscia della solitudine. Diverse figure listate di giallo si muovevano tra un fuoristrada rosso e i resti inceneriti del pollaio di Ciccio Di Leo, ma l’attenzione del ragazzo era tutta per quel patetico e assurdo moncone di carrubo. Poi, di colpo, lo smarrimento svanì e Gaspare seppe quel che andava fatto. Restò per un pezzo perplesso, scosso e intimorito dall’idea che gli balenava alla mente, combattuto tra due affetti, due modi di amare. Si trovò così a sciogliere, da solo e senza il consiglio di alcuno, il profondo e straziante dilemma che lo travagliava. Per l’ennesima volta si disse che non era giusto tradire padre e fratello ma poi, alzando ancora gli occhi ai miseri resti dell’unico suo amico, prese la decisione più importante e sofferta della sua vita. Scattò in avanti senza più ripensare a quel che stava per fare, costringendosi anzi a non pensare. Lo videro arrivare di corsa su per il pendio scansando i lenti animali che vi pascolavano e senza badare alle pietre che lo facevano incespicare. Giunto in cima alla collina, si diresse senza esitazione verso il vigile del fuoco più vicino. Con un salto ferino gli fu davanti e, tutto d’un fiato, ansimante per la corsa e l’emozione, gli occhi sbarrati, gli gridò: «Devo fare una denuncia! So chi ha dato fuoco al mio amico!». Era fatta. Ora non poteva più tornare indietro. Per la prima volta, in quel caldo mattino di inizio giugno, Gaspare scoppiò in un pianto dirotto.

Aug 5, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERO E’ AMICO

L’ALBERO E’ AMICO

Villa Comunale Mistretta 1

Ogni anno, durante la stagione estiva, per l’alta temperatura, per il caldo afoso, lunghe lingue di fuoco avanzano divorando vaste estensioni di vegetazione. Bruciano le sterpaglie, brucia la macchia mediterranea, bruciano i boschi. I il mio grido è alto e forte: Proteggiamo, difendiamo la Natura!

L’albero è sicuramente il miglior amico dell’Uomo, ma non sempre l’Uomo è il miglior amico dell’albero. Lo dimostrano proprio gli incendi, soprattutto quelli di origine dolosa.

Osservando la carta dell’Europa preistorica si nota come tutto il territorio europeo era coperto da un’immensa foresta. Oggi, per ammirare gli alberi, quasi sempre bisogna entrare nei boschi e nei giardini. Perchè gli alberi sono amici dell’Uomo? Una foresta, un bosco, una pineta, un giardino sono dei polmoni vegetali che producono ogni giorno una gran quantità di ossigeno. L’Amazzonia è una estesa foresta pluviale che rifornisce di ossigeno l’intera biosfera. Qualora l’Uomo la distruggerà, per costruire autostrade, perderà un alleato fondamentale per la corretta economia della Natura. Inoltre l’albero, come tutte le altre piante, è un grande alchimista: sa trasformare l’acqua e i sali minerali, assorbiti dal suolo attraverso le radici, la luce del sole e l’anidride carbonica dell’atmosfera in sostanza organica e in ossigeno. E’ la fotosintesi clorofilliana!

Gli alberi sono anche produttori di frutta, di legname e di carbone. Impediscono, inoltre, il dissesto idrogeologico. Le radici sono, infatti, delle enormi mani che stringono la terra trattenendo gli smottamenti e le frane. Gli alberi rompono l’uniformità del paesaggio coltivato con macchie di colore verde, con una diversità percettiva tale da ricreare lo spirito e armonizzare la bellezza. Gli alberi, come grandi condomini, sanno dare ospitalità a molti uccelli e a tanti altri animali dove trovano rifugio, come se essi fossero degli Eden ritrovati. Il giardino è l’anima segreta delle città. Quando il vento passa tra le foglie, ecco che gli alberi cominciano a parlare, raccontano una leggenda misteriosa, che l’Uomo non ha mai capito, ma che genera sogni, miti, favole, meraviglie. Gli antichi greci tra il fogliame intravedevano muoversi le ninfe dei boschi, creature deliziose, oppure assistevano, con gli occhi dei miraggi, al passaggio dei satiri, ebbri di vita, desiderosi d’amore. Quindi il bosco è stato e resta un luogo sacro.

L’Antico Testamento offre gli esempi più belli di alberi collegati al concetto del sacro e del divino. L’albero più famoso è quello del Paradiso Terrestre, cioè  l’albero  sacro della vita. Nella Genesi (II,9) si legge: “ [… ] Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male [… ]”

Sicuramente come il nostro migliore amico, dobbiamo imparare ad amare e a rispettare “l’Albero”.

Tra le manifestazioni della Natura vivente l’albero occupa un posto di rilievo sia per il lungo ciclo vitale, talora plurimillenario, sia per le considerevoli dimensioni che può raggiungere. Il maresciallo francese Lyautey Louis Hubert Gonzalve, (Nancy 1854, Thorey 1934), una volta chiese al suo giardiniere di piantare un albero. Gli rispose: ” E’ troppo lento a crescere. Raggiungerà la maturità non prima dei cento anni”. Il maresciallo ripeté: ” Non c’è tempo da perdere, mettilo a dimora questo pomeriggio stesso!

Villa Comunale Mistretta 2

L’albero, sin dalle più lontane origini dell’Uomo, ha suscitato un senso di mistero e di considerazione. Avendo una vita più lunga di quella dell’Uomo, sembra quasi immortale, capace di attraversare secoli di storia e di rappresentare il tramite tra due generazioni. Piantare l’albero è sempre stato un atto carico di significato spirituale che rappresenta, appunto, l’eredità storico-culturale tramandata dagli avi e che è riuscita ad attraversare lo scorrere del tempo. L’albero, così apparentemente immobile e imponente, dà l’idea di stabilità, di fonte di vita, di morte e di rinascita. Esistono alberi tanto longevi da sembrare eterni. Si tratta di esseri che hanno superato avversità ambientali come il fuoco, la siccità, il taglio con  l’ascia  e che hanno assistito alla nascita e al tramonto di stirpi famose e di civiltà.

Attraverso i grandi alberi si manifestano, dunque, la forza e la longevità della vita: spazio e tempo si fondono in essi, consistenza e persistenza, insieme alle rispettive specificità biologiche e, talora, anche antropologiche, ne determinano le caratteristiche e fanno assumere ad essi il carattere di autentici monumenti. Realmente costituiscono le espressioni della Natura vivente che, sin dall’antichità, hanno destato nell’Uomo riverenza e stupore tali da indurlo ad attribuire loro un forte significato simbolico.

 I giganti per eccellenza del mondo vegetale sono le Sequoie che vivono nella California e nell’Oregon sud occidentale e che contano tremila anni di età. Dritte come colonne, sfiorano l’altezza di 120 metri dominando incontrastate il paesaggio circostante. La villa comunale “G Garibaldi” di Mistretta è costituita da zone erbose di Bosso delimitanti le aiuole e attraversata da viali arricchiti da gruppi di fiori e di arbusti, ma l’elemento fondamentale del giardino è proprio L’ALBERO.

Jul 29, 2014 - Senza categoria    Comments Off on TILIA CORDATA

TILIA CORDATA

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 Gli alberi di Tiglio sono molto frequenti nei viali dei giardini pubblici. L’ultimo tratto della via Libertà, di fronte alla villa Chalet di Mistretta, da entrambi i lati del viale numerose piante di Tiglio si fanno notare per la bellezza delle fronde e per l’intenso profumo che si spande nell’aria anche a notevole distanza.

 

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Il Tiglio, una pianta appartenente alla famiglia delle Tiliaceae, è originaria dell’Europa e del Caucaso e diffusa nelle zone collinari e montane. E’ un albero che cresce spontaneo in quasi tutta l’Europa spingendosi fino a 1500 metri di quota. Il suo nome deriva dal greco ” πτίλον”, “penna, ala“, per la caratteristica brattea laterale dei peduncoli dell’infiorescenza. Esistono numerose specie di Tiglio, così come esistono numerosissimi ibridi poiché s’incrociano molto facilmente tra di loro. Per questo motivo l’identificazione delle singole specie non è semplice. Nel viale della villa “Chalet” e nel giardino “G.Garibaldi” di Mistretta è presente il Tiglio selvatico il cui nome botanico è “Tilia cordata” o “Tilia parvifolia”.

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Il Tilia cordata presenta uno sviluppo colonnare ergendosi verso l’alto fino ad un’altezza di 10 metri circa.  L’albero è provvisto di un robusto tronco diritto sostenuto da radici profonde ed espanse e rivestito dalla corteccia liscia quando la pianta è giovane, ma che diventa grigiastra, screpolata e fessurata e con venature longitudinali quando la pianta invecchia. Alla base del tronco si sviluppano numerosi polloni che sono normalmente utilizzati per la moltiplicazione della pianta stessa.

