Jul 9, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LUNARIA ANNUA

LUNARIA ANNUA

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La villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta accoglie molte piante annuali.
La Lunaria annua si trova esattamente percorrendo il viale di sinistra, dopo avere superato il cancello d’ingresso, esattamente nell’aiuola ai piedi dell’albero Falcone.

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La Lunaria annua, detta anche “Medaglione del Papa”, è una pianta erbacea a ciclo biennale, alta, robusta, appartenente alla Famiglia delle Cruciferae.
Prende il nome “Lunaria” forse per la capacità di riflettere i raggi lunari e per la somiglianza dei suoi frutti bianco-argentei alla luna piena di notte, Il nome “Medaglione del Papa” è stato attribuito per la forma dei suoi frutti rotondeggianti e somiglianti alle monete d’argento.

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 La pianta è sorretta da steli eretti, cilindrici, setolosi e legnosi alla base e può raggiungere il metro di altezza.

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Le foglie, di colore verde scuro, cordate, grossolanamente e irregolarmente dentate, sono lunghe da 10 a15 centimetri, le inferiori sono opposte, lungamente picciolate, con lamina triangolare e acuminata all’apice, le superiori sono sessili, alterne, lanceolate e, gradatamente, più piccole.
In primavera è bello poter apprezzare i numerosi fiori ermafroditi della Lunaria, tipici delle Crocifere, a forma di croce.

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Riuniti in un’infiorescenza a racemo, hanno il calice composto da 4 sepali violacei e la corolla formata da 4 petali lunghi, a lembo spatolato e smarginato e di colore viola e con un’unghia alla base.
Di notte emanano un gradevole profumo.
Fioriscono da Aprile a Giugno.

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L’impollinazione è favorita dalle farfalle notturne, dalle api, dai bombi.
I frutti sono delle silique ellittiche, arrotondate, a forma di disco, fortemente compresse, erette o appena pendule.
Presentano un setto di colore bianco brillante, dapprima di colore verde, poi diventa argentato, durevole e simile alla pergamena e si intravedono all’interno i semi.

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Pianta originaria dell’Europa sud-orientale, col tempo, grazie alla fecondità dei suoi semi, la Lunaria ha allargato il suo territorio di crescita.
In Italia, pur essendo considerata rara, è presente in tutta la penisola centro meridionale e in Sicilia e cresce dal livello zero del mare fino a 1000 metri in montagna.
Pianta poco esigente, predilige essere posta a dimora in un luogo a mezz’ombra dove poter ricevere i raggi solari durante le ore più fresche della giornata su terreni silicei, soffici, sciolti, umidi, ma molto ben drenati e ricchi di humus.
Necessita di irrigazioni frequenti soprattutto nei periodi di siccità prolungata.
La Moneta del Papa è una pianta che si può coltivare in giardino per tutto l’arco dell’anno. Con l’arrivo dell’autunno è bene estirparla e conservare la semente per l’anno successivo.
Non teme il freddo e sopporta temperature minime molto rigide riuscendo a sopravvivere anche a 15°C sotto lo zero.
La pianta è spesso coltivata a scopo ornamentale non solo per i suoi fiori di un bel colore violaceo persistente, ma anche per la realizzazione di composizioni secche invernali che si possono preparare alla fine del ciclo vegetativo quando, caduti i semi, si tolgono dal frutto le valve e lasciando solo la parte centrale trasparente e argentata.
La pianta ha scarse proprietà culinarie e farmacologiche.
Le radici e le foglie erano consumate in insalata ed erano apprezzate per le proprietà diuretiche, stomachiche e antiscorbutiche.
In epoche lontane le venivano attribuite proprietà magiche.
Per la sua somiglianza alle monete, la Lunaria era considerata portatrice di ricchezza.
Per la forma e per la lucentezza della lamina riceveva i favori della dea Luna che proteggeva dalla miseria e dagli spiriti maligni tutti coloro i quali ne possedevano un rametto.

 

 

Jul 1, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA MADONNA DELLE GRAZIE E PADRE PIO DA PIETRALCINA, TITOLARI DELLA CHIESA A MISTRETTA

LA MADONNA DELLE GRAZIE E PADRE PIO DA PIETRALCINA, TITOLARI DELLA CHIESA A MISTRETTA

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La Madonna delle Grazie e Padre Pio sono i due titolari della chiesa a Mistretta.
Alla Madonna delle Grazie, la Madre di Gesù, ci rivolgiamo per chiederLe confidenzialmente qualunque grazia per i nostri bisogni spirituali e materiali e per capire, attraverso di Lei, di essere certi che il Padre Celeste è sempre fedele nel mantenere le Sue promesse: se non dona quanto a Lui è richiesto,
è perchè dona se stesso.
E’ questa la più grande grazia che ciascuno di noi riceve per intercessione di Maria Santissima delle Grazie. Il titolo “Madonna delle Grazie” va inteso sotto l’aspetto che Maria Santissima è Colei che porta la Grazia per eccellenza, cioè suo figlio Gesù.
E’ Lei la “Madre della Divina Grazia”. Maria, la Regina di tutte le Grazie, è Colei che, intercedendo presso Dio fa sì che Egli conceda a noi la grazia.
Maria è una madre amorosa, che ottiene tutto ciò che gli uomini necessitano per l’eterna loro salvezza. Ricordiamo l’episodio biblico delle “Nozze di Cana” dove è Maria che spinge Gesù a compiere il miracolo e sprona i servi dicendo loro: “Fate quello che Lui vi dirà“.

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Lungo i secoli, moltissimi santi e poeti hanno richiamato la potente opera d’intercessione che Maria opera tra l’uomo e Dio. Basti pensare a San Bernardo che, nel suo Memorare, scrive “non s’è mai udito che qualcuno sia ricorso a te e sia stato abbandonato“.
Dante, nel XXXIII Canto del Paradiso della Divina Commedia, fa recitare a San Bernardo la preghiera alla Vergine, poi divenuta famosa:

 “ Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre
”.
Tutti ci rivolgiamo alla Madonna delle Grazie con questa supplica:
O Celeste Tesoriera di tutte le grazie,
Madre di Dio e Madre mia Maria,
poiché sei la Figlia Primogenita dell’Eterno Padre
e tieni in mano la Sua onnipotenza,
muoviti a pietà dell’anima mia
e concedimi la grazia
di cui fervidamente Ti supplico.
Ave Maria

Misericordiosa Dispensatrice delle grazie divine,
Maria Santissima,
Tu che sei la Madre dell’Eterno Verbo Incarnato,
il quale Ti ha coronato della Sua immensa sapienza,
considera la grandezza del mio dolore
e concedimi la grazia di cui ho tanto bisogno.
Ave Maria

O Amorosissima Dispensatrice delle grazie divine,
Immacolata Sposa dell’Eterno Spirito Santo,
Maria Santissima,
Tu che da Lui hai ricevuto un cuore
che si muove a pietà delle umane sventure
e non può resistere senza consolare chi soffre,
muoviti a pietà dell’anima mia
e concedimi la grazia
che io aspetto con piena fiducia della Tua immensa bontà.
Ave Maria

Sì, o Madre mia,
Tesoriera di tutte le grazie,
Rifugio dei poveri peccatori,
Consolatrice degli afflitti,
Speranza di chi dispera
e Aiuto potentissimo dei cristiani,
io ripongo in Te ogni mia fiducia
e sono sicuro che mi otterrai da Gesù
la grazia che tanto desidero,
qualora sia per il bene dell’anima mia.
Salve Regina
Dal volto tenero e amabile di Maria
e dalle carezze che la uniscono a Gesù
riceviamo segni e promesse di rasserenamento, di perdono e di grazia!
Al taumaturgo Padre Pio ci rivolgiamo fiduciosi nel Suo aiuto.
La Beata Vergine Maria della Grazia e della Misericordia è meglio conosciuta come la “Madonna delle Grazie”.
Anche se la Chiesa cattolica non ha nel proprio anno liturgico una data specifica per celebrare la festa della Madonna delle Grazie, a Mistretta si festeggia il 2 del mese di luglio.

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Francesco Forgione nacque a Pietrelcina, un piccolo comune vicino a Benevento, il 25 maggio del 1887 da Grazio Mario Forgione e da Maria Giuseppa Di Nunzio.

