Apr 26, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL SANTUARIO DI SANT’ANGELO MARTIRE PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA

IL SANTUARIO DI SANT’ANGELO MARTIRE PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA


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Ringrazio il prof. Calogero Carità per avermi fornito questa esatta descrizione sulla costruzione del Santuario di Sant’Angelo a Licata e che riporto integralmente.
Ancora Grazie professore.
La ringraziano anche tutti i lettori.
Il cantiere per la costruzione  della chiesa, aperto nel 1564, fu chiuso nel 1850.
Quando vennero scoperte le reliquie che vennero attribuite a Sant’Angelo, canonizzato a furor di popolo, furono raccolte e custodie in un’urna che fu posta sotto l’altare maggiore della chiesuola ad una navata, intitolata ai SS.mi Filippo e Giacomo, primi protettori della città di Licata, che si trovava in via Solferino prossima al bastione Mangicasale e alla porta urbica detta di Sant’Angelo.
Nel 1564, per volontà del Vescovo di Agrigento mons. Rodolfo, venne edificata, accanto a quella dei SS.mi Filippo e Giacomo, una nuova chiesa sotto il titolo di Sant’Angelo. Aveva una navata con al centro il pozzo miracoloso, il tetto era a travatura scoperta e dipinto, l’urna non sta più sull’altare maggiore, ma è custodita in una cappelletta il cui ingresso è difeso da una grata di ferro.

Nel 1575, il vescovo di Agrigento, mons. Cesare Marullo, in sacra visita a Licata, concede ai confrati di Sant’Angelo il diritto di patronato della chiesa e la custodia delle reliquie del Santo, che restano, però, di patronato dei giurati di Licata.
Nel 1624 scoppiò anche a Licata la peste, ma fu presto debellata grazie all’intercessione di Sant’Angelo. I giurati, per gratitudine verso il Santo, stabilirono di edificarvi una nuova chiesa, più grande e più maestosa. La prima pietra fu posta il 1° gennaio del 1626. I lavori andarono molto a rilento e con molte sospensioni. Intanto, per creare un grande sagrato al tempio patronale, furono abbattute tutte le casupole dell’area prospiciente il cantiere e fu creata l’attuale grande piazza Sant’Angelo.
I lavori poterono riprendere grazie all’intervento del Vicerè che il 22 giugno del 1643 ordinava ai giurati di tassare ogni misura di olio in modo di finanziare i lavori di costruzione. Responsabile del cantiere è il capomastro licatese Angelo Bennici. Nello stesso anno furono ordinate 12 colonne in pietra di Billieme ai marmorai palermitani La barbera e Maso. Queste colonne vennero trasportate via mare a partire del mese di giugno del 1643 e saranno collocate a dividere le navate dall’8 dicembre 1653 al 16 febbraio 1654. Fra Angelo Italia, da un rendiconto del 28 giugno 1658, figura come autore dei disegni della pianta, del prospetto e della sezione della chiesa.

Dal 1662 al 1673 opera, come responsabile dei lavori, il religioso e architetto trapanese Andrea Noara. Seppur non ancora completa, la chiesa fu aperta al culto il 15 agosto del 1662 e le reliquie dalla vecchia chiesa furono traslate nella nuova chiesa e collocate nella cappella appositamente costruita nel braccio sinistro del transetto.
Per il 5 maggio 1680 fu completato l’altare maggiore grazie anche al beneficio concesso dal re Carlo II come atto di riconoscenza alla città di Licata per la sua fedeltà alla Corona e per la sua strenua difesa contro l’attacco della flotta francese del 19 aprile 1675.
A questa data, degli undici altari previsti solo 7 erano stati completati.
La chiesa subì seri danni a seguito del terremoto che l’11 gennaio 1693 colpì e devastò anche la Val di Noto.
Tra il mese di novembre del 1695 e il mese di giugno del 1700, sotto la consulenza di Fra Angelo Italia fu costruita la cupola sotto la direzione del capo mastro ed ingegnere palermitano Mario Callisto.
Nel 1733, il vescovo di Agrigento, Mons. Gioieni, consacrò la chiesa di Sant’Angelo. In questo medesimo anno le capriate della navata centrale vennero coperte con una volta a botte.
Il 3 settembre del 1748, presso il notaio Filippo Carmona di Licata, viene sottoscritto il contratto con i marmorari trapanesi Artale e Ferro per la messa in opera delle prime quattro colonne del 1° ordine del prospetto centrale. Per ciò viene recuperato il progetto di Fra Angelo Italia, gesuita, e vengono chiamati come consulenti, suo nipote, Padre Angelo Italia, canonico e architetto della Curia agrigentina, e il teologo e architetto trapanese Giovan Biagio Amico. I lavori si fermarono, purtroppo, per oltre trent’anni e furono ripresi nel 1788, ma non andarono mai avanti. Così il prospetto rimase incompleto.
Ad iniziare la ristrutturazione del precedente prospetto, ancora visibile con le sue paraste corinzie sul lato dove c’è l’ingresso del convento, era stato l’architetto Francesco Bonamici, originario di Lucca, proveniente da Malta dove operava come architetto militare. Da una relazione del 1686 risulta che a quella data, nonostante fosse subentrato al Bonamici Angelo Italia, il prospetto era fermo al primo ordine colonnato mentre i due campanili non erano stati neppure iniziati e l’antico parametro murario della precedente facciata era solo parzialmente ricoperto dalle nuove lastre di pietra, del tutto quasi completata solo nella parte a sinistra dell’ingresso principale, dove oggi è ospitato il Bar Sant’Angelo.
Le colonne del 2° ordine, non tutte pagate ai marmorari, furono restituite ai fornitori. Solo un paio di esse rimasero nel cantiere di piazza Sant’Angelo e lì rimasero per lunghi anni finché, quando la piazza venne sistemata, furono interrate, ma una di queste è riemersa durante i lavori di sistemazione della piazza Sant’Angelo degli anni novanta curati dall’arch. Antonino Cellura ed è stata collocata davanti all’attuale ingresso del chiostro di Sant’Angelo.

Il 27 ottobre del 1847, fortunatamente, mentre la chiesa era chiusa, è collassata la cupola crollando. Fu ricostruita nella forma attuale tra il 1848 e il 1850.
L’antica pavimentazione, fatta di quadrelli di argilla stagnate, fu completamente rifatta nel 1863 e nuovamente rifatta nel 1934 dal can. Vincenzo Di Palma che ricevette dall’allora capo del governo, Benito Mussolini, un contributo di 6 mila lire”.
Il santuario di Sant’Angelo si trova a Licata, nella ex provincia di Agrigento, città dove il santo riscuote una grande devozione essendo il Patrono, nella piazza denominata Piazza Sant’Angelo.
La piazza Sant’Angelo si trova nel centro della città e vi si accede dalle strade laterali del corso Umberto I, dalla piazzetta Elena, dalle strade laterali del corso Vittorio Emanuele, dalle strade laterali di via Nazario Sauro, dalla via sottotenente Sapio e dalla via Dante.
La sua realizzazione, risalente al XVII secolo, è stata necessaria per corredare di un ampio sagrato la grande chiesa dedicata al Santo Martire Angelo. La piazza era abbellita da un’ampia fontana che oggi non esiste più. Nella piazza Sant’Angelo insiste il prospetto della chiesa risalente al 1748. Esso è rimasto incompiuto, ma è stato parzialmente completato nella parte centrale con due ordini di colonne. Sul lato destro della chiesa si erge il campanile che ospita 4 campane; nella campana grande è riprodotto Sant’Angelo, le altre sono più piccole.

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Quasi addossata al campanile, sul transetto della chiesa sorge la meravigliosa cupola di forma rotonda nella parte interna, magistralmente decorata, e di forma quadrangolare nella parte esterna, adorna di una torretta per ogni lato.
Attraverso le ampie finestre la luce del sole illumina l’interno della chiesa. La parte superiore, semisferica, termina con un bel lanternino.

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La cupola, rimasta allo stato rustico fino al 1680, fu completata nel 1696. L’architetto gesuita licatese Angelo Italia inserì la costruzione della cupola nel progetto di edificazione della chiesa nel 1658. Il 27 ottobre del 1849 la cupola crollò nella parte interna senza causare danni alle persone, ma subito fu ricostruita nella forma attuale più maestosa. Torreggia su tutta Licata, si distingue fra tutti gli edifici ed è visibile anche da lontano.

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Negli anni ’80, grazie all’intervento dell’arch. Turi Scuto, la cupola è stata di nuovo sottoposta a restauri interni ed esterni.
La chiesa, a tre navate, è di forma basilicale di stile rinascimentale con transetto e cappellone sul lato sinistro dell’abside. Le dodici colonne delle navate provengono dalle cave di Billieme.

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Sull’altare centrale troneggia Sant’Angelo.

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Esistono due paliotti di marmo colorato che adornano gli altari. Sul paliotto dell’altare maggiore nel bassorilievo è raffigurato il Santo, il pesce che porta sul dorso il cesto di pani, l’Agnello del Signore che, additando un pane ad Elia che riposa sotto un ginepro, dice: ”Alzati, mangia poiché ti resta da fare un lungo camino”. 

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Importante è anche il tabernacolo d’argento.

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La parte più importante della chiesa è la cappella che si trova nel braccio sinistro del transetto. Custodisce le reliquie di Sant’Angelo racchiuse nell’urna d’argento posta al centro della cappella.
L’urna è lunga 114 cm, larga 50 cm e alta 70 cm. Raggiunge i 130 cm di altezza col coperchio che sfuma in tronco di piramide con gli spigoli arrotondati.
La statua di Sant’Angelo adorna il coperchio. Artisticamente l’urna è molto bella. Quando viene portata in processione durante le feste dedicate al Santo Martire è protetta da un artistico baldacchino su cui è effigiata l’aquila sveva, lo stemma di Licata, abbellito da frange triangolari da cui pendono piccole campane d’argento.
L’urna è una meravigliosa opera d’arte recentemente impreziosita dalla maestria del signor Piero Accardi, argentiere di Palermo, che, per interessamento della famiglia Gibaldi, sostenuta  dai membri dell’Associazione “Pro Sant’Angelo” e dalla generosità dei licatesi che hanno donato oggetti di argenteria posseduti a casa, e altre offerte in denaro, ha realizzato il desiderio di Giovan Maria Gibaldi. Secondo il giovane Giovan Maria il vecchio sistema di luci, posto attorno all’urna di Sant’Angelo, non rendeva il gusto onore al Santo Patrono.
Il signor Accardi ha cesellato a mano i decori dei fregi montati lungo il perimetro dell’urna, due di 130 cm e due di 90 cm,  arricchiti da 22 margherite e da 26 candele. Giovan Maria era un fervente devoto di Sant’Angelo ed era un membro attivo dell’Associazione “Pro Sant’Angelo”.Già all’età di 3 anni indossò la divisa dei devoti e a 14 anni era sotto il  fercolo di Sant’Angelo durante il cammino processionale. Il  nome “Giovanni”, per sua memoria, rimarrà per sempre inciso nel fregio laterale dell’urna di Sant’Angelo.

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Giovan Maria è volato in cielo il 9 settembre del 2009 a causa di un incidente di caccia. Aveva 23 anni. Ora fa parte della schiera degli Angeli. I genitori di Giovan Maria, Nino e Caterina Bonafede, membri dell’Associazione “Pro Sant’Angelo”, nata nel 1997, sono molto attivi nell’organizzazione della parte esterna della festa di Sant’Angelo, assieme ai molti  giovani volontari che curano il buon andamento della festa di Sant’Angelo e portano il sacro fercolo in processione.
Ne faceva parte anche Giovan Maria. Il Rettore del santuario, Rev. Angelo Pintacorona, cura le funzioni religiose sostenuto dagli altri sacerdoti. Il programma relativo ai festeggiamenti in onore di Sant’Angelo Martire è molto dettagliato.

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La cappella è adornata da un piccolo altare e da due tele

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La cappella è protetta da un’ampia cancellata di ferro battuto riccamente decorata. Nel 1680 questa cancellata fu chiusa da tre robuste chiavi: una chiave custodita dai Giurati, un’altra dal Priore del convento, un’altra dall’ Arciprete della chiesa Madre. Durante le feste dedicate al Santo Martire i tre lucchetti dell’inferriata sono prima aperti e poi richiusi da un rappresentante del clero, dall’Arcivescovo di Agrigento e dal Sindaco di Licata.

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 Tra la seconda e la terza colonna della navata destra della chiesa si trova il pozzo di Sant’Angelo. E’ il pozzo miracoloso perché al suo interno nel XIV sec. furono rinvenute le ossa del Santo carmelitano esattamente nello stesso posto dove egli predicava prima di essere ucciso.
Essendo profondo vai metri, il pozzo fu circondato da una balaustra e fornito di una scala di pietra affinchè gli infermi che solevano bagnarsi in quelle acque salutari potessero discendervi facilmente.
La balaustra, di pietra grigia di Trapani, di forma ottagonale, è stata eseguita dal maestro Giovanni Romano. Sul puteale è collocata la statua di gesso di Sant’Angelo adagiato sul letto di morte, scultura eseguita dall’artista licatese Antonio Mazzerbo. Ancora oggi, il 5 maggio, durante la funzione religiosa, Sant’Angelo si manifesta con un altro miracolo: l’acqua salmastra del pozzo diventa acqua dolce.

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 Nelle navate laterali della chiesa sono ospitati i ceri di legno i “’ntorci” perché nella loro sommità recano un cero chiamato dai licatesi “u balannuni”.
Questi ceri rappresentano i 4 titoli di Sant’Angelo: dottore, confessore, vergine e martire. Oppure rappresentano i quattro antichi castelli della città greca o i quattro baluardi medioevali.  Ogni cero ha un nome derivante dalla corporazione che ne ha fatto dono: “Cero Comuni” dallo stile eclettico, “ Cero Pecorari” dallo stile neogotico, “Cero Massari” dallo stile neoclassico, “ Cero Piana” dallo stile neoclassico.

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I vecchi ceri sono stati tutti duplicati grazie all’interessamento dell’Associazione Culturale “Vivere Licata” che si è impegnata per la raccolta dei fondi.

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La donazione del cero è una dimostrazione di ringraziamento per grazia ricevuta, di devozione e di affetto verso Il Santo Patrono e Protettore di Licata e dei licatesi.