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 Le foglie, decidue, alterne, cuoriformi, con i margini seghettati, cordate alla base ed acuminate alla sommità, provviste di un lungo picciolo, di colore verde più o meno intenso, lucide, hanno dei piccoli ciuffi di peli rossicci agli angoli delle nervature della pagina inferiore. La ramificazione densa e compatta, arricchita dalle foglie, dona alla pianta una forma piramidale. I fiori, ermafroditi, molto profumati, di colore bianco-giallastro, riuniti in mazzetti poco numerosi, sono sostenuti da un peduncolo che parte dalla brattea laterale utile per proteggere il polline dalla pioggia, ma soprattutto per favorire la disseminazione dei frutti maturi per mezzo del vento. Il Tiglio fiorisce nei mesi di giugno e di luglio e i suoi fiori sono molto ricercati dalle api in quanto producono un abbondante nettare. Bisogna aspettare alcuni anni prima che la pianta fiorisca ma, una volta che comincia a fiorire, la fioritura continua senza interruzione aumentando ogni anno il numero dei fiori. I frutti, a forma di capsula ovale e dalle dimensioni di un pisello, contengono i semi che maturano ad ottobre.

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 La pianta di Tiglio si moltiplica per seme, all’inizio della primavera, e per talea. Molto più semplice è la moltiplicazione per polloni prelevandoli dalla base dell’albero unitamente ad un poco di radici durante l’inverno e trapiantandoli immediatamente. I polloni hanno un’elevata capacità di radicazione. E’ importante, durante il periodo iniziale, tenere il terreno costantemente umido per favorire una più rapida radicazione. Il Tiglio è una pianta molto longeva, può vivere anche 1000 anni. È famoso il Tiglio del cimitero di Macugnaga, in provincia di Verbania, che ha una circonferenza di base di 7 metri e che si ritiene sia stato messo a dimora nel XIII secolo, e quello di S.Orso, ad Aosta, presente dal 1500. In Germania si trova un albero di Tiglio la cui chioma misura 133 metri di circonferenza e i suoi rami sono sostenuti da 106 colonne di pietra. Nel comune di Malborghetto–Valbruna, in provincia di Udine, si trova un Tiglio piantato quasi 300 anni fa e dichiarato monumento vegetale. É alto 25 metri ed è protetto da funi e da sostegni. Il Tiglio era molto famoso a Berlino. Numerosi Tigli sono stati piantati in un viale lungo un chilometro, chiamato “Unter den Linden” sotto i Tigli”, per ordine di Federico Guglielmo I di Prussia. L’unter den Linden si allungava dal suo castello fino al parco di caccia di Tiegarten. Nel 1700 Federico I° lo ampliò facendolo diventare un’importante arteria stradale della città. I Tigli hanno sempre animato questo viale ma, nel tempo, le sei file in origine si sono ridotte a quattro. Nel 1935 gli alberi furono completamente abbattuti dai nazisti perchè ostacolavano lo svolgimento delle parate militari. Dopo la fine della guerra sono stati reimpiantati.

Il Tiglio è un albero che si adatta abbastanza bene alle diverse situazioni crescendo anche negli ambienti urbani e tollerando, quindi, l’inquinamento atmosferico. Preferisce un’esposizione in pieno sole, non teme il freddo, sopporta temperature minime molto rigide e non gradisce l’eccessiva umidità né i terreni troppo asciutti, ma che devono essere profondi, umidi, ben drenanti e acidi. L’albero tende a trovare gran parte dei nutrienti nel terreno poiché le radici si diramano anche per decine di metri. In genere, il Tiglio non ha necessità di concimazioni durante la sua crescita, solo al momento dell’impianto apprezza una certa quantità di fertilizzante. Durante l’inverno la pianta di Tiglio deve essere ripulita dai numerosi polloni per contenere il suo sviluppo e per darle una forma elegante.

Diverse sono le patologie che possono interessare il Tiglio, soprattutto quelle causate da insetti. La comparsa sulle foglie di macchie irregolari, in genere tra le nervature, è provocata da un fungo, la Gnomonia tiliae.Le macchie sulle foglie tendono a necrotizzare e sui giovani rami si formano dei piccoli cancri. La presenza di insetti defogliatori, in particolare dei lepidotteri Limantria dispar ed Euprocitis chysorrhoea, provocano la defogliazioni della pianta.Il danno è provocato dalle larve che sono delle macchine divoratrici di foglie. Un piccolo insetto,l’Eupulvinaria hydrangeae, una cocciniglia che infesta i giovani rami e le foglie, vive in colonie sulla pagina inferioredelle foglie. Sulla vegetazione verde compaiono degli ovisacchi bianchi ed allungati che manifestano la presenza del parassita e l’attività delle femmine in fase riproduttiva. I danni possono portare alla defoliazione totale. Le larve di Aegeria apiformis scavano gallerie sotto la corteccia alla base del tronco e, raggiungendo per via interna le radici, arrecano gravissimi e mortali danni alla pianta. Anche gli Afidi sono molto dannosi. Gli adulti di Eriophyes tiliae provocano sulla pagina inferiore delle foglie numerosissime piccole galle rilevate dapprima biancastre, successivamente di colore ruggine. La lotta deve essere immediata e i rimedi specifici e di natura chimica.

 Il Tiglio è una pianta molto ricercata in erboristeria. Le parti utilizzate sono: le infiorescenze ancora chiuse e le brattee raccolte all’inizio della fioritura e fatte essiccare. La raccolta si esegue a mano, staccando il fiore con la brattea. E’ utilizzata anche la corteccia raccolta in primavera. I suoi costituenti sono: flavonoidei, cumarine, olio essenziale, mucillaggini, tannini, vitamina C, acido caffeico e zuccheri. L’infuso dei fiori di Tiglio ha molteplici proprietà sedative, antispasmodiche, antireumatiche, diuretiche, sudorifere ed anticatarrali. E’ indicato contro: insonnia, emicranie, vomiti nervosi, isteria, ipocondria, indigestioni, spasmi gastrici, arteriosclerosi, tossi spasmodiche ed asma. Le compresse, imbevute d’infuso, appoggiate sugli occhi, alleviano la stanchezza, il rossore, le scottature e gli eritemi. Il pediluvio con l’infuso combatte anche la stanchezza e il gonfiore dei piedi. L’infuso, inoltre, è un ottimo depurativo per la pelle, distende le rughe ed aiuta nei casi di arrossamenti cutanei. I Tigli sono intensamente visitati dalle api che producono un miele molto conosciuto e largamente utilizzato in tutto il mondo. La conservazione dei fiori va attuata in luoghi asciutti, freschi e al buio, in cassette di latta o di legno. In Italia il miele monoflora di Tiglio si produce solamente in Piemonte, mentre importanti produttori di miele sono i Paesi dell’Europa centro-orientale. Una ricerca effettuata negli Stati Uniti ha dimostrato che sono state contate 66 specie di insetti visitatori dei fiori di Tilia americana, di Tilia heterophilla, di Tilia cordata e di Tilia platyphyllos. La fragranza dei fiori di Tiglio può anche essere gustata in cucina poiché, essiccati e sbriciolati, aromatizzano dolci e sciroppi. In Italia la pianta non è molto usata in cucina, mentre in altri paesi, come la Spagna, è utilizzata al posto della camomilla. Dai semi di Tilia si estrae un olio simile nell’aspetto e nel sapore a quello dell’olio di oliva. Le sue foglie sono un gradito alimento per il bestiame. Il Tiglio non è un albero famoso solo per le sue innumerevoli proprietà terapeutiche, ma perché produce anche un legno tenero, leggero, utilizzato per lavori d’intaglio e di tornio e per la fabbricazione di mobili e di fiammiferi. Il suo carbone è preferito per ottenere la polvere da fucile e per le mine delle matite da disegno. Con le fibre della corteccia si realizzano stuoie, cestini, carta e corde. Per la sua lunga vita il Tiglio è simbolo di “longevità”. Dagli antichi greci è stato da sempre considerato l’albero sacro ad Afrodite e, per questo motivo, considerato simbolo della “femminilità”.