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La sua era una famiglia di contadini, proprietari di un appezzamento di terra di circa dieci mila metri quadrati. Nacquero otto figli. Francesco era il quarto. I due fratelli, nati prima di lui morirono in tenera età. Anche Mario, l’ultimo nato, morì prematuramente.
I genitori Grazio e Maria non poterono garantire ai propri figli le cure necessarie, né gli studi.
La vita, a Pietrelcina, era scandita dai ritmi imposti dalla coltivazione della terra, dagli obblighi della famiglia, dalla religione. Vivevano una religiosità semplice ma assidua.
Francesco accolse la sua vocazione con naturalezza.
Battezzato il giorno successivo alla nascita nella chiesa di Sant’Anna, gli fu imposto il nome Francesco per desiderio della madre, pia donna devota di San Francesco d’Assisi.
Il 27 settembre del 1899 ricevette i sacramenti della Comunione e della Cresima da Mons. Donato Maria Dell’Olio, arcivescovo di Benevento.
Fin da bambino, esattamente il 1º gennaio del 1903, Francesco sostenne di aver avuto la visione di Maria e di Gesù che lo incoraggiavano e gli assicuravano la loro predilezione per combattere con Satana.
Sogni e visioni, complessi e ricchi di simbolismi, anticiparono gli avvenimenti che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.
Tali esperienze sono note grazie alla considerevole corrispondenza epistolare che il frate ha istituito con il suo direttore spirituale e con il suo confessore. In questa corrispondenza intima egli racconta il suo combattimento con il diavolo affrontato, talvolta, anche fisicamente.
La madre Maria esercitò una grande influenza sulla formazione religiosa del figlio, il futuro frate dell’Ordine dei frati minori cappuccini.
Il giovane Francesco, dovendo aiutare la famiglia a lavorare nei campi, fu impedito nella frequenza regolare delle scuole.
A dodici anni, sotto la guida del sacerdote Domenico Tizzani, cominciò a studiare per svolgere il programma delle scuole elementari.
Fra’ Camillo da Sant’Elia a Pianisi, del convento di Morcone, che periodicamente giungeva a Pietrelcina per raccogliere le offerte, lo spronò a diventare sacerdote.
Il 22 gennaio del 1903, a 16 anni, entrò in convento e, da francescano, vestì i panni di probazione del novizio cappuccino col nome di “Frà Pio”.
Concluso l’anno del noviziato il 22 gennaio del 1904, Frà Pio emise la professione dei voti di povertà, di castità e di obbedienza.
Nell’ottobre del 1905 raggiunse San Marco la Catola per studiare filosofia.
Nell’aprile del 1906 ritornò a Sant’Elia a Pianisi per gli studi ginnasiali.
Padre Agostino scrisse: “Conobbi Padre Pio da frate il 1907, quando l’ebbi studente in Teologia a Serracapriola. Era buono, obbediente, studioso, sebbene malaticcio…”.Pel continuo pianto”, che faceva meditando sulla Passione di Cristo fra Pio “si ammalò negli occhi”.
Il 17 aprile del 1906 frà Pio, già sofferente di “male toracico“, fu ulteriormente colpito da una forte “emicrania” che continuò ad affliggerlo “per tutto il tempo” della permanenza nel convento di Serracapriola impedendogli, spesso, di partecipare alle lezioni scolastiche.
Frà Pio soffrì anche il caldo estivo e scriveva ai suoi: “Carissimi genitori qui si sta un po’ male a cagione del caldo che in questi mesi è un po’ eccessivo in questo paese. Non v’impensierite in quanto a ciò, perché sono miserie che l’uomo non può andarne esente…”.
Completato il primo anno di studi del Corso di Teologia a Serracapriola, Frà Pio proseguì il suo “benessere morale e scientifico” nel Convento di Montefusco dove erano Lettori i Padri: Agostino da San Marco in Lamis, Bernardino da San Giovanni Rotondo, Bonaventura da San Giovanni Rotondo e Luigi da Serracapriola.
Il 27 gennaio del 1907 professò i voti solenni.
Il 18 luglio del 1909 ricevette l’ordine del diaconato nel noviziato di Morcone. Nei mesi di novembre e di dicembre dello stesso anno risiedette nel convento di Gesualdo (AV). Il 10 agosto del 1910 fu ordinato sacerdote nel duomo di Benevento.
Sempre per la sua cagionevole salute, il 7 dicembre del 1911 fece ritorno a Pietrelcina rimanendovi sino al 17 febbraio del 1916.
L’inizio del manifestarsi delle stigmate della Passione di Cristo risale al 7 settembre del 1910 quando, per le sue tante malattie, Frà Pio aveva avuto il permesso di lasciare il convento e di vivere nella sua casa natale a Pietrelcina.
Il 10 ottobre dello stesso anno Frà Pio rispose alle domande di padre Agostino da San Marco in Lamis affermando che avrebbe ricevuto le stigmate, “visibili, specie in una mano”, e che, pregando il Signore, il fenomeno sarebbe scomparso, ma non il dolore che sarebbe rimasto “acutissimo”. “ In mezzo al palmo delle mani è apparso un po’ di rosso, grande quanto la forma di un centesimo, accompagnato da un forte e acuto dolore. Questo dolore è più sensibile alla mano sinistra. Anche sotto i piedi avverto un po’ di dolore “.
Le stimmate resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per oltre cinquanta anni.
Alla sua morte le stimmate scomparvero e la pelle ritornò ad essere rosea e fresca.
Tutti i giorni, dopo aver celebrato la santa messa, si recava in una località, detta Piana Romana, poco distante da Pietrelcina, dove il fratello Michele aveva costruito una capanna dove Frà Pio andava a pregare e a meditare all’aria aperta perché giovava molto ai suoi polmoni malati.
Il fenomeno delle stigmate cominciò a manifestarsi proprio in quel luogo. Si manifestò con maggior intensità un anno dopo, cioè nel mese di settembre del 1911, quando il frate scrisse al suo direttore spirituale.
Nello stesso periodo cominciarono a circolare voci secondo le quali la sua persona aveva cominciato a emanare un “inspiegabile” profumo.
Per qualcuno era profumo di rose, per qualcun altro di violette, di gelsomino, di incenso, di giglio, di lavanda.
Continuamente afflitto da problemi di salute, esonerato dal servizio militare, i suoi superiori pensano di trasferirlo altrove.
Il 17 febbraio del 1916 Fra’ Pio giunse a Foggia, accolto nel convento di Sant’Anna.
Respirando l’aria afosa di Foggia, scrisse al provinciale di poter “passare un po’ di tempo a San Giovanni Rotondo”.
La sera del 28 luglio, accompagnato da padre Paolino da Casacalenda, arrivò per la prima volta a San Giovanni Rotondo, sul Gargano.
Poiché le favorevoli condizioni climatiche giovavano alla sua salute, chiese di poter rimanere in quel luogo a lungo.
Nel convento di Santa Maria delle Grazie, a San Giovanni Rotondo, ebbe inizio per Frà Pio una straordinaria avventura di taumaturgo e di apostolo del confessionale.
Dal 1918 al 1968, senza mai spostarsi dal convento di Santa Maria delle Grazie, Padre Pio ha richiamato folle di persone italiane e straniere che si sono recate nel Gargano per incontrare colui che si definiva “un povero frate che prega”, convinto che “la preghiera è la migliore arma che abbiamo, una chiave per aprire il cuore di Dio”.
Preghiera, celebrazione della Messa, confessione e ascolto dei pellegrini hanno, infatti, costituito la quotidianità del frate per cinquant’anni.
La notizia della comparsa delle stigmate sulle mani di Frà Pio si diffuse rapidamente e San Giovanni Rotondo divenne meta di pellegrinaggio di persone fiduciose di ottenere grazie.
Fu sottoposto ad alcune visite mediche.
Il professore Luigi Romanelli, primario dell’ospedale civile di Barletta, su richiesta del padre superiore Provinciale, nei giorni 15 e 16 di maggio del 1919 fu il primo medico ad esaminare le ferite di Frà Pio.
Due mesi dopo, il 26 luglio, arrivò a San Giovanni Rotondo il professore Amico Bignami, ordinario di patologia medica all’Università di Roma.
Secondo lui, quelle “stigmate” erano dovute a patologie della pelle.
Poiché Il Sant’Uffizio, giudicando Frà Pio un imbroglione, lo sospese dal servizio sacerdotale.
Nel 1920 padre Agostino Gemelli, medico, psicologo e consulente del Sant’Uffizio, dal cardinale Rafael Merry del Val fu incaricato di eseguire “un esame clinico delle ferite” di Frà Pio.
Padre Agostino Gemelli espresse la volontà di incontrare il frate.
Padre Pio si rifiutò di sottoporsi a visita medica senza l’autorizzazione scritta del Sant’Uffizio.
Furono vane le proteste di padre Agostino Gemelli, che vantava il diritto di effettuare l’esame medico delle stigmate.
Irritato dal comportamento di Frà Pio, Padre Gemelli lasciò il convento ed espresse la diagnosi:
“ È un bluff… Padre Pio ha tutte le caratteristiche somatiche dell’isterico e dello psicopatico… Quindi, le ferite che ha sul corpo… Fasulle… Frutto di un’azione patologica morbosa… Un ammalato si procura le lesioni da sé… Si tratta di piaghe, con carattere distruttivo dei tessuti… tipico della patologia isterica” e, più brevemente, lo chiamò “psicopatico, autolesionista ed imbroglione“.
Quello di Padre Agostino Gemelli è stato il più autorevole parere scettico sulle ferite di Frà Pio.
Il suo parere influenzò anche il giudizio di papa Pio XI dopo che Benedetto XV più volte aveva mostrato fiducia nei confronti del frate.
Il parere di Agostino Gemelli avvalorò le accuse di un gruppo di calunniatori guidati dal vescovo di Manfredonia Gagliardi.
Proprio tali accuse spinsero la Santa Sede a pronunciarsi.
Dal 1922 il sant’Uffizio impose misure restrittive nei confronti del frate cappuccino mettendo in dubbio che
quei segni fossero di origine soprannaturale.
Padre Pio dovette cambiare direttore spirituale, gli fu impedito di scrivere lettere e di mostrare le stimmate. In seguito, dovette limitare le celebrazioni eucaristiche a trenta minuti e in forma sempre più privata.
Accettò questi provvedimenti, sicuramente non indolori e senza ostilità, con piena obbedienza.
Il 31 maggio del 1923 arrivò il decreto con l’esplicita condanna di padre Pio.
Il Sant’Uffizio dichiarava il non constat de supernaturalitate circa i fatti legati alla sua vita ed esortava i fedeli a non prestargli fede e a non andare a San Giovanni Rotondo.
Il 23 maggio del 1931 un altro decreto vietò l’esercizio di confessare e di celebrare la santa messa in pubblico a lui che, nella celebrazione della messa, si immedesimava totalmente nel sacrificio eucaristico.
Il mistero della Passione lo attraeva profondamente e il suo desiderio profondo era quello di partecipare il più pienamente possibile all’esperienza della sofferenza e dell’ Amore di Cristo.
In una lettera scrisse: “Tutto ciò che Gesù ha sofferto nella sua Passione in modo inadeguato lo soffro anch’io, per quanto ciò sia possibile a una creatura umana. E questo nonostante i miei pochi meriti e solo per sua bontà”.
Le restrizioni nei confronti di Padre Pio rimasero in vigore fino al 1933 quando sono stati revocati e i fedeli ricominciarono a recarsi da lui per pregare e per confessarsi.
Si narra che Frà Pio rimaneva dentro il confessionale anche 16/18 ore al giorno per ascoltare le persone.  A San Giovanni Rotondo accorreva molte gente, anche personaggi famosi.
Giunsero: Maria José del Belgio, i reali di Spagna, la regina del Portogallo in esilio, Maria Antonia di Borbone, Zita di Borbone-Parma, Giovanna di Savoia, Ludovico di Borbone-Parma, Eugenio di Savoia e tanti altri.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la popolarità di Padre Pio come “santo vivente” iniziò a diffondersi rapidamente complici le mutate condizioni socio-culturali del paese, il miglioramento della rete stradale, la progressiva trasformazione del frate in personaggio mediatico.
I visitatori giungevano a San Giovanni Rotondo sempre più numerosi.
Frà Pio, spinto dal desiderio di partecipare alla sofferenza del Crocifisso e di alleviare il dolore dei suoi fratelli contemporanei, il 9 gennaio del 1940, con il denaro raccolto attraverso le offerte dei fedeli, iniziò la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza,una struttura ospedaliera di eccellenza in grado di curare gratuitamente i più poveri. La Casa La Sollievo della Sofferenza fu inaugurata il 5 maggio del 1956.
I pellegrini gli attribuirono il merito di alcune conversioni e guarigioni “inaspettate“, grazie alla sua intercessione presso Dio.
Il 30 luglio del 1964, il Papa Paolo VI comunicò ufficialmente, tramite il cardinale Ottaviani, che a Padre Pio da Pietrelcina era restituita ogni libertà nel suo ministero.
Concesse anche l’Indulto per continuare a celebrare, anche pubblicamente, la Santa Messa secondo il rito di San Pio V, sebbene dalla Quaresima del 1965 fosse in attuazione la riforma liturgica.
Contemporaneamente, molteplici attività finanziarie gestite da Padre Pio passarono in gestione alla Santa Sede.
Alle ore 2:30 del lunedì del 23 settembre del 1968, a San Giovanni Rotondo Padre Pio morì all’età di 81 anni.
Oltre centomila persone, giunte da ogni parte d’Italia, parteciparono ai funerali.
I suoi resti mortali furono sepolti all’interno del convento.
Un pensiero di Padre Pio: “Non ti meraviglierai affatto delle tue debolezze ma, riconoscendoti per quella che sei, tu arrossirai della tua infedeltà a Dio ed in Lui confiderai abbandonandoti tranquillamente sulle braccia del Celeste Padre, come un bambino su quelle della propria madre“.
Nel 1969 iniziarono le pratiche giuridiche per il processo di beatificazione.
Furono ascoltati molti testimoni e raccolti 104 volumi di disposizioni e documenti.
Nel 1979 il materiale raccolto fu inviato a Roma al vaglio degli esperti del Papa.
Il procedimento che portò alla canonizzazione ebbe inizio con il nihil obstat del 29 novembre del 1982.
Il 20 marzo del 1983 iniziò il processo diocesano per la sua canonizzazione.
Il 21 gennaio del 1990 Padre Pio fu proclamato “venerabile”.
Il 2 maggio del 1999 fu dichiarato “beato”.
Il 16 giugno del 2002 papa Giovanni Paolo II lo proclamò “santo” con una solenne liturgia di canonizzazione che si svolse in piazza San Pietro a Roma.

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Papa Giovanni Paolo II fu l’unico papa ad avere conosciuto personalmente Padre Pio e ad avere invocato e ottenuto dal santo la guarigione della collaboratrice Wanda Poltawska.
Tutti lo conosciamo come “San Pio da Pietrelcina”.
La sua festa liturgica è celebrata il 23 settembre in memoria del giorno della sua morte.

 

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Moltissimi sono i segni miracolosi a Lui attribuiti: le stigmate, il dono della bilocazione, la profezia, la lettura dei cuori, la percezione, da parte dei fedeli, di intensi profumi.
A Padre Pio si attribuiscono molti miracoli.
Nota è la guarigione del piccolo Matteo Pio Colella, un bambino di sette anni di San Giovanni Rotondo.
Il 20 gennaio del 2000, mentre era a scuola, Matteo si sentì male. Condotto a casa sua, il suo malessere peggiorò. Accompagnato dal padre in ospedale, gli fu diagnosticata la meningite cerebro-spinale allo stadio terminale. Ricoverato in rianimazione, la salute del bambino peggiorava.
Genitori, medici, infermieri, rivolsero le loro preghiere a Padre Pio.
Matteo, miracolosamente, cominciò a migliorare e il 25 febbraio fu dimesso dall’ospedale completamente guarito.
La Consulta medica della Congregazione delle cause dei santi, il 22 novembre del 2001 dichiarò che “La guarigione, rapida, completa e duratura, senza postumi, era scientificamente inspiegabile“.
Il decreto sul presunto miracolo di Matteo fu promulgato il 20 dicembre del 2001 alla presenza di Papa Giovanni Paolo II che, come già detto, procedette alla canonizzazione il 16 giugno 2002.
Il 19 aprile del 2010 la salma di Padre Pio è stata traslata nella cripta della nuova Chiesa di Padre Pio costruita dopo la sua canonizzazione.
Dal 1º giugno del 2013 la salma è permanentemente esposta alla pubblica venerazione.

Preghiera a Padre Pio
Io sono debole
ho bisogno del tuo aiuto, del tuo conforto,
Ti prego
fai la benedizione a tutta la gente,
ai miei amici, alla mia famiglia, anche me.
Manda la luce santa,
la luce di Dio per illuminare le nostre anime,
la nostra mente,
i nostri pensieri…
a chi posso rivolgermi se non a te?
So che intercedi sempre presso il Signore
per tutte le anime che sono in un periodo negativo,
chi ha una malattia
chi una delusione, uno sconforto terreno o spirituale,
tu sei lì
vicino a quell’anima
che brama un aiuto nella sua sofferenza.

Sono certo
che chi prega con fede,
anche se piccola come un granellino di sabbia
Tu per conto di Dio
puoi operare meraviglie.
E quelle meraviglie
sono nelle grazie
che Gesù e la Mamma nostra nei cieli
ci inviano dai loro Sacratissimi Cuori
dal Loro Amore
dallo Spirito Santo che è in ognuno di noi
e che accoglie
tutto ciò che è buono per l’anima.

Padre Pio
cerco il tuo amore
la tua intercessione
per la grazia che ardentemente desidero (….)
Intercedi per me,
Dio può tutto
ed io confido nel Padre dei Cieli
nel Padre dei nostri cuori
perchè attraverso di Te
sono sicuro della Grazia che
per tua intercessione mi otterrai”
. Amen

 

LA CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE E DI SAN PIO A MISTRETTA

 

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 La chiesa della Madonna delle Grazie e di San Pio da Pietrelcina è una costruzione moderna. Risale al XX secolo,

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ed è stata edificata quando molti mistrettesi si sono spostati dal centro verso la periferia, ed esattamente in contrada Neviera, dove si è maggiormente espanso il paese dopo il terremoto del 1967. In cima al colle sovrasta la chiesa “u Lettu santu” di Mistretta.

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 E’ sorto un luogo di culto necessario per gli abitanti di quei quartieri periferici di Giancavaliere, di San Pantaleo e Stufània, che complessivamente contano oltre 1500 abitanti, sull’area donata dal signor Paolo Iacono e sul progetto realizzato dall’ingegner Francesco Ingrassia che concepì il suo impianto a croce greca con bracci liberi alla cui intersezione s’innalza un tiburio ottagonale con cuspide a padiglione.
La prima pietra della chiesa fu posta il primo luglio 1979 dal vescovo del tempo Mons. Carmelo Ferraro che l’ha inaugurata il 20 settembre del 1987.

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Dopo la ristrutturazione e la realizzazione dell’altare e dell’ambone, la chiesa è stata intitolata alla Madonna della Grazie e a San Pio da PIetralcina dal vescovo mons. Ignazio Zambito il 27 novembre del 2003.
L’architettura esterna, a mio avviso, è simile al Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa ed è formata da corpi legati tra loro. Le tante e le lunghe e strette finestre danno un effetto scenico d’elevazione.

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La struttura è a croce greca.

9a vista della navata principale ok

9b vista trasversale dei due bracci ok

La cupola, terminante con una struttura piramidale e dalle dimensioni ridotte e non proporzionali alla grandezza della chiesa, dà il senso dell’umano compresso e sottomesso.

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 L’architettura interna del tetto cubiforme e i fasci di luce a croce danno la percezione della modernità.

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L’arredo interno è molto scarso. Nel modernissimo altare maggiore del presbiterio, in pietra dorata di Mistretta con mensa monolitica,

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 la statua lignea del Divino Cristo Risorto libera l’Umanità da tutti i mali terrestri.