 

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La chiesa custodisce molte opere d’arte. Lo splendore del tempio si deve anche alla capacità artistica dei fratelli Antonio, Salvatore ed Emanuele De Caro che lo hanno abbellito con i lavori da loro realizzati.
Gli affreschi, realizzati negli anni ’60, illustrano momenti della vita di Sant’Angelo e di altri santi venerati nell’Ordine Carmelitano. Sono stati dipinti da mio suocero, il pittore Salvatore (Totò) De Caro, il papà del prof. Carmelo, quelli del transetto, del presbiterio della chiesa e della volta sopra l’altare della Madonna del Carmelo. Sul soffitto del transetto, nel lato sinistro, il dipinto, realizzato con colori ad olio, raffigura il miracolo della pioggia di fuoco contro le navi saracene.

90 OK SACACENE INVESTITE DALLE FIAMME ARDENTI

 Sul soffitto del transetto, nel lato destro, la scena raffigura Sant’Angelo che separa le acque del fiume Giordano attraversato da Lui a piedi scalzi.

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Nel soffitto della cappella della Madonna del Carmelo si ammira il corteo degli Angeli.

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Gli affreschi dell’abside son stati dipinti dal pittore Emanuele (Nenè) De Caro. Si ammirano: la Vergine del Monte Carmelo tra i santi Eliseo, Elia Simon Stoch,

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l’apparizione della vergine a Sant’Elia,

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95  DEL PRESBITERIO OK  apparizione della vergine a Sant'Elia

il beato Luigi Rabatà di Erice a sinistra,

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Sant’Alberto di Sicilia a destra,

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 Eliseo che lancia il mantello a Elia rapito sopra un carro di fuoco,

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Sant’Angelo, inginocchiato, presenta al papa Onorio III la nuova Regola Carmelitana.

Ha l’aureola in testa e un angelo scende dal cielo con in mano la palma del martirio e tre corone inserite in essa.

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Il pittore Salvatore De Caro, usando la pittura ad oro zecchino, ha restaurato anche la volta centrale, i capitelli, i pilastri, le trabeazioni. Erano gli anni 1964-1966. Assieme a Salvatore, anche i fratelli Antonio, ed Emanuele (Nenè), il papà del prof. Albino De Caro, hanno profuso la loro arte per rendere sempre più bello il santuario di Sant’Angelo.
Emanuele ha decorato anche l’interno della cupola, Antonio ha scolpito sul legno di ebano, in un unico tronco, il Cristo Crocifisso alto 170 cm datato 1940.  Insieme hanno eseguito molti lavori di restauro nelle chiese di Licata e di altre città.
Molti dipinti adornano le pareti della chiesa. La Madonna della Lettera è un dipinto olio su tela di autore ignoto.

100 OK Madonna della lettera

Anche il quadro dell’Ecce Homo è un dipinto olio su tela. Ha la forma di un triangolo equilatero ed è circondato da una ricca cornice dorata.

101 OK ecce Homo racchiuso in un'artistica cornice

Il dipinto della Madonna col Bambino e i Santi Apostoli Filippo e Giacomo è una pregiata opera di un anonimo artista siciliano.

102 OK Madonna col bambino e i santi Filippo e Giacomo

  Un altro importante dipinto è La Deposizione.

103  OK La deposizione

  Nel dipinto delle Anime del Purgatorio Sant’Angelo ha nella mano la palma del martirio.

104 OK LE ANIME DEL PRGATORIO CON LA PRESENZA DI sANT'aNGELO

 Il dipinto di Santo Spiridione Vescovo, del 1970, è poco pregiato.

105  OK San Spiridione vescovo

 Altre due dipinti, olio su tela, raffigurano il martirio di Sant’Angelo durante la predica e la Sua morte.

106 OK IL MARTIRIO DI SANT'aNGELO ok

107 OK MORTE DI SANT'aNGELO ok

la tela raffigurante la Deposizione di V.Incorvaia

106 a la deposizione di Incorvaia ok

In occasione del’ottavo centenario della nascita di Sant’Angelo i devoti abbellirono la chiesa mettendo in vista  nella finestra centrale l’immagine di Sant’Angelo in vetro dipinto e colorato e nelle finestre laterali le immagini dei santi Apostoli Filippo e Giacomo.

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La chiesa di Sant’Angelo custodisce alcuni sarcofagi e busti marmorei di illustri e nobili personaggi licatesi: Padre Sebastiano Siracusa da Caltabellotta, primo priore del convento di Sant’Angelo, si trova all’inizio della navata di destra,

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Salvatore Cannarella Sapio dei Marchesi di Scuderi e di Regalbono, giovinetto diciassettenne vittima di un infortunio,

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  N.H. Tito Bosio, cavaliere del Sovrano Ordine di Malta,

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  Angelo Parla Muscia, tenente di vascello, medaglia di bronzo al V.M.

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 Il sepolcro di Angelo Frangipane e Celestri, posto all’inizio della navata destra, è sormontato dalle loro armi e coronato da un obelisco.

115 OK  ANGELO FRANGIPANI

 Il sepolcro del marchese di Regalbuono Girolamo Fragapane si trova nella navata sinistra.

116 OK  Marchese di regalbuono Girolamo Fragapane

  Il mausoleo del marchese Scuderi  Domenico Cannada è posto a destra dell’ingresso principale.

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 Il sepolcro in marmo bianco, della baronessa Isabella De Caro e Miano si trova nella navata sinistra. La baronessa è distesa sul letto dove si vedono l’epitaffio e lo stemma delle due famiglie.

118 OK  ISABELLA DE CARO

La chiesa di Sant’Angelo custodisce  alcune statue donate dai Padri Carmelitani quando presero possesso della guida della chiesa avvenuto nel 1947. Nella nicchia dell’altare maggiore è sempre esposto Sant’Angelo.
Questa statua fu donata ai frati licatesi da padre Giovanni Calabrese, priore di Catania dell’Ordine Carmelitano.

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 Altre statue sono: La Madonna del Carmelo custodita nella Sua cappella,

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  Sant’Angelo,

121  OK Sant'Angelo

 Sant’Anna,

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 Il Sacro Cuore di Gesù,

123 OK Sacro Cuore di gesù

  il profeta Sant’Elia,

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il gruppo statuario della Crocefissione con la Madonna Addolorata,

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 San Giuseppe col Bambino,

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Sant’Alberto,

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San Francesco di Paola

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L’Ecce Homo

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 Sopra l’ingresso principale della chiesa una tribuna in legno dipinto ed intagliato con lo stemma della città adorna il santuario.

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Nella porta a vetri c’è il giglio di Sant’Angelo

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La chiesa fu affidata ai Carmelitani non senza lotte interne.  Il 23 luglio del 1598 Clemente VIII emanò da Ferrara il decreto che ordinava al Vescovo di Agrigento, dietro istanza dei giurati e del popolo di Licata, di concedere all’Ordine Carmelitano la chiesa nella quale “riposava e riposa” il corpo di Sant’Angelo Martire. Purtroppo l’ordine carmelitano ha avuto opposizioni da parte della Confraternita esistente in quel tempo. Adesso la Confraternita non esiste più. Il 2 febbraio del 1606 i Carmelitani presero possesso della chiesa di Sant’Angelo, anche se con situazioni incostanti.
La chiesa fino al 1866 era officiata assiduamente dai PP. Carmelitani. Dopo un periodo di reggenza del clero secolare, ritornò ai frati carmelitani nel 1947. La presenza dei carmelitani contribuì positivamente per la salvaguardia dell’antica chiesa. Dopo un lungo periodo di crisi, constatata la carenza dei frati carmelitani, l’ultimo priore pro-tempore del convento, il licatese Antonino Todaro dell’Ordine Carmelitano, anche se a malincuore, il 30 agosto del 1992 decise di rimettere la gestione della chiesa alla Curia Vescovile di Agrigento.
Il primo giorno del mese di settembre successivo la chiesa fu affidata dal Vescovo di Agrigento Mons. Carmelo Ferraro alla comunità ecclesiale “Opus Matris Verbi” il cui fondatore, Padre Ernesto Lima, fu nominato rettore della chiesa di Sant’Angelo. Inoltre dal 4 luglio del 1996, per salvaguardare l’incolumità dei fedeli, la chiesa fu chiusa al culto in attesa dei finanziamenti necessari per i numerosi interventi di restauro di cui aveva bisogno per il distacco di alcuni calcinacci.
Nella notte tra il 21 e il 22 agosto del 2005, al termine della processione dell’urna di Sant’Angelo, finalmente la chiesa fu restituita ai fedeli con decreto vescovile di S.E. Mons. Carmelo Ferraro che elesse, con proprio decreto nel mese di settembre dello stesso anno, Rettore della chiesa il Can. Don Angelo Pintacorona. All’apertura del “Decennio Angelano” la chiesa fu elevata a Santuario Diocesano il 5 maggio del 2010 dall’Arcivescovo Mons.Francesco Montenegro Metropolita della Diocesi di Agrigento.

Trascrivo interamente il discorso del prof. Calogero Carità, che ho letto su fb e che mi è piaciuto molto, sulla storia dei padri carmelitani e sulla chiesa di Sant’Angelo.  “La presenza dei PP. Carmelitani nella chiesa di Sant’Angelo. Essi ottennero dal Vescovo di Agrigento di poter officiare nella chiesa di Sant’Angelo il 2 febbraio 1606, data in cui ne presero anche possesso e, tra mille difficoltà, iniziarono ad edificarvi accanto un loro convento che sarà completato nel 1686.
Dopo due secoli, e precisamente nel 1866, con la soppressione degli ordini religiosi in virtù dell’art. 20 della legge 7 luglio 1866, n. 3036, i Carmelitani, come i Francescani, i Domenicani e gi Agostiniani dovettero lasciare il loro convento e Licata.
Giusto verbale del 25 novembre 1878 il Comune di Licata diventa cessionario del convento e consegnatario della chiesa che viene affidata alla officiatura del clero secolare.
Il convento viene adibito in parte a caserma militare e in parte a scuola primaria e verso la fine del secolo, quando sarà soppresso, perchè ormai inadeguato il carcere presso la piazza Regina Elena, sarà in parte adibito a carcere, con sezione maschile e femminile.
Nel 1906 lo stato vendette a privati l’intero angolo nord della chiesa, che ospitava la cappella gentilizia della famiglia Cannada,dove oggi c’è un bar, per saldare un debito della Confraternita del Santo.
Il 2 marzo 1936, con atto notarile presso il notaio Gaetano Giganti,  il Comune retrocesse alla Curia Vescovile la chiesa e parte dei locali del Convento, allora ancora adibiti a scuola elementare, ad uso rettoria. La Curia Vescovile si obbligava a tenere aperta la chiesa, a provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria, a garantire l’officiatura e le spese per il culto.
Rettore venne nominato il canonico Vincenzo Di Palma.
Con bolla vescovile di Mons. G.B. Peruzzo del 15 aprile 1946 la chiesa fu affidata nuovamente ai PP. Carmelitani.
Il primo carmelitano a giungere a Licata per preparare l’arrivo degli altri suoi confratelli fu P. Gabriele Monaco, mentre il primo priore del rinato convento fu P. Giuseppe Cimino.
La chiesa fu ripulita dalle macerie della guerra, sistemata e, grazie ai dollari che i fedeli mandavano dagli Usa, fu anche restaurata. Purtroppo scomparve l’antico organo, il restauro dei quadri fu affidato a un pittore locale che ne guastò la loro originalità, fu eliminato l’antico altare ligneo del settecento, donato alla chiesa di campagna di Sabuci che ne era priva e sostituito con uno marmoreo.
Nel 1992, precisamente il 30 agosto, dopo 46 anni di presenza a Licata, i Carmelitani abbandonarono la chiesa, dopo che l’ultimo priore, il licatese P. Antonino Todaro, consegnò le chiavi della Chiesa e del Convento al delegato vescovile portandosi a Trapani l’archivio del convento ed alcuni dipinti, nonostante le proteste. Da quel momento la chiesa ritornò nell’abbandono nonostante il vescovo Mons. Carmelo Ferraro l’avesse affidata alle cure del rettore P. Lima, fondatore della comunità ecclesiale “Opus Matris Verbis”. Questa comunità contemplativa preferì alla chiesa una cappella ricavata nell’area del chiostro, piccola ma adatta ai bisogni contemplativi di questa comunità. La chiesa, quindi, restava spesso e volentieri chiusa.  Fu chiusa definitivamente il 4 luglio 1996, dopo la caduta di alcuni intonaci in tre diversi momenti , il 29 giugno, il 1° luglio e il 2 luglio. Padre Lima invocò un intervento per salvaguardare la pubblica incolumità. La Curia e anche il Comune decretarono la chiusura della Chiesa e il reliquiario di Sant’Angelo -non era mai successo nella storia- fu trasferito ed alloggiato in chiesa Madre, nella cappella del Crocefisso. La Chiesa restò chiusa per 8 lunghi anni e non crollò mai. Intanto i padri contemplativi se ne erano andati e a seguito di un sopralluogo da noi sollecitato, il 7 maggio 2005 il sindaco Angelo Biondi, il vice sindaco Angelo Vincenti e l’assessore al turismo Claudio Morello, in compagnia di Calogero Carità, Angelo Schembri, Giovanni Peritore, Angelo Carità, Angelo Curella. Pierangelo Timoneri, Angelo Castiglione, Angelo semprevivo e Francesco La Perna visitarono la chiesa. Tutti ci accorgemmo del grande bluf che aveva portato alla chiusura della chiesa e che non c’era nulla di pericolante. Due giorni dopo il sindaco fece riaprire la chiesa e la fece ripulire. Si adopererò che fosse nominato un nuovo rettore, nella persona di don Angelo Pintacorona, e l’urna di Aant’Angelo rientrò nella propria cappella al termine della festa di mezzagosto di quello stesso anno. In questa circostanza fu contattato il Generale dell’Ordine dei PP. Carmelitani invitandolo a riprendere l’officitura della chiesa patronale, ma da Roma fu inviato un telegramma di poche righe nel quale si diceva con molta chiarezza che i PP. Carmelitani non erano più interessati alla chiesa di Sant’Angelo, che sarebbe un loro marti
re”.

Nel santuario di Sant’Angelo si venera la Beata Vergine del Monte Carmelo. Proprio sul Monte Carmelo il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria del Monte Carmelo, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” detto “abitino” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”. Lo “Scapolare” è per tutti i carmelitani un segno della protezione materna di Maria.
Il santuario di Sant’Angelo è sede del Terz’Ordine Carmelitano che, sotto la guida religiosa del rettore Don Angelo Pintacorona, i seguaci effettuano il proprio cammino spirituale secondo il carisma dell’Ordine “ Vivere in ossequio a Gesù Cristo.”