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 La mitologia greca racconta che la ninfa Filira, figlia del dio Oceano e della dea Teti, abitante nell’isola di Ponto Eusino, ha dovuto soggiacere all’amore di Crono che la possedette nascondendosi sotto le sembianze di un cavallo. Sorpreso dalla moglie Rea, per sfuggire alla sua ira, Crono fuggì al galoppo. Filira partorì il centauro Chirone. Il divino neonato era un mostro per metà uomo e per metà cavallo. Spaventata, chiese al padre di toglierle la vita. Oceano trasformò Filira in una pianta di Tiglio che, da allora, porta il suo nome. La philira, in greco, è l’albero di Tiglio. Il Tiglio è, inoltre, considerato l’albero “dell’amore e della fedeltà coniugale”. Un’altra antica leggenda mitologica greca, ambientata in epoca schiavistica nella Frigia ellenica e tramandata da Pubblio Ovidio Nasone nell’ottavo libro delle “Metamorfosi”, evidenzia l’amore coniugale di due anziani coniugi contadini e il valore dell’ospitalità. Bauci e Filemone, due vecchi sposi, anche se era trascorso molto tempo dalla loro antica unione, erano ancora innamorati l’uno dell’altra. Un giorno Zeus ed Ermes, vagando attraverso la Frigia sotto le fattezze umane, bussando a tante porte, domandavano ovunque ospitalità e ovunque era negata loro l’accoglienza. Una sola casa offri asilo: era una capanna costruita con canne e con fango. Qui, la pia Bauci e il forte Filemone, uniti da un casto e da un indissolubile amore, vedevano trascorrere i loro giorni più belli invecchiando insieme e sopportando la povertà resa più leggera dal loro tenero legame. Zeus scatenò la propria ira contro gli inospitali frigi, ma, grato per l’accoglienza ricevuta, risparmiò i due consorti. Trasformò la loro capanna in un lussuoso tempio e si offrì di esaudire qualunque loro desiderio. Bauci e Filemone chiesero di poter essere sacerdoti del tempio di Zeus e di poter morire insieme. Bauci e Filemone, ormai vecchi, stanchi e prossimi alla morte, improvvisamente da Zeus iniziarono ad essere trasformati: Bauci in una Quercia e Filemone in un Tiglio, due piante abbracciate per i tronchi. Finalmente erano uniti per sempre, l’una accanto all’altro. Questo meraviglioso albero, che si ergeva dinanzi al tempio, fu venerato dai fedeli per moltissimi anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jul 21, 2014 - Senza categoria    Comments Off on GLI ALBERI DI LIGUSTRUM OVALIFOLIUM E AUREO-MARGINATA DAVANTI ALLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

GLI ALBERI DI LIGUSTRUM OVALIFOLIUM E AUREO-MARGINATA DAVANTI ALLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

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La piazza San Felice da Nicosia, nel cuore della città di Mistretta, è il salotto buono. Seduti sul sedile di ferro battuto, impegnati a chiacchierare piacevolmente, i miei amici ed io discutiamo sulla tranquillità del luogo montano e respiriamo l’aria profumata dalle essenze dei piccoli alberi di Ligustrum ovalifolium che adornano da ambo i lati il tratto di strada della via Libertà fino alla chiesa di San Francesco d’Assisi. Anche le essenze vegetali della villa comunale “G.Garibaldi”, posta dietro alle nostre spalle, costituiscono un importantissimo polmone verde.

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Il Ligustrum ovalifolium, dalle foglie ovali e lucide, è un piccolo albero sempreverde appartenente alla famiglia delle Oleaceae e originario del Giappone. E’ una pianta comune in tutta la fascia temperata del mediterraneo e molto diffusa anche in Italia. Presenta un portamento eretto raggiungendo un’altezza media di due, tre metri. Possiede un apparato radicale esteso e poco profondo, spesso dotato di stoloni, veri e propri fusti sotterranei che danno origine a più esemplari concentrati nella stessa zona.

Presenta un fusto spoglio alla base, provvisto di corteccia grigia con numerose lenticelle di piccole dimensioni, e rami giovani molto flessibili.

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Essendo riccamente ramificato, è caratterizzato da una chioma cespugliosa, ampia, fitta ed ombrosa. Le foglie, intere, coriacee, lucide nella pagina superiore e di colore verde scuro brillante, più chiare nella pagina inferiore, sono opposte, lanceolate le superiori, ovali le basali, con il margine lineare e continuo.

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Sono sostenute da un breve picciolo. Le pannocchie, formate da piccoli fiori di colore bianco avorio, diffondono una profumazione intensa e dolciastra. Molto copiosa è la fioritura nel mese di luglio.

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I frutti sono delle bacche scure e lucide, ovoidali e oblunghe e dalla polpa oleosa.
Non sono commestibili perché tossici. Spesso gli uccelli, cibandosi di esse, contribuiscono alla sua diffusione trasportando i semi lontano.
Il metodo più semplice per la moltiplicazione del Ligustrum ovalifolium è la talea apicale che si ottiene prelevando delle porzioni di ramo nella stagione autunnale e lasciandole radicare in vaso fino alla messa a dimora definitiva nel periodo compreso fra marzo e aprile.

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 Per la sua decoratività, tra le piante da siepe più utilizzate alle nostre latitudini il Ligustro trova impiego nei giardini pubblici, nelle ville, ai fianchi delle strade e dei viali.
Poiché sopporta molto bene il taglio della potatura, che può essere effettuato in qualsiasi periodo dell’anno, il Ligustro è adatto per la creazione di siepi che si potano preferibilmente due volte l’anno, in maggio e in settembre. Si possono ottenere forme e portamenti secondo l’arte topiaria.     

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Il Ligustrum ovalifolium è una pianta rustica, di facile coltivazione, che cresce rapidamente, non ha esigenze particolari per quel che concerne l’esposizione e la natura del terreno e, per uno sviluppo equilibrato, è consigliabile collocarlo in un luogo dove possa ricevere almeno alcune ore di sole diretto posto su un terriccio soffice e profondo, molto ben drenato.
Le annaffiature devono avvenire saltuariamente bagnando a fondo il terreno. E’ molto resistente ai climi freddi, sopporta temperature minime molto rigide, quindi è ben inserito nell’habitat mistrettese. Nella pianta di Ligustro sono presenti sostanze tossiche come la ligustrina. Le bacche, se ingerite, provocano infiammazioni gastroenteriche.
La cute è irritata dal contatto con le foglie. Nella medicina popolare, le foglie, in decotto e anche sotto forma di gargarismi, per le loro proprietà astringenti, tradizionalmente erano usate per combattere i gonfiori, gli ascessi, le ulcerazioni della bocca e le infiammazioni alla gola. Anticamente erano usate per preparare particolari inchiostri blu per penne stilografiche.

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Il Ligustro a foglie ovali, pur essendo una pianta molto resistente, potrebbe essere attaccato da diversi agenti patogeni. I più comuni sono: alcuni insetti minatori che scavano gallerie nelle foglie che si ricoprono di macchie bluastre. e l’Oidio che, di solito, colpisce piante poste in zone troppo ombreggiate, con rami troppo compatti o in zone poco aerate. Un nemico abbastanza comune è anche l’oziorrinco.
Le larve si nutrono delle radici e la pianta s’indebolisce sempre di più. Molto utili sono gli interventi preventivi con un antiparassitario ad ampio spettro prima dell’inizio della stagione primaverile. Un altro nemico naturale è il freddo intenso e prolungato. Causa la caduta delle foglie sempreverdi. Più frequentemente congelano soltanto le punte dei rami. Con l’arrivo della primavera la pianta torna a rinvigorire.

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Nella villa comunale di Mistretta è presente anche la varietà del Ligustro aureo-marginata dall’aspetto molto luminoso e dalle foglie bordate di giallo-dorato con l’interno di colore verde.

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Jul 15, 2014 - Senza categoria    Comments Off on VERBASCUM SINUATUM

VERBASCUM SINUATUM

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Mistretta è il paese che mi ha dato i natali. Licata è il paese che mi ha accolto per motivi di lavoro e di famiglia. Lontana dal mio paese da tanti anni, sentivo spesso il bisogno di ritrovare il selvaggio splendore della mia terra, di rivedere le mie montagne, di gustare la dolcezza delle colline, di osservare i colori tenui del paesaggio, di percepire i ricordi che nascevano da un odore particolare (soprattutto quello del fumo della legna bruciata), da una canzone, da una parola, da uno scroscio di pioggia o da un fiocco di neve che cade silenziosa. Lontana, non mi sono mancati soltanto i profumi, il gusto dei sapori locali, le piante della villa comunale, i fiori nei giardini nascosti tra le mura di antiche strade, il mormorio dell’acqua che scorre veloce nel fiume, ma soprattutto mi sono mancati i volti bruciati dal sole della mia gente, il calore delle persone e, ancora, l’abbraccio, la stretta di mano e la pochezza delle parole quando il dolore colpisce. Tornavo al mio paese, anche se raramente, perché là erano rimasti affetti indelebili e montagne di ricordi, quelli che temprano e fanno crescere in fretta e che ritornano come immagini sbiadite, ma sempre vive. Dopo aver adempiuto i miei doveri di moglie e di docente, libera da tanti altri impegni, adesso ritorno spesso al mio paese. Ritorno perché passato e presente si scompongono e si ricompongono nel tumulto dei ricordi. Posso affermare di conoscere veramente il mio paese sotto i diversi profili: architettonico, paesaggistico e, soprattutto, naturalistico.

Osservo la campagna mistrettese alla ricerca delle piantine che crescono spontanee. Stimolano la mia curiosità naturalistica. Ringrazio la Natura perché gratuitamente mi dona queste piccole meraviglie.

Nel periodo di giugno-luglio u.s. ho osservato e fotografato una bellissima pianta che, col suo colore giallo brillante, decora il dorso delle montagne e riempie i luoghi incolti delle strade.

E’ il Verbascum sinuatum. Il Verbasco sinuoso.