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Il Tabernacolo

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L’altare in pietra

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 Lateralmente a sinistra la Statua policroma di Padre Pio, della seconda metà del XX secolo, benedice i fedeli.

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Lateralmente a destra, nell’altare di S. Maria delle Grazie, la statua policroma della Madonna, di rosa vestita, dell’inizio XXI secolo, abbraccia il Bambino.

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Nell’altarino della Madonna di Fatima la statuetta policroma, della fine secolo XX , di bianco vestita, prega con le mani giunte per la salvezza del genere umano.

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Decorata modernamente è l’acquasantiera

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 Nella sinistra della chiesa sono custoditi gli originali giganti Cronos e Mitya che accompagano la Madonna della Luce

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Oggi 21 giugno 2017, solstizo d’estate, il Corpus Domini arriva nella chiesa

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Jun 19, 2017 - Senza categoria    Comments Off on PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE “Ri ranni uògghiu fari u picciriddu” “ Intra nni mia si pallava u sicilianu” DEL POETA GAETANO SPINNATO

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE “Ri ranni uògghiu fari u picciriddu” “ Intra nni mia si pallava u sicilianu” DEL POETA GAETANO SPINNATO

Per gli innumerevoli eventi culturali che si verificano a Mistretta quasi tutto l’anno, luoghi confortevoli e disponibili sono: il palazzo della cultura Mastrogiovanni-Tasca, anche sede della biblioteca comunale, il Circolo Unione, la Società Fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso, la Società Agricola, la Società Operaia, il Liceo Classico “Alessandro Manzoni”.
Giovedì, 1 Giugno 2017, presso la sede del Liceo Classico “Alessandro Manzoni” di Mistretta, nella prestigiosa Aula seminariale intitolata alla prof.ssa “Graziella Idolo”, è stato presentato il libro di poesie “Ri ranni uògghiu fari u picciriddu” “ Intra nni mia si pallava u sicilianu”. Edito da Youcanprint.
Autore è il poeta e scrittore dialettale amastratino Gaetano Spinnato
Gaetano Spinato ha già pubblicato un libretto di racconti dal titolo “ L’odore del tempo”, una raccolta di proverbi in uso a Mistretta dal titolo “A mièrcu cunfusu”, il  libro di poesie in lingua italiana dal titolo “Il vento tra i papaveri”.
Ri ranni uògghiu fari u picciriddu” “ Intra nni mia si pallava u sicilianu” costituisce la sua prima raccolta scritta in dialetto siciliano.

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Gaetano ad un anno d’età

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L’evento è stato organizzato dall’Associazione Kermesse d’Arte in sinergia con la Presidenza dell’I.I.S “Alessandro Manzoni“e con  il Centro Culturale Big Bang Materoma.
Sono intervenuti: la prof.ssa Antonietta Amoroso, dirigente Scolastico, il Prof. Sebastiano Lo Iacono, relatore,  il sig. Dino Porrazzo, presidente dell’Associazione Kermesse d’Arte, Gaetano Spinnato, il poeta.

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Ha introdotto i lavori  la prof.ssa Antonietta Amoroso, che ha ringraziato il Presidente dell’Associazione Kermesse d’Arte, il signor Dino Porrazzo, che ha anche coordinato i lavori, per avere scelto la sede del Liceo Classico “Alessandro Manzoni” per questo importante evento qual è per la presentazione del libro di Gaetano.

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Da sx: Sebastiano Lo Iacono, Gaetano Spinnato, Antonietta Amoroso, Dino Porrazzo

Il vicesindaco e assessore alla cultura, avv. Vincenzo Oieni, dopo aver portato i saluti del sindaco, avv Liborio Porracciolo e dell’Amministrazione Comunale, nel suo intervento ha messo in luce il valore del dialetto siciliano nella nostra tradizione popolare, ha incoraggiato i giovani, soprattutto gli studenti, a non dimenticare la nostra sicilianità arricchendo la lingua di antichi vocaboli attraverso la lettura del testo  del poeta e scrittore Gaetano Spinnato.
Gaetano Spinnato è nato a Mistretta, dove vive e lavora svolgendo scrupolosamente il suo lavoro di infermiere professionale nell’Ospedale “SS.mo Salvatore”.

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Appassionato di cultura e tradizioni popolari, Gaetano scrive racconti e poesie in lingua italiana e in dialetto siciliano.
Ampia relazione sulla poesia e, in particolare sulla poesia di Gaetano Spinnato, è stata esposta dal prof. Sebastiano Lo Iacono nella sua presentazione al libro e integralmente trascritta.
Il dialetto che si fa carne  in cammino verso il centro del Sé:
Gaetano Spinnato sente la sua-propria lingua-dialetto primaria prima che dialetto e lingua diventino suono/phoné, grafia/grafema, scrittura. C’è una lingua-dialetto prima della lingua dialetto che chiamerei pre-lingua: quella in cui si nasce, in illo tempore, e che risale al tempo del mito, dell’infanzia e delle radici materne-paterne. Questo tempo astorico, fuori dalla storia, è ancora tempo attuale-esistenziale; sicché quell’illo tempore è ancora il tempo di qui e di ora: il tempo dell’hic et nunc, dove l’esserci è esserci ancora.  Il mito, difatti, è il semprepresente.
Le poesie, e alcuni racconti di Spinnato che precedono questa raccolta di versi in dialetto siciliano di Mistretta, e aldilà della occasione, di cui mi ha onorato e gratificato, di farne una presentazione, suscitano la sensazione e la convinzione seguenti: quelle di una lingua primaria prima della lingua, nonché quella dell’esistenza di un linguaggio antecedente a ogni formalizzazione-codificazione del linguaggio che ci parla e che si parla o si scrive prima che ogni parola diventi suono e poi scrittura.
Stessa impressione estetica suscitava la collezione di antiche parole, modi di dire e proverbi della cultura famigliare, contadina e popolare che lo stesso Spinnato pubblicò, qualche tempo fa, intitolandola “A mièrcu cunfusu”.
Anche lì il dialetto precorre la scrittura e se diventa scrittura è solo un accidente casuale, essendo che quel linguaggio è linguaggio delle radici, dell’anima, della patria dell’anima prima di diventare linguaggio cosciente cognizione della coscienza del linguaggio codificato.
C’è, ordunque, in Spinnato un codice linguistico che parte dall’interiore più intimo e che, volendo, potrebbe fare a meno di ogni grammatica, essendo che le trame dell’anima e il brodo primordiale della lingua non hanno bisogno di grammatica e sintassi.
La sua scelta di corredare le composizioni in dialetto con la versione in italiano, cosa da accettare e rispettare, va accompagnata dalla modesta avvertenza da parte di chi “non condivide, ma si adegua”, e che si è limitato esclusivamente alla trascrizione ortografica e fonetica quanto più possibile corretta.
Spinnato attinge al parlare materno-paterno con un’intensa vis poetica che commuove: essendo che commuovere ha alcunché in comune con patire e com-patire e che patire deriva da pathos, termine che indica non uno stato di sofferenza, bensì una condizione del sentire empatia con le parole che si fanno corpo, carne, sangue e anima, in una dimensione anteriore che precede il diventare segno ovvero significante di un significato.
Andrea Camilleri, scrittore e regista di teatro, televisione e radio, e Tullio De Mauro (quest’ultimo recentemente scomparso, con grave perdita per la cultura italiana), docente di Filosofia del Linguaggio e Linguistica, citando Luigi Pirandello, hanno scritto che lo scrittore e drammaturgo agrigentino affermava che «la parola del dialetto, essendo sempre la lingua degli affetti, è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto>>.
Avviene così in Gaetano Spinnato, il cui dialetto fa diventare cose concrete e carnose le stesse parole allorché le parole esprimono cose e sentimenti.  Anche Juan Ramón Jiménez, scrittore spagnolo, premio Nobel 1956, aggiungeva così:

«Que mi palabra sea la cosa misma».

Con accostamento ardimentoso si può richiamare il «Verbo che si è fatto carne3» del Vangelo di Giovanni, poiché in Spinnato, difatti, il dialetto si fa carne e ci abita dentro, ovvero in  a; direi meglio: è carnoso, perché, in quanto tale, è sentire, patire, compatire, sentireinsieme, empatia e, infine, struggimento nostalgico per un dialetto dell’esserci che ormai non c’è più: che c’era e ci fu e che, giorno dopo giorno, viene ucciso dai parlanti e dai linguaggi che dominano gli strumenti, osceni e triviali, della contemporaneità mass-mediale.
Le parole morte sono la morte delle parole: sono le parole senza vita, di cui Spinnato è cosciente e a cui egli tenta disperatamente di ridare vita o forse una parvenza di vita.  Stesso compito immane tentò di fare, e ci riuscì magistralmente, Enzo Romano nelle poesie, nei racconti, nelle fiabe e nelle indagini etnologiche ed etnografiche sul campo.
Ci riesce altresì Spinnato che possiede una poeticità innata ovvero congenita, che nasce dal sentire le parole come cose, sangue e carne, prima ancora che come suono, fonema e grafema.
Le parole di Spinnato sono le mie/le nostre parole: appartengono a quello che egli chiama vocabolariu râ terra.
Questo lessico della terra, che è fatto di parole del mondo famigliare, contadino e pastorale (panza satr
a, minni tisi, manu ca ddusi, mussi chjaiàti, carcàra, çiaur’i pani c’acchjana râ vanedda, sceccu rû viddanu, ramàgghje, cannistru, faìddi, surcu, piratuòzzu, ecc.), al cui centro del centro, per così dire, emerge il rito quasi religioso della madre che impasta il pane e che, appena sfornato, lo bacia, è stato liquidato e ucciso, senza che ce ne siamo resi conto, davanti l’altare non sacro della televisione, dove si consumava, nelle comunità familiari, un altro rito profano: quello allorché quel mondo, fatto di cose piccole (genti nica cu picca  pani, picca sordi e tanto cuore), si disponeva a seguire Carosello.
Spinnato risente il dolore della nostalgia verso quell’universo contadino, dove il piccolo e il poco erano buoni e belli: il padre che torna dalla campagna con un “tuòzzu” di pane “nnâ sacchetta”, che se “ppicca era, ancora cchjù ppicca cci-abbastava”, e la leggerezza dell’essere delle “cosi nichi pî ggenti nica e cu picca çiàtu”.
Gaetano Spinnato non scrive per fare letteratura: scrive per dire le parole della nostra carnalità dialettale che sono impastate di terra contadina.
Facendo una comparazione si può asserire che il dialetto di Spinnato è carnoso e -ripeto- pre-linguistico; quello della oralità di Vincenzo Rampulla, noto poeta popolare Mistretta, appare più essenziale e scarno; mentre quello di Enzo Romano, altrettanto noto nella koinè mistrettese come poeta, scrittore e antropologo, è stato, nella perfetta riproduzione della oralità-phoné, più raffinato (nel senso di depurato, fine, purificato), senza nulla togliere a quello di Spinnato, che è conglutinato alla sua essenza di parlante un dialetto demotico con connotazioni da lessico famigliare.  Lo conferma egli stesso, allorché scrive, nel sottotitolo di questa raccolta di versi «intra
nni mia si pallava u sicilianu», laddove «intra» va intesa come locuzione che sta per casa, famiglia, nucleo familiare, luogo fisico domestico, ma anche centro principale della vita, culla.
Non a caso Spinnato scrive le parole ma
tri e patri  con la maiuscola.
È dentro questo habitat che nasce la poesia degli affetti famigliari di Spinnato, anche laddove dice alla figlia «rimmìllu quantu mi vò-bbeni», chiedendole, in maniera per così dire retorica, di non nascondere («nun’ammucciari») un amore che dilata cielo, terra, mare e che partì dal primo abbraccio, caldo come quello che c’è nel grembo prima materno e poi sotto il mantello del principe paterno: poiché è qui che i figli diventano le cose primarie, come primario è il parlare in dialetto, essendo che siamo figli di una lingua madre e paterna: e se siamo figli, parafrasando ancora da un altro contesto più notevole, «siamo anche eredi», cioè discendenti e altresì depositari di una lingua che non andrebbe sepolta definitivamente, come avviene per effetto dello straniamento-spaesamento linguistico determinato dal fenomeno dell’emigrazione-immigrazione e dell’omologazione linguistica dei parlanti.
Il dialetto di Spinnato odora di pane di casa e vastedd
e: quindi prima di essere voce è altresì aroma, profumo di terra, di campagna, di funghi, di cicorie, di fiori gialli del cavulazzu; quindi ancora prima di essere melodioso, essendo -come dicevo- carnoso- è anche odoroso.
Profuma -paradossalmente- di parole defunte che chiedono rinascita ovvero risurrezione.
Il dialetto, in quanto tale, è anche musica, è acqua della memoria; non è ignoranza; non è più usato, come un tempo, in quanto codice di stampo demotico, dalle cosiddette ggentiscarsi, rispetto alle cosiddette ggentibbuòni (che parlavano l’italiano); il dialetto non si connota e non ci denota più come classe sociale inferiore; il dialetto è pietra, è cultura, è ritornare all’infanzia onde ripristinare la condizione edenica di un paradiso perduto: quella di essere, ri-essere e rinascere ancora picciriddu
: sicché nella figura retorica dell’ossimoro contenuta nel titolo (ri ranni uògghju fari u picciriddu) c’è tutto il senso di un fare poesia che intende contenere il massimo nel minimo, il grande nel piccolo, il futuro nel passato, il niente nel tutto e non viceversa.
Il picciriddu rispetto all’adulto è come la luce rispetto al raggio di luce o come il raggio di luce rispetto all’oscurità.
Ma il picciri
ddu ha questo potere fondante perché va rifondato continuamente dentro di noi e poiché ha ricevuto fondamento ontologico e sicurezza di figlio-bambino non in sé stesso, bensì nelle figure della Madre e del Padre (non a caso -ripeto- scritti con la maiuscola). Dentro il mantello del principe, che è il padre, il picciriddu è divenuto ora anch’egli padre per la madre anziana.
Essere padre per la madre di cui si è stati figli, come scrive Spinnato, è direi stupendo e quasi sublime: «ora ri figghju t’add
ivintai Patri… Matri Mia».
La lingua dell’infanzia di Spinnato è fatta di onomatopee («Cilì… Cilì… Cilì… Ciliiitra»: tipico richiamo per le galline (che c’è in Enzo Romano, e che Spinnato riprende), lallazioni, giochi fonetici e consonantici, che appartengono, appunto, alla fase prelinguistica non solo dei neonati, bensì di tanti poeti dialettali, la cui lingua è lingua melodica, e dove il canto serviva anche a cullare, addormentare, favorire il sonno e i sogni.
E se il mondo è attraversato dalla fiumana del “cattivo presente” (guerre -ce ne sono attualmente in corso 35-, bombe nella Terra dove nacque Gesù, bambini-soldato, emigrazione, povertà, sottosviluppo, dramma epocale dei profughi: fenomeni di cui nei versi di Spinnato c’è la coscienza e l’interiorizzazione soggettiva) c’è da fare un sogno insieme, affinché sognare non sia inutile e affinché le parole trasmesse ed ereditate possano ritornare a rinascere come parole bambine, non più parole in croce per la Croce, bensì parole di speranza per la speranza:

«Vitti n-mmunnu nìuru cuòm’a pici;
canuscìi cristiani chi chjanciènu muòrti senza cruci,
picciri
ddi cuòmu çiuri mai liàti,
appizzati ê minni sicchi ri so matri.
Verri e sciarri tra puopuli e famigghje,
malatie assicutati ri na luntana miricina.

