Aug 8, 2014 - Senza categoria    Comments Off on IL MIO AMICO ALBERO

IL MIO AMICO ALBERO

Questo racconto dal titolo “Il mio amico albero” è stato scritto dal prof. Carmelo De Caro e riportato nel libro “Sintiti, Sintiti” pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara. E’ risultato il 1° classificato (sezione racconti) nel 2° concorso letterario “Natura in festa 1997” organizzato dal WWF sezione di Licata.

Carmelo era un uomo speciale: educato, gentile, buono, generoso, altruista, affabile, istruito. Insegnante di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali ammirava la Natura.

A

 Quel mattino gli animali che Gaspare conduceva al pascolo erano per lo più tranquilli e sapevano la strada così da non richiedere il suo intervento o quello dei cani. Mentre faceva roteare il grosso bastone al di sopra della testa, proprio come aveva imparato dal fratello maggiore, pensò alla lunga vacanza che lo aspettava: non sarebbe più andato a scuola almeno fino al prossimo novembre o comunque fino a quando non fosse arrivata la seconda cartolina di sollecito. Anche l’anno precedente era stato così. Gaspare si era convinto che ai professori non interessava quanto lui fosse necessario nell’economia della famiglia, specie da quando l’altro fratello, Peppe, non era più con loro e chissà quando sarebbe tornato. Da quel giorno i rapporti tra il ragazzo e la scuola si erano  incrinati. Il gregge si muoveva per la campagna circondato da trilli e fruscii, immerso in un mare di odori forti e di tonalità sature del giallo e del verde, caratteristici del paesaggio siciliano di inizio giugno. Su tutto incombeva l’azzurro luminoso e profondo del cielo. Gaspare guardò quel cielo ed emise un lungo sospiro quando sentì un brivido percorrergli le vene. In quel momento avrebbe dovuto sentirsi felice, ma dentro di sé non riuscì a trovare alcun segno di felicità o di qualcosa che vi somigliasse. Intanto era giunto al pascolo. Era un vasto pezzo di terra incolto che la sua famiglia aveva preso in affitto fin dalla scorsa primavera, si stendeva su un lieve declivio sul quale le pecore si spargevano nella ricerca, ogni giorno più ardua, di una qualche erba ancora idonea a nutrirle. Andò a sedersi in alto, come ogni mattino, all’ombra di un antico carrubo, in modo da tenere sott’occhio tutti gli animali e impedir loro di sconfinare nella vigna di Ciccio Di Leo, un vicino molto irascibile nonché gelosissimo delle sue viti e il cui limite col pascolo era segnato proprio da quell’albero. Era, quello, un carrubo veramente eccezionale: i grossi rami lisci come lunghe braccia, contorti come titanici pitoni pietrificati, si erano in parte adagiati su alcune rocce circostanti per poter meglio sopportare il loro stesso enorme peso. L’elegante fogliame, cangiante nel vento, formava una cupola verde che poteva riparare egregiamente dai raggi del sole almeno cinquanta persone. Al solo guardarlo, Gaspare si sentiva rassicurato perché quell’albero maestoso, posto in cima al poggio, saldamente radicato al terreno da cui traeva sostentamento, gli infondeva forza e sicurezza. Non aveva molti amici, anzi non ne aveva affatto. Non era riuscito a farsene nemmeno tra i compagni di scuola e aveva rinunciato a cercarseli quando capì che gli altri suoi coetanei lo sfuggivano per l’odore che emanavano i suoi vestiti, i suoi libri, tutti i suoi oggetti. Essere figlio di pecoraio e pecoraio egli stesso, abitare accanto al màrcato, dal quale tutta la famiglia trae sostentamento, significa portare addosso l’icona odorosa dell’ovile come un marchio di fabbrica indelebile che allontana gli altri e che, cosa ancora più terribile, tu non senti, perché le tue nari si sono abituate a quell’odore che per te significa la fragranza del latte appena munto, i salti spensierati e giocosi degli agnelli, il morbido sapore della ricotta e duro lavoro fin dall’alba. Quante volte aveva messo i suoi indumenti all’aperto nella vana speranza che quell’odore svanisse almeno un poco! Era perfino arrivato a spruzzarli col forte profumo della sorella riuscendo solo a macchiarli e col risultato di doversi continuamente guardare dalla ragazza che per parecchi giorni cercò di suonargliele di santa ragione. Così, a dodici anni, Gaspare, che in famiglia chiamavano Rino, non giocava con gli altri suoi coetanei e, da quando Peppe, l’altro suo fratello, il secondo dei maschi, era entrato in comunità, non giocava più nemmeno da solo, perché doveva badare al pascolo degli animali e per il gioco non c’era più tempo. Molto prima degli altri, cosciente di aver perso qualcosa di importante, Gaspare si era lasciato alle spalle i giorni migliori della fanciullezza. Ma un ragazzino di dodici anni, anche se fa il pastore, anche se passa molte delle sue giornate da solo in campagna, ha bisogno di parlare con qualcuno, di confidarsi, di raccontare. E così Gaspare l’amico se l’era fatto. Un amico che lo ascoltava paziente senza interromperlo mai, che sapeva tenere i piccoli grandi segreti che gli venivano confidati e che quando gli parlava lo faceva sempre sottovoce, sussurrando. L’amico di Gaspare era lui, quell’enorme carrubo piantato in cima a una gobba di pietra e terra, che sapeva accoglierlo ogni mattina a braccia aperte e offrirgli il ristoro della sua ampia chioma scura e folta e l’appoggio dei suoi rami possenti dopo la lunga camminata col sole di primo mattino in faccia. Gaspare aveva scoperto l’albero proprio quando il fratello Peppe era entrato in comunità dopo due anni d’inferno ed era toccato a lui assumersi l’impegno del fratello lontano: portare al pascolo gli animali, da solo. Un pastore è sempre solo. Nel silenzio carico dei piccoli quasi impercettibili rumori della natura, il bambino prese il sopravvento sull’adolescente e Gaspare cominciò a parlare all’albero. All’inizio lo fece per gioco, spinto da un incontenibile desiderio di confidarsi e di essere consolato, poi scoprì che, dopo aver parlato, si sentiva più leggero e rilassato, a volte addirittura contento, e continuò ogni giorno a raccontargli tutto quel che gli accadeva, minuziosamente, fin nei minimi particolari. Fu così che quell’albero ricevette le confidenze, i dubbi e i turbamenti tipici di un adolescente senza altri amici che aveva rinunciato da tempo a rivolgersi agli altri componenti della famiglia anche solo per un consiglio o una parola di conforto. Troppe volte i grandi gli avevano dimostrato un assoluto disinteresse, presi com’erano dal lavoro e dalle responsabilità. Tutti, tranne Peppe, che però era andato via quando il ragazzo aveva maggior bisogno lui. E il vento o la brezza imprimevano all’albero quei movimenti naturali e casuali che davano l’impressione che il carrubo partecipasse alle emozioni di Gaspare. Un fremito percorreva quelle sue foglie cuoiose quando gli raccontava i suoi timori. Scuoteva indignato qualche ramo quando il ragazzo gli raccontava di un torto subìto e sembrava proprio che chinasse il capo in segno di consenso ad alcune domande di Gaspare. Nel parlare al suo amico albero spesso Gaspare si straniava tanto da dimenticare il motivo per il quale si trovava lì.