 Ringrazio il gentile Giuseppe Bazan, Ph.D. Professor Environmental and Applied Botany dell’Università degli studi di Palermo, Department Of Agricultural And Forest Sciences Botanical Sciences Complex, per la sua nobile, preziosa disponibilità a guidarmi nell’identificazione delle piante spontanee comunicandomi il loro nome scientifico. Grazie Professore!

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 Il genere “Verbascum” consta di 150 specie presenti in Europa, in Asia, in Africa, in America.

Il Verbascum sinuatum è una pianta appartenente alla famiglia delle Scrophulariaceae. Etimologicamente sembra che il nome del genere Verbasco, imposto da Plinio, derivi dal termine latino “barbascum”, “barba, barbato”, per la fitta peluria che riveste i filamenti staminali oppure, molto più probabilmente, per la densa pelosità delle foglie e dei fusti di molte specie. Secondo un’altra ipotesi il nome Verbascum deriva dalla radice latina “virg”, “verga, stelo, bastone”, in riferimento allo scapo del fiore. Il termine “sinuatum”, da “sínuo” “mi curvo”, si riferisce alla forma sinuosa delle foglie basali. Il primo a classificare la specie fu Carl Von Linné, nome italianizzato in Linneo, il padre della classificazione biologica e scientifica degli organismi viventi.

Il Verbascum sinuatum, proveniente dalle regioni mediterranee e del Sud dell’Europa, si è diffuso nell’areale delle coste mediterranee scegliendo il suo habitat nei luoghi incolti, negli ambienti asciutti, lungo i bordi delle strade e dei sentieri, su suoli sciolti, di solito sabbiosi, sui vecchi ruderi vegetando bene da 0 fino a 1300 metri di altitudine. E’ poco esigente, ma gradisce l’esposizione alla luce diretta del sole. In Italia il Verbascum sinuatum è presente in quasi tutto il territorio. Dubbia è la sua presenza in Piemonte, mentre è assente in Valle d’Aosta. Possiede molti sinonimi:  Scuparina in Sicilia, Cerivi cerivi ad Avola in Sicilia, Stronu in Calabria, Abadon a Sarzana in Liguria, Lengua de Can a Santa Margherita in Liguria, Cugoe a Nizza, Cuvualp nella Val San Martino in Piemonte, Guaraguasco a Monte Murlo in Toscana, Labbri di Ciuco a San Moro in Toscana, Pellicciona a Val di Chiana in Toscana, Tasso in Toscana, Cadumbulu a Cagliari in Sardegna.

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 Il Verbascum sinuatum  è una robusta pianta erbacea biennale coperta da minuscoli peli riuniti insieme in gruppetti. Le foglie della rosetta basale, spesso molto pelose, sono sessili, lunghe anche 30 centimetri, con margini a lobi triangolari irregolari, marcatamente ondulati, crenati o dentati, con superficie tomentosa di colore verde-giallastro nella pagina inferiore e con una vistosa nervatura centrale. Quelle cauline, decorrenti, molto più piccole di quelle basali, dal colore verde-grigio, disposte a spirale, sono ovato-acuminate o più o meno lanceolate.  Dalla rosetta basale di foglie si ergono i fusti fioriferi bruno-rossastri, alti anche più di un metro, eretti, cilindrici, con numerosi rami arcuati ascendenti e con ramificazione piramidale nella parte superiore. Il calice del fiore è gamosepalo con sepali di colore verde.  I fiori, solitari e quasi sempre apicali, sessili o brevemente peduncolati, riuniti in fascetti di 2-5 elementi e formanti una grande pannocchia piramidale a rami divaricati o ascendenti, hanno la corolla gamopetala a ruota, glabra, formata da cinque lobi arrotondati, ineguali di colore giallo oro e la fauce di colore arancione. Gli stami hanno le antere reniformi e i filamenti coperti da lunghi petali di colore violetto-porpora che colorano vistosamente l’interno del fiore. L’ovario è supero, lo stilo subclavato è più elevato degli stami, lo stimma è emisferico. L’antesi avviene da maggio ad agosto. L’impollinazione è entomogama. I frutti sono delle piccole cassule tomentose, di forma ovale, setticide, a due valve, che si fendono per favorire il rilascio dei numerosi semi.

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 Il Verbascum sinuatum possiede molte proprietà terapeutiche. L’antica medicina popolare usava gli estratti del Verbascum per combattere la gotta:“Ad podagram” <Herba uerbascum contusa atque imposita intra paucas horas dolorem adeo efficaciter sedat, ut etiam ambulare audeat. Hanc compositionem praecipue auctores ,proficere adfirmant>. “Contro la gotta” <L’erba Verbasco pestata e posta in impacco in poche ore calma con molta  efficacia il dolore così da potere anche camminare. Gli autori affermano che questo metodo in pratica è di grande efficacia>.

Tutte le parti della pianta possiedono, inoltre, proprietà astingenti, emollienti, antispasmodiche, diaforetiche. Le applicazioni attenuano i fastidi provocati dalle emorroidi, leniscono le allergie della pelle e delle mucose, aiutano la cicatrizzazione delle ferite. L’infuso delle foglie e dei fiori allevia le malattie respiratorie ed è ancora usato come espettorante contro la tosse secca, per combattere la faringite e la bronchite. nei suoi semi sono presenti: la cumarina e il rotenone, le saponine.  Nel fusto sono contenuti numerosi principi attivi quali: glucosidi, flavonidi, mucillagini, saponine, fitosteroli.  Nell’olio essenziale, estratto dai fiori, sono presenti gli acidi: protocatechico,  caffeico, ferulico. Quest’ultimo è l’elemento principe dei composti per preparare lozioni che schiariscono i capelli.

Le descrizioni medico-farmaceutico-estetico sono solamente a titolo informativo. Per le eventuali necessità bisogna
ricorrere al sicuro consiglio del proprio medico di fiducia.

Infine una curiosità. Anticamente i fusticini raccolti, essiccati e riuniti in fascetti, erano utili per costruire le scope.

Jul 4, 2014 - Senza categoria    Comments Off on I FIORI DI HEMEROCALLIS FULVA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

I FIORI DI HEMEROCALLIS FULVA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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I fiori di Hemerocallis fulva in questo periodo abbelliscono le tante aiuole della villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta.
Per la particolare forma della corolla, dal colore rosso-aranciato, essi attraggono quanti sostano vicino alle aiuole per ammirare la loro bellezza e per ringraziare la Natura che regala all’Umanità  esseri viventi così pregiati.

https://youtu.be/ROnNRzljMvc

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L’Hemerocallis appartiene della famiglia delle Liliaceae note, comunemente, come Emerocallidi. Il nome scientifico deriva dal greco “ημέρα”, “giorno” e “καλός”, “bello” e significa “bellezza di un giorno” per il fatto che i fiori di tutte queste piante sbocciano al mattino e sfioriscono nell’arco di un solo giorno. Esistono diverse varietà, ma quelle reperibili nella nostra flora sono: l’Hemerocallis flava, il giglio dorato, che ha fiori odorosi gialli e l’Hemerocallis fulva, il giglio turco, inodore, presente, appunto, nel giardino di Mistretta. L’Hemerocallis è un genere di piante erbacee perenni originarie del Giappone e della Cina e diffuse in Asia temperata e in Europa. Ne esistono circa 20 specie. La pianta possiede una radice fascicolata e rizomatosa. L’apparato radicale ingrossato forma, a livello del terreno, una larga corona carnosa dalla quale spuntano numerosissime foglie nastriformi riunite in ciuffi, simili a grossi steli d’erba. Sono di colore verde chiaro, arcuate, lunghe da 40 a70 centimetri e formano ampi cespi. Dal mese di giugno e fino al primo freddo autunnale, tra le foglie si sviluppano alcuni steli eretti, carnosi, rigidi, alti fino ad un metro, portanti numerosissimi boccioli che fioriscono in successione continua.

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 Ogni singolo fiore ha una brevissima durata, ma ogni pianta produce numerosi steli floreali ognuno dei quali porta molti fiori che garantiscono una fioritura abbondante delle Hemerocallis per diversi mesi. I fiori, riuniti in racemi, a forma d’imbuto, sono costituiti da sei larghi petali leggermente carnosi, arrotolati verso l’esterno, di forma triangolare. Al centro sono visibili gli stami che sono sempre arcuati e rivolti verso l’alto. I fiori delle specie botaniche variano dal giallo, all’arancione, al rosso. All’inizio, la pianta era nota solo con le colorazioni gialle ed aranciate. La diffusione di queste piante come essenze da giardino e come fiori recisi ha, però, portato alla produzione di numerosissimi ibridi dai più svariati colori. La gola è, in genere, di colore giallo o verde, i petali, invece, possono mostrare i colori più vari: il bianco, il porpora scurissimo, quasi nero. Esistono molte varietà a più colori, con il bordo contrastante o con striature di molteplici colori. Le specie sono alcune sempreverdi, altre a foglie caduche.

