Aug 12, 2019 - Senza categoria    Comments Off on FEDE-ARTE-CULTURA: MOSTRA E RESTAURO DELL’OSTENSORIO – PRESENTAZIONE PORTACERO PASQUALE – CONCERTO D’ORGANO NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DEI MIRACOLI A MISTRETTA

FEDE-ARTE-CULTURA: MOSTRA E RESTAURO DELL’OSTENSORIO – PRESENTAZIONE PORTACERO PASQUALE – CONCERTO D’ORGANO NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DEI MIRACOLI A MISTRETTA

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Venerdì 22 luglio 2019 è stato un giorno importante per la comunità amastratina.
Infatti, nel santuario della Madonna dei Miracoli, a Mistretta, già parrocchia di Santa Lucia, tre eventi religioso-artistico-culturali hanno appassionato tutti i presenti. Fede, arte e cultura si sono fusi insieme.

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Prima dell’inizio del convegno molto interessante è stata la visita alla mostra degli ostensori allestita da Giuseppe Ciccia e da Santino Cristaudo.

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Al rilevante convegno sono intervenuti: Mons Michele Giordano, arciprete del Santuario, S.E. Mons. Guglielmo Giombanco, vescovo della diocesi di Patti, don Antonino Carcione, responsabile degli uffici liturgici, il dott. Santo Lapunzina,  il prof. Giovanni Travagliato,  il dott. Gaetano Alagna, restauratore dell’ostensorio argenteo, l’artista Sebastiano Leta, l’architetto Angelo Pettineo, l’ingegnere Marco Faillaci.

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Ha aperto i lavori Mons Michele Giordano che, dopo aver dato il saluto di benvenuto a tutti gli intervenuti, ha presentato i relatori, ha spiegato i motivi del convegno, ha intrattenuto piacevolmente i presenti.

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Il dott Santo Lapunzina, commissario del comune di Mistretta, ha espressamente detto che risolleverà le sorti del paese di Mistretta ripristinando la legalità.

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Molto lunga ma esauriente è stata la relazione del prof. Giovanni Travagliato che ha illustrato gli ostensori posseduti dalle chiese della Siciliane e, in particolare, quello custodito nella chiesa Madre di Mistretta.

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 La chiesa Madre possiede l’ostensorio argenteo, la meravigliosa opera d’arte commissionata all’argentiere Annibale Gagini, o Nibilio, come egli preferiva farsi chiamare, e realizzata tra gli anni 1601 – 1604 dietro pagamento di 400 onze. E’ una delle ultime opere di questo abilissimo seguace della scuola del Gagini. L’ostensorio argenteo è custodito nella cappella del Santissimo Sacramento. L’ostensorio, alto 110 cm, porta nel piede lo stemma della città di Mistretta accanto al quale Annibale  Gagini oppose l’iscrizione: “Imperialis Mistrecte Nibilio Gagini arginter fecit”. Lo stupendo ostensorio è fregiato delle statuette di angeli nella parte superiore e dei dodici apostoli nella parte inferiore. Le numerose guglie, con le figure a rilievo di Angeli e di Apostoli, completano la decorazione a sbalzo e a cesello dell’importantissimo arredo sacro.
Questo ostensorio è stato restaurato grazie al dono di padre Giuseppe Capizzi, il prete che ha svolto parte del tuo sacerdozio in questa chiesa.
La sua attenzione al restauro di questo notevole manufatto è stata un gesto di grande sensibilità per l’arte e un tangibile generoso ricordo per la comunità amastratina. Grazie!

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Il dott. Gaetano Alagna, restauratore dell’ostensorio argenteo, ha spiegato le tecniche adottate per il restauro dell’ostensorio.

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Molto interessante è stata la relazione dell’artista Sebastiano Leta sul portacero pasquale, la scultura che ha donato alla comunità mistrettese in memoria del padre Filippo. L’artista Sebastiano Leta, che è di Mistretta, ma vive e lavora a Pietrasanta, in provincia di Lucca, nella città natale di Giosuè Carducci, ha trasportato la scultura da Pietrasanta fino a Mistretta.

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 Il portacero è stato collocato a fianco dell’ambone all’interno del Santuario della Madonna dei Miracoli a Mistretta.
Sebastiano Leta afferma che la sua opera marmorea esprime un grande messaggio di fede. Il titolo dell’opera è: “Io sono la luce del mondo”.
La simbologia della scultura è il sacrificio dell’agnello. L’agnello sacrificale che è sulla roccia, rappresenta Cristo, la certezza della fede. Il ramo d’ulivo è il simbolo della pace.
Le mani intrecciate di Gesù, rivolte verso l’alto, che hanno i segni dei chiodi, in quella posizione proiettano l’ombra di una colomba in volo.  Rappresentano lo Spirito Santo.
Fra i due pollici delle mani poggia il portacero in ottone dorato che conterrà il cero pasquale quale simbolo della fiamma della fede in Cristo.
La scultura poggia su un piedistallo realizzato con la pietra dorata di Mistretta dai fratelli Judicello della ditta SEPAM.
E’stato realizzato in marmo di Carrara, oro e bronzo e l’artista ha impiegato due mesi di tempo per la lavorazione. Il blocco di marmo, dal peso di 310 Kg, è stato estratto dalla stessa cava da dove ha attinto Michelangelo per realizzare la Pietà.
Il 20 aprile 2019, la sera del Sabato Santo, il portacero è stato benedetto.
L’opera ha raccolto l’applauso dei fedeli commossi.

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 Don Antonino Carcione ha spiegato il significato del cero e dell’agnello pasquale nella religione cattolica cristiana.

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 L’architetto Angelo Pettineo e l’ingegnere Marco Faillaci hanno illustrato le opere di restauro di cui la Chiesa Madre avrebbe urgente bisogno.

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Architetto Angelo Pettineo

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Ing. Marco Faillaci

 S.E.Mons. Guglielmo Giombanco da detto” Ho ascoltato le riflessioni che sono state proposte dai relatori. Ho osservato l’ostensorio e la prima idea che mi è venuta in mente è stata la bellezza. Mi sono chiesto come è possibile che artisti e maestri d’arte siano stati capaci di realizzare un’opera così bella che attrae lo sguardo non solo degli occhi ma anche del cuore. La risposta che ho trovato è che la vera artista del maestro che ha realizzato l’opera è la fede, la fede del popolo, ma anche dell’artista perché sono convinto che la mano dell’artista in determinate circostanze, per realizzare questa opera antica, ma anche il portacero moderno, è guidata dalla mano di Maria. La bellezza somma, la bellezza di Dio nella vita dell’Uomo. Ed è questa bellezza che rende bella la vita di un uomo. Il restauro ha riportato l’ostensorio alla sua originaria bellezza […….]”.

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Ha concluso i lavori Mons Michele Giordano che, assieme al vescovo e al clero amastratino, ha celebrato la Santa Messa.
Dopo la  celebrazione Eucaristica, presieduta dal Vescovo S.E. Mons. Guglielmo Giombanco, la platea è stata allietata dal concerto d’organo rappresentato dalla signora Gail Archer, organista e concertista americana di levatura internazionale. Ha suonato il possente organo musicale presente nella chiesa Madre regalando agli ascoltatori un eccezionale momento musicale al suono di melodiose esecuzioni.

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 Il maestoso organo a canne, risalente ai secoli XVI-XX, formato da 1000 canne sonore molto ornamentali, è costituito da una lega di piombo, di alluminio e d’argento. E’opera di Onofrio La Gala, 1656-1664, e di Giuseppe Lugaro, 1874-1888.
Nel corso dei secoli ha subito numerosi interventi di restauro ed è stata variata anche la sua collocazione all’interno della chiesa.
L’organo presentava la tipica composizione fonica formata da 10 registri comprendenti due Principali, l’ottava, due Flauti, e il file ripieno. Ma, nel 1978 è stata modificata radicalmente la sua impostazione: la trasmissione da meccanica divenne elettrìca, fu abolita la consolle inserita nel corpo dell’organo, fu eliminato l’originale somiere maestro a tiuro. Un altro radicale intervento è stato necessario nell’anno 2002 per ripristinare lo strumento divenuto manchevole. Il lavoro di recupero e di ampliamento dell’organo è stato affidato ala ditta “Fratelli Cimino” di Agrigento che ha adoperato le canne efficienti, ha inserto le canne nuove, ha aggiunto altri registri. La trasmissione della consolle al corpo è di tipo elettronico seriale, mentre il funzionamento dei sonnieri a pistone e l’azionamento del registro è di tipo elettropneumatico. Nove mantici indipendenti forniscono la giusta quantità d’aria alle varie parti dell’organo. (Notizie di Sebastiano Zingone).

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Tutti noi, anche in questo momento, possiamo partecipare a questi importanti eventi. Possiamo udire le riflessioni di tutti gli illustri relatori cliccando su

 

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e  possiamo ascoltare il concerto d’organo cliccando su

 

 

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Aug 3, 2019 - Senza categoria    Comments Off on 2° EDIZIONE CONCORSO “BALCONE FIORITO” A MISTRETTA ANNO 2019

2° EDIZIONE CONCORSO “BALCONE FIORITO” A MISTRETTA ANNO 2019

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L’Associazione Oceano­_Mistretta-Messina, l’organizzazione no-profit presente a Mistretta e formata da tanti bravi giovani volontari amanti della Natura e del bello, ha organizzato la 2° Edizione del Concorso “Balcone Fiorito” per l’anno 2019,  concorso di arredo e di allestimento floreale di balconi, di terrazzi e di cortili.

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Ciò per dimostrare quanto è importante curare l´immagine di Mistretta da parte di tutti i mistrettesi che hanno risposto positivamente all’invito di colorare e di ingentilire l´immagine dei  balconi delle loro abitazioni domestiche, dei terrazzi  e dei cortili dove hanno esposto svariate composizioni floreali. In totale i partecipanti sono stati in numero di 44. Sono stati abbelliti 30 balconi e 14 cortili.
Un ringraziamento meritato è diretto alla giovane Simona Spinnato che, con notevole spirito di collaborazione, con tanta fantasia e con grande entusiasmo, ha seguito tutte le fasi del concorso “Balcone fiorito”.
Il  concorso, attraverso l’ornamento floreale di balconi e di cortili, ha avuto lo scopo di “valorizzare e di rendere più attraenti le vie e le facciate delle abitazioni dell’intero paese, di promuovere  i valori ambientali e la cultura del verde come elemento di decoro e di valorizzare tipologie costruttive tipicamente mistrettesi”.
Fra i fiori hanno predominato i gerani pendenti, dalle tonalità rossa, rosa, bianca, come simbolo del pregio floreale e come stimolo verso la “cultura del bello”. I balconi fioriti e i cortili, ciascuno contrassegnato da un numero ROSA ed esposto nel proprio balcone o cortile per tutto il periodo del concorso, affacciati lungo la via Libertà e in altre strade, vie e  viuzze del paese, hanno mostrato più accogliente e più bella la nostra Mistretta ai residenti e ai forestieri. Sicuramente, la vista di un balcone e di un cortile fiorito fa brillare sempre gli occhi, fa gioire il cuore e lo spirito!
 Nella premessa del programma si legge:”I fiori hanno la capacità innata di abbellire, con i loro colori e profumi, un balcone spoglio, una finestra disadorna, un vicolo, una strada, una piazza, un angolo di quartiere”.
Durante la miavisita del 25 – 26 luglio u.s. ai balconi e ai cortili fioriti, oltre alle piante più frequenti di gerani, ho notato anche qualche Girasole, alcuni vasi di Tagetes, qualche Gazania, un solo Glicine, alcune Rose, qualche Aloe, tante Ortensie, qualche Surfinia,  Orchidea,  Camelia e Gardenia, molte Margherite bianche e roseti bianchi e rossi,  le Zinnie, la Lavandula e la Lippia citriadora, molti Cycas revoluta,  qualche Hibiscus seriacus, l’Oleandro e l’Altea,  ma anche il Morus nigra, moltissime composizioni di piante grasse, il Buxus rotundifolia  e il raro Pittosporo, qualche Yucca,  la Tuja piramidalis, una Phoenix canariensis, la Chamaerops humilis, ma anche il Finocchietto selvatico, il Rosmarino, il Laurus nobilis,  il Prezzemolo, il Basilico, la Salvia, la Mentuccia tutte droghe alimentari molto utili nell’arte culinaria.
Personalmente, penso che la lodevole iniziativa di istituire la 2° Edizione del concorso “Balcone fiorito” non solo ha stimolato la promozione dei valori ambientali e turistici della nostra amata Mistretta, ma ha dato la prova che gli amastratini posseggono il “pollice verde” nel saper curare abilmente piante e fiori e di essere stati maggiormente sensibilizzati a valorizzare il verde, a rispettare la Natura, in particolare a proteggere il patrimonio che la città di Mistretta possiede, esattamente le due ville comunali, la villa “Giuseppe Garibaldi” e la villa “Chalet”.
Per valutare la seconda edizione del concorso “Balcone Fiorito” è stata nominata una GIURIA TECNICA composta dai giurati che hanno espresso i propri criteri di valutazione sui balconi fioriti.

LIRIA RIBAUDO: Di Mistretta, dove vive, da sempre appassionata di Arte, nei ritagli di tempo ama dipingere i suoi quadri ed ha partecipato a mostre di pittura sia a Mistretta sia in tanti altri paesi della Sicilia. Nelle sue opere racconta la sua terra natia. Lavora come Assistente Tecnico -Informatico nel liceo “A. Manzoni” di Mistretta.
I Criteri di valutazione di Liria Ribaudo sono stati: 1) Combinazione dei colori. 2) Originalità delle composizioni. 3) Quantità delle piante esposte. 4) Rarità di piante e fiori. 5) Impatto architettonico. 6) Armonia dell’allestimento. 7) Fantasia e bellezza estetica.