Nun zunu cannuna e-bbumme l’armi chjù putenti;
ri l’odiu u cori s’av’a
ddisarmari nnî la genti.
Nun zervi sunnari quannu u suònnu è sularinu;
u suònnu ri unu sulu n’eri nenti:
sunnari tutti nzièmi eri mpurtanti.
E mi sintìa u cori ncutr ugnutu.
… U munnu m-po’ canciari quann’u cori
rormi senza chi si ferma… e iu u cori l’avìa pirdutu.

Picciuttieddu, iu n zugnu cchjùe nenti… u tièmpu mi vincìu.
Ma chi palori chi ora passai a-ttia,
attruvai u cori, a spiranza… mi turnau a puisia».
Sono questi di cui sopra i versi e queste le parole che Spinnato immagina di ricevere in consegna come eredità di un’eredità da un anziano patriarca, incontrato nelle montagne dei Nebrodi, forse il noto Rrimìtu di contrada Funtanamurata, che coltivò il dialetto e la poesia orale, come Gaetano Spinnato coltiva e zappa le stesse parole perché sono parole che sanno di terra e di poesia.
Il dialetto di Gaetano Spinnato, dunque, è un ritornare in
tra nni mia ovvero dentro se stessi, è un rientrare; è ancora un cammino verso il dentro che è un cammino verso il centro, il cosiddetto Sé più profondo, ovvero ancora il cuore, ossia l’interiorità, altresì l’omphalòs dell’esserci nel mondo: intra, rintra, dentro e centro sono il luogo dell’esistenza autentica: al di fuori di queste centralità c’è, invece, l’esistenza inautentica, frammentata e alienata dal centro, tipica dell’uomo contemporaneo, cosiddetto post-moderno; sicché ritornare alle parole antiche è un rimpatriare  non indietro nel tempo astorico del trapassato remoto, essendo fattualmente impossibile (picchì u tièmpu, cuòmu n çiumi nchjna, chjurìu tanti porti), bensì un ritornare alla verità che può divenire futuro anche storico, cioè mondo da trasformare; è un ritornare senza ritorno al bambino che si è e che siamo stati, cioè al picciriiddu che sta al centro del nostro esserci autentico.  È lo stesso percorso indicato da Blaise Pascal allorché parla di «s’abêtir», cioè farsi semplice d’animo, come interpretano e traducono autorevoli commentatori del filosofo, cioè ancora un «retourner à l’enfance, puor atteindre les vérités supérieures qui sont inaccessibles à la courte sagesse des demi-savants»: andare oltre la ragione dei mezzi-sapienti, non contro la ragione; ed è da qui -dalle ragioni della poesia e del cuore- che si diparte la nostalgia del Paradiso perduto di Gaetano Spinnato: che può essere ritrovato ritornando picciriddi.

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Emozionato, ma entusiasta per le lodevoli parole, alle quali ormai è abituato, Gaetano ha ringraziato la prof.ssa Antonietta Amoroso per la calorosa accoglienza nell’avere messo a disposizione  la sala “Graziella Idolo”, il prof. Sebastiano Lo Iacono, per la sua erudita relazione, il presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte Dino Porrazzo, per avere promosso l’evento, l’assessore alla cultura Vincenzo Oieni, per le sue stimolanti asserzioni, i numerosi amici presenti che hanno calorosamente applaudito.

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Foto di Emanuele Coronato

 “ A sdata rù lagnudu” è la poesia letta dall’autore

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Il giornalista Giuseppe Salerno, su “Nebrodi News”, ha scritto: ”Da ciascuna poesia di Gaetano Spinnato emerge un posto speciale, un piccolo mondo perfetto, quello che ha visto per primo ed amerà per tutta la vita: il posto dove è nato e cresciuto. Posto del quale il poeta conosce ogni suono e ogni profumo, che lo affascina e lo rassicura. In cui ogni cosa parla il suo stesso linguaggio, per molti incomprensibile, che lui comprende e racconta straordinariamente perché gli appartiene.
E’ la sua città. La nostra città. E’ Mistretta!

Gaetano Spinnato, per quanto riguarda la selezione dialettale, ha riscosso numerosi successi partecipando a vari concorsi letterari di poesia e di narrativa a livello regionale e nazionale.

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 Ripetutamente i racconti di Gaetano Spinnato, scritti in dialetto siciliano, sono stati apprezzati e premiati dalla Giuria del Concorso Letterario “Maria Messina”  istituito dall”Associazione “Progetto Mistretta” e giunto alla XIV edizione.

Jun 18, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LIGUSTRUM JAPONICUM AUREO-MARGINATUM E LIGUSTRUM LUCIDUM

LIGUSTRUM JAPONICUM AUREO-MARGINATUM E LIGUSTRUM LUCIDUM

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L’arbusto, in generale, è una pianta perenne legnosa che, a differenza dell’albero, non supera i tre metri d’altezza. Presenta la caratteristica ramificazione che origina dalla base, per cui diversi rami equivalenti partono dal suolo e manca, quindi, il vero fusto.
A seconda della consistenza dei rami si distingue: il frutice, che ha rami lignificati, e il suffrutice che ha rami parzialmente erbacei. Nei boschi e nelle foreste l’arbusto occupa uno strato compreso tra la copertura degli alberi e la vegetazione erbacea del suolo.
Nella villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta le specie arbustive presenti sono molto numerose: Il Ligustro, il Laurus nobilis, il Calycanthus fragrans, il Viburnum tinus, l’Arbutus unendo, il Morus nigra, il Rosmarinus officinalis, la Salvia officinalis, la Lavandula spica, il Nerium oleander, il Pittosporo tobira, il Buxus sempervirens, il Myrtus communis, il Solanum capsicastrum, sono solo alcuni esempi. Quando fioriscono, questi arbusti animano di vivaci colori l’ambiente circostante.

Il Ligustro è un arbusto sempreverde appartenente alla Famiglia delle Oleaceae e originario del Giappone.
E’ una pianta comune in tutta la fascia temperata eurasiatica e in Italia.
Presenta un portamento eretto raggiungendo un’altezza media di due, tre metri.
Nel giardino di Mistretta sono presenti: la varietà aureo-marginata, dalle foglie dorate, sito  nella stessa aiola del Viburnum tinus

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  e la varietà ovalifolium, dalle foglie ovali, nel viale di sinistra, addossato al muro dell’ex carcere mandamentale.

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Il Ligustro possiede un apparato radicale esteso e poco profondo, spesso dotato di stoloni, veri e propri fusti sotterranei che danno origine a più esemplari concentrati nella stessa zona.
Presenta un fusto spoglio alla base, provvisto di corteccia grigia con numerose lenticelle di piccole dimensioni, e rami giovani molto flessibili.
Essendo riccamente ramificato, è caratterizzato da una chioma cespugliosa, ampia, fitta ed ombrosa.

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Le foglie, intere, lucide nella pagina superiore e di colore verde scuro, più chiare nella pagina inferiore, sono opposte, lanceolate le superiori, ovali le basali, con il margine lineare e continuo. Sono sostenute da un breve picciolo.

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I fiori, ermafroditi, piccoli, portati in pannocchie piramidali terminali lunghe 10-20 cm, hanno la corolla formata da 4 petali di colore bianco o crema.  Diffondono una profumazione intensa e dolciastra.

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 Molto copiosa è la fioritura nel mese di giugno.  I frutti sono delle bacche scure e lucide, ovoidali e oblunghe.

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Spesso gli uccelli, cibandosi di esse, contribuiscono alla sua diffusione trasportando i semi lontano.
La riproduzione avviene per seme e per talea che radica perfettamente.
Per la sua decoratività, il Ligustro trova impiego nei giardini pubblici, nelle ville, ai  fianchi delle strade e dei viali.
Poiché sopporta molto bene il taglio della potatura, che può essere effettuato in qualsiasi periodo dell’anno, il Ligustro è adatto per la creazione di siepi che si potano preferibilmente due volte l’anno, in maggio e in settembre.
Il Ligustro è una pianta rustica, di facile coltivazione, non ha esigenze particolari per quel che concerne l’esposizione e la natura del terreno e, per uno sviluppo equilibrato, è consigliabile collocarlo in un luogo dove possa ricevere almeno alcune ore di sole diretto posto su un terriccio soffice e profondo, molto ben drenato.
Le annaffiature devono avvenire saltuariamente bagnando a fondo il terreno.
E’ molto resistente ai climi freddi, sopporta temperature minime molto rigide, quindi è ben inserito nell’habitat del giardino mistrettese.
Nella pianta di Ligustro sono presenti sostanze tossiche come la ligustrina.
Le bacche, se ingerite, provocano infiammazioni gastroenteriche.
La cute è irritata dal contatto con le foglie.
Nella medicina popolare, le foglie, in decotto e anche sotto forma di gargarismi, per le loro proprietà astringenti, tradizionalmente erano usate per combattere i gonfiori, gli ascessi, le ulcerazioni della bocca  e le infiammazioni alla gola.
Anticamente erano usate per preparare particolari inchiostri blu per penne stilografiche.

 

Jun 10, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL VIBURNUM TINUS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL VIBURNUM TINUS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Dopo avere subito una notevole potatura la trascorsa primavera, le piante di Viburno, site nell’aiuola del viale di destra entrando dal cancello della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” a Mistretta, finalmente hanno emesso le nuove gemme.
La temperatura è stata molto clemente aiutandole a riprendersi dallo shock subito dal taglio delle forbici.

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https://youtu.be/-jYfReJrjSU

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Il termine latino “viere”, “intrecciare” pare che si riferisca all’estrema flessibilità dei rami del Viburno, che già i romani usavano per intrecciare gli scudisci, i frustini di legno o di cuoio con i quali addomesticavano i cavalli.
Comunemente il Viburno è chiamato “Lentaggine”,” Palla di neve”, Laurotino”.
E’ una pianta originaria delle zone temperate dell’emisfero Nord, dell’Africa settentrionale, dell’Asia, di Giava, delle Indie occidentali, dell’America meridionale. Ne esistono circa 120 specie.
Il Viburnum tinus è un piccolo albero arbustivo, perenne, alto non più di due metri, appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae.

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Si presenta con rami sottili, leggermente ricurvi e con una chioma espansa e sempreverde.
Le foglie, picciolate, semplici, più o meno ovali, con l’apice appuntito e con la base rotondeggiante, con margini dentati, in varie tonalità di verde, con superficie liscia, quasi vellutata e sempre segnata da nervature assai evidenti, sono molto decorative.
Esse rimangono sui rami anche in inverno assumendo colorazioni molto belle.
La pagina superiore è di un bel verde scuro e lucido, la pagina inferiore, più chiara, è caratterizzata da un tomento rossastro in corrispondenza delle nervature principali.

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I fiori sono piccoli, bellissimi, poco profumati, formati da cinque petali, rosa in bocciolo e bianchi una volta aperti, a mazzetti, riuniti in infiorescenze terminali ombrelliformi.

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 La loro forma può variare in una stessa infiorescenza e, quando si raccolgono i rami fioriti, si maltratta la pianta.
Come con le potature!
I boccioli dei fiori iniziano a formarsi già in estate e in settembre sono tutti ben sviluppati.
I fiori si schiudono a scalare non solo sulla stessa pianta, ma anche sullo stesso corimbo, fra la fine d’ottobre e l’inizio di maggio dell’anno successivo, compatibilmente con il clima; il massimo della fioritura si ha, comunque, in primavera quando questo fenomeno diviene veramente spettacolare.

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I frutti, non commestibili, sono delle drupe sferiche portate all’apice del ramo, di colore blu metallico o quasi nere a completa maturazione.
Sono un buon cibo per tutti gli uccelli del giardino.