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Lo scapolare che indossano i devoti

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e il mantello bianco pogiato sulle spalle

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Adiacente al Santuario di Sant’Angelo sorge l’ampio convento, costruito nel XVII sec., che ospitò i Frati Carmelitani che ottennero il permesso di officiare nell’edificio legato al martirio e alla sepoltura del Santo, luogo principale del culto angelano.
Nel 1598 il Commissario generale dei PP. Carmelitani e il Vescovo di Agrigento si sono accordati che i frati potessero costruire a Licata, accanto alla chiesa di Sant’Angelo, un convento che avrebbe ospitato 12 frati e che agli stessi Carmelitani venisse concessa l’officiatura della chiesa. Proveniente da Mazzara, giunse a Licata padre Sebastiano Siracusa di Caltabellotta per gestire il convento.
Quando furono confiscati i beni ecclesiastici, la chiesa e il convento, il primo della Sicilia, il 23 novembre del 1878 furono ceduti al Comune di Licata. Pertanto il convento divenne prima sede di caserma militare, successivamente sede di edificio scolastico, e poi, alla fine dell’800, sede del carcere mandamentale.

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Il Vescovo Giovan Battista Peruzzo nel 1933 chiese la riconsegna della chiesa e di una parte del convento come rettoria per svolgere il servizio religioso.
Nel 1947 i PP. Carmelitani ritornarono di nuovo a Licata col permesso, sempre del Vescovo Giovan Battista Peruzzo, di officiare nella chiesa e di usare la parte del convento non adibita a carcere. Il numero dei frati carmelitani nel tempo si è assottigliato sempre di più fino a non essercene nessuno. E allora, chiuso definitivamente il carcere negli anni ’70, il convento è stato destinato ad altri usi soprattutto a scopo culturale.
Nel chiostro, infatti, è ospitato il centro Rosa Balistreri che accoglie materiale della cantante folk licatese. Nella sala intitolata a Rosa Balistreri svolge la sua attività il CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti). I soci dell’Associazione “Pro Loco” hanno fissato la loro sede in un piccolo angolo del chiostro.

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Il chiostro Sant’Angelo è oggi soprattutto sede museale; attualmente, grazie al lavoro del Gruppo archeologico D’Italia “Finziade”, diretto dal  dott. Fabio Amato, ospita il Museo del Mare dove sono esposti i reperti subacquei rinvenuti nel mare di Licata.

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La “Pro Loco”, in collaborazione con  il gruppo archeologico D’Italia “Finziade”, ha allestito, sempre all’interno do Chiostro Sant’Angelo,  la mostra dei cimeli storici dello sbarco degli alleati in Sicilia durante la seconda guerra mondiale dal titolo “ Joss Landing area – Licata 1943”.

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In una parete del chiostro Sant’ Angelo è esposto anche il dipinto, olio su tela, opera dell’artista pittore Antonio Mazzerbo, che raffigura lo sbarco degli alleati in Sicilia del 1943.

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Bibliografia:

– Bellorosio Tommaso – Vita S.Angeli-  Palermo 1527

– P Gabriele dott. Monaco Ord. Carm. –  S.Angelo Martire Carmelitano Ed. Laurentiana –Napoli 1967

–  Cantoni Tommaso – Vita S.Angeli martyris  – Bologna 1691

– Carità Calogero – La Chiesa di Sant’Angelo e la festa di Maggio a Licata – Ragusa 2000

– Cesare Carbonelli – Breve profilo storico di Licata e delle sue chiese –Azienda Tipografica Editoriale Canicattinese

– Couto Gabriele – De cultu S.Angeli matyris – in Analecta Ordinis Carmelitarum – Vol.XI- fasc.7-8, 1942, pagg 168-183

-La Rosa Giovambattista – Vita di S:Angelo – Palermo 1597

– Ludovico Saggi, O. Carm – S.Angelo di Sicilia- Studio sulla vita, devozione folklore –

Roma Institutum Carmelitanum 1962

– Giuseppe Fanucchi – Della vita di S. Angelo Martire – Presso Sperandio Pompei- Viterbo 1870

– Scala Andrea Ferdinando – Vita di S. Angelo Martire Carmelitano – Napoli 1746

– Signora Francesco – Vita e miracoli di S. Angelo martire carmelitano – Licata 1837-1838

– www. Santuario di Sant’Angelo – Licata (Ag)

 

 

 

Apr 25, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

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Il 25 Aprile di questo anno 2016 ricorre il 71° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E’ la festa civile della Repubblica Italiana. Il 25 Aprile è chiamato anche Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente il 25 Aprile. E’ un giorno importantissimo per la storia d’Italia. E’ la fine dell’occupazione nazista nel nostro paese avvenuta esattamente il 25 aprile del 1945. E’ giusto ricordare come l’Italia superò le barbarie della guerra e del nazifascismo grazie all’intervento di quanti, militari e civili, furono artefici di tale decisivo momento della storia italiana. Bisogna continuare a fare tesoro degli insegnamenti di chi, non volendo rinunciare alla libertà, diede il propri prezioso contributo alla nascita della democrazia  e delle Istituzioni repubblicane.

Un po’ di storia!

Durante la seconda guerra mondiale, l’Italia era divisa in due: al nord Benito Mussolini e i Fascisti avevano costituito la Repubblica Sociale Italiana vicina ai tedeschi e al Nazismo di Hitler. Al sud, in opposizione, si era formato il governo Badoglio in collaborazione con gli Alleati americani e inglesi. Per combattere il dominio nazifascista i Partigiani programmarono la Resistenza.
I partigiani erano uomini, donne, giovani, meno giovani, sacerdoti, militari, di diverse estrazioni sociali, di differenti ideologie politiche e religiose, ma tutte persone spinte dalla volontà di lottare con gli ideali di conquistare la democrazia, il rispetto della libertà individuale, l’unione e l’uguaglianza del popolo italiano.
Il 25 aprile del 1945 i Partigiani, supportati dagli Alleati, entrarono vittoriosi nelle principali città italiane. Esattamente il 25 aprile ricorda la liberazione di Torino e di Milano da parte dei partigiani al termine della seconda guerra mondiale. In seguito furono liberate altre città dell’Italia settentrionale: Bologna il 21 aprile, Genova il 26 aprile, Verona il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.
La fine della guerra per l’Italia intera avvenne i primi giorni del mese di maggio.
Il 25 aprile del 1945, alle 8:00 del mattino, attraverso la radio, dall’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, formato da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marazza fu proclamata ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti.
Mussolini fu fucilato tre giorni dopo.
La Liberazione mise fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra. Rappresentò, pertanto, l’inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno del 1946 per la scelta fra la Monarchia e la Repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana fino alla stesura definitiva della Costituzione Italiana. Il primo governo provvisorio, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”), confermò la data del 25 Aprile dal 1946 giorno di festa nazionale.
L’articolo 1, infatti, così recita: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale“. La Legge n. 260 del 27 maggio 1949 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”) rese definitiva la giornata festiva della Liberazione.
Il 25 Aprile è festa nazionale! Osservano il giorno festivo le scuole, gli uffici, le attività commerciali e artigianali con la sospensione delle attività lavorative su tutto il territorio nazionale. In molte città italiane ogni anno si organizzano manifestazioni, cortei e commemorazioni.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Roma, recatosi all’Altare della Patria, ha onorato il Milite ignoto deponendo una corona d’alloro. Durante la cerimonia di commemorazione ha espresso particolari apprezzamenti per gli uomini delle Forze Armate che assolvono i compiti loro assegnati dalla Carta Costituzionale con alto senso del dovere. Ha dettoanche che “la nostra Repubblica si fonda sul 25 Aprile”. “E’ sempre tempo di Resistenza contro guerre e violenze”.
A Licata il 25 Aprile ci sono stati tanti momenti celebrativi: la santa Messa, celebrata nel santuario di Sant’Angelo in ricordo dei Caduti di tutte le guerre e di quelli della Liberazione; il Corteo a cura  delle segreterie CGIL-CISL- UIL- A.N.P.I.
In Piazza Progresso il sindaco di Licata Angelo Cambiano

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ha accolto S.E il Prefetto S.E. Nicola Diomede, i Sindaci provenienti da altri paesi della provincia di Agrigento, le forze dell’Ordine e i civili presenti.

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In Piazza Progresso si è svolta la cerimonia ufficiale proposta dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo; la rassegna di picchetto interforze da parte del Prefetto di Agrigento;

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 l’alzabandiera e l’esecuzione del “l’Inno di Mameli” dagli alunni dell’Istituto Comprensivo “Francesco Giorgio” che hanno suonato anche “L’inno alla Gioia” di Ludwig Van Beethoven; è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa;

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 Una corona d’alloro è stata deposta ai piedi del monumento ai Caduti della I° e della II° guerra mondiale;

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 è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa; è intervenuta sull’argomento la Prof.ssa Carmela Zangara.
S.E il Prefetto di Agrigento ha consegnato alcuni testi sulla Costituzione ad una rappresentanza di giovani che oggi hanno compiuto diciotto anni d’età.

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Una corona d’alloro è stata anche deposta anche ai piedi del monumento sito dentro la villetta “G.Garibaldi” a Licata per ricordare il coraggioso soldato e partigiano Raimondo Severino, nato a Licata il 22/02/1923, torturato e trucidato pubblicamente dagli aguzzini repubblichini nella piazza di Borzonasca il 21/05/1944. Raimondo Saverino ha combattuto giovanissimo la Seconda Guerra Mondiale col 241° Reggimento Fanteria “Imperia”, fu colpito in Grecia e rimpatriato.
Appena guarito dalle ferite, riacquistata la sua agilità,fu riassegnato alla caserma “Piave” di Genova.
Quando seppe dell’armistizio, si rifugiò sui colli genovesi per unirsi ai partigiani della brigata “Cichero”.
Scelse come nome di battaglia “Severino” e si distinse  per il suo intrepido coraggio.
Catturato dai tedeschi durante un rastrellamento, riuscì a fuggire e a tornare dai suoi compagni. Appena sopra Chiavari, sui monti della Rondara, i nazisti lo catturarono di nuovo.
Volevano da lui  informazioni sulla resistenza ligure.
Lo legarono e continuarono a chiedergli: « Dov’è la tua banda? Dov’è il tuo Comandante? Ti libereremo se ci darai queste informazioni».
Continuò a ripetere in dialetto siciliano: « Nun u sacciu ».
Condotto sulla piazza principale di Borzonasca fu fucilato. Il corpo di Raimondo Severino rimase tre giorni nella piazza del paese a scopo intimidatorio. Fu il primo caduto della “Cichero”.

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Licata è stata la prima città ad essere liberata dal governo fascista e dall’occupazione nazista.
Nella mostra dello sbarco, allestita nel chiostro Sant’Angelo dalla Pro Loco di Licata,  sono esposti i cimeli, la   foto identificativa del primo soldato dell’esercito americano caduto sulla spiaggia di Mollarella, (foto pervenuta grazie al nipote del milite tramite il sig. F. Sciarrotta), le divise militari (donate dal sig. R. Bilotta), una bicicletta utilizzata dall’US ARMY e tanto altro ancora.

 

 

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A Torre di Gaffe è stata deposta una stele commemorativa dello sbarco degli alleati in Sicilia e l’inizio della liberazione, avvenuto il 10 luglio del 1943.

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In Via Guglielmo Marconi si possono visitare i rifugi anti-aerei che si snodano sottoterra del centro storico di Licata.
Anche la Natura omaggia l’Italia con la coltivazione della pianta di ARBUTUS  UNEDO

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 L’Arbutus unedo è una pianta della famiglia delle Ericaceae originaria dell’Irlanda e diffusa nei paesi del Mediterraneo. In Italia l’Arbutus unedo è l’unica specie del genere Arbutus diffuso in tutte le regioni centrali della penisola dove spesso forma piccoli boschetti; è assente in Val d’Aosta, in Piemonte, in Lombardia, nel Trentino Alto Adige e nel Friuli Venezia Giulia. Cresce dal livello del mare fino a 1000 metri di quota.
La leggenda vuole che fu proprio il Corbezzolo ad ispirare i colori della bandiera nazionale. E’ chiamato “l’albero d’Italia” poiché la presenza contemporanea del verde delle foglie, del bianco dei fiori e del rosso dei frutti  diede origine ai colori del tricolore italiano tanto da diventare, durante il Risorgimento, il simbolo dell’ Unità Nazionale.

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Virgilio, nelle “Georgiche”, indica questa pianta semplicemente col nome “Arbutus”, “Arbusto”, mentre Plinio il Vecchio la denomina “unedo”, da “unus”, “uno” ed “edo”, “mangio”, vale a dire ne “mangio uno solo” per indicare che il frutto, sebbene buono da mangiare, non è gradevolissimo e l’assunzione eccessiva, per la presenza di un alcaloide nella polpa, potrebbe causare probabili inconvenienti a persone ipersensibili, quindi è consigliabile “mangiarne uno solo”. Dall’unione di questi due antichi termini deriva il nome scientifico della specie Arbutus unedo attribuito dal naturalista Linneo nel 1753.
Volgarmente è chiamato “Corbezzolo”. Il Corbezzolo ha dato il nome al monte Conero, il promontorio più importante del medio Adriatico alto 573 metri a sud della città di Ancona. Il nome Conero deriva dal greco “Кόμαρος”, che vuol dire “Corbezzolo”.
Il Corbezzolo, chiamato anche “Ciliegio di mare”, è un arbusto molto diffuso nei boschi del Conero e che produce frutti molto apprezzati localmente. Il Corbezzolo nelle diverse regioni d’Italia ha tanti altri nomi. In Calabria si chiama “Cucummaràra, Mbriacunedi, Cacùmbaru, Chùmma”, in Campania “Accummaro, Soriva pelosa”, in Liguria “Armôn” è l’albero e il frutto, “murta” sono le foglie, in Umbria “cerasa marina, lallarone”, in Toscana “albatro”, in Sardegna “Alidone, Arbòsc, Cariasa, Ghilisoni, Lidone, Mela de Lidone, Olidone, Olidoni, Olioni, Orioni, Ulioni”, in Sicilia “Per’i ruggia,” e “ ‘Mbriacula” perché fa ubriacare. Altri nomi comuni sono:“Fragolon, Pomino rosso, Elioni, Urlo, Tirosetto, Cerosa marina, Musta”. In francese si chiama “Arbousier”, in  inglese ”Strawberry tree fruits”, in spagnolo “Madroño”, in tedesco “Westliche Erdbeerbaum ”.