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NELLA SEMINARA:  Di Mistretta, ma abitante a Licata, laureata in Scienze Naturali, è stata docente di Scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali nelle Scuole Statali di Licata. E’ scrittrice di innumerevoli articoli botanici, storici e architettonici su Mistretta e su Licata che pubblica nel suo blog. Ha pubblicato il video libro dal titolo: “ La Villa Comunale <<G. Garibaldi>> di Mistretta un giardino all’italiana” e il videolibro dal titolo “Mistretta in immagini tra passato e presente”. Ha anche pubblicato il libro “Da Licata a Mistretta, un viaggio naturalistico”.  Ha curato la pubblicazione dei libri: ”Sintiti, Sintiti”, del prof. Carmelo De Caro, e “Amoenitates”, del prof. Gaetano Todaro.
I Criteri di valutazione di Nella Seminara sono stati: 1) Eleganza nella composizione floreale 2) Accostamento dei colori e dei profumi 3) Adattamento all’ambiente 4) Facilità di coltivazione 5) Tipo di riproduzione per la conservazione della specie 6) Resistenza alle azioni meccaniche 7) Pianta innocua o causa di allergie.

NINO DOLCEMASCHIO: Di Mistretta dove vive, è esperto in marketing turistico e beni culturali/ Operatore del patrimonio culturale immateriale. Da anni è un’apprezzata e valente guida turistica di Mistretta.
I Criteri di valutazione di Nino Dolcemaschio sono stati:1) Memoria storico artistica 2) Posizione strategica 3) Pregio e rarità 4) Iintegrazioneurbanistica  5) Vivacità cromatica. 6) Valorizzazione e tutela. 7) Conservazione e fruizione pubblica.
Ha ampiamente descritto il palazzo Mastrogiovanni-Tasca.

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SEBASTIANO DI FRANCO, presidente di giuria, ha scutinato le schede.
SEBASTIANO DI FRANCO:  Di Mistretta, ingegnere edile-architetto, si è laureato nel 2016 redigendo la tesi sul Restauro del Carcere di Mistretta. Abilitato nel 2016, svolge l’attività di libero professionista a Mistretta.

LEONARDO LORELLO, il segretario dell’Associazione, ha molto collaborato.

Organizzatrice del Concorso e non giurato “Balcone fiorito” è stata la bravissima Simona Spinnato.
Chi è  Simona Spinnato?
Diplomata al Liceo Scientifico di Mistretta, si scrive all’Università di Palermo alla facoltà di Ingegneria  edile-architettura. Prossimamente conseguirà la laurea Magistrale di “Ingegneria  edile-architetura”.
Amante di viaggi e di nuove culture e tradizioni, negli anni 2014 – 2015 vive e studia a Madrid vivendo l’esperienza dell’Erasmus nella Università politecnica di Madrid,una delle università più importati al mondo. Molto attiva nella comunità amastratina, ha fatto parte di innumerevoli Associazioni  di Mistretta. Attualmente fa  parte   del Coro “Claudio Monteverdi” e dell’Associazione Oceano.
Organizza a Mistretta per la prima volta nel 2011 il Musicol “ Il Risorto” in chiesa Madre coinvolgendo circa 30 giovani e occupandosi delle coreografie, della parte canora e della regia. Ha fatto parte della scuola di danza dell’Associazione Atletica  Amastratina  tanti anni.  Amante di arte e di architettura, decide di impegnarsi in una nuova associazione musicale, culturale e sportiva per organizzare eventi che valorizzino le architetture mistrettesi tra cui il “BALCONE FIORITO” della prima edizione del 2018 e della seconda edizione del 2019.
Gli organizzatori:

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Da sx: Alvaro Biffarella, Nino Dolcemaschio, Nella Seminara, Leonardo Lorello, Concetta Porcello, Liria Ribaudo, Sebastiano
Di Franco e Simona Spinnato

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Da sx: Simona Spinnato – Sebastiano Di Franco -Liria Ribaudo -Nino Dolcemaschio

La Giuria ha valutato:
-Varietà e composizione di fiori e piante;
-Originalità e creatività;
-Inserimento armonico nel contesto urbano;
-Migliore combinazione di colori;
-Sana e rigogliosa crescita della pianta durante il concorso;
-Qualità dei materiali dei vasi utilizzati;
Gli obiettivi del concorso sono stati pertanto: Promozione dei valori ambientali e della cultura delle piante e dei fiori; educazione al rispetto dell’ambiente e alla salvaguardia del decoro urbano.
La cerimonia di proclamazione dei classificati per categoria è avvenuta giorno 02 agosto 2019. Teatro della manifestazione è stata l’accogliente sala delle conferenze del palazzo della cultura Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta.

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Ha aperto i lavori la bravissima Simona Spinnato che, nel suo discorso introduttivo ha detto: ”L’associazione, costituita nel 2014 come associazione culturale, musicale e sportiva, nasce dalla voglia di questi bravi giovani di unirsi insieme per valorizzare le bellezze della nostra città. Anche per quest’anno 2019 hanno pensato di ripetere  l’evento del concorso “Balcone Fiorito” sensibilizzando i cittadini ad abbellire i balconi  e i cortili con piante e fiori colorati. L’evento ha avuto grande successo perchè hanno partecipato  44 concorrenti . Cari ragazzi ,avete reso la nostra cittadina colorata, radiosa, con tutti questi fiori che hanno portato una ventata di freschezza e di bellezza“.

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Il giovane Alvaro Biffarella, presidente dell’Associazione, ha detto: ” Anche quest’anno, grazie il concorso“Balcone Fiorito”, abbiamo voluto valorizzare le bellezze architettoniche della nostra città che è ricca di tante opere d’arte”.
La cerimonia è continuata con la proiezione delle foto di tutti i balconi fioriti.

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Simona Spinnato ha chiamato ogni singolo concorrente al quale è stata rilasciata la pergamena ricordo consegnata dalla giovane Concetta Porcello.
Anche i soci Alessandro Scinaldi ed Elisa Tamburello sono stati dei validi collaboratori nell’organizzazione del concorso “Balcone Fiorito 2019”.

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Successivamente sono stati premiati i concorrenti delle tre categorie.

 

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Per la CATEGORIA LIKE tutte le foto dei balconi fioriti, iscritti al concorso entro il 09 luglio 2019, sono state inserite all’interno di un album sulla pagina facebook dell’Associazione Oceano_Mistretta pubblicato giorno 10 luglio 2019.
La fotografia del balcone fiorito che entro le ore 23:00 del 10 luglio ha ricevuto il maggior numero di “MI PIACE” ha vinto questa categoria.
E’ stato premiato il balcone n° 24, in via Carmine, della signora Graziella Baglione, che ha ricevuto 393 like.
Il premio è consistito in 4 Buoni per fornitura offerti da ciascuna fioreria da utilizzare entro il 31 maggio 2020.

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 Per LA CATEGORIA CON GIURIA 2° edizione “Balcone Fiorito” ha ricevuto il 3° premio il balcone n° 34, sito in Corso Umberto I, della signora Teresa Sirni.

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Ha ricevuto il 2° premio il balcone n° 13, sito in via San Giovanni, il signor Filippo Porrazzo.

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Entrambi hanno ricevuto in premio l’attestato ricordo.
Ha ricevuto il 1° premio il balcone n° 4, sito in Giovanni Verga, del signor Salvatore Nino Napoli, che ha ricevuto in omaggio, oltre all’attestato, un bellissimo vaso di ceramica decorato a mano dall’artista Antonio Manno e che è stato esposto nella vetrina della gioielleria della signora Turco Liveri Vincenza, sita lungo la via Libertà e reso visibile fino alla fine del concorso.

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I tre premiati

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E’ stato premiato il cortile N° 35, sito in Piano Perina, della signora  Rosa Lombardo, con il vaso decorato a mano dall’artista Antonio Manno esposto nella vetrina del bar “’NTABUATTA”, di Davide e di Maria Grazia, lungo la via Libertà e reso visibile fino alla fine del concorso.

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Per la  CATEGORIA A SORPRESA è stato estratto a sorte dal giurato Liria Ribaudo il biglietto posseduto dalla signora Rosa Lombardo

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 che ha ricevuto in omaggio un kit di floricultura “POLLICE VERDE” offerto dagli sponsors: Ferramenta Iraci e Volo Sebastiano,  da ritirare  entro il 31 Agosto contattando l’Associazione Oceano.
Simona Spinnato ha calorosamente ringraziato: le fiorerie di Mistretta per l’addobbo floreale del tavolo,

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 i giurati Liria Ribaudo, Nella Seminara, Nino Dolcemaschio, lo scrutatore Sebastiano Di Franco, tutti i componenti dell’associazione Oceano, gli amastratini che si sono impegnati ad abbellire i balconi e i cortili con addobbi floreali e, soprattutto, il mistrettese che non ha mai avuto il”pollice verde” ma ha promesso: “Questo mese mi impegnerò ad abbellire e curare il mio balcone”, le fiorerie e tutti gli sponsors designati per le premiazioni a tema “pollice verde“: Ferramenta e colori  Iraci Filippo,  Fioreria Sant’Antonio di Alfieri Andrea,  Fioreria di La Rosa Antonino, Non Solo Fiori di Lavinia Provinzano,  Volo Sebastiano,  New Project Natura Viva di Grillo Andrea.

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Anche questa 2° Edizione del concorso “Balcone Fiorito” è stata  una bellissima esperienza che ha coinvolto gli amastratini che hanno partecipato con entusiasmo a un momento così importante e che ha reso Mistretta elegante, accogliente e ammirata.
Bravi tutti!

 Foto di Giuseppe Ciccia

 

 

 

Jul 25, 2019 - Senza categoria    Comments Off on L’ ARAUCARIA ARAUCANA BILDWILLII NELLA VILLA “G.GARIBALDI” A MISTRETTA

L’ ARAUCARIA ARAUCANA BILDWILLII NELLA VILLA “G.GARIBALDI” A MISTRETTA

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Ad abbellire ancor di più il giardino di Mistretta ha contribuito l’arrivo di una nuova pianta: L’Araucaria araucana varietà “bildwillii”, una gimnosperma appartenente alla Famiglia delle Araucariaceae e originaria del Queensland. In Europa l’Araucaria si è diffusa largamente nei giardini e nei parchi come pianta ornamentale per il suo elegante aspetto.
Il nome del genere “Araucaria” deriva dagli Araucani, ”Araucanos”, una tribù indigena del Cile. Introdotta in Europa in seguito alla conquista spagnola dell’America meridionale, per la prima volta, nel 1786, fu chiamata “Pinus araucana” da JuanIgnacio Molina. Nel 1789 De Jussieu creò il nuovo genere Araucaria. Nel 1797 Pavòn pubblicò una nuova descrizione della specie col nome di “Araucaria imbricata”. Finalmente, nel 1873 Karl Koch pubblicò il binomio “Araucaria araucana” rendendo valido il nome del nuovo genere attribuito da Molina. Il nome scientifico Araucaria probabilmente ricorda la provincia cilena Arauco dove il naturalista A. Menzies ha conosciuto questa bellissima specie.
Si narra che, durante un suo viaggio in Cile nel lontano 1792, al naturalista A. Menzies sono stati offerti, come frutta secca, dei semi di Araucaria. Il loro sapore gli sembrò tanto straordinario da indurlo a volere conoscere la pianta dai particolari frutti. Menzies, conquistato dall’esotica forma dell’albero, decise di portare qualche seme in Europa, esattamente a Kew, borgo a 8 chilometri da Londra sulla riva destra del Tamigi, nei giardini reali inglesi. A Kew si può vistare il più vasto e il più ricco orto botanico del mondo. Lì nacque la prima Araucaria europea.
La pianta in Italia è chiamata comunemente “Pino del Cile” o “Albero della scimmia”, anche se è più corretto chiamarla “Araucaria del Cile” perchè non è un Pino.
In spagnolo si chiama comunemente: “Araucaria, Pehuén, Piñonero, Pino araucaria, o Pino de brazos”.
In inglese si chiama “Monkey-puzzle tree” e in francese” Désespoir des singes”, letteralmente “rompicapo delle scimmie“, perchè l’intreccio dei rami avrebbe confuso notevolmente una scimmia impegnata a scalare l’albero.
Si racconta che nel 1850 un signore inglese, proprietario di un’Araucaria araucana, ha mostrato ad alcuni suoi amici un esemplare giovane della pianta. Un amico più intelligente, osservando le foglie spinose e taglienti, asserì che “sarebbe stato difficile anche per una scimmia arrampicarsi sull’albero” senza rimanere ferita dalle spine. Siccome nell’ambiente naturale della pianta non ci sono scimmie, gli anglosassoni preferiscono ora chiamarla “Pehuén”.
Esistono circa 15 specie di Araucaria provenienti dell’emisfero australe: l’Araucaria excelsa, conosciuta come “Abete del Norfolk”, l’Araucaria imbricata del Cile, l’Araucaria brasiliana.
La nostra Araucaria araucana varietà “bildwilii”, proveniente dall’Australia, è un albero sempreverde attualmente di bassa statura perché giovane, ma, pur avendo una crescita lenta, potrà raggiungere anche i trenta metri d’altezza e, nel suo paese d’origine, anche i 60 metri.
L’Araucaria araucana è una specie molto longeva, ma, raramente, raggiungerà i 100 anni d’età.
Il fusto, molto robusto, eretto, è ricoperto dalla corteccia grigia, rugosa e spessa.
I rami delle piante giovani, disposti orizzontalmente a verticilli, cioè sistemati a raggiera intorno al tronco in piani sovrapposti, danno alla pianta una forma conica regolare. Man mano che la pianta invecchierà, assumerà la caratteristica forma piramidale con i rami inferiori rivolti verso il basso e con le estremità rivolte verso l’alto, a candelabro.

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Le foglie, di colore verde lucido, spesse, dure, ovali, lanceolate, spinose all’apice, disposte su due file, di forma triangolare, con il bordo tagliente, rivestono la superficie dei rami. Rimarranno sulla pianta per diversi anni ricoprendo gran parte dell’albero, ad eccezione dei rami più vecchi. La chioma tende ad allungarsi con il passare degli anni.