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 Giovanni  Pascoli, nella sua poesia “Il gelsomino notturno” così scrive:

“[…] E s’aprono i fiori notturni
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari […] “

Il poeta, immerso in un’atmosfera di trepidazione e di indefinibile smarrimento, coglie il mistero che palpita nelle piccole cose della Natura.
Si accorge che nella notte, quando pace e silenzio prevalgono tutto intorno, vi sono fiori che si aprono e farfalle che volano.
Una vita inizia quando la vita consueta cessa.
Il Viburno è una pianta di poche pretese. L’unica esigenza è quella di essere ospitato da un terreno ricco di sostanze organiche, molto permeabile, umido. Predilige un ambiente dove le piogge, soprattutto durante il periodo estivo, sono frequenti.
Le annaffiature devono essere abbondanti in estate per poi diminuire gradualmente nella stagione fredda.
Anche il clima è di notevole importanza. La pianta resiste bene alle basse temperature, alle gelate non troppo intense e ai lunghi periodi di siccità, non sopporta un’atmosfera arida e calda, necessita di un’esposizione al sole, ma sopporta bene anche l’ombra dove vive benissimo magari fiorendo un pò meno.
Il buono stato di salute, il portamento espanso, se non subisce violente potature, regalano fioriture indimenticabili per la profusione e per la grazia dei fiori che, schiudendosi, diventano piccoli merletti di colore bianco avorio. La pianta è bella anche in inverno perché assume una colorazione bianca.
Il Viburnum tinus si è naturalizzato in alcuni areali meridionali entrando nella costituzione di boschi di essenze sempreverdi e nella macchia mediterranea.
La rusticità rende la pianta di facile coltura, pertanto è diffusa sia per le sue qualità decorative, sia per le possibilità d’acclimatazione e d’adattamento.
Come pianta ornamentale, il Viburno è adatto alla formazione di siepi, di barriere sempreverdi o come singolo cespuglio.
Il Viburnum tinus è una pianta che dà innumerevoli soddisfazioni al giardiniere!
E’ molto robusta, NON RICHEDE POTATURE DRASTICHE e difficilmente si ammala.
In condizioni sfavorevoli potrebbe, comunque, essere attaccata dai funghi e da altri agenti patogeni.
Con le bacche e con la corteccia di varie specie di Viburno si preparano validi farmaci.
Il Viburno, in medicina, è usato per curare i dolori mestruali, il mal di testa e di denti, gli stati febbrili. Presentando una certa tossicità, per il suo utilizzo è sempre bene consultare il medico.
Secondo Il linguaggio dei fiori regalare un ciuffo di Viburno significa “arrecare fastidi e calunnie”.
E’ meglio lasciare i fiori sulla pianta!

Jun 1, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL PALAZZO DEL MUSEO REGIONALE DELLE TRADIZIONI SILVO-PASTORALI “G. COCCHIARA” A MISTRETTA

IL PALAZZO DEL MUSEO REGIONALE DELLE TRADIZIONI SILVO-PASTORALI “G. COCCHIARA” A MISTRETTA

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Conoscere il patrimonio artistico-monumentale-paesaggistico della città di Mistretta è un arricchimento interiore di sapere e di cultura sia per gli amastratini sia per quanti vi giungono.
Il contenuto di questo articolo è dedicato alla mia amica Angela D’Andrea, mistrettese, ma abitante lontana dal paese natio, che mi ha sollecitato a descrivere il Museo regionale delle Tradizioni Silvo-Pastorali.
Al numero civico 184 di Via Libertà, a  Mistretta, era sita la Ex Casa degli Esercizi, edificio a due elevazioni costruito alla fine del‘600.
Originariamente era un complesso conventuale con annessa la chiesa delle Anime Purganti e, probabilmente, costruito su un edificio ancora più antico, come hanno dimostrato le tracce individuate al suo interno durante le fasi di ristrutturazione.
Successivamente divenne la sede del Palazzo di Giustizia e, attualmente, è l’edificio che ospita il Museo regionale delle Tradizioni Silvo-Pastorali “Giuseppe Cocchiera”.

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La facciata del palazzo è molto ricca di portali, separati da alte colonne semplici e scanalate, e di finestre arcuate.

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Sulla chiave di volta del portale principale è scolpito il medaglione marmoreo con all’interno lo stemma aragonese.

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Il Museo Regionale delle Tradizioni Silvo-pastorali “Giuseppe Cocchiara” è il primo museo demo-etno-antropologico regionale concepito ex novo in Sicilia.
Le istituzioni e i partners, che hanno consentito di realizzare il Museo a Mistretta, sono stati: la Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Messina, l’Amministrazione comunale di Mistretta, l’Ente Parco dei Nebrodi.
La progettazione e l’effettiva realizzazione del Museo sono state merito del dott. Sergio Todesco di cui è stato anche il primo direttore.
Il Museo, inaugurato nel mese di marzo del 2007, è stato intitolato a Giuseppe Cocchiera.
Giuseppe Cocchiera, nato a Mistretta il 5 marzo del 1904, è morto nel 1965, a soli 61 anni d’età, nel fiore della vita, quando ancora la sua giovane capacità mentale, molto produttiva, avrebbe potuto arricchire il patrimonio culturale di altre importanti informazioni.
Giuseppe Cocchiera è stato un illustre antropologo, demologo, studioso di tradizioni popolari, scienziato di fama internazionale, professore di letteratura delle Tradizioni Popolari all’Università di Palermo, discepolo e continuatore dell’opera di Giuseppe Pitrè, nonché riordinatore e direttore del Museo Etnografico Siciliano Pitrè di Palermo dal 1935 al 1965.
Il Museo “Giuseppe Cocchiara” è una realtà museale nuova sia nei contenuti sia nelle strategie espositive il cui fine è quello di esplicare, mediante una serie ordinata di rappresentazioni, i molteplici nessi che l’universo pastorale ha prodotto in Sicilia nel corso delle sue giornate storiche.
Il dott. Sergio Todesco, nella guida rapida alla “
fruizione del Museo Regionale<Giuseppe Cocchiara>, uno spazio tra memoria e identità”, scrive: “[…]La cultura pastorale oggi non esiste più, ovvero sta per essere drammaticamente fagocitata dal <progresso>, dalla moderna società dei consumi (e dal profitto che dai consumi si trae) che come una macchina schiacciasassi distrugge al suo passaggio ogni specificità, appiattendo e omologando tutto quanto è diversità culturale, o anche memoria di tale diversità. Eppure essa, in Sicilia come nel resto del mediterraneo, ha costituito forse la prima realtà antropologicamente rilevante che abbia interessato, lungo l’arco di alcuni millenni, la civiltà euro-asiatica. Già riscontrabile nella Bibbia e nei poemi omerici, la percezione sociale del pastore è stata infatti sempre fortemente caratterizzata nei vari contesti economici, rituali, mitici, leggendari.
Le attività pastorali hanno perciò espresso sotto qualunque latitudine profonde corrispondenze a livello tecnologico e rivelato una sostanziale unitarietà di fondo all’interno delle culture mediterranee e medio-orientali; tali attività hanno inoltre veicolato, a livello ideologico-simbolico, la persistenza di alcune rappresentazioni quali le figure del buon pastore e della pecorella smarrita, dell’agnello sacrificale e del capro espiatorio, che hanno attraversato l’intera storia del mondo antico e della cultura occidentale che di tale mondo è oggi l’erede. Altre caratteristiche comuni a tutte le comunità pastorali quali il nomadismo, ossia il mutamento continuo degli spazi di lavoro, il ricorso a tecnologie essenziali e l’adozione di forme di gestione collettiva dei fattori di produzione, i pascoli e il gregge, hanno ricoperto un ruolo non secondario nella storia sociale ed economica del mondo quale esso si è mantenuto fino alle soglie della modernità….
L’espressione <Tradizioni silvo-pastorali> intende pertanto porre l’accento su forme di cultura elaborate da gruppi e comunità la cui esistenza si è dispiegata attraverso un continuo rapporto dialettico tra natura e cultura nelle loro diverse determinazioni storiche e territoriali.
La cultura di cui il museo intende rappresentare le forme non è dunque solo quella relativa ai pastori, ma anche ai taglialegna, ai carbonai, ai cacciatori, a tutti coloro insomma che hanno nel corso del tempo antropizzato le zone interne dell’isola elaborando forme di cultura e habitat fortemente radicati in tale peculiare ecosistema
[…]”.
Il visitatore del Museo delle tradizioni silvo-pastorali è accolto cordialmente dal personale della reception ubicata nell’androne e dove può ammirare un grande pannello a parete formato da un collage di immagini sull’universo agro-pastorale numerose riproduzioni dei dipinti di Antonio Mancuso Fuoco (1921-1996), un pittore naїf di Capizzi e antichi carretti siciliani finemente dipinti .

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Quindi accede al primo piano servendosi dell’ascensore o della scala dove alle pareti può ammirare numerosi pannelli contenenti fotografie d’epoca relative a momenti di vita pastorale in ambito peloritano e nebrodeo.

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Al primo piano è presente la sezione “Miracula in vitro”, una rilevante collezione di dipinti su vetro.

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 Il secondo piano è dedicato alla rappresentazione di tutte le forme di cultura storicamente presenti nei contesti agro-silvo-pastorali in Sicilia.
La superficie è divisa nelle sezioni: La sala introduttiva o d’accoglienza, la sala immersiva, la sala dei picurara e vistiamara, la sala dei carbonai e delle altre attività del bosco, la sala della caccia, la sala dell’arte pastorale, le sale dei cicli agricoli, la sala delle macchine ad acqua, la sala multimediale.
Nella sala d’accoglienza sono presenti pannelli introduttivi e gigantografie.
Un significativo pannello riproduce alcune pagine dedicate alla figura del pecoraio tratte da “La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo”, (ed: del 1589), di Tommaso Garzoni, dove l’autore analizza oltre 500 tipi di mestieri e di occupazioni del suo tempo.
Un altro esplicito pannello introduce al museo silvo-pastorale e un altro ancora è dedicato alla figura di Giuseppe Cocchiara.
La sala immersiva espone principalmente una grande carta aerofotogrammetria della Sicilia in cui sono rilevabili le aree boschive ed alcuni pannelli fotografici illustranti realtà geo-antropiche caratterizzate da forme di cultura agro e silvo-pastorale.
Nella sala dei picurara e vistiamara sono presenti le vetrine che espongono oggetti relativi al pastore e al suo mondo: l’abbigliamento, gli oggetti d’uso comune, gli strumenti per la caseificazione. I pannelli illustrano: il calendario pastorale, i cavallucci di provola, le fiere, l’addomesticamento dei cavalli, la marchiatura.
Sono esposti anche modelli realizzati in scala di tipologie di architettura pastorale.
Nella sala dei carbonai e delle altre attività del bosco è esposta una ricostruzione in scala di una carbonaia.
Sono esposti anche oggetti relativi ad arti e mestieri del bosco quali: il ciclo della produzione del carbone, la frassinicultura, la produzione della manna, le attività dei taglialegna e dei mastri d’ascia.
Un grande pannello espone 15 specie arboree maggiormente presenti nell’area dei Nebrodi che si possono riconoscere per la sezione del tronco e per la forma della foglia.
Le schede informano sul nome scientifico e sul sinonimo locale. Alle pareti sono appesi strumenti di lavoro dei carbonai e dei maestri d’ascia.
Nella sala della caccia sono esposti oggetti di vario genere tra cui spiccano: un fucile ad avancarica ottocentesco, una cassetta per trasportare il furetto e un corno inciso porta polvere da sparo risalente al XVIII secolo.
La sala dell’arte pastorale ospita splendidi reperti del mestiere dei pastori tra cui: gli stampi per il formaggio, la fascedda per la ricotta, i collari degli animali, i bastoni, le borracce di zucca, i bicchieri di corno e una serie di oggetti di legno.
Nelle sale dei cicli agricoli primari, rispettivamente olio e vino, grano e lino, sono esposti pochi, ma significativi manufatti e alcuni modelli in scala di impianti produttivi tradizionali quali: il frantoio, il palmento, il mulino ad acqua, realizzati sullo schema delle macchine di Leonardo da Vinci.
Nella  sala multimediale, su un maxischermo, sono proiettati filmati relativi all’universo agro e silvo-pastorale siciliano.
Diversi monitors con touch screen, sui quali scorrono immagini relative all’universo silvo-pastorale, intrattengono per circa quattro ore il visitatore per una più veloce e ampia fruizione del patrimonio oggettuale esposto. La sede del Museo si mette a disposizione anche per condividere altri momenti di cultura quali l’esposizione di mostre fotografiche, di presepi e presepini.
Ecco un breve itinerario fotografico all’interno del museo:

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May 25, 2017 - Senza categoria    Comments Off on RIAPERTURA AL PUBBLICO DELLA CHIESA DI SAN FRANCESCO A LICATA

RIAPERTURA AL PUBBLICO DELLA CHIESA DI SAN FRANCESCO A LICATA

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Dopo otto lunghi anni, durante i quali la chiesa di San Francesco dei PP. Minori Conventuali è stata chiusa al culto dei fedeli, finalmente oggi, 12 maggio 2017, con una grande la celebrazione è stata inaugurata la Sua riapertura al pubblico, ma non al culto. La proposta della riapertura al pubblico è stata sollecitata dall’Amministrazione comunale di Licata, guidata dal sindaco Angelo Cambiano, e coordinata dall’assessore alla Pubblica Istruzione Annalisa Cianchetti, in sinergia con la Curia Arcivescovile e la Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Agrigento. I lavori di restauro sono stati finanziati dal Fec (Fondo edifici culto).

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I lavori, avviati nel mese di dicembre del 2016 e parzialmente completati nel mese di maggio 2017, destinati soprattutto al restauro conservativo della cappella dell’Infermeria, hanno restituito al tempio il suo antico prestigio.

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L’Amministrazione comunale ha nominato il geom. Antonino Napoli quale responsabile unico del procedimento (RUP) per la realizzazione di interventi a tutela e a salvaguardia delle opere d’arte conservate all’interno della chiesa di San Francesco. Il RUP ha avuto il compito di curare la fase di progettazione, di affidamento ed esecuzione dei lavori che sono stati effettuati dalla ditta Vitruvio 21 per conto della Curia Vescovile di Agrigento. Ha diretto i lavori l’arch. Vincenzo Ortega. Il restauratore è Angelo Cristaudo.

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 Probabilmente, presto la chiesa sarà riaperta anche al culto dei fedeli. Le chiese che non aprono al culto muoiono, si perdono nel degrado! In questi mesi la chiesa è stata riaperta grazie alla disponibilità dei “Cantieri della conoscenza”, cantieri di recupero dei beni religiosi voluti dalla Curia Arcivescovile di Agrigento, guidata dal Card. Francesco Montenegro, e ai Beni archeologici della Soprintendenza di Agrigento, diretta della dott.ssa Gabriella Costantino. I cantieri di restauro dei monumenti hanno dato la possibilità ai licatesi e ai turisti di effettuare visitate didattiche della chiesa di San Francesco anche durante i lavori, cioè con il cantiere aperto. E’, però, una riapertura straordinaria considerato il fatto che gli interventi di restauro e di ristrutturazione non sono stati ancora completati.