Per ottenere una fioritura abbondante è necessario che le Hemerocallis ricevano almeno 5-6 ore al giorno di sole diretto, preferendo il sole del mattino soprattutto durante le stagioni più calde. Alcune specie sono molto resistenti al freddo, altre invece sono delicate e poco rustiche. La qualità della fioritura risente sicuramente dell’assenza d’acqua. Da marzo ad ottobre bisogna annaffiare le piante con regolarità attendendo sempre che il terreno, tra un’annaffiatura e l’altra, sia ben asciutto; durante i mesi invernali, invece, le annaffiature si devono evitare perché, se abbondanti, potrebbero favorire lo viluppo del marciume del colletto. Le Hemerocallis possono sopportare periodi anche lunghi di siccità senza incorrere in gravi conseguenze. Le Hemerocallis gradiscono un buon terreno sciolto e ben drenato, possibilmente leggermente acido e ricco di materia organica. La moltiplicazione avviene in primavera o in autunno per divisione dei cespi.

Jun 23, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LA STRELITZIA REGINAE

LA STRELITZIA REGINAE

 

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Il cespuglio di Strelitzie, questo capolavoro della Natura, fotografato da me in una villa privata nella zona di Pallavicino, a Palermo, ha attirato la mia attenzione per la sua ricca ed esuberante vegetazione. La pianta di Strelitzia coltivata nella giara si trova nella veranda del mio giardino in Contrada Montesole a Licata.

Il genere Strelitzia, appartenente alla famiglia delle Musaceae, comprende cinque specie di piante originarie dell’Africa meridionale, ma la più conosciuta e la più diffusa è la Strelitzia reginae. Le specie meno conosciute, ma ugualmente eleganti sono: la Strelitzia Alba, che presenta i fiori bianchi e la brattea di colore porpora, e la Strelitzia Nicolai, che presenta il fiore azzurro, lilla o bianco e le brattee di colore rosso scuro. Il fiore della Strelitzia reginae è molto apprezzato per la pregevole bellezza, per il portamento elegante, per i cromatismi a contrasto, per le vistose dimensioni. E’ noto come “fiore del paradiso” o “uccello del paradiso” per il caratteristico aspetto simile alla figura dell’esotico uccello del paradiso.

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 La Strelitzia è stata introdotta in Europa alla fine del 1700 da Banks, il responsabile dell’Orto botanico di Kew Gardens (Royal Botanic Gardens di Kew) di Londra. Le è stato assegnato questo nome per onorare Carlotta-Sofia di Meclemburg-Strelitz, grande appassionata di botanica, eletta regina per avere sposato,nel 1761, Giorgio III re di Gran Bretagna e Irlanda e dal quale è rimasta vedova nel 1820. Per questo motivo nel linguaggio dei fiori la corolla della Strelitzia indica “maestà e nobiltà”.

Per la prima volta la Strelitzia fu importata in Italia nel 1912. Cominciò ad essere coltivata nei giardini di villa Hambury, creati da Thomas Hanbury, un londinese innamorato della costa ligure, che si estendono sul promontorio della Mortola vicino alla frazione di Latte di Ventimiglia. Per molti anni la Strelitzia è stata ospitata da alcuni Orti botanici e ammirata solo da quelle  poche persone appassionate di piante. Pian piano la sua conoscenza cominciò a diffondersi dapprima in Sicilia, con la coltivazione in piena terra, e poi in altre regioni d’Italia. Essendo stata scoperta e apprezzata dalle aziende floricole, la coltivazione della Strelitzia iniziò a diffondersi industrialmente raggiungendo, soprattutto in Liguria, un grande sviluppo economico e commerciale tanto da assumere una posizione di primissimo piano nell’industria dei fiori recisi perchè il fiore della Strelitzia è prezioso quanto quello delle Orchidee. La Strelitzia è così pregiata tanto da essere usata nella sua zona d’origine da alcune tribù dell’Africa del Sud per adornare la capanna del capo o dello stregone.  

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 La Strelitzia reginae  è una pianta perenne, solitamente molto longeva, sempreverde, acaule, a portamento cespuglioso, alta fino a 90-120 cm. Possiede un apparato radicale voluminoso e robusto, talvolta rizomatoso, provvisto da grosse radici carnose e fascicolate che, se la pianta è coltivata all’aperto, si sviluppano nel terreno raggiungendo la profondità di oltre un metro. Le foglie, coriacee, ravvicinate e raggruppate in un folto cespo, di colore verde brillante con sfumature bluastre, sostenute da piccioli molto lunghi, sono a grande lamina lucida, ovate o lanceolate, larghe anche 20 cm e lunghe fino a 50 cm. I margini sono ondulati e la nervatura mediana è molto evidente. Le infiorescenze, portate da lunghi steli cilindrici ed eretti, sono formate da una spata coriacea verde leggermente sfumata di rosso. In età giovanile è situata in posizione eretta e in età adulta disposta a 90°. Aprendosi, lascia sbocciare i fiori. All’interno della spata si trovano da 5 a 8 fiori asimmetrici. I fiori, apicali o inseriti all’ascella della guaina fogliare, presentano gli elementi del perianzio molto diseguali e protetti da una brattea dalla quale fuoriescono sepali, petali e stami. Ogni fiore, ermafrodita, appariscente e molto bello, è formato da tre sepali di colore giallo-arancio vivo che formano il calice: due situati da un lato e l’altro dalla parte opposta. La corolla è formata da tre petali di colore viola-azzurro intenso di cui quello superiore è più corto e ha la forma di cappuccio mentre i due inferiori sono sagittati e saldati insieme a formare una sorta di alabarda. Gli stami, completamente nascosti, sono cinque. Lo stilo filiforme è lungo circa 10 cm. L’ovario è infero. Il periodo di fioritura della Strelitzia è molto lungo; comincia a fiorire, non prima di aver raggiunto i cinque anni d’età, verso la fine del mese di febbraio continuando la fioritura fino ad ottobre. Essendo molto longeva, non ha alcuna fretta di fiorire. Quando un fiore appassisce un altro è pronto per sbocciare. Il frutto è una capsula triloculare in cui si formano i semi tondeggianti, neri, con l’arillo piumoso e di colore arancio. Naturalmente l’impollinazione è favorita dagli uccelli di piccole dimensioni le cui specie, purtroppo, non sono presenti nei nostri climi. Tutte le piante coltivate in Italia, pertanto, sono impollinate artificialmente. La moltiplicazione per seme, la cui semina si esegue nel periodo compreso fra marzo e aprile, produrrà piante che fioriranno intorno ai 5-6 anni di età. Si possono ottenere più facilmente nuove piantine se, prima della fioritura, si separano i cespi dalla pianta madre.

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 La Strelitzia non è particolarmente difficile da coltivare e resiste anche a condizioni ambientali non ottimali.Può essere coltivata sia all’aperto, nelle regioni a clima particolarmente mite dove le temperature non scendono sotto i 5°C, sia dentro le abitazioni. Teme la neve e le gelate, gradisce ambienti arieggiati e illuminati evitando, però, l’esposizione durante le ore centrali della giornata in quanto i raggi diretti del sole potrebbero danneggiarla. La Strelitzia gradisce l’umidità pertanto richiede annaffiature frequenti e costanti e nebulizzazioni delle grandi foglie. Durante il periodo di riposo vegetativo bisogna concimare il terreno una volta al mese adoperando un concime liquido diluito nell’acqua di irrigazione. Alla Strelitzia, durante la sua crescita, bisogna fornire i necessari elementi nutritivi quali: il potassio, l’azoto, il fosforo, il manganese, che influenza la formazione della clorofilla, il rame, che agisce sugli enzimi della respirazione, ed il boro, che agisce sullo sviluppo degli apici vegetativi. Sono elementi chimici importanti, anche se presenti in minima quantità, ma necessari per un corretto ed equilibrato sviluppo della pianta. Dopo la fioritura, è necessario eliminare i fiori appassiti e le foglie che via via ingialliscono e avvizziscono per prevenire le malattie parassitarie. L’eccesso di acqua potrebbe favorire lo sviluppo del fungo Phytophtora causando il marciume basale e radicale. Si può aiutare la pianta attaccata da questo fungo togliendola dal vaso, eliminando tutte le parti colpite e trattando le ferite provocate dal taglio con un fungicida in polvere ad ampio spettro. Quindi si cambia il terriccio e si depone la pianta in un altro vaso avendo l’accortezza di annaffiarla con poca acqua, ma spesso.  Il Fusarium, un altro fungo, aggredisce le infiorescenze appena uscite dalla spata. Presentano delle macchie brune, leggermente depresse  e di forma irregolare che si coprono di una sostanza gommosa. Anche in questo caso il fungo si combatte riducendo l’umidità ambientale, grazie alla quale questo fungo prolifica, e usando fungicidi specifici.L’umidità dell’aria e le eccessive annaffiature favoriscono la proliferazione del fungo Botrytis con la comparsa sulle foglie della muffa grigia. Il rimedio è quello di trattare le foglie con uno specifico anticrittogamico dopo avere tolto tutte le parti infette. La Cocciniglia farinosa, il Ragnetto rosso, gli Afidi, comunemente chiamati “Pidocchi”, arrecano danni quasi irreversibili alle foglie e, pertanto, devono essere rimossi dalla pianta lavando accuratamente le foglie e usando un insetticida specifico.