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L’Araucaria araucana è una pianta dioica, con gli sporofilli maschili e femminili posti su piante separate, anche se si conoscono esemplari che portano entrambi i sessi.
Gli sporofilli maschili, riuniti in infiorescenze ad amenti, di forma oblunga, quasi cilindrica che, a maturità, raggiungono anche i dodici centimetri, contengono il polline. Gli sporofilli femminili sono riuniti in infiorescenze sferiche.
La fioritura avviene raramente e non prima dei 20 anni d’età.
I fiori femminili maturano in due o tre anni e sono riuniti in grandi coni globosi. L’impollinazione avviene tramite il vento.
Dopo la fecondazione, sui rami si formano gli strobili legnosi, ampi, eretti, di forma ovoidale, con grandi squame sovrapposte provviste di una lunga punta ricurva, dal notevole peso anche di 5 Kg, e contenenti i semi. I coni, in autunno, cadendo dall’albero, si aprono liberando i semi che vengono trasportati dagli animali anche in suoli lontani.
Ogni strobilo può contenere fino a 200 semi.  I semi, lunghi circa 3 centimetri, provvisti di un’ala rudimentale, aderenti ciascuno ad una squama incurvata e triangolare, sono fertili e mantengono la loro germinabilità anche per diversi anni. I semi non sono prodotti tutti gli anni, ma ad intervalli di 3, 4 anni. Sono eduli crudi o abbrustoliti ma, per essere spinosi, non sono mangiati dagli animali ad eccezione delle capre. I pinoli sono più nutrienti della carne e costituirono l’alimento primario degli aborigeni che gli spagnoli chiamarono, proprio per questo motivo, “araucani”.
Dai pinoli fatti fermentare ricavavano una bevanda e usavano la resina come cicatrizzante.
Poiché i coni, per la loro pesantezza, riescono a spezzare i rami da quali pendono, nei paesi d’origine, dove questa pianta cresce maestosa, per le alberature delle strade si pianta solo l’Araucaria araucana “maschio“.
Essendo le dimensioni dei coni notevolmente più piccole, il loro impatto è meno pericoloso.
La moltiplicazione avviene, oltre che per seme, in primavera, anche per talea. La pianta si sviluppa con grande lentezza, quindi i giovani esemplari impiegano molti anni prima di raggiungere una grandezza tale per essere posta a dimora in un giardino.
L’Araucaria araucana nei paesi di provenienza è in via d’estinzione, quindi è protetta dalle convenzioni internazionali.
Per questo motivo in Europa possono circolare soltanto esemplari provenienti da coltivazioni e non da prelievi in natura.
L’Araucaria araucana è una pianta rustica, ornamentale, che raggiunge notevoli dimensioni per cui ha bisogno di molto spazio. E’ coltivata come singolo esemplare perché ama stare da sola. I pendii delle montagne delle Ande del Cile e dell’Argentina e delle alture dell’Australia sono il suo ambiente naturale dove vegeta bene anche a 1000 metri d’altitudine e dove resiste al freddo e alle grandi nevicate invernali. Tuttavia, il peso della neve facilmente potrebbe spezzare i rami più vecchi. In questo modo l’albero mantiene solo una piccola chioma di rami nuovi sopra un tronco a colonna. E’ preferibile metterla a dimora in un luogo soleggiato e riparato dal vento così come ha fatto il giardiniere della villa, il signor Vito Purpari, quando ha piantato la piantina.

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In genere sopporta anche il caldo e, nelle zone con estati molto calde, si consiglia di porre la pianta in un luogo semi-ombreggiato. Si è adattata a vivere anche in ambienti marittimi.
E’ molto sensibile all’inquinamento atmosferico, proprio non lo tollera!
Nelle migliori condizioni climatiche questa pianta può raggiungere l’altezza di 18-20 metri. Predilige terreni acidi, profondi, soffici e drenati dove non ristagna l’acqua. Anche le annaffiature devono essere regolari fornendo l’acqua, tra un’annaffiatura e l’altra, solo quando il terreno è asciutto. La pianta è resistente alle malattie e difficilmente è attaccata da parassiti. Potrebbe, talvolta, essere colpita dagli Afidi. Frequentemente, invece, è attaccata sul tronco e sulle foglie più giovani dalla Cocciniglia cotonosa, il “Pseudococcus citri”, parassita riconoscibile dai grossi e molto visibili fiocchi bianchi cotonosi.
Il marciume radicale, favorito dal ristagno d’umidità nel terreno, per attacchi di “Armillaria mellea”, provoca dapprima l’ingiallimento delle foglie, successivamente il disseccamento e la morte dell’individuo.
La pianta fornisce un legno leggero, di buona qualità, giallastro, molto resistente e finemente venato, facilmente lavorabile e usato per la fabbricazione di mobili, per lavori di carpenteria, per costruire casse e alberi delle navi o intere barche.
La polpa è utilissima per la produzione della carta.

 

Jul 13, 2019 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERO DI CERATONIA SILIQUA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ALBERO DI CERATONIA SILIQUA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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C’era una volta…
Così cominciavano i nonni quando raccontavano “i cunti” ai nipotini che, attenti, ascoltavano.
C’era una volta l’albero di Carrubo posto alla fine del viale di sinistra nel giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, quasi di fronte al laghetto.

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Questo albero era stato piantato nella primavera del 1993 come testimonianza per non dimenticare l’uomo che ha dedicato la sua esistenza, il proprio lavoro e che ha donato la sua vita per la lotta alla mafia. L’albero rappresentava il simbolo della vitalità di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morbillo e agli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montanaro mentre percorrevano, all’altezza di Capaci, l’autostrada che, dall’aeroporto di Punta Raisi, conduce a Palermo, e di tutti i caduti per mano mafiosa.
Era stato scelto proprio l’albero di Carrubo perché indica la continuità della vita senza pause, nemmeno quelle stagionali, perché Falcone, come l’albero, “vive”.
Le Associazioni avevano donato la targa per ricordare la persistenza dei valori di legalità e di giustizia dove era scritto: “Albero Falcone / coltivare la giustizia / per far crescere la civiltà / Mistretta ai caduti di mafia”.

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Questo albero di Carrubo è morto da tanto tempo e,  finalmente, è stato tolto.

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L’evento è cambiato.
L’amico Giuseppe Ciccia così scrive: “Oggi, 23 maggio 2019, giorno della commemorazione della strage di Capaci, l’Associazione “Progetto Mistretta” ha reimpiantato l’Albero di Carrubo nella nostra Villa Comunale “Giuseppe Garibaldi”.
Il vecchio albero, voluto dalle Associazioni,  fu piantato nel 1993 ed ora si era rinsecchito.
L’Associazione“Progetto Mistretta”, con molto scrupolo, ha voluto doverosamente continuare a rendere omaggio ai due grandi magistrati, Falcone e Borsellino, simbolo della lotta alla mafia.
L’albero crescerà, come si spera possa crescere sempre più forte il sentimento di condanna di ogni manifestazione di violenza mafiosa. Presenti alla semplice e commovente cerimonia il Presidente della Associazione, Nino Testagrossa ed alcuni soci.
L’Associazione ringrazia l’artigiano Sebastiano Testagrossa per il restauro del pannello
”.

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Per la sistemazione dell’albero è stato scelto un posto migliore, esattamente dietro il busto dell’on. Vincenzo Salamone.

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Un altro albero di Carrubo vegeta nella villa comunale di Mistretta posto nell’aiuola dietro le altalene dei bambini, vicino all’albero di Mimosa pudica.

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Il nome scientifico del Carrubo è “Ceratonia siliqua”.
Etimologicamente il termine “Ceratonia” deriva dal greco “κεράτιον”, “piccolo corno”, per la forma curva dei frutti.
Il termine “siliqua” deriva dal latino “siliqua”, “baccello”.
Sono stati i fenici ad introdurre nella lingua dei paesi che costeggiano il Mediterraneo il termine “kharrub” e “golab, giulebbe”, nome col quale è chiamato uno sciroppo espettorante ottenuto con carrube cotte in acqua.
Il Carrubo è una pianta sempreverde di gran mole che raggiunge, infatti, l’altezza di diversi metri.

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Appartenente alla famiglia delle Leguminose, il Carrubo è una pianta molto longeva, addirittura secolare, ma lenta nella crescita.
Col passare dei secoli il Carrubo non invecchia, diventa più robusto, più chiomato, più possente e più fruttificante.
Da Floridia sono ricordate Carrubi enormi in Sicilia nei territori di Noto, di Messina, di Licata, di Caltanissetta e persino nel parco della Reggia di Caserta dove raggiungono un’altezza di oltre 20 metri.
Il Carrubo possiede il sistema radicale massiccio, fittonante, ricco di numerose ramificazioni secondarie che si sviluppano verso la profondità e, strisciando obliquamente, emergono dal terreno.
Possiedono speciali acidi capaci di frantumare la dura roccia calcarea.
Le radici, sono molto allungate, oltre la proiezione della chioma, servono per succhiare una gran quantità d’acqua dagli strati profondi del terreno, per ancorare tutto il corpo, per opporre poca resistenza all’azione del vento.
Il tronco è sviluppato, tortuoso, rugoso, largo, tozzo, molto ramificato, diviso fin dalla base, scanalato.
E’ rivestito dalla corteccia spessa, ruvida, di colore rossiccio o grigiastro, screpolata nella parte inferiore, abbastanza liscia nelle ramificazioni finali.
I rami sono eretti e flessuosi. Quelli inferiori, più vecchi e più robusti, si dispongono quasi in senso orizzontale tanto da sfiorare il suolo con le loro estremità.
La massa armoniosa delle foglie copre completamente il fusto e i rami principali così da dare alla pianta, più larga che alta, un aspetto globoso, arrotondato, espanso, disordinato, ma straordinario ed elegante.
La chioma è costituita dalle foglie picciolate, composte, paripennate, formate da 2-6 coppie di foglioline ovali, persistenti, glabre e coriacee, di colore verde scuro lucente sulla pagina superiore, di colore verde più chiaro nella pagina inferiore, con nervature ben evidenti e con margini interi o leggermente ondulati.

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Spuntano in primavera e cadono tra luglio e settembre dell’anno successivo assumendo un colore rosso cupo e rinnovandosi ogni 15 -18 mesi.
Il Carrubo è una pianta dioica, a sessi separati, con individui maschili e femminili.
I fiori, unisessuali, piccoli, giallastri, poco appariscenti, senza corolla, riuniti in infiorescenze racemose, possono essere attaccati ai rami adulti di oltre due anni o direttamente sul tronco prima della fogliazione.

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Fiori femminili

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Fiori maschili

Emanano un odore sgradevole, penetrante, anche molesto.
Fioriscono dall’inizio del mese di maggio sino all’autunno. Talora, lo stesso albero porta fiori unisessuali e fiori ermafroditi.
Il fiore ermafrodito ha entrambi i sessi: maschile e femminile.
Molti autori disconoscono l’ermafroditismo del Carrubo e lo considerano solo una pianta dioica. Altri affermano che un tempo era una pianta a fiori ermafroditi e che poi si è differenziata fino a diventare dioica.
Linneo, Toscano, Bonifacio ed altri studiosi hanno ammesso l’ermafroditismo nelle piante nate da semi e quindi selvatiche.
L’impollinazione è entomofila e, in parte, anemofila.
Questo delicato compito sembra essere affidato soprattutto alle formiche.
La pianta è un’ottima riserva di cibo per le laboriose formiche in fila con il loro carico di semi.
Il Carrubo è pure un rifugio per gli uccelli, per le farfalle, per gli insetti, per le lucertole che non potrebbero trovare altrove un riparo migliore.
I fiori sono molto frequentati anche dalle api che producono un miele dall’odore inconfondibile e dal sapore particolare.
I fiori, dopo l’impollinazione, per trasformarsi in frutto, devono permanere sulla pianta molto tempo, anche un intero anno.
Si trovano nella parte interna della chioma protetti dalla pioggia, dal vento e dalle intemperie.
Sulle piante femminili, dai rami fruttiferi pendono lunghi frutti semilegnosi singoli o a gruppi di 4-6.
Il frutto comincia a svilupparsi in primavera per completare la sua maturazione in agosto-settembre.
E’ un legume indeiscente, a forma di falce, lungo fino a 20 centimetri, detto lomento o, più comunemente, carruba o vajana.
E’ di colore verde chiaro quando è acerbo, diventa marrone, tendente al rossiccio quando è maturo, cambiando di colore gradatamente dall’apice verso il peduncolo.
E’ maturo quando il peduncolo è completamente annerito.
Presenta la superficie esterna molto dura, spessa e cuoiosa, la parte interna carnosa, grassa e zuccherina.

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I frutti giungono a maturazione dopo un anno dalla fioritura e si raccolgono in estate.
La raccolta si esegue quando le carrube cadono spontaneamente dall’albero oppure si battono i rami con lunghe canne evitando di danneggiare i grappoli fiorali della successiva produzione.
Allorché i frutti sono stati raccolti, l’albero ha già i fiori per la successiva fruttificazione.
Le piante producono frutti dopo circa 10 anni dall’impianto aumentando la quantità gradatamente.
La completa maturità di una pianta è compresa fra i 30 e i 100 anni d’età.
A cinquanta anni il Carrubo può considerarsi ancora giovane e a cento anni, se sano, fruttifica ancora abbondantemente.
Le carrube mature, fatte essiccare al sole, sono conservate in magazzini aerati, ventilati e ben asciutti per evitare la putrefazione.
Ogni frutto contiene da quattro a dodici semi commestibili, scuri, schiacciati all’apice, un po’ acuti alla base, lunghi circa otto millimetri, durissimi, rossicci, lucidi.
Sono detti carati, dall’arabo “qirat”. Per avere un peso costante, per la sua uniformità, i semi del Carrubo sono stati utilizzati dagli arabi come unità di peso per l’oro e ogni seme corrisponde a 0,2 grammi.