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 Dal 21 del mese di aprile 2017 gli studenti delle scuole locali hanno partecipato all’iniziativa “La scuola adotta un monumento”.

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La chiesa di San Francesco, nel il progetto formativo “Alternanza Scuola Lavoro”, è stata adottata dagli alunni della classe IV sez. C del Liceo scientifico “Vincenzo Linares” guidati dalla prof.ssa Emanuela Licata.

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Il cicerone della giornata è stato Alessandro Cappello

Alla cerimonia inaugurale sono intervenuti: Sua Eccellenza l’Arcivescovo Cardinale Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento,

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  padre Giuseppe Pontillo, responsabile dei Beni culturali della Curia di Agrigento,

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 S.E. Nicola Diomede, Prefetto di Agrigento,

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  la dott.ssa Gabriella Costantino, Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento,

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  il dott. Angelo Cambiano, sindaco di Licata,

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  l’Assessore alla Pubblica Istruzione dott.ssa Annalisa Cianchetti,

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il questore di Agrigento, il comandante della capitaneria di porto, il comandante provinciale di carabinieri di Agrigento, il comandante provinciale della guardia di Finanza di Agrigento, il dott. Marco Alletto, dirigente del Commissariato di Pubblica Sicurezza di Licata, il comandante della compagnia di carabinieri di Licata, il comandante dalla stazione di carabinieri di Licata, il comandante dei vigili urbani, le Benemerite dell’Arma  dei Carabinieri, fra le quali la poetessa licatese Ylenia Torregrossa, gli Scout, moltissimi sacerdoti e un folto pubblico.

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Dopo la benedizione eucaristica, impartita da  padre Giuseppe Pontillo davanti al portone d’ingresso della chiesa, il sindaco di Licata ha tagliato il nastro permettendo l’accesso a tutte le persone presenti.

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Sua Eccellenza, il Cardinale Montenegro, nel suo discorso, ha detto: ” In questa città, se pur travagliata, che soffre per quello che sta avvenendo oggi, si può trovare il segreto per andare avanti perché, mettendo insieme le forze si può ottenere tanto. Questo momento è importante perché è il momento della memoria, la chiesa di San Francesco è un luogo di arte e di bellezza, non solo di culto. Se non ci fossero state persone che si sono messe in gioco, oggi, questa chiesa sarebbe un rudere. Ricchi di quanto abbiamo ricevuto, possiamo guardare avanti. Continuiamo il nostro cammino. I padri francescani ci hanno lasciato qualcosa di bello, ora tocca a noi consegnarlo a chi verrà dopo di noi”.

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Il prefetto Nicola Diomede, nel suo breve discorso, si è congratulato col sindaco di Licata, Angelo Cambiano, per il notevole patrimonio artistico-monumentale che la città possiede augurandogli di poterlo sempre salvaguardare e valorizzare.

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La sovrintendente Gabriella Costantino ha messo in luce l’importanza di questa chiesa sita nel centro storico di Licata. Il sindaco di Licata, Angelo Cambiano, esprimendo grande soddisfazione per la valorizzazione di questo importante patrimonio religioso-artistico, così ha detto: ” con la riapertura al pubblico della chiesa di San Francesco si raggiunge un’altra importante tappa del lungo e non facile percorso intrapreso da questa Amministrazione per il recupero e la valorizzazione del patrimonio artistico – monumentale – paesaggistico –archeologico -culturale della città di Licata. Intensa e proficua è stata la collaborazione dell’Amministrazione Comunale con la Curia Vescovile, con la Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento, con la Prefettura. Ricordo che l’anno scorso, nel mese di luglio 2016, è stato riaperto il Museo Archeologico della Badia. Speriamo possa essere riaperta presto anche la Chiesa del Carmine. In questa giornata desidero ringraziare coloro che si sono adoperati perchè si raggiungesse il risultato auspicato e quanti, con la loro presenza, hanno contribuito a rendere ancora più bella questa giornata di festa per Licata“.

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Hanno piacevolmente animato la manifestazione gli alunni dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “A. Toscanini” di Ribera. “I Solisti del Toscanini” erano: Paolo Alongi alla chitarra, Francesco Russello, Anna Lucia Di  Mora, Francesco Mistretta, Gabriele Zambuto, Maria Elena Caramella ai violini, Calogero Marotta, Benjamin Scaglione, Margherita Tortorici ai violoncelli hanno ricevuto molto applausi come premio alla loro bravura.

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 Gli alunni dell’ Istituto alberghiero “ Filippo Re Capriata “ sono stati molto bravi nell’accoglienza turistica.

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Il complesso della chiesa di San Francesco, del chiostro e del convento, occupa una vasta area compresa fra il Corso Vittorio Emanuele I, la via San Francesco, la via Vincenzo Bruscia. E’ una chiesa antichissima e, prima di essere dedicata a San Francesco, era gestita dai cavalieri di Malta votati a San Giovanni degli eremiti. Infatti, nel portale c’è la croce di Malta.

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Si accede all’interno della chiesa dalla porta principale, salendo alcuni gradini esterni.

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Il prof. Calogero Carità, nel suo libro <<Imanis Gela nunc  Alicata urbs dilectissma AC…>> “ La Vedetta” editrice, Licata 2007 (pp. 342-349), così descrive la storia e le origini del convento dei PP. Minori conventuali e della chiesa di San Francesco: “Dalla cronaca del francescano maltese, P. M. Filippo Cagliola, si apprende che il 19 marzo 1316 un certo frate francescano di nome Sterba, nonostante la proibizione fatta da papa Bonifacio VIII, avuta concessa dai Cavalieri Gerosolimitani la chiesa di San Giovanni Battista, cercò di costruire un convento a Licata; ma, a quanto sembra, questo suo glorioso tentativo dovette fallire. Tre anni dopo, infatti e precisamente il 24 giugno 1319, papa Giovanni XXII mandò ufficialmente in Sicilia i Francescani con l’incarico di edificarvi cinque conventi. A Licata venne un tal fra Giovanni da Cesarea, nel secondo anno del suo generalato, per costruire presso l’oratorio dei Cavalieri di Gerusalemme una casa per trenta francescani dell’ordine dei PP. Minori Conventuali. E questa casa, per il prestigio che andò acquistandosi nel 1456, ospitò persino un capitolo provinciale nel corso del quale venne eletto ministro provinciale il licatese P. M. Calcerano d’Andrea. Il sacco franco-turco dell’11 luglio 1553 causò ingenti danni al convento. Un incendio distrusse un cero di noce e di cipresso, opera di un abile cesellatore, molti quadri, quasi tutte le antiche scritture, buona parte della biblioteca, due organi dorati, i tetti, le porte. Le mura non resistettero alla quasi totale distruzione. Come se ciò non fosse stato sufficiente, i Turchi portarono via dal convento, tra le altre cose, anche un’enorme campana molto cara ai licatesi. I restauri che seguirono furono lenti e laboriosi. La chiesa e il convento forse riacquistarono l’antico decoro dieci anni dopo, quando il 14 febbraio 1563 P. Alessandro Bonanno di Palermo vi celebrò una congregazione di religiosi. Il programma dei restauri generali e di ampliamento della chiesa e del convento venne ripreso e promosso, sin dai primi anni del sec. XVII, dal licatese P. M. Baldassare Milazzo. Un altro chiostro, con ingresso anche da via Dante, demolito alla fine degli anni cinquanta, addirittura venne aggiunto alle fabbriche del convento a sud-est, di fronte al cenobio delle moniali di S. Benedetto, verso il 1758, destinato ad accogliere il Liceo Serroviriano, la prima scuola pubblica a Licata. Oggi la chiesa di San Francesco sorge maestosa nella parte mediana del Corso Vittorio Emanuele e fa, unitamente alle fabbriche del convento, da cardine del quartiere barocco e della città. Il suo marmoreo prospetto, dalle linee tardo seicentesche, con risentito telaio di membratura e plastico aggetto di timpani e cornici, fu eseguito nel 1750, su disegno dell’architetto G. Biagio Amico, da maestri scalpellini trapanesi.

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L’interno è ad una navata, con copertura a volta, e con cinque altari laterali, tre a destra e due a sinistra.

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 Gli affreschi della volta sono stati ripresi nel 1929 dal pennello del licatese Ignazio Spina. L’anonimo pittore, riferibile alla fine del ‘600 e non più tardi alla prima metà del ‘700, in tre riquadri, ha illustrato tre momenti della vita di S. Francesco: “la glorificazione”, “ il Santo in mezzo al presepe”, “la conversione del lupo di Gubbio”. Gli affreschi sono stati restaurati dal maestro pittore licatese prof. Antonio Mazzerbo.

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Ai piedi della navata si trova la cantoria lignea con l’antico organo molto frammentario, una volta attivato da un congegno a mantice, ancora esistente e posto in un vano attiguo, con accesso dal convento.

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Sotto la cantoria stanno le tombe marmoree  del duca Palmerio Serrovira e quella del capitano spagnolo Diego de Figueroa. Quella di Palmerio Serrovira, con medaglione-ritratto a rilievo dell’estinto (alt. cm. 60), porta la data del 1730. L’epitaffio, in castigliano antico, è inciso in un cartiglio tra due cherubini.

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E’ un’opera di pregevole fattura, di ignoto scultore siciliano. Sul letto funebre sta il capitano Diego de Figueroa giacente in abiti marziali. Opera datata  1587.

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L’opera è piuttosto ambiziosa, ma, nel complesso, di ambito provinciale. Peraltro la fattura  non è disprezzabile. Sul lato sinistro della navata si apre la cappella dell’Immacolata col prezioso altare seicentesco di legno intagliato e dorato. In questa cappella nel 1551,  con bolla pontificia di Gregorio XIII, venne fondata la confraternita dell’Immacolata che lo stesso Pontefice, con bolla di aggregazione rilasciata in Roma il 22 maggio IX indiz. 1581, unì all’Arciconfraternita di S. Lorenzo di Damaso di Roma. I confrati dell’Immacolata ebbero poi concesso da Mons. Giovanni Horosio, vescovo di Agrigento, con lettera del 20 settembre XI Indiz. 1604, di portare sul sacco bianco anche l’immagine della Santissima Vergine. Nel 1583 Gregorio XIII, con breve apostolico autorizzò la celebrazione quotidiana della Santa Messa, nell’altare di questa cappella, reso mobile da un particolare congegno, dove, tra due colonne tortili, che rivelano il gusto manierato di quest’opera tardo seicentesca, sta un dipinto in tela (cm.215×100) con l’immagine della Vergine Immacolata che chiude la nicchia che custodisce una delicata scultura lignea della Vergine del sec. XVII.

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Per i nove giorni antecedenti la festa di Maria SS.ma Immacolata ho partecpato alla novena animata dall’Associazione culturale zampognari “Andrea Mule”

 

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   Il 7 dicembre 2017, il giorno antecedente alla festa dell’Immacolata Concezione , nella chiesa di San Francesco per la prima volta ho assistito alla tradizionale “Scinnuta” della statua della Vergine Immacolata. Il quadro della Vergine, che occupa l’altare, in realtà nasconde la statua. Spostato il quadro, è apparsa la statua dell’Immacolata in tutta la sua bellezza. Ho visto piangere di commozione tante persone! Con una piccola processione dentro la chiesa, la Vergine Immacolata è stata portata sul presbiterio ed esposta alla venerazione dei fedeli.

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 L’0tto dicembre l’Immacolata Concezione è stata portata in processione per le vie di Licata.

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La tela dell’Immacolata Concezione, deturpata da alcune posteriori ridipinture, è stata sistemata dalla Banca Popolare Sant’Angelo nel 75° anniversario della sua fondazione. L’opera, eseguita da Domenico Provenzani, è comunque difficile da collocare per la sua ecletticità. Si notano, infatti, richiami alla pittura napoletana e romana per quanto attiene l’impostazione della figura e la morbidezza del panneggio e influenze emiliane per quanto riguarda la modellazione del volto.  Alla parete destra della cappella, la cui cupola venne realizzata da Mario Callisto, presente a Licata per la costruzione della chiesa di S. Angelo, c’è un’immagine lignea di un Cristo alla colonna con chiari accenti realistici, opera di Ignazio Spina.

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 In alto alle parastie di ordine ionico che intervallano i cinque altari sitemati in profonde arcate a pieno centro ricavate dagli stessi muri della navata, sono i ritratti circolari di illustri francescani:Giovanni Duns Scoto (obiit 1308), Antonio Serrovira (obiit 1736), Salvatore Serrovira (obiit 1715), a sinistra;Baldassare Milazzo (obiit 1629), Francesco Serrovira (obiit 1715), Papa Sisto V (obiit 1580) a destra.

 Degli altari, il più interessante è il secondo da sinistra con un ricco reliquiario entro quadretti disposti lungo tutto il sottarco, un crocefisso ligneo tardo seicentesco di discreta fattura ed una stipite lignea con antine apribili, dipinta con l’immagine della Vergine da P. Serafino da Licata (al secolo Francesco Spina), e formelle riccamente smaltate, dove si custodisce la Vergine Assunta giacente, opera di P. Angelo Maria da Licata (al secolo Ignazio Spina), proveniente dalla chiesa dei Cappuccini.

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Nel presbiterio si conserva ancora l’altare marmoreo che sostituì verso la fine del settecento il preesistente in legno lavorato. IMG_20170910_184443 OK

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L’altare maggiore ospita il Cristo in Croce. Sul tetto domina la raggera con la M di Maria.

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 Alla parete sinistra di questo vano si trova una preziosa edicola di legno finemente scolpito e dorato con colonnine tortili ed antine. Vi si custodisce un Bambino Gesù collocabile nell’ambito dell’arte popolare del ‘600, di cui non si hanno più notizie da alcuni anni.

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La zona absidale, a struttura pentagonale, è occupata da un coro in legno, tinto di noce, di ampie dimensioni, con 22 stalli, terminanti ai due estremi con un armadio per parte.