Quando gli animali sconfinavano nella vigna di Ciccio Di Leo, Gaspare veniva bruscamente riportato alla realtà dalle grida del suo vicino che, in un affastellamento di improperi e bestemmie, richiamava la sua attenzione perché si portasse via le pecore che, con l’aria più innocente del mondo, andavano a brucare il suo prezioso vino in potenza. «Qualche volta faccio un macello, faccio!» soleva dire Ciccio Di Leo, il volto reso paonazzo dall’ira. Ma restavano parole. Gaspare era particolarmente affezionato al fratello Peppe e, malgrado i guai e le paure patiti quando questi era in cerca di soldi per farsi o quando si azzuffava con il fratello maggiore, il quale era convinto di fargli passare la voglia di bucarsi a suon di pugni e ceffoni, gli voleva sempre bene e sentiva acutamente la sua mancanza. Sapeva che Peppe si trovava lontano per il suo bene. Afferrava, anche se vagamente, l’importanza della comunità che forse sarebbe stata in grado di ridargli il fratello così come era stato un tempo, come egli lo ricordava prima che si bucasse: affettuoso e sempre pronto ad ascoltarlo e consigliarlo, ad aiutarlo e a insegnargli mille piccole cose utili. Con questo stato d’animo era inevitabile che Gaspare parlasse all’albero come fosse un tramite con il fratello lontano, come se davvero quel gigante potesse annullare lo spazio e il tempo e far giungere, per canali misteriosi e inconoscibili, i suoi messaggi malinconici e struggenti a Peppe che, in una comunità di recupero della pianura padana, combatteva la sua battaglia personale per la vita. Nulla è impossibile ai bambini perché essi credono ancora ai miracoli. Anche quel giorno Gaspare si rivolse all’albero fingendo di parlare con Peppe: «Abbiamo venduto nove agnelli e papà mi ha promesso che mi farà l’orologio nuovo; l’altro si è rotto». Perfino il cicaleccio petulante dei passeri era cessato, sembrava che anche loro ascoltassero interessati. «Pé, o Pé, quando torni?». E in quel momento partirono i colpi. Tre in rapida successione, poi un altro isolato quando già Gaspare scendeva dal ramo per vedere cosa stava succedendo. Ma lo sapeva già prima di guardare: era accaduto ciò che non doveva accadere se lui avesse fatto buona guardia. Ciccio Di Leo, il fucile da caccia ancora imbracciato, guardava l’effetto dei suoi colpi. Nella vigna, tre pecore a terra e una, colpita a una zampa, che si trascinava belando al cielo la sua disperazione. « Guarda come mi hanno ridotto la vigna! Io ti avevo avvisato tante volte, ragazzo, ma tu, come al solito, sei andato a dormire sotto il carrubo invece di stare a guardare quegli animalacci. Ora sai che non parlavo a vanvera».