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La moltiplicazione avviene per seme. La germinazione è lenta e difficoltosa.
Grazie alla sua bellezza estetica il Carrubo è impiegato anche come specie ornamentale per la realizzazione di aree verdi e di parchi naturali.
L’utilizzo del Carrubo come specie decorativa è legato soprattutto alla sua elevata resistenza alla siccità, all’inquinamento atmosferico ed alle principali avversità fitopatologiche.
Oggi il Carrubo corre un serio pericolo a causa delle alterazioni subite dall’equilibrio ecologico.
Essendo una pianta a crescita molto lenta, il rimboschimento di nuove aree o di zone distrutte dagli incendi richiede molti anni.
Il Carrubo, essendo una pianta mediterranea, cresce bene nelle zone a clima temperato, anche se si è adattato a vivere in montagna, fino a 1000 metri di altezza, riuscendo a sopportare in inverno basse temperature, anche sotto i 5°C, mentre in estate tollera temperature di 45°C.
Ama l’esposizione sal sole.
Essendo una pianta xerofita, vive bene accontentandosi di una piccolissima quantità d’acqua, pertanto le annaffiature devono essere sporadiche bagnando abbondantemente il substrato.
Accetta tutti i tipi di terreni, anche quelli più ingrati, preferendo quelli calcarei e permeabili,  adattandosi pure a substrati aridi e rocciosi, ma la roccia spaccata deve permettere alle radici di insinuarsi in profondità per procurarsi l’acqua e le sostanze nutritive.
Inoltre, essendo una leguminosa, riesce a fissare l’azoto nel suolo.
In primavera è utile interrare ai piedi della pianta una certa quantità di fertilizzante.
Il Carrubo deve crescere in forma naturale e, a differenza degli alberi d’ulivo, che richiedono annualmente la potatura per l’asportazione dei rami che hanno fruttificato,  va salvaguardato dai tagli. La potatura si esegue solo quando si ritiene necessaria asportando i rami secchi o danneggiati, sopprimendo quelli eccedenti, conservando quelli obliqui ed orizzontali.
Il Carrubo, in genere, non è colpito da parassiti o da malattie.
I parassiti che più frequentemente danneggiano la pianta sono le Cocciniglie.
L’Oidio interessa le foglie, che presentano macchie dapprima biancastre e poi brune, i fiori, che abortiscono, e i frutti, che si arrestano nello sviluppo.
Il Carrubo ha grande utilità nei campi:  alimentare, farmaceutico, erboristico, cosmetico.
I frutti, privati dei semi, sono utilizzati per l’alimentazione degli animali, in particolare dei suini e dei cavalli.
L’evangelista Luca (15,11-16), primo secolo dell’Era Volgare, medico d’Antiochia, nella parabola del figliol prodigo scrive: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: <Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta>. E il padre divise tra loro le sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla”.
Le carrube grosse, dritte, carnose sono un valido alimento nutritivo anche per l’alimentazione umana per l’alto contenuto in zuccheri e per i benefici effetti che generano all’organismo, anche se, inesattamente, si credeva che le carrube non avessero sostanze energetiche perchè legnose.
Un proverbio recita: “Mangia carrube e caca legna”!

Le carrube servono per preparare polveri per la produzione di gelati, di creme, di budini, di dolci, di confetture, di pandolce, di sciroppi, di sorbetti, di bevande rinfrescanti e lassative, di caramelle per agevolare la guarigione da tosse e da catarro e per insaporire carni e salumi.
Le farine, esenti da carboidrati, non influiscono sul tasso glicemico e costituiscono un elemento nutritivo importante per i diabetici.
Dai semi si ottiene una farina che contiene un’altissima quantità di carrubina che ha la capacità di assorbire l’acqua per cento volte il suo peso.
La polvere di carrube contiene proteine, zuccheri, vitamine A, D, B2, B3, sostanze minerali come calcio, magnesio, potassio, ferro, anganese, bario, cromo, rame, nichel.
I semi interi si utilizzano per la creazione di rosari, di collane, di ornamenti femminili.
Dalla polpa dei frutti e dai semi di Ceratonia siliqua l’industria cosmetica produce saponi e creme per il viso con azione emolliente, idratante e nutriente.
Nell’industria chimica la polpa fornisce una gomma impiegata nella fabbricazione della carta e per preparare prodotti per la concia e per la lisciatura delle pelli.
Oggi la polpa è destinata esclusivamente alla produzione del “Carcao”, un surrogato del cioccolato povero di grassi e privo delle sostanze eccitanti tipiche del cioccolato.
Grazie all’elevato contenuto in tannini, in pectine, in lignina la medicina popolare dava ampio spazio alle carrube.
La polpa del frutto fresco è dolce, nutriente e gentilmente lassativa. In decotto, al contrario, è astringente, utile per curare casi di diarrea, per purificare e dare sollievo all’intestino irritato. Entra come ingrediente in svariate misture espettoranti nelle affezioni bronchiali.
I frutti del Carrubo, nell’800, erano usati dai cantanti d’opera lirica per aiutare la voce e la gola.
Il medico Scribonio Largo, I Secolo dell’Era Volgare, in una specie di formulario medico, (Compositiones, n. 121), prescrive il decotto di carrube ai sofferenti di coliche, di ulcere allo stomaco, ai malati di milza.
Dioscoride d’Anazarba scrive che “le carrube, raccolte da poco, fanno male allo stomaco, ma seccate sono molto valevoli”.
Il medico greco Galeno disprezza le carrube per il loro potere astringente e ne sconsiglia l’uso.
Molto discusso è il luogo di provenienza del Carrubo.
De Candolle ritenne che il Carrubo fosse spontaneo ad oriente del Mediterraneo, probabilmente sulla costa meridionale dell’Anatolia e nella Siria dove è in coltura da almeno 4000 anni.
Fu introdotto in Italia e in Sicilia dai greci, ma furono gli arabi, che lo coltivavano e consumavano i suoi frutti dai tempi remoti, che ne intensificarono la sua coltivazione assicurandone la diffusione in Spagna e in Marocco insieme agli alberi di agrumi e di ulivi.
Gli Spagnoli introdussero il Carrubo nel Messico e nell’America meridionale, gli Inglesi in India e in l’Australia. Il Carrubo fu introdotto negli Stati Uniti nel 1854.  Nel 1873 in California furono piantate le prime giovani piante.
Hehn, naturalista tedesco, pensò di individuare in Terra Santa l’albero di Carrubo che avrebbe fornito le carrube, dette “fagioli locusta” e “pane di San Giovanni”.
I baccelli avrebbero potuto essere le “bibliche locuste” di cui si nutrì San Giovanni Battista nel deserto.
Giovanni mangiò proprio le locuste migratorie e non i baccelli del Carrubo.
Augustin Pyramus De Candolle, botanico franco – svizzero (1777-1841), studioso di botanica sistematica e d’archeologia, fornì la figura di un legume riconosciuto come carruba disegnata dall’egittologo K. Lepsius. Il botanico Kotschy avrebbe riconosciuto in una tomba egiziana un bastone di legno di Carrubo.
Secondo Hehn, la vera patria del Carrubo è stata, quindi, la terra di Canaan.
Il botanico tedesco Sprengel pensò che il Carrubo fosse stato l’albero usato da Mosè per addolcire le acque del Marah (Esodo 15,25): “Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce“.
Secondo Avicenna, filosofo arabo (980 – 1037), il kharrub ha la caratteristica di rendere dolci tutte le acque salate e amare.
Alcuni studiosi della flora e commentatori dell’Odissea ipotizzarono che il Carrubo fosse stato l’albero di cui si alimentavano i Lotofagi incontrati da Ulisse nella loro terra sulle rive africane del Mediterraneo durante le sue peregrinazioni. Il frutto era talmente dolce che aveva il potere di far dimenticare la patria a chi lo gustava.
Erodoto, che verso la metà del V secolo a.C. visitò l’Africa settentrionale, nelle sue “Storie ” (libro IV, n. 177), accenna ai Lotofagi confermando che essi si nutrivano del frutto del loto simile, per dolcezza, al frutto della Palma.
L’Hoefer sostiene che il loto è il Carrubo perché i fiori zuccherini, dall’odore penetrante e dal potere esilarante e i frutti, dolci come il miele e capaci di dare sostentamento, erano usati dalle popolazioni del litorale dell’Africa proprio dove Omero localizzò il paese dei Lotofagi.
L’ omerico detto “rosicchiando loto” si addice proprio al mangiar carrube.
Sono stati i fenici, popoli di prodigiosi colonizzatori, di audaci navigatori e di commercianti che, nel XX sec a. C, hanno aiutato il Carrubo a diffondersi  in tutti i paesi del Mediterraneo con i loro insediamenti nelle isole dell’Egeo, a Cipro, a Rodi, in Egitto, in Africa settentrionale, nella Palestina, nel Libano, in Sardegna, in Asia Minore. La coltivazione del Carrubo in seguito si è diffusa nella Spagna meridionale e nelle Baleari, nel Portogallo.
In Italia Il Carrubo è diffuso in Liguria, nel Lazio, in Campania, in Puglia, in Basilicata, in Calabria, in Sardegna, e soprattutto in Sicilia, la più ricca area di carrubeti dove il Carrubo domina quasi incontrastato e spesso, nei terreni più scoscesi e aridi, costituisce l’unica macchia verde.
I Carrubi, dall’aspetto leggermente “esotico“, rendono piacevole il paesaggio siciliano. Quasi contemporaneamente ai fenici, i Greci e i Cartaginesi, apprezzando la pianta di Carrubo perché rustica, longeva, che non richiede cure particolari, che produce frutti ad alto potere nutritivo, che dà ottimo legname da ardere, sono diventati esperti arboricoltori.
La pianta produce un legno di colore bianchiccio, pesante e duro, utilizzato nei lavori d’intarsio e in ebanisteria.  Dai polloni si fabbricano panieri e ceste.
I Crociati, i Genovesi, i Veneziani contribuirono alla diffusione del Carrubo tanto che alla fine del Medioevo era sicuramente coltivato in tutte le terre del Mediterraneo accessibili alla sua coltura ed i frutti erano usati largamente per scopi industriali, medicinali, dolciari e foraggieri.
Hehn racconta che il Carrubo era oggetto di religiosa venerazione dei Musulmani e dei Cristiani, specialmente nella Siria e nelle regioni dell’Asia Minore dove, all’ombra del Carrubo, s’incontrano icone dedicate a San Giorgio.
Modica e Ragusa sono città molto ricche di Carrubi e il loro protettore è proprio San Giorgio.
Interessanti notizie sul Carrubo in Sicilia sono date dall’abate Sestini, nella seconda metà del Settecento, che inserisce fra le aree di maggior diffusione Ragusa, Comiso, Avola, Noto, Pama di Montechiaro.
Paolo Balsamo, nel suo “Giornale del viaggio fatto in Sicilia” nel 1808, racconta che le carrube erano “una delle più abbondanti produzioni di Vittoria e di tutta la contea di Modica“.
Notizie dettagliate sulla produzione e sul commercio delle carrube nel secolo XII provengono da Al Edrisi, geografo arabo vissuto a Palermo alla corte dei re Normanni.
Nel secolo scorso la coltura del Carrubo ha avuto un ruolo importante nell’economia della Sicilia, dell’Italia, della Spagna, della Grecia, del Portogallo e di tanti altri paesi extraeuropei.
Le persone anziane della Sicilia ancora oggi raccontano dei tempi magri del periodo bellico quando, per attenuare i morsi della fame, la gente rovistava nelle mangiatoie e nelle bisacce, dove si cibavano i cavalli e gli altri animali, alla ricerca delle preziose carrube.
Una realtà tristissima, ma allora molto frequente.
Il consumo delle carrube come “pane del povero” è andato sempre più a diminuire nel tempo ed è un chiaro indice del migliorato tenore di vita delle classi operaie e contadine nell’Italia meridionale e soprattutto in Sicilia.
Per questo motivo, negli ultimi quaranta anni, la coltura del Carrubo e la produzione dei frutti hanno subìto una notevole contrazione.
Adesso la coltura del Carrubo è in fase di ripresa perché la polpa e i semi sono stati valorizzati dalle industrie per gli innumerevoli impieghi. L’Italia è il secondo paese produttore di carrube preceduto dalla Spagna.
I paesi anglosassoni nutrono una gran simpatia verso il Carrubo che chiamano “tree of life” per l’elevato valore nutritivo del frutto che utilizzano come farina nella preparazione dei loro dolci casalinghi.

Jul 2, 2019 - Senza categoria    Comments Off on “AMOENITATES” IL LIBRO DI POESIE DEL PROF. GAETANO TODARO PRESENTATO A MISTRETTA E A LICATA

“AMOENITATES” IL LIBRO DI POESIE DEL PROF. GAETANO TODARO PRESENTATO A MISTRETTA E A LICATA

L’amicizia vera è un valore inestimabile.
Il ricordo delle persone amiche, che purtroppo non sono più con noi,  rimane indelebile nel tempo!
Ecco perché descrivo la figura del prof. Gaetano Todaro attraverso il suo libro “AMOENITATES” composto da101 liriche.
Sabato, 15 marzo 2008, nella prestigiosa sala delle feste della  Società Operaia di Mutuo Soccorso a Mistretta è stato presentato il libro di poesie “AMOENITATES” del prof. Gaetano Todaro, edito da “LA VEDETTA” .

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In copertina:  Gli ulivi dipinto di  Van Gogh

Ho curato la pubblicazione postuma del libro sponsorizzato dalla ditta MAGMA, di Angelo Bellomo di Licata.