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Fra gli scanni, posti dietro all’altare maggiore, la porta conduce all’uscita dalla chiesa di San Francesco attraverso il chiostro.

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Esso è solo interrotto al centro da una porta che immette nella sagrestia, recentemente restaurata. Nel coro, il serrato coronamento dei più tipici elementi decorativi del XVIII, il trattamento prospettico degli specchi delle spalliere, l’andamento quasi scenografico dell’insieme, permettono di pensare all’ignoto autore come ad un esperto artigiano culturalmente piuttosto avvertito. A coronamento della porta centrale sta il dipinto con il Battista che battezza Gesù nel Giordano, unica testimonianza dell’antica chiesa dei Cavalieri Gerosolimitani.

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L’opera per la struttura e per la ricerca coloristica si ritiene possa essere riferita alla prima metà del ‘600. Lungo tutta la parete del coro stanno, invece, i ritratti di alcuni francescani: Emanuele Licata (obiit 1907), Francesco De Pasquali (obiit 1847), Bonaventura Pestritto (obiit 1837), Giuseppe Maria Cipriano (manca la data), Luigi Marino Sapio (obiit 1929), Gaetano Licata (obiit 1839), Pompeo Cipriano (obiit 1884), Francesco Nogara (obiit 1842). Nella chiesa si conservano anche diverse serie di candelabri del XVIII e XIX sec. in legno intarsiato, di buon artigianale locale, alcuni ostensori e calici in lega di metallo argentato e dorato, opera di argentiere siciliano del XVIII sec., una tela (cm. 90×70) raffigurante in primo piano l’Immacolata finemente modellata, opera degna di Domenico Provenzani (sec. XVIII), scomparsa alcuni anni fa. Sono andati purtroppo perduti molti artistici reliquiari lignei, a forma di bracci, e varie tele, lasciate assurdamente abbandonate in un vano deposito in mezzo alla polvere e alle ragnatele. La decorazione di superficie della navata ha subito profonde manomissioni e modificazioni. Fortunatamente invece tutti quanti gli altari conservano ancora i paliotti secenteschi variamente disegnati ed ornati. Il convento appartiene oggi al Comune che ha destinato per tantissimi anni i suoi locali ad uffici giudiziari (ex refettorio) e ad aule scolastiche (scuola media Gaetano De Pasquali).

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Oggi Istituto Comprensivo “Francesco Giorgio”

E’ sede anche del Fondo Libraio Antico, sezione distaccata della biblioteca comunale “Luigi Vitali”.

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Il suo prospetto, realizzato tra il 1750 e il 1755, su disegno dell’ architetto Giovan Biagio Amico, scenografico e severo nel disegno, risulta tra i più sontuosi di Licata. In particolare il dinamismo dell’intero complesso francescano, frutto della cultura barocca palermitana del tardo Settecento, è dato soprattutto dalla facciata della chiesa non perfettamente allineata con quella del convento, la cui plastica e dirompente partitura (archi e colonne su alto zoccolo al piano terra, finestre e paraste al primo piano) è schiarita dalla balaustra che risolve in alto la chiusura. Delle sue originali strutture rimane purtroppo ben poco, se si fa eccezione dello scaleo marmoreo che conduce all’ex pretura, già refettorio dei Francescani, del classicheggiante chiostro di via S. Francesco, le cui arcate furono chiuse per ricavarvi aule didattiche nei primi anni del Novecento dopo la soppressione degli ordini religiosi e di nuovo restituito al suo originario splendore nell’autunno del 2003 dopo un lungo ed attento restauro, l’ingresso al liceo Serroviriano col suo semplice portoncino ancora sormontato dallo stemma dei PP. Francescani. Al generale rifacimento è sfuggita la cappella dell’infermeria del convento, attigua alla sala dell’antico organo a mantice, sul lato di ponente del complesso. Fu costruita nella 2a metà del sec. XVIII e venne completamente rivestita di pannelli di legno di grandi dimensioni, artisticamente dipinti.

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Sulla parete di fondo di essa sono due medaglioni con Sant’ Antonio da Padova e Sant’Angelo.

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e San Luigi Marino Sapio

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Su quelle laterali un medaglione con Giacobbe e Rebecca

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 ed un altro con Ester ed Assuero

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oltre a figure di Angeli, coppie di putti, colonne ed ornamenti vari. Sull’altare stava un dipinto, oggi trasferito nella chiesa, con l’Immacolata (cm. 101×73) entro preziosa cornice di legno intagliato e laminato d’oro trafugata negli anni ottanta finché la chiesa era «chiusa» al culto. cappella 2 ok

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La parte anteriore della cappella è costituita da un’alta cancellata di legno dipinto, squisita opera di abile tornitore. Il paliotto dell’altare raffigura la fonte della Grazia ed è decorato a fiorami.

IMG_20170910_184708 OK L’intero ambiente, nonostante le proteste, è lasciato nell’ abbandono. La cappella era adibita per i frati ammalati e convalescenti, vecchi o impediti da qualsiasi per sentire o dire messa nella chiesa. La tradizione locale, come sempre, troppo generosa, attribuisce i pannelli dipinti al pennello di Domenico Provenzani, che, peraltro, dotò di pitture ed ornamenti la chiesa della Carità di patronato della famiglia Serrovira.. L’opera però, pur interessantissima come complesso decorativo, appare troppo rozza per essere riferita alla mano del pittore palmese. I padri Conventuali di Licata ebbero anche una dimora-rifugio in campagna, per ripararvi durante le incursioni barbaresche. L’occasione fu data dai giurati licatesi che, verso la fine del XVI sec., donarono ai religiosi un luogo, detto “Porto Salvo”, lontano nove miglia dalla città, situato nell’ex feudo “Vallone Secco”. Qui il P. M. Giuseppe Noto, licatese, nel mese di maggio 1596, autorizzato da Mons. Giovanni Osorio de Cavarruias, vescovo di Agrigento, eresse una chiesetta che intitolò alla Madonna di Porto Salvo che il P. M. Baldassare Milazzo fece rappresentare nel legno da un abile artigiano locale. Un piccolo convento completò il disegno del P. M. Giuseppe Noto. Il convento di S. Francesco nel 1867, sindaco di Licata il cav. Antonino Bosio, venne in gran parte destinato a caserma dei R. Carabinieri a cavallo, poi una porzione a pretura mandamentale e il suo chiostro a scuola tecnica, mentre un ampio vano terra attiguo alla grande sacrestia a biblioteca comunale. La chiesa, che fu anche il cimitero della famiglia Serrovira, in applicazione degli articoli 6 e 8 della legge 27 maggio 1929, n. 848 venne retrocessa dal Comune, con atto del notaio Gaetano Sapio di Licata del 5 agosto 1937, alla Curia Vescovile di Agrigento, unitamente ad una porzione dell’ex convento al piano terra di via V. Bruscia per i bisogni del rettore e della rettoria”.

La dott.ssa Elisa Conti, bravissima e gentilissima, illustra  ai turisti guidandoli la cappella dell’infermeria. Elisa Conti OK

La chiesa di San Francesco, dopo la sua riapertura, è stata molto visitata dai turisti giunti a Licata nel periodo estivo 2017. La presidente dell’Associazione Archeologica Licatese, prof.ssa Vitalba Sorriso, alla quale è stata affidata la gestione turistica di alcuni beni archeologici e monumentali di Licata, si esprime cono queste parole: “Oggi, 10 settembre 2017, non ci siamo fermati un solo minuto. Una marea di turisti nei nostri tre siti: chiostro e Chiesa San Francesco e teatro Re Grillo. Americani, Bulgari, Milanesi, Siciliani etc. Contemporaneamente si parlava in inglese e in  italiano. Mancava lo spagnolo! Chissà, può darsi che capiterà qualche volta di fare la guida turistica e di parlare tre lingue contemporaneamente. Comunque bilancio super positivo e grande soddisfazione. La professionalità ripaga sempre.

LE ISCRIZIONI DELLA CHIESA DI S. FRANCESCO

       

                                                                         I

D.O.M. / YA MI DESTIERO ES CUMPLIDO / YA MI TIERRA MELBOLVIDO / A MI DIOS SUPLICO Y FIDO / NO MIRANDO A QUELSIDO / SE ACUERDE SIEMPRE DE MI / EL CAPITAN DIEGO DE FIGUEROA / ANNO DOMINI MDLXXXVII» / (a destra dell’ingresso).

II

 

D.O.M. / PRAECLARISSIMAM SERROVIRA FAMILIAM / PIETATE DOCTRINA ARMISQ: A PRIMIS REDEMPTIONES fi. RAE SAECULIS / IN CATOLONNIA NULLI SECUNDAM SEMPER EXTITISSE. NON OBSURn / AC POSTEA TEMPORUM VICISSITUDINE IN SICILIAM EVECTAM / A PETRO ARAGONIAE LUDOVICO ET FRIDERICO TRINACRIAE REGIBUS / PARIBUS TAM ANTIQUAE NOBILITATI INSIGNITAM FUISSE MUNERIBUS / RÈLIGIO HIEROSSOLYMITANA ET VETUSTA CHIROGRAPHA TESTANTUR/ ILL: DIVUS D. PALMERIUS SERROVIRA CATENA DUX / EX TANTA PROSAPIA SUPERSTES ADHUC VIVENS POSTREMI DIEI MARMOR / SIBI, SUISQ: HOC POSUIT MONUMENTUM. / ANNO D.ni MDCCXXX MENSE JANUARIO /. (a sinistra dell’ingresso).

III

 

MISSAE INVALETUDINARII VEL ALIO AD HOC / DESIGNATO COENOBII SACELLO MINISTRI / PROVINCIALIS AUCTORITATE ERECTO A RE/ LIGIOSIS INFIRMIS CONVALESCENTIBUS, SENIBUS ALIOQUE LEGITIMO IMPEDIMENTO DE / TENTIS ALIISVE SACERDOTIBUS, PRO EORUMDEM COMMODITATE QUANDOCUMQUE CELEBRATAE PRIVILEGIO ALTARIS PRO OMNIBUS DE / FUNCTIS PERPETUO GAUDENT ATQUE ONE/ RIBUS HUJUS ECCLESIAE (sic) ALTARIBUS ADDICTIS / SATISFACIUNT EX INDULTO BENEDICTI PA / PAE. XIV. DIE. XVIII JANUARII MDCCLII./ (sopra l’altare della cappella dell’infermeria del convento).

 

IV

 ALLA MEMORIA DI / TOMMASO CASCINO / CAVALIERE DELLO SPERON D’ORO / DOTTORE IN LEGGE / CHE PER 38 ANNI IL CONSOLATO / INGLESE RESSE / CONOSCITORE DI MUSICALI ARMONICI CONCERTI / E COMPOSITORE / COLTISSIMO. / CHE A 23 XMBRE 1838 / DI ANNI 67 MORIA / LASCIANDO EREDITÀ DI AFFETTI / IL SUO MAGGIORE FIGLIO / ANGELO. / (a destra dell’ingresso, sopra la tomba del Figueroa).

Alcune iscrizioni in alto sono poco visibili. Altre sono state cancellate e illegibili.

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Il chiostro ospita la statua del Cristo alla colonna, della chiesa di Maria SS.ma Carità, il mercoledì e il giovedì della settimana santa.

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Un altro gradito momento musicale è stato offerto dagli alunni dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “A. Toscanini” nella bellissima cornice scenografica del chiostro.

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 Le statue di San Francesco e di Sant’Antonio di Padova, sculture realizzate in legno dal maestro Picone Giuseppe nel 1732,

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sono state restaurate nel 1960-’61 dal pittore licatese  Salvatore (Totò) De Caro, che ha restaurato anche le cappelle in stucco,  grazie al contributo di generosi benefattori (foto dal mio archivio fotografico).

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L’altare dell’Addolorata accoglie la statua.

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L’altare di San Giuseppe accoglie il Santo

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Caratteristico è il complesso di statue con Santa Rita da Cascia posta al centro.

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La statua di San Calogero

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La statua di Santa Chiara d’Assisi

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Altre statue

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Cristo Gesù

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la Madonna

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Gli affreschi del tetto, che raccontano scene di vita di San Francesco, opera di Ignazio Spina deceduto nel 1954, una ventina di anni fa sono stati restaurati dal prof. Antonino Mazzerbo, come da testuali sue parole.

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 Il monumentale organo, di pregevole fattura, è molto decorato. Purtroppo non è funzionante perché gli sono state sottratte le canne.

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Elemento decorativo è anche il confessionale.

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Giornata di festa per gli alunni dell’Istituto comprensivo “Salvatore Quasimodo”! In occasione della riapertura della Chiesa di San Francesco, nell’ambito del progetto curriculare “L’arte dei madonnari”, si sono divertiti a dipingere sui marciapiedi del Corso Vittorio Emanuele di Licata volti di Madonne e di Cristi usando la tecnica dei gessetti colorati. Ecco i nomi degli alunni: Daniele Bonvissuto, Erika Bonvissuto, Althea Casula, Aurora Di Vita, Giada Falcone, Aurora Ferranti, Salvatore Florio, Gloria Licata, Mario Magliarisi, Alexia Malfitano, Elisa Pavone, Lorenzo Riccobene, Domenico Ruvio, Jason Trevisan, Gaetano Truisi, Carmela Urso, Vincenzo Volpe, Angelo Volpe, Michele Zarbo, Valentina Wang. (Fonte: Qui Licata.it)

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Alla fine della cerimonia Mons. Francesco Montenegro ha ammirato i lavori dei giovani artisti lodandoli con “Bravi”. Mons. Montenegro, insieme al prof. Luigi Costanza, Direttore didattico dell’Istituto Comprensivo “Salvatore Quasimodo”, ai docenti referenti del progetto Fiorella Silvestri Antona, Maria Laura Comparato e Giuseppe Antona, ha concesso ai giovani artisti il suo ricordo fotografico .

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Foto di: -Ivana De Caro -Giuseppe Federico -Lo Iacono Antonino -Angelo Mazzerbo -Nella Seminara -Fiorella Silvestri Antona -Qui Licata.it -Radio Azzurra -Francesco Sottile -Pierangelo Timoneri

May 17, 2017 - Senza categoria    Comments Off on MARE – POESIA DI CARMELO DE CARO

MARE – POESIA DI CARMELO DE CARO

Carmelo!

Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza
.”
Sono solo alcuni versi della poesia “La morte non è niente”  di Sant’Agostino.

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Voglio ricordare a tutti la presenza, anche se  immateriale, di Carmelo De Caro nel  17° anno della sua morte, attraverso la sua poesia:

MARE

Senti come dolce è stasera il mormorio del mare?
E’ nell’argentata onda la sua voce.
Di nostalgia gonfia nell’ascoltarlo il cuore,
se infocato è d’amor come una face.
Il mare è per coloro che ad amare stanno
niun’altri puon capirlo se non duo cor gentil
che ad ascoltarlo stan rapiti come in sogno.
Per loro crea la giusta atmosfera,
per loro crea la fola dell’amore,
a loro la racconta con voce sincera
e loro ad ascoltarlo stan solo col cuore.
O, vasto, scuro, misterioso oceano,
se un uomo un giorno, d’amor naufragato,
venisse a te, ti prego, tendi la mano,
lascialo pur senza l’amor, ma fa che sia salvato.

luglio 1962

Tratta dal ilbro “Sintiti, Sintiti” di Carmelo De Caro.

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I SOCI DEL CENTRO ATTIVITA’ SUBACQUEE

May 10, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA PIANTA DI PRASIUM MAJUS DAI PICCOLI FIORI BIANCHI AZZURRINI

LA PIANTA DI PRASIUM MAJUS DAI PICCOLI FIORI BIANCHI AZZURRINI

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Alcuni fenomeni naturalistici non possono passare inosservati!
Percorrendo la strada che conduce al mio villino, a Licata, non è sfuggita alla mia vista la macchia di fiori bianco-azzurrini, traslucidi, che prepotentemente si addossa alla parete rocciosa invasa da altre erbe, da cladodi di ficodindia, da turioni di asparagi selvatici.
E’ il Prasium majus.

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Il suo nome scientifico è “Prasium majus”, ma in Sicilia è conosciuto come il “The siciliano”.
In altre regioni d’Italia è chiamato anche “Prasio”.
In Sicilia, inoltre, è chiamato “Camedriu biancu”.
Nelle varie zone della Sardegna è conosciuto con nomi molto diversi: “Erba craba, pani de conillus, Intrezzu, Menta de conillus, Pes de liebre”. Etimologicamente l’origine del nome del genere Prasium è di incerta derivazione.
Probabilmente deriva dal greco ” ᴨράσιον ” “ marrubio“,  nome usato da Teofrasto per una specie di Marrubium, in riferimento al colore verde lucente delle sue foglie.
Il nome della specie deriva dal latino “majus” maggiore, più grande” e si riferisce alle grandi dimensioni della pianta.

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La Guida Botanica D’Italia, ossia le chiavi analitiche per determinare le piante spontanee che crescono nella penisola, compilata da Eugenio Baroni, riporta il Prasium majus L. come genere unico descrivendolo così: “Famiglia Lamiaceae, fiori bianchi, o leggermente porporini, solitari, ascellari. Foglie opposte, picciolate, verdi, ovali od ovali–lanceolate, ottuse, spesso cuoriformi alla base, crenulate. Suffrutice ramoso, a rami quadrangolari, legnosi in basso, erbacei in alto 2-5 dm. Colli sassosi prossimi al mare e rupi maritme. Pen. Dalla Toscana (M. Argentario) e Gargano in giù ed isole. Marzo- Giugno”.
Per la mia diretta osservazione posso affermare che il Prasium majus è un suffrutice cespuglioso, con fusto legnoso solo alla base, perenne.
I fusticini sono quadrangolari e molto ramificati.
Le foglie, opposte, provviste di picciolo, di forma ovata, acuminate, con margine seghettato, lucide, sono di colore verde scuro e coperte da una fine peluria più o meno abbondante nella pagina inferiore.
Il Prasium majus è una pianta caducifoglia pertanto le foglie cominciano già a ingiallire quando maturano i semi.
In estate la pianta è completamente secca.
I fiori, riuniti in verticilli di 1 o 2 fiori, sono bianchi macchiettati di violetto. La corolla è tubulosa, con il labbro superiore arcuato e il labbro inferiore trilobato col lobo centrale molto pronunciato. Il calice, campanulato, lievemente bilabiato, ha il labbro superiore diviso in 3 lembi, quello inferiore in 2 lembi. Gli stami sono sporgenti, paralleli, e sostengono le antere biloculari. Lo stilo è molto semplice.
La fioritura avviene da aprile a giugno.


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Il frutto è formato da 4 nucule carnose, globose, dapprima di colore verde che, a completa maturazione, assumono una colorazione nera e lucente.

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I semi germinano alla temperatura di 20 °C e in presenza di umidità elevata.
La propagazione può essere effettuata anche per talea.
Il the siciliano, di tipo corologico Steno-Mediterraneo, è una specie eliofila, che cresce spontaneamente in molte regioni italiane che si affacciano sul mar Mediterraneo vegetando bene nelle garighe, nelle macchie basse e, soprattutto, negli ambienti litoranei e costieri caratterizzati dal clima caldo e secco. Cresce bene anche negli ambienti rocciosi e all’interno delle pinete e dei boschi della macchia mediterranea ad altitudini comprese tra 0 e 600 metri sul livello del mare.
Ama appoggiarsi su suoli piuttosto freschi, silicei e calcarei.
E’ una pianta gradevole e ornamentale per la bellezza dei suoi fiori. E’ coltivata come rampicante per coprire tettoie e graticciate.
Tuttavia la perdita precoce delle foglie limita il suo valore estetico.
I fiori  sono molto graditi dalle api, che li visitano spesso.
In passato i tralci di Prasium majus erano utilizzati dai contadini come legacci per fissare ai pali tutori le giovani piante arboree.
Il Prasium majus è una pianta molto ricca di vitamina E dalla buona capacità anti-ossidante.
Le foglie sono usate per preparare infusi e decotti utili per favorire la diuresi e combattere i calcoli renali.

 

 

 

May 1, 2017 - Senza categoria    Comments Off on ANEMONE HORTENSIS

ANEMONE HORTENSIS

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La Natura che è fiorita stamane mi ha aspettato davanti al cancello della mia casa di campagna a Licata regalandomi questo meraviglioso fiore che ho salutato con tanta gioia.
E’ l’Anemone stellato.

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Il suo nome scientifico è Anemone hortensis, Classificato da Linneo nel 1753, ma è conosciuto come “Fiore stella”.
Possiede altri sinonimi: Anemone versicolor, Anemone hortensioides, Anemone coronarioides.
Il nome del genere “Anemone”
deriva dal greco ἄνεμος “soffiare, spirare, vento”, perchè il suo fiore si apre al soffio dei venti.
Plinio il Vecchio (23 d.C. – 25 agosto 79 d.C.) nella Naturalis historia lib. Xxi scrive: “flos numquam se aperit nisi vento spirante, unde et nomen accipere” “il fiore si apre solo quando soffia il vento, per tal motivo ha preso questo nome”.
La Naturalis historia è un’opera enciclopedica in 37 libri sulle Scienze Naturali che vuole essere la summa del sapere scientifico antico.
Anche Dioscoride (I sec. d. C.) chiama questo genere di piante “ἀνεμώνη” “anemone” identificando il genere ἄγρια” “selvatico, ” e il genere “ἥμερος” “coltivato”.
Il termine della specie “hortensis” deriva dal latino “hortus”orto, giardino”, in riferimento ai suoi habitat preferiti e alla facilità di coltivazione negli orti e nei giardini.
E’ detto “Fiore stella” per la forma stellata dei petali.

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Diversi sono racconti i mitologici che riguardano il fiore di Anemone.
Secondo la mitologia greca Anemone era una bellissima ninfa che viveva alla corte di Chloris, la dea dei fiori, la moglie di Zefiro e la madre di Carpo. Di Anemone, per la sua bellezza, si innamorarono contemporaneamente Borea, il freddo vento di tramontana, e di Zefiro, il leggiadro vento di primavera.
Per conquistare la bella Anemone i due contendenti iniziarono a lottare tra di loro per contendersi il cuore della loro amata Anemone provocando nell’aria continue tempeste e bufere. Chloris, gelosa dell’amore che Zeffiro e Borea provavano per Anemone, la trasformò in un fiore. La ninfa Anemone fu così condannata a un destino crudele: Zefiro, con il suo delicato, dolce amore, l’avrebbe fatta schiudere velocemente, Bora, con le sue violente carezze, avrebbe fatto disperdere nell’aria ancora fredda i fragili petali delle corolle di Anemone ancor prima che gli altri fiori primaverili potessero godere della sua bellezza.
Un altro mito racconta che Venere si innamorò di Adone ucciso dal gelosissimo Marte trasformatosi in cinghiale. Dalle lacrime di Venere e dal sangue di Adone sbocciarono gli Anemoni.

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Per questo mitologico motivo il fiore di Anemone è così delicato e di brevissima durata.
A causa della sua vita effimera, l’Anemone così lo descrive G.B Marini:
“Purpureo è il fiore ed anemone è detto,
breve, come fu breve il suo diletto”.
Basta il soffio di un leggero vento per spazzarlo via.

Il genere Anemone comprende più di un centinaio di specie presenti nel Mediterraneo centro-settentrionale. In Italia è presente, allo stato spontaneo, dal Sud fino al Centro-Nord, isole comprese. Al nord è presente solo in Emilia Romagna e in Liguria dove la sua fioritura sui rilievi appenninici annuncia l’inizio della primavera.

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E’ assente nelle regioni del Nord: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. Gli Anemoni sono piante erbacee perenni alte da 15 a oltre 100 cm, con radici ingrossate o rizomatose. Le foglie sono profondamente divise. Hanno fiori formati da numerosi tepali colorati i cui colori vanno dal bianco al rosso, al viola, al blu e al rosa. Fioriscono, a seconda della specie, in primavera o in autunno.

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 L’Anemone hortensis è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Ranunculacee. Essa si fissa al suolo mediante una piccola radice tuberosa nerastra, legnosa, dalla quale si eleva il fusto eretto. Possiede un involucro di tre brattee intere o poco divise, ravvicinatissimo al fiore e simulante il calice.
Le foglie cauline sono disposte in un verticillo di tre sotto il fiore. Le foglie basali, lungamente picciolate, hanno la lamina di forma palmata con 3-5 lobi cuneiformi.
Lo scapo fiorifero, esile, pubescente, incurvato durante l’accrescimento, si erge alla fioritura raggiungendo l’altezza di 30-35 cm. Sostiene un singolo fiore, ermafrodita, a simmetria raggiata, profumato, formato dal perianzio composto da numerosi sepali petaloidi di norma violaceo-chiari, dalla corolla formata di 8-20 petali lanceolati e acuti di colore in genere violaceo-chiaro più raramente bianco o rosato e sempre con venature violette ben evidenti. I numerosi pistilli (ginecei), l’insieme degli elementi femminili del fiore, sono circondati dagli stami con antere di colore azzurro-scuro. Il frutto è un poliachenio formato da numerosi acheni oblungo-ovoidali lanosi derivati da carpelli liberi e indipendenti e portanti un lungo rostro apicale.
L’antesi avviene nel periododafebbraio a maggio.
In Sardegna e nelle Regioni più meridionali, alle quote più basse, l’antesi inizia già a gennaio.
La fioritura è scalare e protrae per lungo tempo se la stagione è favorevole. La moltiplicazione avviene in primavera per talea o per divisione dei cespi.

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In estate entra in riposo vegetativo col disseccamento di tutte le parti aeree. In autunno avviene la ripresa vegetativa con la comparsa delle nuove foglie basali.
L’Anemone hortensis cresce nei luoghi aridi, nei prati incolti, nelle radure, negli oliveti nei boschi, nella macchia, nei giardini, nei bordi stradali, dal livello del mare fino a circa 1200 metri di altitudine.
Predilige i terreni freschi e le piogge invernali e primaverili.

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Come tutti gli Anemoni, anche l’Anemone hortensis è una pianta velenosa perché contiene protoanemonina, una sostanza chimica che può provocare serie irritazioni topiche. Queste tossiche irritano le mucose del bestiame al pascolo. Pertanto non è commestibile.
Il fiore, una volta essiccato, nella medicina popolare era usato contro i dolori articolari ma, già da tempo, è in disuso. Tuttavia dimostra di possedere proprietà antidepressive, lenisce i mali degli apparati urinario e digerente. Inoltre è utile contro l’insonnia e l’insorgere di otiti.
Di questa pianta non è conosciuto nessun uso cosmetico o erboristico.
Nel linguaggio dei fiori e delle piante l’Anemone rappresenta l’effimero, la brevità delle gioie d’amore edell’instabilità dei sentimenti, l’abbandono, la tristezza, ma, per essere un fiore molto bello, rappresenta la speranza.
Chi lo regala, invia il messaggio a chi lo riceve di sentirsi trascurato, abbandonato o di essere tradito in amore.
Questi simboli potrebbero sembrare in contraddizione fra loro.
Secondo una leggenda della tradizione cristiana, che si raccontava in Terra santa, luogodove gli Anemonicrescevano molto numerosi e profumati, l’Anemone dal fiore di colore rosso vivo è nato dalle gocce di sangue cadute dal corpo di Cristo crocefisso ai piedi della Croce.
Per questo motivo questo fiore rappresenta “la speranza che nasce subito dopo la tristezza”.
Plinio il Vecchio racconta che i Magi, per allontanare malefici e negatività, suggerivano di raccogliere il primo Anemone che fioriva in quell’anno e di indossarlo al collo dopo averlo avvolto in un panno rosso.
Per gli Egizi l’Anemone era il simbolo di malattia.
Per gli etruschi era il fiore dei morti. Tuttora le più estese distese di Anemone coronaria, dal fiore di colore azzurro pallido, ricoprono le necropoli etrusche vicino a Tarquinia.
Nell’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento, l’Anemone è stato un fiore molto usato in Europa, ma poi fu sostituito da altre varietà.

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