Infine una curiosità: è opera del pittore Man Ray il quadro “L’Incompreso” dove l’artista ha dipinto l’appariscente fiore della Strelitzia.

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Jun 18, 2014 - Senza categoria    Comments Off on LE ALOE FIORITE NEL MIO GIARDINO ROCCIOSO A LICATA

LE ALOE FIORITE NEL MIO GIARDINO ROCCIOSO A LICATA

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Nel mio giardino roccioso le piante di Aloe sono molto numerose, di diverse qualità e di diverse età, per la loro facilità di riproduzione. Appartengono alla famiglia delle Liliacee.
Il nome botanico deriva dal greco “αλόη” che significa “albero dal legno fragrante”.
Dalle foglie delle piante di Aloe stilla un succo acre, amaro, sgradevole che le fece apprezzare come piante medicinali. Gli antichi pensavano, infatti, che l’efficacia di una medicina, come sostanza curativa, dipendesse maggiormente dal sapore intenso e amaro della pianta.
Le piante di Aloe sono succulente, carnose, dotate di un grosso stipite corto e di un ciuffo di foglie grandi, intere, dentate o spinose lungo i margini che si restringono a punta alla sommità, cerose, maggiormente riunite in rosette basali.

 

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 Nella pianta giovane le foglie sono di colore verde macchiato di bianco, nella pianta adulta sono di colore verde pallido.
Lo scapo fiorifero è alto anche un metro e porta, raccolti in infiorescenze a racemi semplici o ramose, fiori di forma tubulare, diritti, rossi e gialli, molto visitati dagli insetti.
É mia abitudine recidere lo scapo fiorifero, anche se è molto decorativo, perché costringe la pianta ad un gran dispendio d’energia. Introdotte per la bellezza delle foglie e delle appariscenti infiorescenze, provengono per la maggior parte dal Capo di Buona Speranza, dalle Canarie, dalle deserte zone dell’Africa e dell’Asia Minore e si sono così diffuse lungo le coste del Mediterraneo da moltiplicarsi spontaneamente soprattutto in quei luoghi dove il clima è più caldo e secco.
Nella montagna “Montesole” a Licata l’Aloe arborescens, l’Aloe vera, l’Aloe variegata, l’Aloe ferox, l’Aloe saponaria,  L’aloe maculata si sono talmente ben inserite da occupare buona parte del giardino roccioso, emergendo quasi inselvatichite anche dalle fessure delle pietre.

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Non hanno bisogno di cure particolari; pretendono esposizione in pieno sole, terreno sciolto, fortemente drenato e annaffiature moderate per garantire alle radici una costante permanenza all’asciutto, prestando attenzione a non fare ristagnare l’acqua nelle foglie.
Combattono la siccità perché le foglie interne, sepolte nel terreno, sono protette da quelle esterne disseccate. Con le prime piogge autunnali le rosette rivivono e si aprono.
Fioriscono in primavera – estate. Sono molto decorative con le foglie macchiate, variegate, pungenti e con i fiori vistosi, che danno una nota di colore alle rocce pietrose e soleggiate.
L’Aloe arborescens e l’Aloe variegata producono a giugno fiori di un bel colore rosso. L’Aloe saponaria presenta rosette di grandi foglie verdi con piccole macchie più chiare e con il margine dentato e spinoso.
É stato Dioscoride, medico greco del I° secolo d. C, a vantare le proprietà officinali delle piante di Aloe. Incidendo le foglie, si raccoglie un succo che, fatto evaporare, si trasforma in una polvere bianca utile in medicina e in veterinaria. In piccolissime dosi è eupeptico e serve per preparare bevande e medicinali tonici e digestivi.
In dosi più elevate ha azione purgativa blanda e tardiva. In dosi alte ha azione energica e violenta. In cosmetica si producono saponi per la pulizia della persona. Ogni varietà di Aloe dà il suo succo. Il suo nome varia con la provenienza. Il più pregiato è quello “soccotrino” così detto perché estratto dall’Aloe proveniente dall’isola di Socotra.
Ha colore rosso bruno, odore aromatico e sapore amaro. É un violento purgante, che agisce dopo circa 24 ore dalla somministrazione, determinando una forte stimolazione dell’intestino crasso. É molto utile nei casi di stipsi cronica. Esternamente, sotto forma di tintura, favorisce la cicatrizzazione delle piaghe.
Vorrei precisare che tutti i rimedi fitoterapici descritti sono curiosità e tradizioni della medicina popolare.
La loro descrizione serve ad evidenziare l’importanza delle piante nella vita dell’Uomo e non devono essere usati indiscriminatamente, né essere alternativi alla moderna medicina. Nessuna responsabilità è assunta dall’autore.
Il mio amico Giuseppe aveva riposto tanta fiducia nella miracolosa azione della pianta di Aloe. Sperava nella guarigione della mamma, affetta dal male del secolo, facendole assumere, più volte al giorno, una pappa ricavata dalle foglie frullate. Ho divelto molte piante di Aloe del mio giardino, ho sperato anch’io, ma il risultato finale era prevedibile!

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 La pianta di Aloe è ripetutamente citata nella Sacra Bibbia. Nel libro dei Numeri (24,6), nella Terza Benedizione di Balaam così si legge: “Sono come torrenti che si diramano, come giardini lungo un fiume, come aloe, che il Signore ha piantati come cedri lungo le acque” e nel Salmo (44,9) del re messianico: “ Le tue vesti son tutte mirra, aloe e cassia, dai palazzi d’avorio ti allietano le cetre”.
Nel libro dei Proverbi, nelle Lusinghe dell’adultera (7,17), così è scritto: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra, di aloe e di cinnamomo”.
Il libro del Cantico dei Cantici, nell’invito alla sposa (4,14) riferisce: “Nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con ogni specie d’alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi”. In Giovanni (19,39): “Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre”.

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 Le piante di Aloe in genere sono resistenti alle malattie ma potrebbero essere attaccate dall’oidium o mal bianco, un fungo che riveste le foglie di una patina biancastra. Va combattuto spruzzando una soluzione di zolfo ramato, sciolto in quantità di 4 grammi ogni litro d’acqua, da ripetere tutte le settimane fino alla scomparsa della malattia.
Molte specie di Aloe sono ornamentali e, per il loro bel fogliame, sono diffusamente coltivate in Europa per l’effetto decorativo nei giardini, nei parchi, negli androni dei palazzi.
Un’eccezionale collezione di Aloe si può ammirare visitando il giardino di Hanbury, alla Mortola presso Ventimiglia, al confine con la Francia, e il giardino esotico di Montecarlo, vero e proprio museo delle piante grasse.
Lungo la strada panoramica della valle dei templi di Agrigento è interessante notare la sistemazione delle numerosissime piante di Aloe, anche spontanee, curate dall’esperienza, dalla professionalità e dalla sensibilità dei giardinieri della Sovrintendenza Archeologica.
Abbelliscono il paesaggio.

 

Jun 10, 2014 - Senza categoria    Comments Off on L’ACANTHUS MOLLIS- LE FOGLIE CHE HANNO DECORATO I CAPITELLI CORINZI DELL’ANTICA GRECIA

L’ACANTHUS MOLLIS- LE FOGLIE CHE HANNO DECORATO I CAPITELLI CORINZI DELL’ANTICA GRECIA

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 La presenza dell’Acanto lungo le strade di campagna indica che la primavera, la prima stagione splendente, ha quasi ceduto il posto all’estate.
Il genere Acanthus, della famiglia delle Acantacee, comprende circa 50 specie provenienti dall’Asia e dall’Africa subtropicale e molte sono state coltivate a scopo ornamentale. Il nome Acanto deriva dal greco “άκανθα” “spina” per la forma spinosa dell’apice dei suoi fiori. L’Acanthus mollis è un’erba perenne dei paesi caldi mediterranei.
In Italia si trova ovunque e raggiunge un’altezza di 30 – 40 cm.

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Ha foglie grandi, eleganti, larghe, sinuose, dentate, fiori biancastri striati di verde e di viola, situati in una lunga spiga terminale, addensati e privi di stelo all’ascella di un’ampia brattea che li ricopre. Sbocciano in abbondanza per tutta l’estate. Il frutto, una capsula, a maturità si apre lanciando i semi anche molto lontano dalla pianta madre. La pianta d’Acanto raggiunge il suo pieno sviluppo in un terreno ricco, profondo, leggero, ben drenato e in pieno sole e vegeta bene all’ombra degli alberi d’ulivo. Gli alti pini della mia pineta sono molto protettivi nell’ospitare, alla base del fusti, una grande quantità di piante di Acanto.