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Il libro è stato ampiamente sostenuto  dall’ Associazione “Progetto Mistretta” e dal giornale “Il Centro Storico”.
Hanno portato il saluto: il presidente della Società Operaia, il signor Nicola Rossini e il sindaco di Mistretta avv. Iano Antoci. Avrebbe dovuto essere presente anche il sindaco di Licata, il dott. Angelo Biondi, ma è stato trattenuto in sede da alcuni impegni istituzionali.
Hanno relazionato: il prof. Ubaldo Lombardo, il prof. Tatà (Sebastiano) Lo Iacono.
Ha letto alcune poesie, tratte dal libro, la figlia Marianna Todaro.
Nella Seminara (sono io) concluse l’evento con le sue riflessioni.
Ha condotto i lavori l’amico Giuseppe Ciccia.

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Il tavolo dei relatori

 Ha aperto i lavori  il signor  Mario Lutri, vicepresidente della Società Operaia, in assenza del signor Nicola Rossini. Dopo aver dato il benvenuto ai presenti e portato i saluti di tutti i soci del sodalizio, ha ringraziato Nella Seminara per avere scelto la Società Operaia come luogo idoneo per la presentazione del libro del prof. Gaetano Todaro.
Ha dichiarato che la sede della Società Operaia è sempre disponibile a ospitare eventi così importanti che innalzano il livello culturale della città di Mistretta.

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 L’avv. Iano Antoci, nel suo  breve intervento, ha parlato del valore dell’ospitalità e dell’accoglienza nel nostro paese di tutte quelle persone che mistrettesi non sono, ma scelgono Mistretta come loro sede di residenza, favorendo l’inserimento nel tessuto sociale locale.
Il prof. Gaetano Todaro era licatese-mistrettese!
Sua moglie, la sua signora Maria Grazia Lo Iacono, è mistrettese e lo sono le loro tre figlie.

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Il prof. Ubaldo Lombardo ha parlato dell’attività scolastica del prof.Gaetano Todaro molto stimato non solo dal corpo docente, ma soprattutto dagli alunni delle diverse generazioni che si sono succedute negli anni al Liceo “Alessandro Manzoni”. Hanno apprezzato la sua preparazione culturale e didattica ma, in particolare, la sua grande umanità.