Mentre il padre, il fratello e il garzone caricavano le carcasse degli animali uccisi sul cassonetto del fuoristrada, una tensione palpabile avvolgeva la scena. Intimorito dal minaccioso silenzio dei grandi, addolorato per la responsabilità che sentiva pesare su di sè per quanto era successo, Gaspare non riusciva a sollevare gli occhi dal bastone che teneva ancora stretto. Vincenzo, suo padre, era già andato in cerca di Ciccio Di Leo per ottenere spiegazioni, ma non era riuscito a trovarlo. In paese non c’era e moglie e figlia affermavano di non sapere nulla. Non rimaneva altro che vendere in qualche modo gli animali uccisi e curare quello ferito. Fu Vincenzo a rompere per primo il silenzio: «Stasera lo vado a denunciare». A queste parole il figlio Totò esplose: «Ma quale denuncia! Una lezione di quelle che non si dimenticano ci vuole!» Il rimbombo del pugno calato con rabbia sul cofano dal fratello maggiore fece sobbalzare il ragazzo. Vincenzo cercò di calmare il figlio dicendo che non era ragionevole fare giustizia con le proprie mani, ma quelle parole apparvero false e inverosimili a tutti, anche a lui che le aveva dette. E quando, molto più tardi, dopo una cena in cui ognuno mangiò con gli occhi nel piatto, Vincenzo e Totò si appartarono a parlottare, Gaspare, non visto, riuscì a cogliere le loro parole. Queste sapevano di vendetta. «A Rino non diciamo niente, meno sa e meglio è. Così domani mattina, porterà gli animali al solito pascolo e, se qualcuno gli chiederà qualcosa, non potrà dire niente perché non sa niente e, cosa più importante, sarà sincero». «Ma Ciccio Di Leo potrebbe andare a dire tutto ai carabinieri.» « No, non ci va se non esageriamo, perché dovrebbe ammettere di aver cominciato lui per primo. E noi avremo comunque un alibi di ferro». Così quella sera Vincenzo e suo figlio Totò andarono ad appiccare il fuoco al pollaio di Ciccio Di Leo. Accesero semplicemente alcune candele ritte sopra paglia e strame molto asciutti che erano già all’interno della baracca che ospitava gli animali dell’irascibile vicino e se ne andarono a giocare a carte con gli amici, facendo di tutto per farsi notare da più gente possibile. Dopo quasi due ore, le candele si consumarono e le loro fiammelle diedero fuoco all’esca che in pochi minuti appiccò il fuoco alle pareti di legno della baracca. Ma quando il tetto in lamiera cadde, le fiamme si levarono alte e alcune grosse faville incandescenti volarono fino al carrubo accendendo l’erba secca che lo circondava e alcuni arbusti di lentisco. Mezz’ora dopo il grande albero era avvolto dalle fiamme tra il crepitare sinistro delle foglie arse dal fuoco e il ruggito dell’aria rovente. La luce in movimento delle vampe, illuminando a tratti i rami del vecchio albero, davano l’impressione che questi si muovessero, quasi che quella creatura invocasse il cielo a testimone della sua atroce agonia. Nella notte illune la torcia del grande albero arse per molto tempo illuminando di cupi bagliori la campagna.