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 L’Arbutus unedo è un arbusto compatto, elegante, molto ramificato, pollonifero, a crescita lenta. Presenta il fusto alto circa 2 metri, ma può raggiungere anche i 12 metri, dritto, tendente ad inclinarsi e a contorcersi, rivestito dalla scorza sottile, rossiccia, vellutata nei rami giovani, successivamente finemente e regolarmente desquamata in lunghe e strette placche verticali di colore bruno. Le foglie, molto decorative, addensate all’apice dei rami, semplici, alterne, di consistenza coriacea, glabre, brevemente picciolate, hanno la lamina lanceolata con apice acuto e con margine seghettato, la pagina superiore lucida e di colore verde scuro, la pagina inferiore opaca, di colore verde chiaro e presenta anche nervature prominenti rossastre nelle giovani foglie. La chioma è densa, tondeggiante e, a volte, un po’ disordinata.

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La bella peculiarità è la presenza dei fiori delicati ed ermafroditi. Piccoli racemi penduli portano da 15 a 35 fiori presenti da ottobre a marzo dell’anno successivo nella parte terminale dei rami dell’anno. Il fiore è formato da un piccolo calice e da una corolla di colore bianco-avorio, lucida, orciolata, ristretta all’orlo e rigonfia nel centro, appunto come un otre, che termina con cinque denti rivolti verso l’esterno. Fiorisce nei mesi di marzo-aprile.

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 Alla fioritura segue la maturazione dei frutti tra settembre e novembre dell’anno successivo contemporaneamente alla nuova fioritura di modo che la pianta ospita insieme fiori, frutti immaturi e frutti maturi, fenomeno che la rende particolarmente ornamentale. I frutti, chiamati “corbezzole”, commestibili, sono bacche carnose quasi rotondeggianti, con la superficie rugosa, irta di numerosi e piccoli tubercoli. La polpa, ambrata, succosa e di sapore dolciastro, è ricca di vitamina C.
Le bacche sono divise in loculi e ciascun loculo racchiude numerosi minuscoli semi ellittici di colore brunastro-chiaro lunghi 2-3 millimetri, spigolosi, caratterizzati da una scarsa germinabilità. In autunno si possono osservare il fiore bianco ed il frutto nelle varie fasi di maturazione: di colore verdastro quando è acerbo, di colore giallo in una fase intermedia e di colore rosso-arancio quando è completamente maturo.

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I corbezzoli possono essere consumati crudi, cosparsi di zucchero o con l’aggiunta di un vino liquoroso e in confettura. E’ importante mangiarli al giusto punto di maturazione, troppo immaturi o troppo maturi possono non essere gradevoli al sapore.
Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta ci sono diverse piante di Arbutus unedo e i mistrettesi chiamano i suoi frutti “ ‘miriacoli” perchè dicono che, mangiandone molti, fanno ubriacare.
I Greci amavano molto consumare i frutti perché l’uso abbondante creava un piacevole stato di ebbrezza. Ogni anno organizzavano la festa del Corbezzolo durante la quale si ubriacavano e socializzavano più facilmente tra loro. La propagazione avviene per seme in primavera o per talea semilegnosa in inverno, ma anche per margotta, per propaggine o per divisione di polloni.
La potatura va eseguita con molta attenzione poiché, per tutto l’arco dell’anno, la pianta presenta fiori e frutti, pertanto si eliminano le parti secche o danneggiate e i rami disarmonici. La fronda recisa con i frutti immaturi è utilizzata per decorazioni floreali.
La pianta ha uno spiccato potere pollonifero dovuto ad un ingrossamento ipogeo del fusto che funge da riserva nutrizionale per cui, anche se soggetta a continui tagli o all’aggressione degli incendi, riesce sempre a sopravvivere riemettendo numerosissimi getti dopo il passaggio del fuoco e ricostituendo, in tempi relativamente brevi, la vegetazione delle aree colpite e imponendosi sulle altre specie.
L’Arbutus unedo possiede un legno rossastro particolarmente dolce che può essere utilizzato per realizzare arnesi per alimenti e per piccoli lavori artigianali. In Sardegna i pastori lo utilizzano per realizzare “su pilìsu“, il particolare strumento impiegato per rompere la cagliata; è anche un ottimo combustibile e, non emettendo odore durante la combustione, è molto apprezzato come legna da ardere.
Il Corbezzolo dà altre gradite sorprese: ospita molti uccelli, insetti e mammiferi, che si cibano in gran quantità delle sue bacche mature preparandosi ad affrontare il lungo e freddo inverno, e la Charaxes jasus, la bellissima farfalla dai colori meravigliosi, chiamata la “farfalla del Corbezzolo” perché vive esclusivamente sulle foglie di questa pianta.
Il Corbezzolo è una pianta facile da coltivare. Predilige le aree soleggiate, ma tollera molto bene anche una parziale ombra posto su terreni acidi, anche se si adatta su quelli argillosi, ricchi di materia organica e ben drenati. Può resistere a temperature minime molto basse, ma mal sopporta le gelate precoci o tardive e non gradisce i venti freddi e secchi. Non richiede grandi quantità d’acqua ed è opportuno interrare del buon concime organico ai piedi della pianta in primavera per favorire lo sviluppo ottimale. Teme anche alcuni parassiti.
Gli eccessi d’umidità possono provocare attacchi da parte di alcuni funghi: l’Alternaria causa sulle foglie delle aree necrotiche circolari con alone rossastro; il Septoria unedonis causa maculature tra le nervature e sui lembi fogliari. L’Elsinoe matthiolianum aggredisce solitamente le foglie più giovani formando dapprima piccole macchie traslucide e, in seguito, bollicine di colore bruno che, al loro disseccamento, bucano il lembo.
Tra gli insetti sono principalmente riscontrabili: l’Otiorrynchus sulcatus, la cui presenza si nota per le erosioni sulle foglie;l’Afide verde del Corbezzolo, il Wahlgreniella nervata arbuti, che vive sulla pagina inferiore delle foglie più giovani. Varie specie di tripidi causano malformazioni dei fiori e dei frutti.
La pianta, già conosciuta ed usata in tempi antichi, da Dioscoride e da Galeno era ritenuta nociva per la testa e per lo stomaco. In età medioevale la peste era combattuta mescolando la polvere di “osso di cuore” di cervo con l’acqua distillata dalle fronde di Corbezzolo. Era annoverata tra le cosiddette “Erbe di S. Giovanni“, ricorrenza che cade nel solstizio estivo.
A tale proposito, davanti alle chiese si allestivano mercati delle erbe dove anche il Corbezzolo faceva bella mostra di sè insieme con altre essenze: aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, lavanda, mentuccia, salvia, rosmarino, biancospino, artemisia, ruta. Era considerata anche “erba cacciadiavoli e cacciastreghe” perché si credeva che diavoli e streghe viaggiassero, per partecipare ai loro convegni, proprio nella notte di S. Giovanni.
In fitoterapia le parti usate sono: i fiori, i frutti, le foglie, la corteccia e le radici.
Con le foglie e i frutti si ricavano tisane, infusi ed estratti. I fiori hanno azione sudorifera e diaforetica. Le foglie contengono l’arbutoside, un principio attivo che conferisce loro proprietà diuretiche e antisettiche del tratto uro-genitale, dell’apparato gastrico ed epato-biliare. I frutti, consumati nella giusta quantità, hanno azione astringente e quindi possono essere utilizzati come antidiarroici. Il decotto della radice, della corteccia, delle foglie e del frutto è utilizzato come antinfiammatorio, antiarteriosclerotico, diuretico e nei disturbi renali in generale.
Nell’industria alimentare il Corbezzolo ha numerosi impieghi. Specie mellifera, molto visitata dalle api, offre il famoso miele amaro della Sardegna e della Corsica che ha notevoli proprietà curative nelle affezioni bronchiali di tipo asmatico. Dalla fermentazione dei frutti si ricava il “Vino di corbezzolo” consumato soprattutto in Sardegna, in Algeria e in Corsica. In alcune regioni italiane è consuetudine utilizzare i frutti del Corbezzolo per preparare sciroppi, gelatine, frutta candita, marmellate, il “vino albatrino”, bibite molto dissetanti, una buonissima acquavite, e perfino un tipo d’aceto.
Il frutto entra volentieri anche nei piatti di carne sotto forma di salse.
Nei tempi passati le foglie del Corbezzolo, essendo ricche di tannini, erano usate per la concia delle pelli.
I romani attribuivano al Corbezzolo poteri magici. Virgilio, nell’Eneide, racconta che i parenti del defunto depositavano sulla sua tomba rami di Corbezzolo. Un’orsa, appoggiata ad un albero di Corbezzolo, è il simbolo della città di Madrid. Nella tradizione ligure è usato, assieme all’Alloro, nel carro del “Confuoco“, il carro che portava al podestà doni per dare, con i suoi frutti maturi, una nota di colore. Sempre in Liguria si usava mettere sul portale della propria casa un ramo di Corbezzolo con tre frutti maturi come segno di benvenuto quando si dovevano ricevere ospiti importanti. I vecchi liguri trattavano il Corbezzolo con un certo riguardo tanto da attribuirgli un notevole valore affettivo, chiamandolo, secondo la zona, “armuinermuin”, e perfino “ermelin”, cioè “ermellino” per indicare la sua preziosità.
Nel linguaggio dei fiori la bianca campanula è sinonimo “di ospitalità e di stima”.
Nella tradizione popolare il frutto simboleggia “l’amore”, sempre raffigurato di colore rosso, non disgiunto dalla gelosia che ha il colore giallo: il frutto maturo ha, infatti, la peculiarità di essere rosso fuori e giallo dentro; per tale motivo agli innamorati gelosi era maliziosamente regalato dagli amici intimi un ramo di Corbezzoli.

Apr 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Finalmente nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta sicuramente è fiorita la Dracunculus vulgaris. Un po’ in ritardo perché la vera primavera è stata molto lenta a presentarsi.
Per poter fotografare il suo fiore l’anno scorso sono venuta da Licata a Mistretta ben quattro volte, ma finalmente  ci sono riuscita!
Il nome della pianta di Dracunculus vulgaris ha conservato la sua origine latina “Dracunculus”, “piccolo drago”, nome botanico attributo a questa specie da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, anche se l’aveva usato per descrivere almeno altre due specie vegetali. Questo termine si riferiva al fusto punteggiato, simile alla pelle di serpente e, nel caso di altre piante, alla forma delle radici. Un altro nome della specie è Arum dracunculus.
Carl von Linné riprese il nome e lo usò come attributo nel binomio Arum dracunculus.
I greci antichi usavano il nome “δρακόντος”, “drago, grosso serpente” ma applicavano il nome “άρος”, “sciagura” comprendendo specie oggi classificate come Arum.
Già nel XVII secolo Philip Miller suggerì il nome Dracunculus per un genere a parte.
Nel 1832 Heinrich Wilhelm Schott (1794-1865), direttore dei Giardini Imperiali di Vienna, propose il nome Dracunculus vulgaris.
La specie è conosciuta con tanti altri nomi. In Italia sono relativamente comuni i nomi: “Dragontea”, “Dragonea”, “Dragonzio”, “Erba serpentona”, “Erba serpona”, “Serpentaria”. Altri sinonimi sono: “Arum dracunculus, Aron dracunculus, Dracunculus dracunculus, Dracunculus major, Arum guttatum, Dracunculus polyphyllus, Dracunculus creticus, Dracunculus vulgaris”.
Il nome Serpentaria è stato creato dalla credenza popolare perché si pensava che i serpenti trovassero riparo sotto le sue fronde o perché le macchie di colore rosso-bruno del fusto ricordano la pelle di un serpente. Il nome specifico “vulgaris” deriva dal latinocomune”, quindi “piccolo drago comune”.

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Appartenente alla famiglia delle Araceae, la specie è originaria della regione mediterranea centro-orientale: Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Corsica, Creta, Croazia, Isole dell’Egeo, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Turchia dove cresce sia nel sottobosco sia in radure e in terreni rocciosi. In Italia è distribuita in Sicilia, in Sardegna e in poche altre regioni. Mentre in passato in Italia era diffusa dal Nord fino all’estremo sud della penisola, come riferisce Filippo Parlatore nella sua Flora Italiana del 1853, incerta è oggi la sua presenza in Piemonte ed Umbria e non si incontra in Abruzzo e in Puglia.
La Dracunculus vulgaris è una pianta erbacea perenne tuberosa che vegeta bene fino a 1000 metri di quota. E’ provvista di una particolare radice sotterranea detta tubero. Il fusto, eretto, alto fino ad un metro, glabro, grosso, è di colore verde scuro chiazzato di bianco. Inizialmente la pianta presenta un gruppo di foglie che si ergono dal centro del tubero sotterraneo e che poi avvolgono lo stelo del fiore.
Le grandi foglie, lunghe 30-40 centimetri, molto decorative, sono sorrette da un lungo picciolo da cui parte  perpendicolarmente la lamina fogliare. Essa, di colore cangiante tra il verde chiaro e il verde scuro, lucida con rade macchie lineari bianche, presenta due nervature principali che la incidono profondamente in 5 – 7 lacinie lanceolate, quasi a simulare una foglia palmato-composta, con margini ondulati e appuntiti all’apice. In estate assume una colorazione rossa e non rimane in inverno.