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 Molto erudito è stato l’intervento di Tatà Lo Iacono, veramente un po’ lungo, che riporto integralmente:  “Ringrazio il presidente della “Società Operaia”, Nicola Rossini, per l’ospitalità; l’associazione “Progetto Mistretta”, soprattutto la professoressa Nella Seminara e la famiglia, per l’incarico di parlarvi delle poesie del professore Gaetano Todaro: la qualcosa sicuramente mi gratifica…
  Ămoenĭtās amoenitatis, in latino, sta per piacevolezza, soavità, diletto, grazia, fascino, incantamento. Todaro forse conobbe certe composizioni minori e meno note di Charles Baudelaire, da cui mutuò il titolo: una raccolta di 23 poesie, intitolata Amoenitates belgicae.
Il poeta francese le scrisse negli anni del soggiorno in Belgio: là il tono è caustico, c’è acredine contro i belgi e la loro nazione, tema che non è il caso di riprendere.
Per le poesie di Todaro, a cominciare dal titolo, partirei dalla amenità come categoria estetica. Per categoria estetica s’intende uno stile: le categorie estetiche più note sono il gotico, il barocco, il macabro, l’horror, il romantico, il vero, il reale, il surreale, il liberty, il naif .
La categoria dell’amenità è meno celebre. Nessun critico letterario forse l’ha mai formalizzata. Per penetrare nelle poesie di Todaro è quella che adotterò.
E’ probabile che il titolo derivi da fonti di letteratura latina e greca.
Carmelo Incorvaia, amico di giovinezza e compagno di classe, ha scritto che Todaro “amava poco latino e greco, ma li studiava con rigore”.
Quello studio, comunque, lo accostò a quegli autori classici, nei quali, a
ccanto al tema della salute della vita agricola, e dell’attività dell’otium, è fondamentale il motivo dell’amenità del paesaggio.
Per capire questo tipo di amenità, mi piace ricordare un’osservazione che Antonino Testagrossa, presidente emerito dell’associazione “Progetto Mistretta”, l’anno scorso, ad agosto, ospite nella mia campagna, fece sul paesaggio: “Si vede tutto: -disse- le isole, il mare, i boschi, gli uliveti, e anche un pezzo di fiume…”. Sorrise e si abbandonò al diletto e al piacere dello sguardo. Bisogna cominciare da qui per capire cosa sia l’amenità.
Ora facciamo un salto indietro di circa 2117 anni…: da Testagrossa a un autore latino.
Da alcuni passi delle Epistole V e VI, di Plinio il giovane, si percepisce il ruolo del paesaggio, o meglio delle locorum amenitates. In una lettera di Plinio a Tacito, si intuisce come il luogo in cui si trovava la villa dello scrivente fosse in posizione privilegiata rispetto alla vista sul golfo di Napoli, proprio perché si poteva ben vedere la nube di eruzione del Vesuvio.
Lì c’è una prima apparizione della idea della natura come amenità. Il motivo del piacere che deriva dalla contemplazione dei paesaggi naturali lo ritroviamo ripreso più volte, e tale rimarrà come invariante: anche in architettura, da Palladio fino a Le Corbusier.
Nelle poesie di Todaro ci sono i motivi del paesaggio e della poesia come amenità estetica. Stagioni, sole, luna, cielo, mare, sabbia, ruscelli, fiori, zolle di terra, vele, vigne, vitigni, neve, pioggia, stelle, cactus sfioriti troppo presto, valli, fiumi, piazze, spiagge, vento di scirocco, luce, anche “libri di pietra da sfogliare”, onde, giardini, montagne, alberi, foglie gialle, mietitura, rane, cavallette, libellule, girasoli sono elementi del suo paesaggio esteriore e interiore; e compongono il suo repertorio di poeta.
L’amenità della natura, dunque… Il paesaggio esteriore di Todaro è ambiente agreste e marinaro: quello della giovinezza, della provincia di nascita e della famiglia di origini marinare di Licata.
Todaro giovane, alla fine del secondo dopoguerra, è in spiaggia e interroga la naturalità che gli sta di fronte, già da allora; lui e gli amici d’infanzia si devono accontentare di una palla di pezza e di quell’unica amenità disponibile: il paesaggio. All’epoca, non c’era altro di ameno.
“Chissà quando [ri]vedrò l’azzurro di quel mare [e il colore di quelle] bionde spiagge…”, scriverà più tardi.
Il tema dell’amenità del paesaggio c’è in Virgilio. Il sogno virgiliano del ritorno alla campagna e alla natura è motivo centrale delle Georgiche e delle Bucoliche.
Todaro, nella scelta del titolo, ebbe, anche non consapevolmente, questi referenti. Fu questo il suo retroterra culturale e non solo quello della cultura francese.
Il tema dell’amenità è legato nella letteratura scientifica all’universo botanico delle piante esotiche medicinali.
Nella Seminara ha scritto un libro altrettanto ameno e sa che natura e cultura, passione poetica e botanica sono tappe di un viaggio mentale tra Mistretta e Licata: stesso viaggio fece Todaro.
Un altro referente sull’amenità, da fare non per sfoggio di erudizione, bensì per capire meglio le poesie di Todaro, è Teocrito, poeta greco.
Tra Virgilio e Teocrito il modo di rappresentare il mondo rurale, e, quindi, l’amenità, è diverso.
La natura teocritea è ridente, luminosa, mediterranea; il poeta cantava la campagna nel suo vigore e splendore.
I paesaggi virgiliani sono inquadrati sotto l’effetto delle tenue luci della sera, sono soffusi di malinconia (Ecloga I,82-83), sono espressione di un mondo ignoto a Teocrito.
Virgilio, molto più di Teocrito, era figlio di un’età satura di cultura e civiltà, che vide nella campagna l’innocenza, la pace dell’anima, una specie di perfetta letizia.
Teocrito cantò l’amenità della campagna senza alcun senso di nostalgia, come fece, invece, Virgilio.
In quest’ultimo non c’è, però, la sensualità agreste del poeta ellenistico.
L’entusiasmo teocriteo per l’amena campagna odorosa di sole, spogliandosi di sensualità, si è arricchita con Virgilio di sentimento. Teocrito, nel trattare la natura, è realistico e oggettivo e mantiene un certo distacco nel narrare le vicende sentimentali dei pastori; Virgilio è fantasioso, vago, sentimentale. L’amore del poeta romano per i campi ameni non è per nulla letterario; egli non canta l’idealità della campagna, canta la “sua campagna”, quella propria, come io potrei canticchiare quella “mia”, di contrada Cicé…
In Todaro, la natura è rievocazione non dell’amenità di un mondo naturale perduto, bensì di una perduta amenità interiore. Amenità, dunque, non va riferita soltanto al diletto estetico nello scrivere poesia, la qualcosa è, comunque, un altro aspetto dell’amenità in generale. Non a caso, sulla copertina della prima edizione delle poesie di Todaro  ci sono gli ulivi di Van Gogh, non i famosi girasoli dello stesso pittore. L’ulivo contorto e sofferente è immagine più prossima e vicina all’emozialità di Todaro.
I girasoli hanno una valenza solare, serena e meno sofferta. Le poesie di Todaro somigliano più agli ulivi mediterranei, contorti e sofferti, dove l’amenità del paesaggio non è priva di ombre e di amaro ovvero di amarezza e disillusione… L’amenità non amena del paesaggio interiore coincide con la stessa non troppo amena amenità del paesaggio esteriore.
L’amenità è categoria sia estetica sia etica.
E’ anche una non manifesta concezione filosofica su un certo modo di intendere vita, esistenza, paesaggio, natura, rapporto tra uomo e natura, relazione tra uomo e Dio. In etica, l’ameno è anche il bene, la vita sana e pulita ovvero la vita modesta e serena, da cercare e coltivare in solitudine, come una pianta, in campagna, luogo antitetico alla città; in estetica, l’amenità è anche il bello, ma non un bello pacchiano ed esagerato, non il bello sublime e barocco, bensì il bello lieve e sobrio, il bello mediano, il bello della vita moderata; in filosofia, l’amenità è condizione dell’anima che cerca un piacere delicato, mite, lieve, tenue: che non è il piacere edonista sfrenato o eccessivo.
Il termine amenità, nel linguaggio popolare, indica detti piacevoli, motti arguti, facezie, aneddoti divertenti, freddure, battute di spirito, barzellette e, a volte, è eufemismo di sciocchezza. Si dice, di qualcuno che ci ha intrattenuti, a lungo, su un qualche tema: “Ha parlato di questo e altre amenità” oppure “Il discorso di quel tizio era pieno di amenità”: per non dire che era infarcito di cretinerie e scempiaggini. In tal caso, amenità ha un’accezione negativa. Non è il caso delle amenità poetiche di Todaro. La categoria estetica dell’amenità è il tratto estetico di queste poesie, che Todaro chiamò “frasche”, ovvero erba, erba secca da bruciare, poi le definì “battiti, pulsazioni del cuore”: cioè amenità emozionali…
L’amenità, dimensione dell’anima e attributo del paesaggio, è non solo sfondo e scenario. E’ la sostanza delle poesie di Todaro e fu la sostanza della sua idea dell’esistenza. Questa è la mia chiave di lettura delle poesie di Todaro. Le radici di tale amenità estetico-esistenziale vanno ricercate tra i latini e i greci. Non in Francia.
Detto questo, torniamo al back-ground culturale di Todaro e al suo legame con la Francia, la cui cultura conobbe e studiò a fondo. Il soggiorno a Parigi, prima della laurea in Lingue, conferma l’innamoramento per la cultura francese.
Le poesie in francese, la cui musicalità è in sintonia con quella congenita della lingua francese, confermano la passione per la lingua e per la cultura dei cosiddetti cugini d’Oltralpe.
Questo diletto musicale, ovvero lo scrivere in francese, è anche un altro aspetto dell’amenità. Amenità, qui, è sinonimo di musicalità: amenità musicale, amenità linguistica…
Mi spiego: a me, per esempio, danno una qualche vibrazione-emozione i poeti e la poesia spagnola. Prima del significato delle parole mi dà amenità il suono della lingua spagnola: sicché la poesia, prima di essere senso/significato verbale, è senso musicale; prima di essere significato è significante. Questa emozione possono darla le canzoni e anche la sonorità delle parole: mariposa (in spagnolo, farfalla), papillon (in francese) non sono come il suono farfalla, in italiano, che non è poi tanto male.
Successe così a Todaro!
La sua amenità linguistica fu il francese: come diletto musicale. Per Todaro, il francese, prima di essere lingua letteraria, di studio e di professionale, fu lingua di vita e per la vita quotidiana: succede a ogni emigrato, che deve cominciare a capire, quando si trova per lavoro all’estero, suoni e pronuncia delle parole più elementari: deve cioè imparare come si dice pane, vino, olio, giornale, pigiama, mutande oppure come si dice che ore sono, come stai…
La lingua, prima di essere stata approdo letterario, fu accostamento al parlato quotidiano, per viverci dentro e dentro abitarci. Ha scritto Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno che adottò il francese come seconda lingua madre, che una lingua si abita: come un vestito, come un paese, come un guanto. La lingua è il familiare nello straniero: per Todaro, straniero in Francia, il francese diventò lingua quasi materna: e siccome per un poeta la sola patria è la lingua in cui parla e scrive, si può dire che Todaro ebbe due patrie perché ebbe due lingue.
Ebbe anche, per così dire, due città natali: Licata e Mistretta.
Todaro, dunque, cominciò a indossare-vestire il francese da emigrato, come tutti gli emigrati. Questa lingua divenne mestiere, allorché la insegnò, e poi diventò segreto esercizio letterario.
Cinque anni a Parigi e in Francia furono un “bagno” linguistico, che chiunque intenda studiare una lingua dovrebbe obbligatoriamente fare come completamento didattico. Per un docente di lingua, il contatto-confronto con la lingua parlata che deve insegnare, prima di quella letteraria, è altrettanto necessario quanto quello di chi la deve apprendere.
Todaro fu mio docente di francese.
Dopo lo spagnolo, il francese è la seconda lingua estera che prediligo. Stiamo scoprendo l’inglese da poco: per colpa dell’informatica e dell’elettronica. Ritengo che il trend culturale dominante, la supremazia dell’inglese, faccia torto all’italiano e alle lingue neo-latine, comprese quelle classiche, e anche al francese, per la quale, se ricordo bene, non superai mai la dignitosa sufficienza.
Per Todaro questa lingua fu una delle sue amenità: fu musica del suo sentimento ovvero del suo sentire; starei per dire che fu musica del suo silenzio…
Ricordo che nella mia classe c’era un amico di gioventù, parente di Todaro, che aveva un legittimo orgoglio nel non sfigurare in francese. Sicuramente era un passetto più avanti di me. Todaro non fu mai parziale né impreciso nelle valutazioni: non si fece condizionare da fattori che non fossero quelli del rendimento. Va ricordato un episodio: fu con Todaro e Antonio Lo Iacono che mi cimentai, per la prima volta, in un esercizio di traduzione in italiano di una notissima e melodiosa poesia di Verlaine, Chanson d’automne, che faceva così: “Les longs sanglots de violons…”.
Quei “lunghi singhiozzi di violini” restarono un esercizio. Se ci penso bene quei “singhiozzi di violino” si risentono rileggendo Todaro: sarà forse conseguenza di un affetto a-posteriori verso un ex-insegnante che non c’è più.
A quell’epoca, e anche dopo, non sapevo che Todaro scrivesse poesie: neppure in francese. Lo appresi poco prima della scomparsa e ne ebbi conferma subito dopo. Qualche anno prima, quando gli capitò di leggere un mio libro di poesie, che ha un titolo strano, “L’infame vergogna del niente”, m’incontrò e mi fece un appello reticente, non chiaro, non manifesto, quasi un invito latente, forse un monito (come quello che può fare un padre); mi accennò vagamente al fatto di come la “poesia possa a volte bruciare dentro, e quindi occorre starsene lontani, onde non farsi scottare”.
Non si capì bene se mi stava complimentando oppure mi stava stroncando: come fa un professore a suo ex-allievo. Mi invitò taciturnamente, com’era nello stile dell’uomo, a non farmi ustionare da quel fuoco o fuocherello che fosse. Credo che fu uno dei pochi lettori che ne capì il linguaggio ermetico dei poeti simbolisti e surrealisti francesi, che Todaro conosceva, e non solo per dovere professionale. Altri ex-professori sono stati più lusinghieri; lui, per così dire, fu avaro di elogi. L’avarizia di parole è sincerità; quando le parole sono elogio abbondante non sono autentiche.
Dice Incorvaia: “Le poesie di Todaro sono vere”.
Fu vero, dunque, quel suo silenzio reticente, anche con il sottoscritto.
Non sto parlando di Todaro per parlare di me. E’, piuttosto, il contrario: sto parlando di me per parlare di Todaro, in una maniera che sia autentica e non retorica, onde entrare meglio dentro le sue poesie.
Todaro, prima e dopo quei contatti, da professore e sporadico collaboratore di un’emittente radiofonica di cui mi occupai negli anni ’70, aveva alcunché di chiuso, di “a parte”, una qualche timidezza, che lo fecero apparire un “isolato”. Fu, forse, come si dice, un incompreso dal contesto mistrettese in cui lavorò. Questo “isolamento”, che non ebbe nella sua Licata, emerse quando tentò, con poco esito e per una sola volta, l’impegno politico. Suppongo che quella esperienza fu una delusione.
Con gli allievi la sua capacità di comunicazione era eccelsa. Aveva quell’autorevolezza che lo rendeva docente carismatico e, quindi, distante: non un docente da prendere alla leggera, la cui materia era, appunto, da non prendere alla leggera.
Distanza e pesantezza non sono difetti. La distanza è ciò che separa persone di generazioni diverse, nonché docente e allievo.
Ci sono docenti che risultano vicini e amichevoli, e non sanno mantenere né imporre la distanza, intesa in senso buono.
La distanza di Todaro non era superbia. La pesantezza era serietà. Todaro fu un docente “pesante”, cioè autorevole, non autoritario, e altrettanto “pesante”, voglio dire densa e importante, fu la considerazione che lui ebbe e che con lui si ebbe dello studio del francese, materia che da tutti era considerata altrettanto autorevole.
Non succede con tutte le materie: ancora oggi l’insegnamento di musica o di educazione fisica è considerato meno “pesante”, quindi leggero (in inglese, diremmo soft) rispetto a matematica, latino e greco. Sono parametri ed etichette sbagliate, che nessuno condivide, me compreso.
Nel mondo anglosassone musica e ginnastica sono discipline di alto livello: nei campus universitari o nei licei americani chi studia musica, quanto meno, suona il violino ed esegue Mozart; noi impariamo appena a recitare Il sabato del villaggio di Leopardi; in quelle stesse scuole chi fa sport aspira, quanto meno, ad andare alle Olimpiadi (e spesso ci riesce).
Questo è un discorso che riguarda la scuola italiana. All’interno di questa scuola, così com’è quella italiana, con i difetti che le appartengono, ci sono docenti che riescono a renderla direi “diversa” e migliore. Todaro appartenne a questa categoria di docenti che rendeva migliore la scuola di quella che ancora oggi è e di quella che era negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Le lezioni di Todaro erano sicure, misurate, ordinate da un rigore che non annoiava; erano lievi e al tempo stesso “pesanti”. Non erano un mattone: erano impegnative.
Le poesie di Todaro, comprese quelle in francese, che non sono “pesanti”, hanno una levità e soavità che rimandano al titolo in latino, e, al tempo stesso, sono gravi e pensierose. Le amenità poetiche di Todaro sono levia gravia, come dicevano i latini.
Versi segreti, scritti in segreto, che Todaro in privato raccolse,  oscillano tra amenità e gravità, tra leggerezza e inquieta pensieriosità, oltre al fatto che sono e furono figli di una madre che si chiama taciturnità. Todaro, difatti, apparve persona taciturna che pensava densamente.
Il taciturno non parla a vanità, né invano usa fiumane di parole. Todaro era docente oratore sobrio e misurato, perché era concentrato: le sue parole uscivano, per così dire, da una camera oscura che diventava camera chiara.
Quando le sue poesie furono stampate la prima volta, in edizione familiare limitata, ebbero uno scopo “altro”: ritrovare qualcosa di lui che fosse ancora vivo.
Facciamo così con le parole e con gli oggetti personali rimasti, che la persona che amammo usò, consumò, conservò, toccò, indossò o appena sfiorò con le mani. In questo c’è qualcosa di feticistico e animistico: le cose rimaste, di buono o cattivo gusto che siano, mantengono memoria e hanno il potere magico di richiamarci la persona scomparsa. Sono una forma di elaborazione del lutto, che ha luogo dopo la “crisi della presenza”, cioè dopo la morte, per dirla con l’antropologo Ernesto De Martino.