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In piena terra è una pianta appariscente per il fogliame largo, verde intenso, per le grandi infiorescenze estive, per il portamento maestoso. Per l’abbondante quantità di mucillagine che si ricavava dalle foglie fresche e dalle radici, per i principi astringenti che contiene, l’Acanto, anticamente, occupava un posto importante in medicina: era usato per calmare le infiammazioni sotto forma di fomentazioni, per clisteri, per cataplasmi, per impacchi caldi.
Ha un gran potere antinfiammatorio nelle affezioni della gola e dell’apparato respiratorio. Oggi ha perso la sua validità curativa ed ha scarsissima applicazione in terapia. Solo in alcuni casi si usa l’infuso per combattere le enteriti e le metrorragie. Le foglie d’Acanto sono celebri per aver ispirato il più importante disegno decorativo del capitello corinzio dell’antica Grecia. Vitruvio (sec. V) ha attribuito l’idea all’orafo Callimaco il quale avrebbe così diversamente decorato la forma a campana del capitello corinzio che la Grecia aveva copiato dall’arte egizia. L’uso delle foglie d’Acanto entrò anche nella decorazione architettonica e pittorica.
É raffigurata nei capitelli del coro delle chiese dove erano custodite le reliquie dei santi con la promessa della resurrezione. L’Acanto esprime proprio la resurrezione.

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La raffigurazione della foglia d’Acanto attraverso i tempi ha subito molte modificazioni in accartocciamenti voluminosi o accentuando le dentellature sino ad assumere, nello stile gotico, forme più raccolte ispirate alla specie spinosa e ad altre piante, forme d’insuperabile eleganza  per flessuosità e per sottile finezza di linee. Nel periodo migliore del Rinascimento il ramo d’Acanto servì per abbellire superfici molto ampie.
L’Acanto simboleggia le persone che, nonostante le difficoltà, riescono a portare a conclusione mansioni difficili.

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May 30, 2014 - Senza categoria    Comments Off on SAMBUCUS NIGRA E SAMBUCUS RACEMOSA

SAMBUCUS NIGRA E SAMBUCUS RACEMOSA

fiori di Sanbucus nigra 1

Per la bellezza delle allegre e ricche fioriture, bellissimi arbusti di Sambucus nigra e di Sambucus racemosa, piante molto ornamentali, si possono ammirare in questo periodo nella villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta.
Il Sambuco è una pianta arbustiva e anche arborea appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae. E’ originario dell’Europa, dell’Asia, dell’America e del Caucaso. Oggi è una specie cosmopolita diffusa in tutte le aree temperate dei continenti ad eccezione dell’Africa meridionale. In  Italia è presente in tutte le regioni, dalla pianura alla  montagna, fino a 1.500 metri d’altitudine.
E’ una pianta spontanea, rustica e vigorosa, che tende a diventare infestante. Vegeta ai margini dei boschi, lungo le strade, nelle siepi e nei luoghi incolti, vicino alle discariche dove il suolo è ricco di azoto e di materia organica decomposta. Si  diffonde soprattutto per merito degli uccelli che, ghiotti delle sue bacche, disperdono i semi.

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Il genere Sambucus comprende circa 40 specie, ma le più note sono: il Sambucus nigra e il Sambucus racemosa o di montagna. Il più diffuso in Italia è il Sambucus nigra. Il nome Sambucus deriva dal greco “∑αηβύкη”.
Il sambuchè è uno strumento musicale ottenuto dai rami cavi della pianta dai quali è stato rimosso il midollo. E’ il flauto a cui si attribuivano proprietà magiche. Tutti i bambini sicuramente hanno letto la favola “Il flauto magico” dei Fratelli Grimm.  Narra che il suono magico del flauto era una sicura protezione dai sortilegi. Nel folklore di diversi popoli europei era suonato il flauto per questo motivo.  Nell’opera musicale “Il flauto magico” di Mozart si racconta che la Regina della Notte donò un flauto a Tamino. Subito lo strumento divenne d’oro e, se suonato nei momenti di pericolo, liberava gli sfortunati da situazioni pericolose e difficili.
Il Sambuco era conosciuto sin dall’antichità dai popoli preistorici i quali, molto probabilmente, con le sue bacche preparavano robuste bevande fermentate e tinture per tessuti. Sono testimoni i grandi ammassi di semi trovati durante i numerosi scavi archeologici in Italia e in Svizzera. Teofrasto di Efeso, filosofo e botanico greco, successore di Aristotele, chiamò il Sambuco “Aktè” e ne conosceva già le qualità terapeutiche. Ippocrate ne consigliava l’uso come diuretico e lassativo. Linneo, nel 1735, ha attribuito il nome “nigra” al Sambucus niger, dal latino “niger”, “nero”, per il colore nero dei suoi frutti, e il nome “racemosa” al Sambucus rosso per i suoi frutti di colore rosso.
Il Sambuco ha altri nomi: “Sambuco comune, Nebbia, Sambuch, Zambuco, Sango, Fiore di maggio”.

Fiori di Sambucus nigra 2

 Il Sambucus nigra, la specie che si trova più frequentemente, è un grazioso arbusto spontaneo che può raggiungere, da adulto, i cinque metri d’altezza. Le radici del Sambuco, alla ricerca di sostanze nutritive, si espandono dapprima orizzontalmente nel terreno, poi scendono più in profondità. I fusti sono eretti e molto ramificati e la corteccia che li riveste è di colore grigio chiaro, cosparsa di lenticelle verrucose brunastre. Sui tronchi e sui rami vecchi essa si screpola assumendo un aspetto tuberoso. Le foglie sono di colore verde intenso sulla pagina superiore e di colore più chiaro su quella inferiore. Sono picciolate, caduche, opposte a due a due, imparipennate, composte da 5, 7 foglioline ovali, acuminate, dentate e col margine seghettato. Dopo la loro caduta, sul ramo rimane una cicatrice a forma di semiluna. Tutte le foglie emanano un odore sgradevole in deciso contrasto con il piacevole aroma dei fiori. Insieme formano la chioma irregolare e folta per i numerosi rami ad andamento arcuato e ricadente.

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I fiori, ermafroditi, piccoli, di colore bianco giallognolo, raccolti in ampie infiorescenze ad ombrella, posti tutti alla stessa altezza,fioriscono tra maggio e giugno ed emanano un forte profumo dolciastro.

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Alle infiorescenze seguono i frutti, grappoli di piccole bacche nere e lucenti, sferiche, pendule, che hanno la parte esterna sottile e quella interna carnosa che produce un abbondante succo violaceo. I frutti sono commestibili, ma di sapore amarognolo. Contengono da 2 a 5 noccioli monospermi a forma di pinolo. L’epoca di fruttificazione è da agosto a settembre. La moltiplicazione avviene per semina, spargendo i semi direttamente sul terreno in autunno, dopo la raccolta dei frutti. La germinazione può avvenire anche a distanza di diciotto mesi. La pianticella di Sambuco cresce molto rapidamente. Durante la stagione invernale si possono prelevare talee legnose.

frutti di Sambucus nigra

Il Sambucus nigra è simile al Sambucus racemosa.  Le differenze tra le due varietà di Sambuco sono modeste. Nel Sambucus racemosa, pianta diffusa negli ambienti collinari e montani, le foglie, imparipennate, con 3 o 5 segmenti, di colore verde chiaro nella pagina superiore e rivestite di lanugine nella lamina fogliare inferiore, hanno la forma più lanceolata e più acuminata all’apice rispetto al Sambucus nigra e il margine intensamente seghettato. I fiori sono giallicci di colore e i frutti sono rossi, di forma globosa ed eretti anche a maturazione.