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  La chioma tende a crescere sia in altezza, sia in larghezza facendo assumere alla pianta la forma di un arbusto arrotondato. L’antesi avviene tra aprile e maggio. Lo stelo fiorale, di colore giallo-verde, emerge dalle foglie dando origine ad una delle più spettacolari infiorescenze della flora Italiana.
L’infiorescenza a spiga, nominata spadice, lunga fino a 60 centimetri, è avvolta da un’ampia brattea dai bordi ondulati, detta spata, che ha la pagina superiore prevalentemente di colore rosso-violaceo molto scuro e vellutata e la pagina inferiore di colore verde chiaro. Essa è chiusa alla base a formare la camera floreale cilindrica che agisce da trappola per gli insetti. La spata e lo spadice sono glabri. Lo spadice, che nella porzione racchiusa dalla camera floreale porta numerosi piccoli fiori unisessuali separati da alcuni fiori sterili, si prolunga all’esterno con una lunga appendice violacea a forma di clava.
Contemporaneamente all’apertura dei fiori femminili, l’appendice dello spadice emana un fortissimo odore nauseabondo di carne in putrefazione, odore che permane per un intero giorno associato ad un innalzamento della temperatura ben più alta di quella dell’ambiente.
Gli insetti impollinatori sono attirati nella camera florale dall’intensa secrezione zuccherina di cui sono avidi e dal calore dell’ambiente prodotto dell’attività termogenerativa dei fiori maschili che producono il polline. Il calore permette la vaporizzazione di queste sostanze e gli insetti attirati rimangono imprigionati da due corone di peli rivolti verso il basso. I fiori femminili occupano la parte inferiore della camera floreale, quelli maschili la parte superiore. I fiori femminili sono ricettivi prima dei fiori maschili. Questo fenomeno impedisce l’autofecondazione.
Nel tentativo di uscire, gli insetti si caricano le zampette di polline. Avvenuta la prima impollinazione, l’infiorescenza perde il suo turgore, i peli interni appassiscono, gli insetti, liberati, fuoriescono e vanno ad impollinare altri fiori continuando l’importante compito che la Natura ha loro affidato.
L’attività dell’infiorescenza si può protrarre per 3 – 4 giorni mantenendo quasi invariata la bellezza della spata e dello spadice, soprattutto se la pianta viene annaffiata abbondantemente. La fioritura di piante di grandi dimensioni può durare anche 20 giorni poiché si aprono progressivamente infiorescenze secondarie. Dopo l’impollinazione, le foglie cominciano ad appassire. Lo stelo, da solo, sorregge l’infruttescenza composta da numerosi frutti molto decorativi.
Sono le bacche piriformi lunghe qualche centimetro che, inizialmente, sono di colore verde,  poi, maturando a fine estate o all’inizio dell’autunno, assumono un colore rosso-arancio. Le bacche contengono pochi semi compressi e lunghi 4 – 5 millimetri e di colore bruno. La riproduzione avviene per seme.
Occorrono da tre a cinque anni prima che la pianta fiorisca per la prima volta. Si può praticare anche la divisione dei tuberi durante il riposo vegetativo. Raccolti e conservati in un ambiente asciutto, si ripianteranno in primavera o in autunno. Ogni sezione da ripiantare deve contenere almeno una gemma. I tuberi vanno collocati alla profondità pari almeno al triplo della loro altezza e distanziati l’uno dall’altro di circa 30 centimetri poiché la pianta si espande notevolmente, soprattutto al momento della fioritura.
I tuberi possono essere lasciati indisturbati nel terreno anche per diversi anni. Non richiede potatura se non per eliminare le parti danneggiate.
La Dracunculus vulgaris è coltivata per la bellezza delle foglie e dell’infiorescenza ma, per l’odore nauseante, è consigliabile sistemarla lontano dai luoghi d’incontro dei frequentatori del giardino.
Nella villa comunale di Mistretta la pianta delle fotografie presenti in questo articolo era collocata vicino alla casa degli attrezzi e faceva compagnia alla Digitalis purpurea. Durante la mia scorsa permanenza a Mistretta, nella prima decade del mese di Aprile, sono andata a visitarla, ma non c’era più..Nello giardino, però, sono presenti altre piante. Il signor Orazio Scilimpa, il giardiniere della villa, è una buona guida alla scoperta di qualche altra pianta di Dracunculus vulgaris.
Il fiore della Dracunculus vulgaris dura schiuso solo pochi giorni e, per gli entusiasti delle Araceae, il suo repellente odore è solo un fattore secondario rispetto al suo fascino da molti considerato come il più spettacolare delle Araceae europee.

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La Dracunculus vulgaris è una pianta semirustica, adatta ad essere coltivata nel giardino, ma anche nei vasi di terracotta in terrazza. Preferisce essere esposta in un luogo luminoso affinché il sole possa colorare bene la spata, ma accetta anche zone semi-ombrose. Si adatta bene a qualsiasi tipo di terreno preferendo un suolo ricco di materia organica, sufficientemente umido e ben drenato poiché i ristagni d’acqua favoriscono l’attacco dei funghi.
La fertilizzazione deve essere eseguita con concimi organici una volta all’anno all’inizio del periodo vegetativo. Sa resistere alle alte e alle basse temperature, ma la pianta  va comunque protetta dalle gelate tardive durante la ripresa vegetativa in primavera. Teme il vento, la causa di un’eccessiva traspirazione. La Dracunculus vulgaris è una pianta velenosa e, come tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Araceae, contiene una quantità elevata di principi tossici molto fastidiosi per la salute. Tutte le parti della pianta contengono sostanze potenzialmente irritanti.
L’insieme di queste sostanze può provocare dermatiti e irritazioni al contatto diretto.
L’ingestione, specie dei frutti, può provocare nausea, vomito, diarrea, crampi muscolari. I Tulipani, le Fritillaria, i Narcisi, gli Iris, gli Hemerocallis e il Dracunculus sono piante Monocotiledoni che regalano fiori molto appariscenti.

 

 

Apr 2, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CEDRUS ATLANTICA

IL CEDRUS ATLANTICA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, assieme al Cedrus deodora, vegeta bene il Cedrus atlantica di cui un bellissimo esemplare è quasi addossato al Quercus ilex.

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Il Cedrus atlantica è denominato “Cedro dell’Atlante” perché la sua patria d’origine è l’Africa settentrionale: l’Algeria e il Marocco e, più precisamente, la catena montuosa dell’Atlante dove vegeta tra i 1200 e i 2500 metri d’altezza e dove forma boschi puri e misti con altre conifere e latifoglie.
Il Cedro dell’Atlante fu introdotto in Europa per la  prima volta, precisamente in Inghilterra, intorno al 1839 e, nel nostro Paese, come specie ornamentale, nel I842.
Tra i molti alberi monumentali presenti in Italia il più notevole è, probabilmente, quello che si trova nel parco di un’antica villa di Montalenghe, in provincia di Torino, ad un’altitudine di 360 metri. E’ alto 36 metri, ha una circonferenza alla base di 13 metri ed un’età stimata di 300 anni.
Il Cedrus atlantica è una conifera fra le più maestose appartenente alla famiglia delle Pinaceae.
Albero dal portamento conico, può raggiungere, allo stato spontaneo, l’altezza di 50 metri nelle regioni d’origine, mentre in Europa supera raramente i 30 metri. Possiede il tronco dritto, cilindrico, terminante con la cima sempre eretta, ramificato fin dalla base, con palchi di rami inferiori quasi orizzontali, carattere più accentuato negli esemplari adulti, e rivolti verso l’alto a formare un angolo acuto.

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E’ rivestito dalla corteccia di colore grigio bruno, screpolata e ricca di strette fessure. I rami brevi hanno molte più foglie di quelli lunghi. Le foglie, aghiformi, di colore verde scuro, persistenti, rigide, pungenti, lunghe fino a 2 centimetri, sono riunite a ciuffi di 25, 30 sui rami dell’anno precedente, sono singole e solitarie sui germogli dell’anno in corso. L’insieme degli aghi forma la chioma piramidale.
E’ un albero monoico. I fiori,molto primitivi, sono unisessuali e portati sulla stessa pianta. La fioritura avviene in autunno per i fiori maschili, in seguito fioriscono i fiori femminili.
Gli amenti maschili, numerosissimi, compaiono in estate. Sono formati da lunghi coni di colore giallo ocra, eretti e di forma più o meno cilindrica, lunghi fino a 5 centimetriche, in autunno, liberano il polline in nuvole gialle che, affidato al vento, viene trasportato lontano.
Le strutture riproduttive femminili sono formate da coni di forma ovoidale. Sono lunghe anche 9 centimetri, hanno l’apice smussato, di colore verde-glauco, sono resinose e, a maturità, diventano legnose, brunastre e con sfumature verdastre.
I coni femminili, a forma di barile eretto, con apice concavo, hanno squame molto larghe, a ventaglio, con margine arrotondato, che si staccano liberando i semi e lasciando sull’albero l’asse centrale. La maturazione degli strobili avviene in due anni. Fruttificazione avviene all’età di circa 30 anni. La propagazione avviene, oltre che per seme, anche per talea.

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 Il Cedro dell’Atlante è una pianta relativamente rustica, longeva, può vivere anche 3000 anni, rapida nella crescita, utilizzata a scopo ornamentale nei parchi e nei giardini per il suo portamento elegante che dà effetti decorativi molto affascinanti.
Esistono diverse varietà: il Cedrus atlantica varietà “glauca”, che presenta il fogliame azzurro e il portamento colonnare, la varietà “pendula”, che presenta le branche divaricate e i rami penduli di notevole effetto estetico e la varietà “fastigiata”, che presenta rami asimmetrici e chioma irregolare. Durante il recente restauro botanico nel giardino di Mistretta sono stati trapiantati due piccoli alberi di Cedrus varietà “fastigiata” posti sotto la ringhiera.

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 Il Cedrus atlantica, specie eliofila, vegeta bene nel giardino di Mistretta perchè è stato collocato in un ampio spazio dove riceve la luce del sole per diverse ore del giorno. Gradito è il substrato sciolto, profondo, ben drenato, siliceo e ricco di nutrimenti. Non necessita di troppe annaffiature, bisogna intervenire solo quando il terreno è asciutto. Resiste relativamente bene al freddo e sopporta temperature di molti gradi inferiori allo zero, risulta, però, sensibile alle gelate intense e prolungate e agli inquinamenti atmosferici.
Il legno del Cedrus atlantica è bruno, molto odoroso, durevole nel tempo, lavorabile ed apprezzato in quanto resiste agli agenti atmosferici. E’ adatto, in particolare, per costruzioni, per mobili, per sculture e per lavori d’ebanisteria. Il suo intenso odore allontana gli insetti. Il legno era usato come incenso sin dalle civiltà più lontane, come quelle degli Egizi e degli abitanti del Tibet. E’ ancora ampiamente usato nella medicina tibetana.
I buddisti tibetani usano un bastone di legno di Cedrus atlantica durante le loro meditazioni perché, secondo loro, è ritenuto capace “di rinforzare la spiritualità e di avvicinarli al mondo Divino”.
Per la sua maestà e per la sua imponenza, il Cedro ispirò in ogni tradizione i simboli “dell’immortalità, dell’eternità, della grandezza e della potenza, del divino”. L’associazione del Cedro con il divino permane nel corso del tempo. Nella religione  cristiana si narra che l’albero che diede il legno per la croce di Cristo fu derivato da tre virgulti di Cedro, di Cipresso e di Pino, piantati ai tempi di Abramo, che si unirono miracolosamente insieme a formare un solo tronco indivisibile.
Per questo motivo il legno era usato nella costruzione dei loro templi. In Mesopotamia le popolazioni assire e babilonesi costruivano con il legno di Cedro le porte e le strutture portanti dei loro templi e dei palazzi regali.

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 Il legno del Cedrus atlantica, del Cedrus deodara e del Cedrus libani fornisce degli oli essenziali molto simili tra loro, dal colore giallo ambrato, usati per profumare la casa, conservandoli nel diffusore di essenze o negli umidificatori. Nelle applicazioni fisiche, l’olio di Cedro è un antisettico e un valido mucolitico che libera le vie respiratorie dal muco accumulato. E’ usato anche come coadiuvante nella cellulite, perché stimola la circolazione sanguigna, e nella ritenzione idrica.
Come altri oli estratti da piante forti e longeve, l’olio del Cedro può aiutare a restituire vitalità ed energia durante le malattie croniche che debilitano e mettono a dura prova le capacità di resistenza e il tono generale dell’organismo. Infatti, l’energia di un albero secolare, raccolta e concentrata nel suo olio esenziale, può essere in qualche modo veicolata in alcune gocce dorate e profumate di olio e trasmessa all’organismo che ne ha necessità. In cosmetica è molto benefico per curare la pelle ruvida e asfittica, per combattere le micosi cutanee, per contrastare la caduta dei capelli e per alleviare le punture degli insetti.
Utilizzato per bagni aromatici e per massaggi tonificanti l’olio di Cedro agisce come fortificante. E’ sconsigliato l’uso dell’olio di Cedrus nelle donne in gravidanza e nei bambini. Per questi motivi i boschi di Cedri furono letteralmente decimati dalle popolazioni antiche. Il legno di Cedro rappresentava anche un’ambita merce di scambio.
I Fenici lo importarono in Egitto dove era utilizzato, oltre che per fini di costruzione e per estrarre l’olio essenziale, per scopi cosmetici, medici, rituali anche per preservare nel tempo i papiri. I sacerdoti lo usavano per purificarsi prima delle sacre cerimonie. Il legno era ritenuto incorruttibile tanto che i Romani usavano la frase “digna cedro” per indicarequalsiasi azione degna di notorietà.
Il nome “Cedro” deriva, probabilmente, dalla parola araba “kedron” che significa “potere”. Anche gli Arabi nutrono una grande venerazione per i Cedri.  Infatti attribuiscono loro non soltanto una “forza vegetativa”, ma anche “un’anima” che consente loro di dare segni “di saggezza e di intelligenza”: sono esseri divini in forma di alberi.
In Cina il Cedro è il simbolo “dell’amore fedele”, che persiste anche dopo la morte.
I Cedri sono coltivati principalmente come alberi decorativi per giardini piuttosto che come piante da essenza perché, da qualche tempo, sono divenute specie protette che non possono essere abbattute.

 

 

 

 

 

Mar 22, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CEDRUS DEODARA

IL CEDRUS DEODARA

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I Cedri sono conifere presenti nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta per il loro aspetto molto ornamentale e per la loro adattabilità alle rigide condizioni climatiche invernali. Vegetano: il Cedrus deodara e il Cedrus atlantica, invece il Cedrus libani, presente nella villa, è oramai estinto da molto tempo. Aiutiamoli a vivere bene e proteggiamoli dall’attacco dalla temeraria Processionaria, Thaumetopoea pitycampa, presente in abbondanza in questo periodo nella villa.
Il termine “Cedro” deriva dal latino “Cedrus” e dal greco “κέδρος” e indica “un albero non bene identificato”. Tutti i Cedri appartengono alla famiglia delle Pinaceae.
Il genere Cedro è originario della regione montuosa dell’Algeria e del Marocco. Alcuni autori sostengono che, in lontani periodi della storia della Terra, il Cedro abbia vegetato in Europa allo stato spontaneo. In Italia i Cedri più diffusi per la velocità di crescita e per l’adattabilità ai nostri climi sono sostanzialmente quattro: il Cedrus deodara, il Cedrus atlantica, il Cedrus libani, il Cedrus brevifolia.
Il Cedrus deodara è un maestoso albero detto “Cedro dell’Himalaya” perché nativo del versante occidentale della catena dell’Himalaya, dove è considerato sacro, ma cresce spontaneamente nella parte orientale dell’Afghanistan, nel nord del Pakistan, nel Kashmir, negli Stati nord-occidentali dell’India, in Tibet, fino al Nepal occidentale a quote da 1550 a3200 metri di altitudine e dove forma fitte foreste.
Per la sua bellezza è chiamato “l’albero degli Dei”, come indica il nome della specie “deodara” che, dal sanscrito “deva-dara”, significa appunto “albero degli Dei”.