La crisi della presenza è quel buco vuoto e nero che una persona lascia. La crisi della presenza, ancor più, è quell’angoscia dell’assenza quando ritorniamo a casa e la persona cara defunta è assente, fuori onda, fuori casa, fuori stanza, altrove, non più qui:… sicché per tentare l’impossibile risoluzione dell’immane potenza del negativo, cioè l’immane potenza di quell’assenza-vuota, ci aggrappiamo a cose, oggetti, parole, lettere, biglietti, fiori secchi, monili, gioielli, fotografie…
La fotografia è, al massimo grado, il tentativo inutile di curare e invano risanare la crisi della presenza. La fotografia è apologia della morte nel momento in cui viene scattata, nonché esaltazione-elogio del non-esserci più nel momento in cui viene recuperata dall’album dei ricordi.
Roland Barthes, in un brillante saggio del 1980, La camera chiara, che più di ogni altro ha sottolineato questo motivo, ha parlato di quella “cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno [indietro] del morto”.
Anche le poesie servono spesso a questo scopo non-poetico.
Le poesie di Todaro, in prima battuta, furono raccolte con questo obiettivo: il ritorno indietro (impossibile) della persona che non c’è più. In questa sede, le poesie di Todaro vanno riconsiderate. Non sono rievocazione di chi non c’è più e che ora è nella dimensione dell’assenza. Sono documento testuale, discorso poetico, linguaggio letterario; sicché le dobbiamo analizzare in quanto tali: non come elaborazione di un lutto e neppure come ricordini di parole messe in fila. Vediamo di elevare le poesie di Todaro a ciò che effettivamente furono e sono: cioè linguaggio, parola, monologo, dialogo muto, logos che interroga e s’interroga.
Penso che così gli si renda meglio omaggio e che questo sia il modo migliore per ricordarlo con affetto. La nostra prospettiva, pertanto, non è quella del “c’era una volta un insegnante, che scriveva poesie, e ora non c’è più…”.
Scritte all’interno della sua “camera oscura” ebbero un risultato: quello che opera la luce quando fa emergere colori e diverse tonalità di grigio sulla carta fotografica. Quelle poesie furono il transito di Todaro dalla “sua” camera oscura alla “sua” camera chiara e viceversa. In quella camera della chiarità, ci sono ombre e luce serale, luce d’alba e chiarore crepuscolare.
In quella stessa camera dell’oscurità, c’è luce fievole.
Amoenitatis e chiarità sono quasi sinonimi. Amenità e oscurità sono termini oppositivi. Ma trattasi di una opposizione complementare. In retorica, tale opposizione complementare si chiama ossimoricità. Gli ossimori (nel dizionaro De Mauro, ossìmori o ossimòri) sono l’accostamento di due parole contrapposte. L’amena tristezza di Todaro, dunque…
Un paesaggio ameno non dovrebbe essere oscuro, torbido, tenebroso. Una poesia amena, scritta per amenità, diletto e piacevolezza, non può essere cupa, fosca, caliginosa. Le poesie di Todaro sono amene perché sono chiare, comprese quelle più musicali scritte in francese. Ma la chiarità di queste poesie non è chiarità assoluta, cioè chiarità punto e basta.
E’ una chiarità-amenità ambigua, laddove la luce è screpolata da semioscurità e la piacevolezza dell’amenità è segnata da sapori amari e/o amarevoli. E’ una chiarità scura, turbata da melanconia, da inquietudine.
Carmelo Incorvaia, nel ricordo inserito nella seconda edizione delle poesie di Todaro, traccia un ritratto dell’amico che va ripreso per capire la scura amenità di Todaro. Leggendo quelle righe di Incorvaia ho trovato conferma di ciò che ho pensato di scrivere sulle poesie di Todaro. Incorvaia riferisce le difficoltà familiari e il malessere di Todaro giovane, l’altro periodo di emigrazione in Germania e dice che Todaro, “alto, elegante, sempre con una Nazionale tra le dita, amava gli scrittori moderni; leggeva molto; prediligeva gli umoristi e gli autori satirici; aveva la battuta pronta, spesso amara; che la sua ironia diventava sarcasmo e  che sorrideva raramente”.
Il sorriso amaro è uguale all’amenità amara. Non ricordo che Todaro sorridesse spesso. A me, allievo e  quasi amico di famiglia, sembrava un effetto della sua pensosa taciturnità.
Todaro senza sorriso. Ma non era solo assenza di sorriso. Todaro era tormentato. Le poesie, che Incorvaia definisce “il suo mondo segreto”, lo confermano. Incorvaia, aggiungendo che Todaro “aveva idee sicuramente socialiste, anche se vaghe, [aggiunge] che era convinto che la Sicilia non sarebbe entrata nella modernità e pensava [come Sciascia] che la nostra terra fosse irredimibile”, e così ci consegna un ritratto di Todaro senza speranza; precisa, appunto, che “l’indistinto socialismo di Todaro era senza speranza”…
La penso anch’io così. E se mi si consente una deliberata e premeditata provocazione, penso che anche Mistretta sia irredimibile…
Todaro senza speranza. Todaro senza sorriso. L’ironia che si fa sarcasmo. I versi segreti di Todaro confermano queste assenze: il non sorriso, la non speranza. Todaro, durante l’ultimo incontro con Incorvaia, discusse di letteratura e di Céline, uno scrittore maledetto, e disse di apprezzarne “il genio paranoico e gli stilemi”. In quel momento, come riferisce Incorvaia, “Todaro si sentiva prigioniero, in un vicolo cieco, aveva paura, avvertiva la fine…”.
Se così fu, come di fatto fu, parlare, a proposito delle sue poesie, come ho fatto sino ad ora, di amenità estetica, musicale, linguistica e emozionale sembra un assurdo, una cantonata, un errore, un grosso abbaglio e uno sbaglio: di fatto, le poesie di Todaro hanno questo titolo: Amoenitates, e, quindi, non siamo proprio fuori strada, né fuori binario…
L’amenità esistenziale di Todaro fu amenità interferita, inquinata, torbida, quasi impura. La sostenibile leggerezza dell’amenità di Todaro fu, in realtà, insostenibile pesantezza della oscurità che sopraggiunge, ci sta accanto e ci vive dentro… Con le sue amenità poetiche, in qualche modo, cercò, forse invano, di curare la propria non-amenità esistenziale. Todaro, che amò la scrittura tragica di Céline, sapeva che la vita è tragedia, che l’esistenza è assurdo…
Tra silenzio e parola la scelta di Todaro (che si chiese, mentre contemplava il cielo stellato notturno, quale fosse la sua strada), fu il silenzio ovvero una certa taciturnità (e come abbiamo detto fu questo un suo tratto caratteriale); ma coltivò la parola, da poeta, in segreto, e nell’esercizio professionale.
Il paesaggio ameno di Todaro, che è anche quello che linguisticamente assomiglia alla musica di Verlaine, fu il suo paesaggio dell’anima. Un paesaggio spesso senza connotati topografici precisi. Un paesaggio ferito. Un paesaggio contemporaneamente ameno e cupo. Di fronte ai suoi paesaggi ameni, Todaro ammoniva come non bisognasse “credere che tutto sia apparenza”: quindi, la sua apparente amenità era, di fatto, oscurità, annebbiamento; e se non assenza, quanto meno insufficienza di luce.
Todaro non fu poeta dell’amenità serena e quieta, come quella di Virgilio e Teocrito; fu poeta di un’amenità tragica. Laddove il paesaggio ha connotati fisico-geografici più dettagliati ci sono colori, suoni, sapori e umori siciliani e mediterranei; laddove interpella il succedersi delle stagioni e dei giorni per capire ciò che quel mutare e quella successione di giorni, anni e stagioni gli scatenassero dentro, a livello poetico-emozionale, il suo paesaggio è anonimo. La sua osservazione del paesaggio ameno, comunque, fu un’osservazione-rappresentazione dolente.
Quando parla di giornate piovose e uggiose sembra che sia una pioggia tutta mistrettese: quella che conosciamo noi, a gennaio e a febbraio, la quale, oltre a essere fenomeno meteorologico, è causa di una sorta di malessere dell’anima, una specie di metereopatia mistrettese. Quando parla di sole e stagioni calde il riferimento geografico-topografico non è mistrettese-nebroideo, bensì quello licatese, cioè quello della città natale.
In questa non amena amenità paesaggistica, interiore e esteriore, c’è il controcanto dell’amore. Le poesie di Todaro sono poesie d’amore. In Todaro l’amore è accompagnamento che suona in chiave di basso. Non è amore lieve e ameno: è amore grave. Se l’amenità del paesaggio è riflesso dell’amenità dell’anima è vero anche il contrario: il paesaggio dell’anima cupo, quasi scuro, anche grigio, greve e grave rispecchia la non amenità del paesaggio fisico. In questo rispecchiamento reciproco, se il paesaggio dell’anima è inquieto e scuro allora l’amenità del paesaggio fisico è come un punto di fuga: dalla camera oscura alla camera chiara, dalla non-amenità interiore all’amenità esteriore, la quale dovrebbe diventare medicina e cancellare ciò che dentro ameno non è.
Anche l’amore non è ameno. E’ amore amaro. Dentro quel paesaggio, l’amore è croce, ma è anche delizia. La stessa delizia che Todaro trovava nell’amenità delle sue poesie, nella musicalità del francese e nei suoi paesaggi esteriori.
Non c’è un contrario netto della parola amenità, mentre i sinonimi sono parecchi. Un sinonimo di amenità è anche, addirittura, stupidità. Ma il vero contrario di amenità non c’è. L’ameno, comunque, non è triste. Non è la tristezza il contrario di ameno. L’ameno è lieve e non è grave. L’ameno, nel senso di Todaro, non è sciocco. L’ameno è vago, sottile, indefinito, impalpabile, leggero. L’amenità non è oscurità. Le poesie di Todaro, scritte sull’onda di una sostenibile leggerezza dell’ameno o dell’amenità, sono tuttavia scritte sotto il registro estetico dell’amenità amara, oscura e pesante: una triste amenità…
Non sono frasche secche. Sono frasche ancora verdi, non arse e neppure aride, né da bruciare; sono delizie orali e verbali, sorbetti al limone: dove ci sono, come negli amari amaricanti della vita, tre punte di amaro amore amaro e una punta di amenità. Amenità, dunque, scritte per diletto, con l’amaro in bocca…
L’amaro amore pesa. L’ameno è volatile. L’ameno è il sogno visto di fronte. Il sogno che svanisce è l’amenità che viene meno e si dissolve. L’amenità che si spegne diventa amara/amarevole. Le luminose/oscure amenità di Todaro, non prive di ombre, la cui luminosità non è abbagliante, per queste ragioni, sono, dunque, levia gravia: appaiono lisce, scivolose e musicali, e, al tempo stesso, sono gravi e pesanti, a volte anche aspre, come il sapore del limone. I limoni hanno un colore che è la fotografia-sinestesia dell’ameno amaro e dell’amaro giallo…
Presentate, dunque, come amenità, ovvero nūgae, cioè inezie, bagattelle, quisquilie, bazzecole, quasi sciocchezze, cose da nulla, frivole nullità, leggere e vuote, cioè altresì scherzi e schizzi poetici che valgono uno zero, di contro, nonostante la modestia caratteriale che segnò il fare, lo stile e la persona, hanno alcunché di denso, intenso e corposo. I poeti, di solito, minimizzano il loro fare poetico e non sarebbe accettabile da parte loro la spocchiosa affermazione che le loro composizioni sono le migliori del mondo.
Lo stesso fece Todaro. Minimizzò, tagliò, scelse la sobrietà, fu controllato e frugale nello scrivere; non fu un incontinente verbale; misurò e controllò i versi, consapevole che la categoria estetico-filosofica dell’amenità non può essere priva di moderazione e moderatezza (anche nello stile), misura, freno e prudenza, autocontrollo, equilibrio interiore, nonché estetico.
Questo equilibrio è fatto di bilanciamento dei toni, di armonia e simmetria.
Le crepuscolari amenità di Todaro non hanno sbavature di stile. Non disperdono e non si disperdono. Non debordano e neppure tracimano dalla dimensione dell’amenità, sia essa pure un’amenità ambigua e non solo fatta di chiarità, verso l’angoscia devastante.
In questa chiarità oscura s’innesta lo spleen baudleriano di Todaro, quella forma particolare di disagio esistenziale, che si tradusse -a livello espressivo- in una fertile  creatività poetica, capace di oggettivizzare le sensazioni e gli stati d’animo in numerose immagini visionarie, prodotte quasi da uno stato di sonno-veglia. Lo spleen è altresì una particolare caratterizzazione dell’inettitudine, che indubbiamente include elementi di debolezza psicologica e di mancato adeguamento al reale, ma che -a differenza della noia leopardiana- non produce argomentazione e pensiero, riflessività sulla condizione umana, ma si gioca tutta, a livello poetico-artistico, nella resa espressionistica degli effetti devastanti e a volte allucinatori dell’angoscia esistenziale oppure, come nel caso di Todaro, nell’amena e scura tristezza delle sue poesie.
In Todaro c’è il “male di vivere”; c’è melanconia, ma non c’è angoscia che distrugge; c’è il sentimento dell’essere inadeguati alla realtà; c’è la senzazione che il tempo è erosione e non bisogna perdere la gioia dell’istante; c’è la concezione che la vita è niente; c’è l’idea che nel mondo c’è l’imbecillità degli imbecilli; c’è la lucida certezza che esistere è il piacere degli inganni, che vivere non è altro che senzazione, che la vita è anche assurdo, e che, comunque, alla fine, ma proprio alla fine, c’è spazio per una speranza, quando di ogni speranza è rimasto lo zero assoluto… “…e ti dimeni a cercare la rosa come se il mondo/possa essere un’altra cosa”: altra cosa di che? Altra cosa dell’assurdo o del non-assurdo? E’ qui che s’innesta una ricerca della verità, altrimenti detta divino verbo/da vili sofisti calpestato. Al Dio della verità, che altri calpestano, Todaro rivolge questo quesito: “la tua terra è un dono o un inferno?/ Umanità, chi, che cosa ti governa?”
Tra il niente (le néant) e la bêtise (la bestia o l’imbecillità), dove collocare la bussola: in senso orizzontale o in senso verticale? Verso l’immanente, che dura poco, e che anche politicamente non ha valore né prospettive di speranza, o verso il trascendente, che, comunque, nelle poesie di Todaro sembra esserci?
L’assurdo di Camus e Sartre, che fanno capolino in Todaro (nei suoi morceaux, pezzi, frammenti, bocconi di saggezza), non conducono direttamente alla nausea e neppure al nichilismo della morte di Dio.
In Todaro ci fu anche Gesù e la sua storia: in un passaggio quell’incontro diventò preghiera alla Madonna. Ma scriverà altresì che “non bastano le preghiere ad aprire alla speranza”.
“Là dove tu sei, sai di un Cristo risorto” -scrisse-; “quando si spegne una candela, accendine un’altra: è la luce che devi rincorrere…”.
Questa luce può spegnersi: Dio può non esserci; e, a un certo punto, si legge che, senza amore, anche Dio è morto: “la sua assenza morte permette al mare”, ma “il rimedio non è il pianto”, il piangersi addosso, bensì una specie di insistenza a volere bene, a volersi bene, amare…
L’amore,  come ultima spiaggia, può esserci rapito: “la fanciulla che amavo, un angelo l’aveva presa…”.
In Todaro c’è un dare e un togliere, un concedere e un negare, un mettere e un levare, un cucire e uno strappare.
Ci sono speranza e non speranza. In questa regione mediana tra speranza e sua assenza, la natura partecipa di questo ottimismo del cuore non privo di pessimismo della ragione. In Todaro ci fu il divorzio tra ciò che lo spirito desidera e vagheggia e ciò che il mondo delude e tradisce. L’assurdo non è assurdo totale. C’è una chiara e distinta lucidità della ragione, che non si fa incantare dalle illusioni facili… Nelle amenità di Todaro c’è questa lucidità: la lucidità delle delusioni. Forse, questa lucida dispersione delle speranze va collocata nel periodo della malattia, allorché sentì il momento in cui il sipario si chiude e “i lucidi attori della commedia” umana stentano a vedere i colori dell’amenità. In quella fase, intravide il “colore bianco del mantello della morte”, che qui non ha un colore nero, e il colore dell’altro mantello, quello iridato di chi della vita è innamorato e “a cui non si addice il colore del lutto…”.
Todaro non amò Sorella Morte, non ne amò lo spettacolo e la messinscena: in una poesia, scritta forse dopo un viaggio in Spagna, dice di non aver trovato piacevole, quindi non ameno né dilettevole, lo spettacolo nella corrida.
Solo quel popolo “che spesso sa d’ignoranza” applaude il matador. Todaro ammonisce che non si dovrebbe morire tra gli applausi: neanche le bestie…
“…non canto più -scriverà- ascolto in te il mio silenzio e m’innamoro/andiamo mio piccolo somarello/tu con il tuo raglio/io con il mio silenzio…”.
Qui, non senza amara ironia, definisce i suoi versi come un ragliare d’asino:  e per non stonare e stordire, sceglie il silenzio. E, nonostante la stanchezza esistenziale e fisica, dirà che non “bisogna bruciare i sogni”; che occorre camminare, che ci sono “cavalli in libertà che non diranno mai siamo stanchi”, e che “se amore governa il tuo/nostro soggiorno una luce eterna è dietro l’angolo…”: quella luce, però, può spegnersi: difatti, “un vento di scirocco può accompagnare una bara…”.
Dobbiamo trovare una conclusione, almeno provvisoria: la verità di una nuova primavera, che abita nell’interiorità, cioè nel cuore di chi la cerca, ovvero nel battito del tuo/nostro cuore, sta nell’amore, nell’istante di un amore che dura un istante (e non è solo un gioco di parole)…
Nella sfera di questo amore ci fu quello filiale e materno. Della madre scrisse di sentirla vivente “in un angolo di paradiso”. La poesia alla madre comincia con due sinestesie: fenomeno per cui una sensazione corrispondente a un dato senso viene associata alle rappresentazioni di un altro senso. L’immagine della madre è figura sonora, direi musicale: di lei, difatti, richiama i suoni rotondi e caldi della voce femminile; sono i suoni di una donna che nascose il proprio pianto ai figli, che ascoltò il silenzio (un altro ossimoro), e che ebbe una sola canzone: la canzone di chi ascolta; chi ascolta, di solito, non canta: Todaro, invece, dice che quell’ascolto fu musica… Direi che questa immagine della madre come musica è bellissima.
Credo che chiunque pensi alla propria madre che non c’è più, lo faccia in chiave di musica, di sonorità ovvero di forme acustiche, di risonanze…
Nelle poesie di Todaro, che stanno tra amenità e gravità, come stanno tra silenzio e parola, l’autore scelse entrambi. Tra la sua croce personale e la croce storica ed epocale di Cristo (“nel mondo che ti ha condannato sono vissuto”), anche qui scelse entrambe: quella croce, a un certo punto, gli risulterà come meta, obiettivo, percorso, sentiero…
Le poesie del professore Gaetano furono e sono, dunque, questa specie singolare di grave amara amenità leggera.
Furono una sorta di francescana perfetta/imperfetta letizia per chi le scrisse; stessa perfetta/imperfetta letizia trasmetteranno a chi le ha conservate, a chi ha deciso di ripubblicarle, a me che le ho scoperte…e a chi le rileggerà…”