fiori Sambucus racemosa

frutti di Sambucus racemosa

Una posizione soleggiata è gradita alla pianta che si ambienta senza difficoltà anche a mezz’ombra. Predilige terreni freschi, umidi e profondi, in particolare ricchi di azoto. Sopporta bene sia le alte sia le basse temperature. L’irrigazione deve essere moderata e può bastare solo l’acqua piovana. La pianta di Sambuco non necessita di concimazioni e di potature. Non è soggetta a particolari malattie o parassiti.
A volte possono manifestarsi delle macchie sulle foglie dovute a qualche specie fungina. Il Sambuco è “magico” per se stesso: le piante, soggette a ruggine o a muffa, traggono vantaggio se sono spruzzate con una tisana ottenuta dalle sue stesse foglie.  Il Sambuco è una pianta dai molteplici utilizzi: il legname delle parti apicali dei rami o dei polloni è molto tenero ed è  stato usato nel tempo per la produzione di zufoli.
Il legno della parte basale, biancastro,  è duro e pesante, adatto per torniture e per oggetti da cucina.  Il  midollo di Sambuco era impegnato nella strumentazione da  laboratorio e in modellistica. Dai frutti e dalla corteccia di Sambuco si ricava una tintura nera, dalle foglie una tintura verde e dai fiori una tintura blu o lilla.
Questi coloranti sono impiegati per tingere la lana e la seta rispettivamente di viola, di  giallo e di grigio. I frutti, utilizzati come esca, sono molto efficaci per la pesca dei pesci d’acqua dolce. Storicamente, la pianta di Sambuco è stata considerata una pianta terapeutica da tutta la medicina popolare. Le proprietà medicinali del Sambuco comune erano conosciute fin dai tempi antichi perché citate nelle opere di Ippocrate (460-377 a.C.), di Teofrasto (370-287 a.C.) e di Dioscoride (I sec. d.C.).
Ippocrate consigliava la radice cotta nel vino come rimedio efficace contro i morsi delle vipere. Erano attribuite anche virtù ginecologiche. Dioscoride distinse per primo il Sambucus nigra dal Sambucus ebulus, pur riconoscendo ad entrambi le stesse virtù medicamentose. In particolare, secondo l’autore, queste virtù curative potevano essere usate per scacciare la bile e il catarro, per ridurre l’idropsia.
Infiammazioni, ulcere e scottature erano curate con le foglie più tenere. Per circa 14 secoli le teorie di Dioscoride influenzarono il campo farmaceutico e medico. Anche Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, condivideva le teorie di Dioscoride. La corteccia, le foglie e i frutti hanno un’azione purgativa ed emetica. Una credenza magica consigliava di staccare la corteccia dall’alto verso il basso se si voleva ottenere un effetto lassativo, dal basso verso l’alto se si voleva stimolare il vomito.
Il Sambuco è un vegetale molto ambiguo nelle credenze popolari. Presso la tribù dei Kwakiutl si racconta che quando una donna malata non riesce a vomitare, allora il marito si reca nella foresta, si siede davanti ad un Sambuco e recita la seguente preghiera: “Oh! Essere Soprannaturale, sono venuto a chiedere se potessi, per favore, andare da mia moglie per farla vomitare, fa’ in modo che lei vomiti la causa del suo problema”.
Dopo aver pregato, l’uomo estrae dalla terra la radice della pianta, ne taglia un pezzo e fa ritorno a casa. Usando una pietra ruvida, grattugia la radice fino ad ottenere un liquido lattiginoso. Anche la donna, per ottenere la grazia di vomitare, deve prima recitare la stessa preghiera e poi bere alcune tazze di quel succo di radice di Sambuco. La magia è compiuta!
Molteplici sono gli usi officinali delle varie parti della pianta di Sambuco: fiori, frutti, foglie, corteccia, semi dai quali si ricavano, in prevalenza, gli infusi medicinali. Le proprietà terapeutiche possono essere così riassunte: la corteccia e le foglie sono purgative. Con i fiori si prepara una gradevole tisana che favorisce la sudorazione, utile rimedio per combattere il raffreddore, la febbre e l’influenza. Ottima anche per sconfiggere la tosse, l’asma, i reumatismi; ai fiori vengono anche riconosciute proprietà lassative e antiemorroidarie.
L’infuso di fiori è più efficace se consumato caldo. I frutti si usano per preparare uno sciroppo antinevralgico e lassativo.Rami, foglie e radici sono impiegati nel trattamento dell’artrite reumatoide. La corteccia è la parte più attiva della pianta, specialmente se fresca; usata come decotto, ha azione diuretica assunta in piccole dosi, purgativa in dosi maggiori. Le  bacche di Sambuco contengono: tannini, carotenoidi,  flavonoidi, potassio, calcio, magnesio, fosforo e ferro e, per la gran quantità di vitamina C, sono state utilizzate per il trattamento di una pandemia d’influenza esplosa a Panama nel 1951.
Tutte le parti verdi della pianta sono velenose poiché contengono il glicoside cianogenetico che, per  idrolisi, produce acido cianidrico. La presenza di un principio attivo nelle foglie della pianta conferisce loro proprietà  insettifughe.  Infatti, con le foglie si preparano decotti  in grado di allontanare  Afidi, Cocciniglie e Formiche.
Una curiosità: le donne romane utilizzavano le ceneri per schiarire i capelli.
Il Sambuco è noto, oltre che per le sue proprietà medicamentose,  anche in cucina. I fiori freschi sono utili  per aromatizzare bevande alcoliche, per preparare dolci, macedonie, prodotti da forno, insalate, frittate. I getti terminali, come i turioni degli asparagi, privati dalle foglioline, vengono lessati a lungo, per togliere il gusto non gradevole, e portati in tavola.
Non è un piatto eccessivamente prelibato, ma può servire per ottenere, insieme ad altre verdure, sapori nuovi e sconosciuti. I fiori di Sambuco, disposti in file alternate, aiutano la conservazione delle mele per lungo tempo. Sono commestibili i fiori con i quali si possono ottenere frittelle dolci e un tè depurativo,  e le bacche dalle quali si possono ottenere marmellate  e sciroppi contro le malattie da  raffreddamento.
L’assunzione dei frutti immaturi può determinare fenomeni d’intossicazione che si manifestano con sensazione di bruciore e di raschiamento della gola, con vomito, con diarrea, con mal di testa e con difficoltà di respirazione. I frutti rappresentano un importante alimento per numerose specie di uccelli.Il Sambucus racemosa ha le stesse proprietà del Sambucus nigra. Forse, secondo il parere degli abitanti della montagna, il Sambucus racemosa è più efficace del Sambucus nigra. Il periodo migliore per raccolta delle foglie e dei fiori è aprile – maggio, per i frutti la fine di agosto e per la corteccia l’autunno. I fiori sono fatti essiccare e conservati in vasi di vetro a chiusura ermetica in modo da averli disponibili in ogni periodo dell’anno.
Il Sambuco è un grande regalo della Natura! E’ una pianta che ha tante storie da raccontare e non solo in ambito erboristico e culinario: storie di giochi, di magia, di credenze popolari, di proverbi. È una pianta dal duplice simbolismo: nella tradizione cristiana era usata nei riti funebri come conforto per il viaggio verso l’aldilà, nella tradizione pagana, invece, come protettrice della casa e del bestiame.
Il Sambuco è uno degli arbusti prediletti dalle streghe e dalle creature della notte a cui, in passato, si attribuivano poteri magici. Questa pianta magica, alquanto inquietante, è chiamata albero del “Flauto Magico”. Essa si presta bene per realizzare miscele insieme all’incenso usate per rituali magici e miracolosi. In Germania era chiamato “l’albero di Holda”. Secondo l’antica tradizione popolare, il Sambuco era sacro alla Dea Holda che lo proteggeva e lo rendeva forte e vigoroso. Holda era una divinità del folklore germanico medievale dai lunghi capelli dorati.
Abitava nelle piante di Sambuco situate vicino ai laghi e ai corsi d’acqua e alle quali conferiva poteri magici e curativi. Insieme con lei, nascosti tra i cespugli, c’erano solo gli elfi. Talvolta Holda appariva sotto le sembianze di una vecchia strega. In Inghilterra si pensava che il Sambuco non fosse un arbusto, ma una maliarda che aveva assunto le sembianze della pianta. Tuttavia, prevalevano le credenze popolari positive che ne esaltavano le proprietà magiche e benefiche. Fino all’inizio del secolo, in alcuni paesi i contadini tedeschi, come segno di grande rispetto, quando, nel loro cammino, incontravano il Sambuco, s’inchinavano e si levavano il cappello per sette volte perché sette erano i suoi doni.
In sette parti il Sambuco donava se stesso per il benessere della povera gente: la sua resina per placare il dolore delle lussazioni, il decotto di radice per la gotta, la corteccia per riequilibrare le funzioni intestinali, per le cistiti e per gli orzaioli, le foglie per curare la pelle, i frutti per le bronchiti e per i mali invernali, l’infuso di fiori per depurare l’organismo e i germogli per calmare le nevralgie. Intorno ai monasteri, ai castelli e alle case il Sambuco era sempre presente.
Proteggeva dalle serpi, dai malanni e dagli incantesimi e, per questo motivo, ne tenevano sempre un pezzetto nelle loro tasche. In Danimarca l’arbusto era considerato il protettore di tutta la famiglia. In Svezia si credeva favorevole alle donne gravide. In Russia si riteneva che allontanasse gli spiriti maligni.
Nelle alte montagne alpine si credeva che proteggesse il bestiame e i contadini dalle malattie e dai serpenti velenosi.
Un vecchio detto contadino recita: “mai bruciare il Sambuco”. Ancora oggi sono convinti che bruciare il suo legno porti male e che le sue ceneri aprano al diavolo la porta di casa. A valle, nelle case dei ricchi, il legno di Sambuco serviva a tener lontani i ladri. Al giorno d’oggi un’apparente magia consiste nel piantare il Sambuco presso le finestre di casa: le mosche ne saranno attratte e non entreranno all’interno. Nel XVII secolo gli stregoni temevano di essere battuti con un bastone di Sambuco.
Per avere i suoi poteri eccezionali, che proteggevano dai sortilegi, il bastone doveva essere tagliato in un luogo dove non sarebbe stato possibile udire il canto del gallo. Anche in Sicilia si credeva che il bastone di Sambuco avesse il potere di uccidere i serpenti e di far scappare i ladri.
A questa pianta, dalle molteplici proprietà, era attribuito anche un potere divinatorio per quanto riguardava la conoscenza del sesso del nascituro e la bontà del raccolto. Il Sambuco, in generale, nel linguaggio dei fiori simboleggia “prudenza”.