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E’ stato introdotto in Europa nel 1822 ed è il più diffuso fra i Cedri per la sua valenza ornamentale e per il legno pregiato. E’ coltivato in Italia nei parchi e nei giardini, sia pubblici che privati, dove richiede spazi ampi.

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 E’ un albero ad accrescimento giovanile rapido, molto longevo e può vivere anche trecento anni.

E’ facilmente riconoscibile, rispetto agli altri Cedri, perchè presenta il tronco biforcato, i rametti e i germogli apicali penduli, le foglie morbide, che rendono l’aspetto della pianta particolarmente attraente. Le sue dimensioni sono notevoli: può raggiungere i 30 metri d’altezza ed una circonferenza della base del tronco di 2 metri. Il tronco è massiccio  diritto, colonnare, abbastanza spoglio in basso, mentre in alto sviluppa molte ramificazioni. E’ rivestito dalla corteccia levigata, grigio-bruna che, col tempo, si fessura finemente.

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 I rami principali sono orizzontali e gracili, con le estremità pendule e ripiegate verso il basso a formare, insieme alle foglie, una chioma a portamento largamente conico d’elevata densità. I getti sono dimorfici: quelli lunghi, i normoblasti, formano la struttura dei rami, quelli brevi, i brachiblasti, portano le foglie aghiformi. Esse sono singole e inserite a spirale sui rametti apicali giovani, mentre sono riunite in ciuffi di aghi, in numero di 30-40, sui rametti corti. I rametti sono densamente pelosi. I rami più alti degli esemplari più vecchi, in caso di forte vento, possono spezzarsi. Le foglie, tenere, sempreverdi, di colore verde chiaro tendente al grigio, sottili e flessibili, leggermente pungenti, sono lunghe da 5 a12 centimetri.

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 Il Cedrus deodara è una pianta monoica. Le infiorescenze fiorali maschili, a spiga, sono erette, lunghe da 4 a7 centimetri, prima di colore giallo verdastro, poi di colore rosso che, in autunno, liberano il polline. Le infiorescenze femminili, poco appariscenti, ovali, più piccole di quelle maschili, lunghe un centimetro appena, sono di colore verde che diventa poi bruno rossastro.

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La fioritura dei fiori maschili avviene nei mesi di settembre e di ottobre. Successivamente fioriscono i fiori femminili. L’impollinazione è anemofila. La pianta fruttifica intorno ai 30-40 anni d’età.
I frutti sono grosse pigne erette sui rami, ovoidali, lunghe fino a 13 centimetri, con apice arrotondato, resinose, legnose e che giungono a maturazione in due anni. Disintegrandosi in squame a ventaglio, si disarticolano sull’albero per lasciar uscire i semi alati, triangolari, lunghi da 10 a15 millimetri. I semi hanno due o tre capsule contenenti una resina dall’odore disgustoso ritenuto una difesa efficace contro i topi campagnoli.

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Il Cedrus deodara è una pianta piuttosto esigente riguardo alla luce e all’umidità atmosferica. Gradisce un’esposizione soleggiata, dove può ricevere la luce solare per alcune ore al giorno. Il terreno deve essere fertile, piuttosto umido e profondo dove le radici, che nel corso degli anni si diramano anche per decine di metri, possono trovare gran parte dei nutrienti. E’ consigliabile, in ogni caso, arricchire periodicamente il terreno con fertilizzanti in modo da garantire il giusto apporto di sali minerali. Necessita di annaffiature solo se il clima è particolarmente siccitoso e il terreno asciutto. E’ una pianta rustica, che non teme il freddo, le nevicate abbondanti, ma non prolungate, e il gelo fino a circa – 25 °C, che resiste all’inquinamento atmosferico.
Il Cedrus deodara è coltivato, oltre che per la sua magnificenza, anche per il suo legno resistente, profumato e dalla resina aromatica, ma meno apprezzato di quello del Cedro dell’Atlante. Nell’arcieria tradizionale il legno di Cedro è usato per la costruzione delle frecce.
Il Cedro è una pianta d’importanza storica e mitologica. In India è simbolo “di fertilità, di durezza, di incorruttibilità, di distinzione in santità e in sincerità”. Probabilmente il simbolismo è legato alle qualità del legno che è durevole e molto aromatico, pur non avendo canali resiniferi, e molto resistente all’attacco degli insetti. E’ quanto afferma Origene, il teologo e filosofo del II secolo, commentando il Cantico dei cantici : “Il Cedro non marcisce; fare in Cedro le travi delle nostre case è preservare l’anima dalla corruzione“. Fin dall’antichità, ha avuto un certo legame con il sacro.
Il Cedro, per le sue notevoli dimensioni, è stato eletto ad emblema della grandezza, della nobiltà, della forza e dell’immortalità. Salomone, per la costruire la struttura del tempio di Gerusalemme e della sua reggia, 950 anni prima della venuta di Cristo, utilizzò il profumato legno di cedro, il più pregiato che allora si conoscesse, come si legge nel Primo libro dei Re (6,18) nella Costruzione del tempio: “Il cedro all’interno del Tempio era scolpito a rosoni e a boccioli di fiori; tutto era in cedro e non si vedeva una pietra “.
Ancora, nel Primo libro dei Re (5,22-24), nel Trattato con Chiram è scritto: “Chiram mandò a dire a Salomone: <Ho ascoltato il tuo messaggio; farò quanto desideri riguardo al legname di cedro e di abete. I miei servi lo caleranno dal Libano al mare; io lo metterò in mare su zattere fino al punto che mi indicherai. Là lo scaricherò e tu lo prenderai. Quanto a provvedere al mantenimento della mia famiglia, tu soddisferai il mio desiderio>. Chiram fornì a Salomone legname di cedro e legname di abete, quanto ne volle“.
Il Cedro è anche simbolo di “bellezza”. Ezechiele (17,22-24), nella Promessa del re Messia, utilizza il Cedro come simbolo “del Messia e del suo Regno”: “Dice il Signore Dio: Io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio segare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò“.
Nella sua terra d’origine, data l’importanza religiosa, è noto anche come “Abete sacro indiano”. Spesso è rappresentato in affreschi e in mosaici greco-romani. Numerose sono le statue di idoli scolpite nel legno di Cedro. Amos (2,9) in Contro Israele scrive: “Eppure io ho sterminato davanti a loro l’Amorreo, la cui statua era come quella dei cedri, e la forza come quella della quercia; ho strappato i suoi frutti in alto e le sue radici di sotto”.
Gli Egiziani usavano il legno di Cedro per costruire i sarcofagi dei faraoni. I Fenici realizzarono ampie barche diventando grandi commercianti ed esperti navigatori, soprattutto quando riuscirono a superare lo Stretto di Gibilterra.
Dal legno di Cedrus deodara si estraeva l’olio, “oleum deodarae”, con il quale gli Indù usavano profumare gli ambienti. Gli Arabi considerano l’albero l’”essere divino sotto forma di pianta” o il “candelabro del cielo”.
Per la maestosità, per la resistenza, per la longevità, un piccolo albero di Cedrus deodara è stato trapiantato in un’aiuola della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” dai giovani studenti delle Scuole di Mistretta il 10 febbraio del 2010  in memoria delle vittime delle Foibe.

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Mar 9, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ ABIES DOUGLASIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ ABIES DOUGLASIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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 La villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è un piccolo cosmo che ospita tantissime essenze vegetali provenienti da diverse parti del mondo. L’Abete di Douglas proviene dall’America settentrionale.

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Il nome botanico latino della specie presente nel giardino di Mistretta è Pseudotsuga menziesii.
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inonimi della stessa pianta sono: “Pseudotsuga taxifolia,Douglasia, Abete di Douglas, Abete americano, Pino dell’Oregon”.
 Il Pseudotsuga menziesii è una conifera sempreverde della Famiglia delle Pinaceae. Esso ha un areale molto ampio, sia per latitudine sia per altitudine, che si estende dalle regioni canadesi fino al sud-ovest degli Stati Uniti. Particolarmente diffuso negli Stati di Washington e nell’Oregon, in California si trova sulle Klamath Muontains fino a raggiungere a sud la Sierra Nevada. Il suo habitat varia dal livello del mare sino ad un’altezza di 1800 metri. L’Abete di Douglas, prima dell’ultima era glaciale, era indigeno in Europa. Dall’America settentrionale, dove si è potuto conservare e dove rappresenta un’importante fonte di legname, si è ampiamente diffuso altrove.

Il merito di aver introdotto l’Abete di Douglas in Europa spetta al botanico David Douglas, esploratore e naturalista scozzese, la cui attività di ricerca ha avuto un’immensa importanza per l’orticoltura europea. Assunto dal giardino botanico di Glasgow nel 1820 e partito per il primo dei suoi viaggi nel Nord America e nelle Hawaii per conto della Royal Horticultural Society di Londra, nel 1828 inviò in Europa i primi semi del “Pino dell’Oregon” o “Abete di Douglas” che da lui prese il nome.
In Italia la specie vegeta nella zona del Castagno spingendosi sino sotto a quella del Faggio. La pianta fu coltivata dapprima per il suo aspetto gradevole e, in seguito, perché fonte importante di pregiato legname, anche se le Douglasie presenti nel territorio italiano non sono ancora così vecchie da produrre legname di elevata qualità come quello prodotto nell’America settentrionale. In Italia la pianta è presente abbondantemente nel tratto appenninico Tosco-Emiliano da 700  a 1000 metri d’altitudine. Se dispone di un buon terreno, la pianta, vegetando bene, sa produrre un legname di ottima qualità che può essere verniciato e lucidato con eccellenti risultati.

L’Abete di Douglas è un albero imponente, con uno sviluppo notevolissimo. Crescendo, raggiunge nei luoghi d’origine la rilevante altezza fino a novantacinque metri. Non sono rari gli individui alti anche 100 metri e aventi il diametro di 3 metri. Il più alto esemplare di Abete di Douglas si trova in Arizona ed ha raggiunto l’altezza di 116 metri. In Europa raggiunge l’altezza di cinquanta metri e un diametro di un metro.
E’ una pianta longeva raggiungendo l’età di 500 – 700 anni; singoli esemplari superano i 1000 anni.

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 La pianta presenta un portamento elegante, il tronco cilindrico, diritto e slanciato, irregolare, ramificato quasi fin dalla base, sorretto da un apparato radicale non fittonante, ma espanso, è ricoperto dalla corteccia che, nelle giovani piantine, si presenta liscia e di colore bruno-grigiastro e, invecchiando, diventa più scura, più spessa e con delle placche suberose causate da fessure longitudinali. Sulla corteccia si formano delle vescichette contenenti la resina.

 I germogli, dal marrone al verde oliva, diventano sempre più di colore grigio scuro man mano che invecchiano. Hanno una forma conica molto particolare, sono lunghi da 4 a 8 millimetri ed hanno squame di colore rosso bruno.

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 Le foglie aghiformi, lunghe fino a tre centimetri, strette e lineari, flessibili, molto tenere, acuminate, appiattite, resinose, con la pagina superiore di colore verde lucido intenso e con la pagina inferiore piatta e di colore verde più chiaro caratterizzata da due bande longitudinali argentate, persistenti per 5-8 anni, rimangono sulla pianta anche in inverno. Gli aghi s’inseriscono singolarmente lungo il rametto mediante minuscole estroflessioni ed hanno una distribuzione spiralata molto densa. Ogni ago porta due canali resiniferi e, se è strofinato, emana un gradevole odore di limone. L’insieme delle foglie conferisce alla chioma una forma piramidale che, con l’avanzare dell’età, tende a diventare irregolare data la tipica ramificazione monopodiale. I rametti sono rivolti verso il basso e si inseriscono su rami che, inizialmente, sono orizzontali, e, successivamente, tendono ad inclinarsi pure verso il basso.

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 La chioma della pianta può essere danneggiata dalla furia del forte vento. L’Abete di Douglas è un albero monoico, con le strutture riproduttive che sono ben differenziate sulla stessa pianta. I fiori maschili, rudimentali e poco appariscenti, sono riuniti sotto i rametti in infiorescenze molto piccole a forma di “uovo” di colore rosso. Le infiorescenze sono lunghe circa tre centimetri e sono poste all’apice dei rami dell’anno precedente.
I fiori femminili, invece, sono più appariscenti e formano infiorescenze erette più grandi e di colore variabile dal verde al giallo.
Le infiorescenze femminili si formano pure sui rami dell’anno precedente verso l’apice dei rami principali e sono riunite a gruppi di 3. Sono pendenti su un breve peduncolo ricurvo, non caduche, lunghe fino a 9 centimetri, con squama copritrice più lunga di quella fertile. La fioritura avviene tra marzo ed aprile.
I coni sono molto grandi ed eretti e possiedono delle brattee bifide che fuoriescono dalle squame. Le squame tricuspidate, molto serrate, non cadono a seguito della loro divaricazione e si aprono a maturazione completa per disperdere i semi mediante il vento.
I coni femminili giungono a maturazione nel corso dell’anno assumendo un intenso colore bruno. Il seme, alato, lungo circa 6-8 millimetri, di forma triangolare, è di colore rosso bruno. Le pigne rimangono integre sull’albero e, dopo la disseminazione, cadono a terra l’anno successivo e si possono raccogliere facilmente. I semi maturano ad ottobre. La caduta al suolo delle foglie e della corteccia forma un substrato che impedisce la crescita di piante infestanti.

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 L’Abete di Douglas è una pianta che si adatta a vivere su qualsiasi tipo di terreno dal quale riceve le necessarie sostanze nutritive. Lo preferisce abbastanza soffice e non eccessivamente drenato per favorire una sua crescita rapida. I giovani esemplari di Douglas necessitano di più cure rispetto agli esemplari adulti.
Con il passare degli anni, lo sviluppo di un buon apparato radicale, che si dirama anche per decine di metri, consente alla pianta di accontentarsi delle piogge senza la necessità di ulteriori annaffiature. All’occorrenza, bisogna distribuire irrigazioni moderate bagnando il terreno in profondità e, prima di annaffiare, controllare sempre che il terreno sia ben asciutto. Predilige vivere in un luogo semi-ombreggiato dove può ricevere i raggi solari durante le ore più fresche della giornata.
Durante l’inverno le giovani piante possono richiedere una leggera protezione dal vento. Non teme il freddo e sopporta temperature minime molto rigide. Il clima primaverile, con un elevato sbalzo termico tra le ore diurne e quelle notturne e le piogge frequenti potrebbero favorire lo sviluppo di malattie fungine, pertanto è consigliabile agire preventivamente con un fungicida sistemico.
Il fungo della muffa grigia, il Botrytis cinerea, attacca la giovane pianta danneggiandola.Negli alberi più vecchi il Rhabdoclyne pseudotsugae procura macchie scure sulle foglie. L’insetto maggiormente nocivo è l’afide Adelges cooley.