Il mattino dopo padre e fratello compivano i gesti di sempre ma con lo sguardo perso nel vuoto e le sopracciglia aggrottate. Gaspare partì alla solita ora con gli animali e i cani per il pascolo. Era impaurito poiché temeva che qualcuno potesse leggergli in faccia il suo segreto, ma riuscì a cacciare la paura in un angolino quando disse a se stesso che non avrebbe mai tradito i suoi, neanche con uno sguardo e che non avrebbe parlato neanche se lo avessero torturato. Il ragazzo arrivò ai piedi del declivio sulla cui cima stava il suo amico carrubo e, quando sollevò gli occhi, così come faceva ogni mattina, sentì il sangue gelarsi nelle vene. Là dove era stato il vecchio albero, con la sua maestosa chioma a cupola, verde e invitante, ora stava una cosa orribile da cui spuntavano monconi di rami anneriti e ancora fumanti, protesi verso il cielo come le dita irrigidite di una mano che fino all’ultimo ha chiesto clemenza. Non ebbe il coraggio di proseguire e, dopo aver cacciato le pecore su per il pendio, rimase laggiù, con gli occhi fissi ai refoli di fumo che si levavano dal tronco annerito e consunto dal fuoco.

Per la prima volta della sua breve esistenza sentì acuta e penetrante l’angoscia della solitudine. Diverse figure listate di giallo si muovevano tra un fuoristrada rosso e i resti inceneriti del pollaio di Ciccio Di Leo, ma l’attenzione del ragazzo era tutta per quel patetico e assurdo moncone di carrubo. Poi, di colpo, lo smarrimento svanì e Gaspare seppe quel che andava fatto. Restò per un pezzo perplesso, scosso e intimorito dall’idea che gli balenava alla mente, combattuto tra due affetti, due modi di amare. Si trovò così a sciogliere, da solo e senza il consiglio di alcuno, il profondo e straziante dilemma che lo travagliava. Per l’ennesima volta si disse che non era giusto tradire padre e fratello ma poi, alzando ancora gli occhi ai miseri resti dell’unico suo amico, prese la decisione più importante e sofferta della sua vita. Scattò in avanti senza più ripensare a quel che stava per fare, costringendosi anzi a non pensare. Lo videro arrivare di corsa su per il pendio scansando i lenti animali che vi pascolavano e senza badare alle pietre che lo facevano incespicare. Giunto in cima alla collina, si diresse senza esitazione verso il vigile del fuoco più vicino. Con un salto ferino gli fu davanti e, tutto d’un fiato, ansimante per la corsa e l’emozione, gli occhi sbarrati, gli gridò: «Devo fare una denuncia! So chi ha dato fuoco al mio amico!». Era fatta. Ora non poteva più tornare indietro. Per la prima volta, in quel caldo mattino di inizio giugno, Gaspare scoppiò in un pianto dirotto.

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