Le piante di Douglasia sono importanti essenze forestali largamente sfruttate per il legno esportato dagli USA in tutto il mondo. Anche in Italia si è tentato di “coltivare” l’albero, ma con risultati molto lontani da quelli ottenuti in USA. L’albero, infatti, cresce ottimamente lungo le coste pacifiche dove esistono condizioni di climi umidi e spesso nebbiosi.
Il legno della Douglasia è molto richiesto ma, essendo di resistenza e di tessitura piuttosto varie, esige un’attenta selezione per avere una buona uniformità. Si presta ad una svariatissima serie di impieghi: per qualsiasi tipo di costruzioni delle strutture portanti di case, di ponti, di barche, per lavori di falegnameria in genere e nell’industria della carta. Un Abete di Douglas adulto è anche un albero ornamentale e non è difficile ammirarlo nei parchi e nei giardini e come albero di Natale.

 

Mar 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES CEPHALONICA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES CEPHALONICA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il visitatore della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, appena superato il cancello d’ingresso, addossato al balcone belvedere, all’inizio del viale di destra è accolto dagli splendidi alberi: dal Cedrus deodara e dalla Sequoia sempervirens e, nella parte sottostante, dall’Abies cephalonica e dall’Abies nebrodensis, mentre nel viale di sinistra emerge, per la sua altezza, l’Abete del Caucaso. Sono alberi alti, slanciati, maestosi, vicini, in solidale compagnia.Hanno resistito alla forza impetuosa distruttrice del vento che in  questi giorni ha soffiato arrabbiato?

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L’Abies Cephalonica, più comunemente conosciuto come  “Abete greco”, è una conifera sempreverde appartenente alla Famiglia delle Pinaceae. La pianta, originaria della Grecia, esattamente dell’isola di Cefalonia dalla quale ha preso il nome, vegeta spontaneamente in tutto il sud della Penisola balcanica, sulle montagne del Peloponneso, e nelle zone mediterranee.
L’Abies cephalonica abita su Enos, il più alto monte dell’isola e dell’intera regione, un gigante per la piccola isola di Cefalonia di appena 737 km2, il più grande “museo” naturale che, con la sua sommità, alta 1628 metri, chiamata Megas Soros, svetta sul mare Ionio.
La foresta nazionale di Enos ha una superficie di 28.620 ettari di cui 19.730 sono coperti da una rara specie di Abete: dell’Abies cephalonica. La foresta di Abeti dell’Enos, pertanto, è di particolare rilevanza per la purezza della specie Abies cephalonica. Nelle zone originarie la foresta forma boschi misti a Castagni e a Querce e anche boschi puri perché, a causa dell’isolamento di tutta l’isola, l’Abies cephalonica non ha prodotto ibridi con altri Abeti, mentre nelle regioni continentali della Grecia si è ibridato con la specie di Abete dei Balcani, l’Abies borisii-regis. Il primitivo denso bosco del monte Enos è stato gravemente danneggiato dagli incendi del 1792 che hanno ridotto drasticamente la sua superficie ad un quarto di quella originale con grave danno per tutte le specie vegetali e animali.

 L’Abies cephalonica è stato introdotto in Italia e negli altri Paesi europei e diffusamente impiegato come pianta ornamentale per la rapidità del suo accrescimento e per la gradevolezza della sua chioma. Ha abbellito esteticamente parchi, giardini, orti botanici. Insieme all’Abete bianco e all’Abete rosso è anch’esso simbolo “dell’albero di Natale”. Vegeta bene nei luoghi montani da 700 a 1500 metri di altitudine, ma in Grecia può anche vegetare a quote maggiori.

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L’Abete cephalonica è un albero maestoso, elegante, che raggiunge un’altezza di oltre 30 metri e un diametro del tronco fino a 1 metro. L’albero, sempreverde, a forma di cono allungato, è sostenuto da un tronco colonnare rivestito dalla corteccia liscia, di color marrone scuro tendente poi al grigio che, con la vecchiaia, si rompe in placche quadrate da cui fuoriescono lacrime di resina.

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 Dal fusto si dipartono i rami disposti in palchi orizzontali pendenti in modo da fare scivolare facilmente la neve. La chioma è formata dalle foglie aghiformi. Gli aghi sono solitari, brillanti, lineari, rigidi, appuntiti, pungenti, inseriti radialmente attorno ai rametti. Sono lunghi da 20 a 30 millimetri, di colore verde carico sulla pagina superiore e nella pagina inferiore si evidenziano due strisce bianche-blu. Gli aghi sono leggermente aromatici ed emanano un profumo molto sottile.

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E’ una pianta monoica dicline. Le infiorescenze maschili ad amento, prima di colore rosso e poi giallo, sono riunite in gruppi nella parte inferiore dei rami dell’anno precedente. I fiori femminili, riuniti in strobili da 10 a 16 centimetri di lunghezza, sono eretti e di colore verdastro.
La fioritura avviene tra maggio e giugno. I coni, affusolati alle due estremità, lunghi anche 20 centimetri, marrone, formati da circa 150 squame, si disintegrano a maturità per rilasciare i semi alati.
I semi, caduti a terra, hanno solo il 60-70% di probabilità di germinare perché di essi si nutrono molti altri esseri viventi, ma germinano facilmente. L’albero comincia a fruttificare intorno al ventesimo anno d’età continuando la fruttificazione fino ad un centinaio di anni. La pianta, longeva, raggiunge anche i 500 anni d’età. La raccolta avviene ogni 2- 4 anni. La propagazione avviene, oltre che per seme, anche per talea.

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L’Abies cephalonica predilige il clima di montagna e riesce ad essere un grande albero imponente se posto su terreni calcarei, fertili, profondi, sciolti, umidi e ben drenati. Si può sviluppare bene anche sulle rocce e sul suolo gessoso. Sopporta il freddo, ma risente di eventuali gelate primaverili nonostante abbia una buona capacità di resistenza al vento ed alle intemperie, sopravvive alla siccità e alle temperature elevate ed è abbastanza intollerante all’inquinamento.
Ama essere esposto in luoghi anche particolarmente soleggiati richiedendo alcune ore al giorno d’irraggiamento solare e irrigazioni frequenti. E’ consigliabile, per il periodo primaverile, effettuare una concimazione ricca in azoto e un trattamento preventivo con qualche insetticida ad ampio spettro e con un fungicida sistemico in modo da prevenire l’attacco degli Afidi e lo sviluppo di malattie fungine spesso favorite dal clima fresco e umido.
Molto nocive sono le muffe dell’Armelaria melea e dell’Agrobacterium tumefaciens. Necessita di potature in rare occasioni solo per ripristinare la forma e per eliminare i rami spezzati.
La pianta produce il legno molto simile a quello dell’Abete bianco, ma di qualità inferiore per resistenza e per durezza. L’Abete greco, per la sua ramificazione irregolare, nel legno presenta molti nodi che non sono graditi nei lavori di falegnameria. Fino alla metà dell’Ottocento il suo legno era usato per la costruzione delle navi.

 

Feb 22, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CASTELLO DI MISTRETTA

IL CASTELLO DI MISTRETTA

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  L’imminente inizio della primavera incoraggia a brevi escursioni in territori noti o in luoghi nuovi.
Amici, a Mistretta una piacevole camminata è al castello, itinerario importante per i mistrettesi e per i turisti.
Su,allora, andiamo!
L’amico Antonio Ribaudo, già arrivato primo, seduto sulla roccia, ammira il meraviglioso paesaggio.

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Sulla rocca che sovrasta la città di Mistretta sorgeva la primitiva acropoli successivamente modificata dagli arabi, dai Normanni, dagli Svevi, dagli Aragonesi.
Da questa vetta si osserva un panorama veramente incantevole.
Volgendo lo sguardo verso il mare si possono vedere, quando l’aria è tersa e non offuscata dalla nebbia, le isole Eolie.
Guardando a sud si ammira la catena dei monti Nebrodi.
Lo sguardo, rivolto verso il basso, poggia sulla città dove si nota l’immensa distesa di tetti, le torri dei campanili, le cime degli alberi della villa comunale, i verdi boschi nello sfondo lontano.

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Conosciuto già in epoca romana, Polibio definì il castello di Mistrertta “vetustissimo”.
Le prime notizie sulla fortezza si hanno da un privilegio del 1101 con il quale il conte Ruggendo donò al Demanio Regio la città di Mistretta e il suo castello. Per circa 300 anni il castello fu teatro di grandi avvenimenti.
Intorno al castello si raccolgono la storia e la gloria della città.
In esso si organizzavano i convegni e i festini dell’antica nobiltà rallegrata dai trovatori che inventavano madrigali per le belle castellane. Subì i passaggi dei vari dominatori e guerrieri, accolse cavalieri erranti, fu testimone della congiura di Matteo Bonello, che vi si rifugiò durante la rivolta contro Guglielmo, re dei Normanni.
Nel 1360 vi si trattenne Federico d’Aragona prima del matrimonio con Costanza. Vi si stabilì Federico d’Antiochia durante la rivolta contro il re Pietro d’Aragona.
Assistette al tradimento di Artale d’Alagona il quale, riunendo i baroni ribelli, scatenò l’anarchia sotto Martino I. Artale era figlio di Manfredi, reggente di Maria di Sicilia e tutore di Maria, figlia di Artale I. Inizialmente, al fianco del padre, spesso riuscì a dirigere la politica e a sostituirlo al comando in occasione dello scontro con Martino I di Sicilia.
Fu l’organizzatore del matrimonio della regina Maria con Giangaleazzo Visconti, il duca di Milano, con l’intento di legare la Sicilia al resto dell’Italia. Tuttavia fu forte l’opposizione di alcuni baroni che preferivano l’influenza catalana.
Fra questi il nobile Guglielmo Raimondo Moncada che, con l’approvazione del re Pietro IV d’Aragona, per evitare il matrimonio, rapì la regina dal castello Ursino di Catania nella notte del 23 gennaio 1392. Maria fu quindi condotta a Barcellona alla corte aragonese dove, fra le proteste dei baroni e del Papa Urbano VI, sposò Martino d’Aragona detto “il Giovane”, figlio di Martino “l’Umano” e nipote del re.. Verso la fine del 1400 al castello di Mistretta fu castellano Sigismondo De Luna che, pur riscuotendo le gabelle dei cittadini, lasciò deperire il castello che, ridotto in rovina, fu trasformato in carcere nel 1520. Nel 1608 il castello era completamente in rovina.
Nel 1686 una grande frana investì tutta la vallata distruggendo il versante Nord-Est che cambiò la sua morfologia.
Nel 1632 i mistrettesi, dopo avere riscattato la libertà col sangue di tante vite e con grandi sacrifici economici, salirono sulla montagna e distrussero i resti di quel castello simbolo del potere regio, delle angherie, delle prepotenze, delle sottomissioni.
Essendo rimasti solo i ruderi del vecchio castello, le rocce circostanti furono estratte come cava di pietra per la costruzione delle case dei mistrettesi tanto che nel 1863 il sindaco di allora, con una delibera comunale, vietò di “fare pietra al castello”.

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Sul lato nord si nota uno degli antichi ingressi.

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Oggi del castello rimangono i ruderi delle mura di cinta.

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Con gli scavi archeologi, effettuati negli anni ’80 nell’area posta sotto ai ruderi, sono state rinvenute le fondamenta di una piccola chiesa, di probabile epoca normanna, impiantata su uno strato di materiale bizantino.
Il castello è stato molto rivalutato ancora negli anni 2000 con lavori di riqualificazione e di restauro condotti da una ditta locale. Si sono rinvenuti degli ambienti che prima erano nascosti. Entrando dall’ingresso, sulla destra ci sono tre ambienti contigui che sono stati identificati come magazzini. Un po’ più a valle di questi magazzini c’è un ambiente che si può definire un arsenale perché sono state rinvenute delle palle di pietra  che erano espulse e gettate con le catapulte. Dal lato opposto sempre entrando dall’ingresso,  c’è una cisterna, testimonianza dell’uso frequente di questo castello perché l’approvvigionamento idrico  era indispensabile.  In mezzo a queste due ali ci sono 6 stanze di cui la più ampia, a pianta rettangolare,  era la sala del potere del castello usata come sala di rappresentanza. I reperti archeologici rinvenuti al castello in età preistorica è l’ ossidiana sia a nuclei che a lamelle. Il castello ha restituito anche delle monete di età ellenistica del terzo secolo,  lucerne, unguentari, oggetti di vita quotidiana, mattonacci di epoca bizantina.
Si arriva al castello percorrendo la via Libertà e, giunti in piazza San Vincenzo, si devia a destra camminando un stradina lunga, un po’ ripida ma agevole.

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Molto eloquente è la poesia della dott.ssa Filippa Manfredone

U castieddu

U castieddu tisu, tisu, a pippituni

cunta e porta supra li so spaddi

a storia di lo me paisi.

Tuttu l’annu, da javutu no so riuni,

talia lu sciumi ca scurri

mistiriusu e lestu nni lu vadduni.

Quannu lu suli l’allucia e lu vasa a livanti,

iddu l’occhiu scaccia a l’isuli e

 a li muntagni cchi ci stannu r’avanti,

quannu no nmiernu s’appoia la nivi,

a rocca rusata, pi incantu diventa fatata.

Certi jorna pari ca rormi,

 nmeci, stu masculu vigurusu,

nni tutti li misi, proteggi li mistrittisi.

Si cumporta comu lu nigghiu

 ca controlla lu cunigghiu.

NI li so shianchi vivinu e ruorminu

chiddi chi sunu e chiddi chi furuno.

Fu abbitatu nticamenti ri li bizzantini,

arabi, nurmanni, svevi, anguini e aragunisi

e jautra genti assai putenti!

ca pi tantu tiempu stu paisi cumannaru

e pi riuordu a pallata ci lassaru.

‘Sti rignanti, ’no mumento ru periculu

o populu castiddanu ci vuciavunu:

acchianati,accurriti,

ca’ sutta l’ali ru castieddu nun piriti.

A bannera triculuri purtau

pi prima ‘stu gran signuri,

prumittiennu fidiltà a n’Italia traritura,

Ora, è cu li mura allivancati e carenti

E cuomo nu viecchiu sunnulenti,

pari abbannunatu di la so genti,

ca pi bisuogniu partiu

 cu na valigia pi lu ponenti.

Ma a Maronna ru castieddu,

cu li so mani ginirusi,

nsigna o munnu li biddhizzi

 di stu munti assai ridenti.

Nt’austu, quannu acchiana

silinziusa e umitusa a paisana

lu cummogghia a la vista

ri l’amici e ri li parenti,

e i nnuccenti picciriddi,

allampati e scantati, vannianu:

talè u castirddu s’ammuccia pi jucari!

 e nun sannu ca lu manieru,

di li omini chi cumannunu è sdignatu,

e suventi, taliannu versu u cielu s’arrancura:

 oh putenti, oh latruna ri sta patria traritura,

nni stu seculu decadenti,

vi scurdastu ra muntagna

e ri so omini l’unuri,

ca cu cori assai amaru,

i figghi pi la verra vi mannaru,

 e ncanciu na petra cu li nomi ci turnaru

in cumpienzu u spitali, u tribunali e

 u travagghiu e picciotti n’arrubbaru

                               Poesia di Filippa Manfredone

 

 

Feb 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES PINSAPO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES PINSAPO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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A Mistretta non c’è luogo migliore dove potere sostare per ammirare le bellezze della Natura e dove potere combattere la calura estiva.
E’ la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”!
Nella villa “Giuseppe Garibaldi” vegetano in armonia nella stessa aiuola l’Abies alba e l’Abies pinsapo.

 

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Sono talmente amici che, probabilmente, le loro radici si abbracciano.
“L’Abies pinsapo, l’Abete di Spagna, l’Abete dei Pirenei” è un albero nativo delle zone montuose del sud della Spagna e descritto per la prima volta dal botanico svizzero Pierre Edmond Boissier nella sua opera “Voyage botanique dans le Midi de l´Espagne” nel 1838.
Il nome “Pinsapares” a questa bella specie di Abete è stato attribuito dalla popolazione del luogo. Appartenente alla Famiglia delle Pinaceae, l’Abete di Spagna è un albero di notevole sviluppo ed ha il legno molto simile a quello dell’Abete bianco.
E’ un Abete certamente raro e si trova localizzato in ristrette zone montuose della Spagna meridionale e del Rif marocchino. Probabilmente, molto tempo fa ricopriva migliaia di ettari di superficie delle montagne della Spagna centro-merdionale, inclusa la Sierra Nevada, dove attualmente si riscontra solamente l’esistenza di residui boschi di Pino silvestre e di sporadiche Querce.
Durante l’era glaciale questa conifera è stata quasi completamente eliminata. Quando i ghiacciai si ritirarono, la vegetazione si spinse gradatamente verso nord per ricolonizzare le aree lasciate nude dai ghiacciai.
La diffusione dell’Abete pinsapo fu bloccata dalla vallata del fiume Guadalquivir e l’albero fu confinato in aree molto circoscritte. Attualmente l’Abete pinsapo cresce solamente in una piccola area protetta della Spagna meridionale, sulla Serrania de Ronda e sulla Serra de Las Nieves tra i 1200 ed i 1700 metri d’altezza dove esistono solamente poche migliaia di esemplari.
I popolamenti sono sempre molto scarsi e risentono di millenni di pascolo sfrenato ed incontrollato. Inoltre, l’Abete di Spagna è seriamente minacciato dagli incendi, dalla siccità, dall’erosione, dal turismo.
E’ facilmente riconoscibile dagli altri abeti per la disposizione ad angolo retto degli aghi intorno al rametto.
La pianta ha un portamento eretto raggiungendo, gli esemplari adulti, i 28 metri d’altezza. Il fusto, in genere, è abbastanza spoglio nella parte bassa, mentre in alto sviluppa molte ramificazioni che si allargano a formare la chioma irregolare.

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E’ rivestito dalla corteccia scura, simile a quella degli altri abeti, ma meno fessurata che, con l’età diventa rugosa.
La chioma, di forma conica regolare, sempreverde, di colore verde grigiastro, è costituita da foglie aghiformi lunghe circa tre centimetri, molto rigide, leggermente ricurve, pungenti, disposte a scovolo e che rimangono sulla pianta per tutto l’arco dell’anno.
Gli aghi, staccati dalla pianta, lasciano sul ramo delle cicatrici rotonde molto caratteristiche.

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Le gemme invernali sono resinose. Gli strobili eretti, di colore bruno porpora, lunghi fino a 15 centimetri, sono di dimensioni ridotte rispetto a quelli dell’Abete bianco. L’Abete di Spagna è una pianta monoica.
I fiori, maschili e femminili, sono portati dallo stesso individuo. I fiori maschili sono grandi e di colore rosso ciliegio.

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I fiori femminili sono di colore verde chiaro. Lo strobilo, di colore bruno purpureo, è più allungato e più appuntito di quello degli altri abeti. Le brattee squamose sono nascoste. La fioritura avviene in primavera, da marzo a maggio.
L’Abies pinsapo è un albero abbastanza rustico e ambientato ai climi di montagna.
Si adatta a vivere su qualsiasi tipo di substrato preferendo i terreni moderatamente calcarei, soffici e ben drenati.
Lento nella crescita, ama vivere isolato, ma accetta anche la compagnia di altri alberi.

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 E’ una conifera ornamentale molto apprezzata nei giardini e nei parchi poiché è poco esigente. Nelle ville italiane numerosi Abeti spagnoli hanno trovato felice dimora e, non di rado, hanno raggiunto notevoli dimensioni. Fino alla metà della seconda guerra mondiale tre grandi piante di Abete di Spagna vegetavano ancora nel Parco del Pincio a Roma; una di queste raggiungeva 20 metri d’altezza e 50 centimetri di diametro. Fortunatamente il giardino di Mistretta ospita un esemplare che deve essere salvaguardato  e protetto.
L’Abete pinsapo gradisce essere posto possibilmente in un luogo luminoso, dove può ricevere almeno alcune ore al giorno di luce diretta del sole e dove può respirare l’aria pulita perché sensibile all’inquinamento atmosferico. Non teme il freddo, può sopportare temperature minime molto rigide e può essere coltivato in giardino, all’aperto, per tutto l’arco dell’anno. Durate l’inverno le giovani piante hanno bisogno di una leggera protezione dal vento o dal freddo.
La pianta richiede annaffiature regolari, bagnando il terreno a fondo. Fra un’annaffiatura e la successiva bisogna aspettare che il substrato si asciughi completamente evitando di lasciare stagnare l’acqua. E’ opportuno annaffiare solo gli esemplari giovani, o quelli posti a dimora da poco tempo; gli esemplari adulti si accontentano delle acque piovane. L’albero, man mano che cresce, sviluppa un apparato radicale cospicuo, che si dirama anche per decine di metri, capace di succhiare dal suolo l’acqua e i sali minerali, quindi le annaffiature sono necessarie solo se il clima è particolarmente asciutto.
Tuttavia, per garantire alla pianta il giusto apporto di nutrimento, è opportuno arricchire periodicamente il terreno deponendo qualche secchio di concime ai piedi del tronco. Trattamenti specifici sono utili per combattere gli attacchi da parte di funghi, di Afidi e di Cocciniglie che potrebbero compromettere lo stato di salute di tutta la pianta.

 

 

Feb 8, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES NORDMANNIANA DEL CAUCASO NELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES NORDMANNIANA DEL CAUCASO NELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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L’Abies nordmanniana è l’altissimo albero che viene di fronte a chi entra nella villa “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta e si accinge a percorrere il viale di sinistra.
 Il suo nome scientifico è Abies nordmanniana, ma è chiamato ancheAbete del Caucaso,  Abete di Crimea”.

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Il suo nome è un omaggio al botanico finlandese Alexandervon Nordmann (1803-1866), professore di Botanica ad Odessa, colui il quale fece la prima descrizione scientifica nel 1836 incontrandolo nelle regioni della Caucaso e che, nel 1838, introdusse la specie in Europa.

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L’Abies nordmanniana è originario del Caucaso occidentale e dell’Armenia dove vegeta tra i 400 e i 2000 metri di quota e dove forma grandi foreste. Si trova sulle montagne a sud e ad est del Mar Nero, in Turchia, in Asia minore e in Grecia.
L’Abies nordmanniana è una rustica e vigorosa conifera sempreverde ad alto fusto della Famiglia delle Pinaceae.
Ha un aspetto molto elegante che, nelle nostre zone, raggiunge, a maturità, i 30 – 40 metri d’altezza e, talora, esemplari isolati, piantati nei giardini dove trovano migliori condizioni di coltivazione, sfiorano altezze ancora maggiori. Nella terra d’origine l’albero raggiunge i 60 metri di altezza e un diametro del tronco fino a 2 metri.
Nel Caucaso Western Reserve alcuni esemplari hanno raggiunto altezze di 78 metri e il più alto in Europa ha raggiunto gli 85 metri.
Il tronco, colonnare, diritto, è sostenuto da un sistema radicale a fittone e ricoperto dalla corteccia grigia, liscia e sottile nelle piante giovani, ma che diventa ruvida e fessurata in piccole piastre quadrate nelle piante adulte.

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 Dal fusto si dipartono i rami a palchi regolari disposti in piani orizzontali che, da giovani, sono pelosi. Sono carichi di foglie aghiformi, solitarie, appiattite, dall’apice arrotondato, non pungente, scanalate lungo la nervatura centrale e con la pagina inferiore che presenta due bande argentee. Gli aghi, di colore verde scuro, lucidi, brillanti e molto lunghi, resistenti e coriacei, sono disposti a spirale o in doppia fila intorno ai rametti e si protendono in avanti coprendo completamente i rami. Se sono schiacciati, emettono un profumo simile a quello della buccia d’arancia.
Tutti insieme, gli aghi formano la chioma, slanciata, dal fogliame denso, e che termina con un lungo germoglio apicale. Queste caratteristiche rendono la pianta adatta ad essere impiegata come notevole “Albero di Natale”.

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E’ una pianta monoica dicline. Le infiorescenze maschili e femminili a strobili sono riunite a gruppi sotto l’apice dei giovani getti. I fiori femminili sono raggruppati in strobili di squame spiralate portanti alla base due ovuli; i fiori maschili, raggruppati pure in coni che si formano in prossimità della cima negli esemplari adulti, sono formati da stami squamiformi.
La fioritura avviene nei mesi di aprile e di maggio. Gli strobili maschili e femminili sono facilmente distinguibili per il colore: quelli maschili sono inizialmente rossicci e a forma di fragola; quelli femminili, isolati, di forma cilindro-conica, di colore bruno violaceo, resinosi e con squame larghe e tozze, si formano solo sui palchi più alti.
Il frutto è la pigna eretta, lunga circa 15 centimetri e provvista di squame uncinate. La pigna racchiude i semi alati che, quando si disintegra a maturità, li libera cadendo a terra.
Come tutti gli abeti, si riproduce per seme in primavera e per innesto. L’Abete del Caucaso è simile all’Abete rosso con il quale divide gli spazi dentro il giardino di Mistretta.

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L’Abies nordmanniana è una specie adatta a vivere nei climi di montagna perché, rispetto agli altri abeti, è meno esigente per quanto riguarda le temperature: resiste al freddo, reagisce al caldo, sopporta le gelate primaverili e la siccità. Gradisce essere esposto al sole, perché l’ombra rallenta la crescita, posto su qualsiasi tipo di terreno.
Gli esemplari giovani accettano regolari annaffiature, l’adulto, invece, si accontenta dell’acqua del cielo. Non richiede potature, tranne che per eliminare i rami danneggiati dal vento e dalla neve.
Non è vulnerabile a nessuna malattia in particolare ma, in condizioni ambientali non favorevoli, potrebbe essere colpito più facilmente da alcuni parassiti.
Marciumi radicali causati da diversi funghi possono rovinare le radici e fare marcire il legno. Per prevenire tali patologie è fondamentale mantenere le piante in buone condizioni vegetative fertilizzandole e irrigandole durante i periodi asciutti.
La pianta, nei primi anni di vita, cresce lentamente, poi più rapidamente fino a raggiungere l’età di 300 anni.
In fitoterapia le gemme, i rami e la resina sono utilizzati per la preparazione di ottimi prodotti balsamici ed espettoranti per curare malattie da raffreddamento.
E’ un albero ornamentale presente nei parchi e nei grandi giardini.
Nelle zone caucasiche la pianta è utilizzata soprattutto come essenza da legno e la sua diffusione nei Paesi Europei, avvenuta nel secolo scorso, ha sfruttato la specie per lo stesso motivo.Il legno, morbido e bianco, è impiegato nella costruzione di mobili e della carta. In Giappone, dove frequenti sono i terremoti, è adoperato per la costruzione di case antisismiche.

E’ il mese di luglio 2022. Con mio grande dispiacere mi accorgo che il vecchio albero sta molto male.
Molti dei suoi rami sono ingialliti e hanno perso gli aghi.

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Due alberi della stessa specie vegetano molto bene dentro il giardino.
Il primo si può ammirare sul lato destro percorrendo l’inizio del viale di sinistra entrando dal cancello principale.
Ho chiamato questo albero: “l’Abete Peppino” perchè l’amico Peppino Ciccia, che l’aveva acquistato per utilizzarlo come albero di Natale per abbellire la sua casa, avendo intuito presto il suo stato di malessere, perchè giorno dopo giorno deperiva, ha preferito sostituire l’albero vero con uno artificiale ed ha trasportato la piantina nel suo habitat naturale: dentro la villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta circa una quindicina di anni fa.
La pianta, amorevolmente curata dal sig. Vito Purpari, ha ripreso a vegetare, le sue foglie sono diventate lucide, la crescita continua e certamente compierà il ciclo della sua vita. Altrimenti, dopo il periodo natalizio, sicuramente l’alberello morto sarebbe stato ospitato da un contenitore della spazzatura. E’ bello, rigoglioso, sorridente. L’albero ha gratificato l’amico Peppino Ciccia acquisendo il suo nome e, soprattutto, ringrazia il giardiniere per le sue costanti attenzioni. Ha un portamento eretto, alto circa 8 metri, a forma piramidale, con i rami quasi perpendicolari al fusto e le foglie di colore verde brillante.
L’alberello ringrazia tutti coloro i quali si sono presi cura di lui e soprattutto è grato al giardino che gli ha dato ospitalità e a tutte le piante vicine che lo hanno incoraggiato nella sua lotta per la sopravvivenza.

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Il secondo si trova nell’aiuola centrale dell’agorà, osservato dai busti di Vincenzo Salamone e di Noè Marullo.

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