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Sebastiano Tatà Lo Iacono


Gradevole  è stata la lettura delle poesie da Marianna visibilmente emozionata:

A MIA MADRE

Non so da dove venivano fuori

Quei suoni rotondi e caldi.

Amava salutare il nuovo giorno con il canto.

A noi piccoli nascose sempre il suo pianto.

Non guardò mai una data, un calendario.

Quando fummo grandi ci ascoltò ad uno ad uno,

come unica musica della sua amata canzone.

LA BARCHETTA
L’avevo lasciata là                                                             

la barchetta,

tra i giunchi e il dolce canneto.

AL RITORNO DAL VOLO

sciolsi la cima

e al nulla del cielo

al mare l’affidai. 

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Nella Seminara ha concluso i lavori con un piccolo personale commento. “Cari amici il mio invito è quello di leggere le poesie di Gaetano dalle quali ciascuno di noi potrebbe trarre riflessioni personali. Amore, fede, dolore, gioia, tristezza, nostalgia, speranza, malinconia sono stati d’animo che hanno accompagnato Gaetano Todaro nella sua vicenda personale. “Fai il tuo cammino e non guardare indietro; / potresti perdere la gioia dell’istante”.
Raccolti in un diario personale, i ricordi, le riflessioni sono diventati sorgente di ispirazione per l’uomo, per il poeta che, con pudore e con intelligenza, ha aperto il suo cuore, si è lasciato scrutare dentro.
Nella poesia Gaetano aveva cercato la lettura del mondo e della vita ricevendo da essa gran conforto alla sua immensa, ma dignitosa sofferenza. “La sera allo spuntar delle stelle ,/ levo le mie preghiere a Dio; / Pace chiedo per il mondo ,/ Per me, qualche primavera ancora”.
 E così ha espresso anche l’amore per la Natura: “E’ bella la natura ,/ come di sirene il canto; / Fiori, campi, stelle / In cielo tante ,/ Un tuffo nel mio mare ,/ D’assurdo, la vita piango”.
Esattamente un tuffo nel suo mare, nel mare di Licata.
Sono versi bellissimi, originali, profondamente ispirati, che dipingono, con veloci pennellate, stati d’animo di fiducia in sé e, nello stesso tempo, di sfiducia. “Non chiedere al cielo; / Esso rimarrà sordo; / Non chiedere alla gente ,/ Ognuno ha i suoi problemi. / Il vero che cerchi è il battito del tuo cuore”. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Gaetano, ricorderà sicuramente lo sguardo acuto, intelligente, penetrante, buono, il sorriso amichevole, l’uomo gentile, perbene, retto, il professore amabile e amato, capace e sensibile. Ha insegnato per qualche anno anche a Licata, anche se poi è ritornato a Mistretta con la famiglia per accontentare il nonno materno e le  sue nipotine che mal sopportavano la lontananza. Aveva una metodologia chiara, operativa, essenziale, opportuna e una notevole disponibilità all’ascolto e al dialogo con i giovani che lo apprezzavano, gli volevano bene, lo rispettavano. Il suo rigore, il suo essere esigente, preciso, puntuale, non pesavano. Fu d’esempio a tutti coloro i quali lo frequentarono.
Anche io ho apprezzato in Gaetano quella sensibilità che gli ha permesso di rivelare l’amore per la Natura e per Gesù. “Oggi, Gesù e la sua storia sono il faro della mia vita / La Madonna mi accompagni a lenire il mio dolore. / Vado via ./ Benedico i miei amori”.
Vorrei rilevare l’aspetto intimistico delle poesie che Gaetano ha concepito non certo per essere pubblicate, ma, forse, solo per rimanere chiuse nello scrigno del suo cuore e là gelosamente custodite per sempre.
Alla fine Nella Seminara ha ringraziato tutto il sodalizio della Società Operaia per l’ospitalità, i relatori, Angelo Bellomo, la signora Maria Grazia Lo Iacono e le figlie Jessica, Marianna e Olga per avere fornito il testo delle poesie, la numerosa platea. Gli applausi sono stati molto calorosi.

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Sabato 8 marzo 2008 “AMOENITATES” ,il libro del prof. Gaetano Todaro, era stato presentato anche a Licata, nella sala di rappresentanza della Banca Popolare Sant’Angelo sita in Corso Vittorio Emanuele.
L’amico Sebastiano Insinga ha letto alcune poesie tratte dal libro “Amoenitates”.

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Il tavolo dei relatori

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                                                        Il signor Angelo Bellomo che ha sponsorizzato la pubblicazione del libro

Ha accolto i presenti, dando loro il benvenuto, il vicedirettore dott. Carmelo Ganci.

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Ha relazionato la prof.ssa Bruna Montana Malfitano, allora dirigente scolastica del liceo “V.Linares”.
Ha descritto il tratto umano dell’autore scaturito dalla lettura delle poesie. Le sue parole: ” Tutta la raccolta, complessa nella sua apparente semplicità, delinea un territorio lirico che si arricchisce via via di nuovi significati. E’ quasi una meditazione a mezza voce di un io che, pur riconoscendo l’inafferrabilità degli eventi, si muove nella piena accettazione della fine unica, vera, rigogliosa radice, da cui possono generarsi fiori del bene. I sentimenti sono come i fiori,/ Se ben li coltivi ti daranno amore. Valori ed essenze, semplicemente, senza pretese, dalla sensibilità del poeta vengono incanalati lungo una soglia dalla quale si possono riprendere piccoli pezzi di storia personale in una semantica di oscurità e di luce. “Quando si spegne una candela / Accendine un’altra ./ E’ la luce che devi rincorrere”.
Il dolore porta in sé il doppio segno della paura e della speranza, mentre il confronto con le difficoltà della vita esce dalla dimensione individuale di dramma privato e acquista connotazioni collettive, affilandosi nell’unica luce possibile, quella dell’amore: un amore totale, devoto, vissuto e rielaborato, con taglio sempre nuovo, anche perché, nella sua sete di comunione, assume una forma aperta che consente al lettore di avvicinarsi. “Non bastano più le mie preghiere / Né la mia sofferenza / Ad aprirmi il cuore alla speranza ./ Cadde l’illusione di sogni aperti all’amore”. Rimane, tra le schegge dell’interiorità, un sentimento di privazione, uno stato di morte  in -vita con tutto il suo bagaglio di dolore per la separazione da tutto quanto è stato amato. “Chiuso si è ormai il sipario . / Lucidi attori, della commedia della vita / ne lessero i colori. / Arcobaleno in te ciascuno cercò amore!”
A volte Gaetano muta il vuoto in pienezza, l’assenza in presenza, il buio in luce. E’ un conoscere soffrendo che prepara un tempo più ampio, è un concentrarsi dell’anima per aprirsi e dilatarsi fino alla misura divina. “Io con il manto bianco, morte mi chiamo”…. “Io con il manto colorato, la danza della vita voglio celebrare. /  Se tra i due mantelli devo scegliere / Sceglierò quello colorato; / Il lutto non si addice a chi è innamorato della vita”.

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Il prof. Emilio Nogara ha parlato della giovinezza sua e di Gaetano, dei loro giochi d’infanzia abitando entrambi nel quartiere della Marina. Il giovane è divenuto adulto. Leggendo le  poesie ho constatato in Gaetano questa riflessione: un insieme di speranza e del contrario di essa, su se stesso, sulla vita, sulla coscienza del suo stato. “Chiudi il quaderno, /  il quaderno della vita! / È vita da ripescare ,/ I ricordi, i sentimenti, un cuore che batte / un fiore morto, suoni sincopati. / Quanto di nuovo hai visto sono immagini tanto amate”. Ciao Gaetano.

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Il prof. Francesco La Perna, attento studioso della storia di Licata, ha detto:” Non ho conosciuto personalmente il prof. Gaetano Todaro, ma è stato sufficiente leggere con attenzione e con piacere le sue liriche comprese nell’antologia che lui ha intitolato Amoenitates per capire il valore di questo uomo. Le sue liriche sono una più bella dell’altra, una diversa dall’altra, costruite con versi liberi, ricche di sincera ispirazione.

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Alcuni alunni del liceo, guidati dalla regista teatrale Luisa Biondi, hanno recitato buona parte delle poesie.

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 Marianna Todaro ha letto la poesia:

LIEVE SI APRE IL GIORNO

Lieve si apre il giorno, lì da levante;

Notte va via portando i nostri sogni bianchi.

Spengono le luci le azzurre stelle mai stanche.

Dei suoi raggi bagna il sole la dolce campagna,

Mentre colorati uccelli,

Con il loro canto,

Invitano il mio amore a non più dormire,

A rallegrare, con rinnovato sorriso, il verde campo.

Pastorella mia, musica, vita, è già la valle. 

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La signora Maria Grazia Lo Iacono ha letto la poesia in lingua francese:

IL NE FAUT PAS PENSER

Tu aurais du mal au coeur .

Il ne te resterait que solitude.

Si j’étais un enfant

Je saurais que faire ;

Mais à cet âge

Tout engagement est banni.

Sauve-toi,mon enfant,

Et ne sois pas pressé

A cuellir la rose de tes espérances

A ce monde ne jamais manqué la médisance.

Mon enfant,si tu veux grandir

Apprends bien comme dans ton enfance

à faire usage d’une très bonne balance.

NON BISOGNA PENSARE

Non bisogna pensare,

Avresti male al cuore.

Non ti resterebbe che solitudine.

Se io  fossi un bambino

Saprei cosa fare;

ma a quest’età

ogni impegno è precluso.

Salvati, figlio mio,

e non avere fretta

di cogliere la rosa delle tue speranze.

A questo mondo

non manca mai la maldicenza.

Figlio mio, se vuoi crescere,

Impara bene, come quando eri piccolo,

a usare un’ottima bilancia.

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 Il libro è stato distribuito gratuitamente a tutti i presenti sia a Mistretta sia a Licata.

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Nella Seminara, a conclusione della cerimonia, ha ringraziato: la Banca Popolare Sant’Angelo per l’ospitalità, i relatori, il signor Angelo Bellomo, i familiari del prof. Gaetano Todaro per avere fornito i testi delle poesie, la numerosa platea.

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 Gli applausi sono stati scroscianti. I saluti cordiali e calorosi.

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   Biografia: Gaetano Todaro nasce a Licata il 01/01/1939 nella zona del porto.

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Sin da piccolo, è innamorato del suo mare e della sua città. A Licata frequenta tutte le scuole fino al liceo. Dopo il conseguimento del diploma di maturità, s’ iscrive al corso di laurea in Filosofia a Palermo, ma, per problemi economici, interrompe gli studi per recarsi a Parigi in cerca di lavoro. Qui divide il suo tempo: di giorno lavora in una cartiera, di sera insegna italiano all’Istituto “Dante Alighieri”.
L’esperienza parigina è fondamentale per avergli fatto acquisire una profonda conoscenza della lingua e della cultura francese.
In seguito, dopo un breve soggiorno in Germania, dove lavora da operaio in una fabbrica, come tanti altri emigrati italiani all’estero, mette da parte un po’ di soldi e ritorna in Sicilia.  Riprende gli studi universitari interrotti.
Esperto, ormai, in lingue straniere, s’iscrive alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere presso l’ateneo di Catania dove si laurea brillantemente, nel tempo record di quattro anni, discutendo la tesi sul critico letterario francese Paul Borger.
Abilitatosi all’insegnamento della lingua e della letteratura francese, ottiene la cattedra a Chiavenna, in Valtellina, dove insegna per un intero anno scolastico.
Ritornato in Sicilia, insegna per due anni ad Enna e, infine, al Liceo “Alessando Manzoni” di Mistretta.
A Mistretta, dove si è fermato, insieme alla sua famiglia, ha operato sino alla fine della sua carriera.
Purtroppo, proprio quando avrebbe voluto gustare la pensione, per dedicarsi serenamente alla famiglia e all’otium letterario, un terribile e implacabile male lo colpisce alla laringe. Lo priva dell’uso della voce.
Dopo estenuanti terapie, affrontate con pazienza e coraggio, il cinque giugno del 2005, all’età di 66 anni, Gaetano si arrende alla morte.
Aveva cercato nella poesia la lettura del mondo, della Natura e della vita ricevendo da essa gran conforto alla sua immensa, ma sempre dignitosa sofferenza.

Jun 28, 2019 - Senza categoria    Comments Off on A FRANCO GALIA INTITOLATA UNA STRADA A LICATA

A FRANCO GALIA INTITOLATA UNA STRADA A LICATA

Caro Franco,
hai ricevuto questo encomiabile riconoscimento!

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Infatti,  grazie alla proposta formulata dell’Associazione “A Testa Alta” alla Commissione Toponomastica di Licata, presieduta dal geometra Salvatore Bonelli e favorevolmente accolta dal sindaco Giuseppe Galanti e dalla Giunta comunale di Licata, secondo la delibera N° 30 del 19/06/2019, è stata intitolata all’architetto Francesco Galia la strada che, diramandosi dal Corso Umberto I e passando davanti alla parrocchia di San Gabriele, attraversa il campo sportivo Dino Liotta fino alla  rotonda che incrocia via Salvo D’Acquisto, davanti al Centro Commerciale “Il Porto”, che immette sul ponte Serrovira costeggiando il fiume Salso quasi alla foce.
La proposta dell’Associazione “A Testa Alta”, ampiamente motivata e corredata da notizie biografiche e bibliografiche e allegata alla deliberazione dell’Amministrazione comunale di Licata, ha messo in evidenza la grande opera svolta da Franco Galia in qualità di Responsabile della locale sezione del WWF con particolare riferimento all’attività di difesa del territorio, alla lotta all’abusivismo edilizio, alla salvaguardia del fiume Salso e dell’osservatorio naturalistico nato per lo studio degli uccelli migratori e inaugurato nel 2002 nei pressi proprio della foce del fiume Salso.
Da oggi, 25  giugno 2019,  questo tratto di strada  si chiama “CORSO FRANCO GALIA”.

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Molti sono stati i commenti che ho letto su Facebook e sui altri giornali  locali sulla personalità di Franco Galia, giovane che ha lasciato all’intera comunità licatese un’eredità immensa di indiscutibile valore naturalistico.
Soddisfazione per la scelta di intitolare la strada a Franco Galia è stata espressa dal sindaco Giuseppe Galanti. Il suo commento:
La richiesta era stata invocata da più parti anche perché a Franco Galia va riconosciuto il merito di avere lasciato un’eredità culturale e storica importante perché impegnato nel difendere con tenacia il territorio dagli abusi della cementificazione abusiva e incontrollata, nel proteggere l’habitat naturale, nella conservazione della fauna stanziale emigratoria. Salvare uccelli feriti e tartarughe marine, principalmente la specie Caretta Caretta, è stato un impegno che Franco ha assunto con molta responsabilità.Ha agito anche a difesa del  territorio come, per esempio,  quello di Torre Salsa (Siculiana), preservandolo dalla realizzazione di un complesso turistico di notevole estensione e dimensione.  Nel 1989 Torre Salsa è stata assegnata in gestione al WWF per un’estensione di  otto ettari di terreno. E’ diventata un’0asi naturalistica. Grazie anche all’ interessamento di Franco Galia,  dal 2000  l’area è la Riserva Regionale Orientata della Regione Siciliana.
Proprio Franco Galia fu il primo direttore della Riserva e ha pubblicato numerosi studi scientifici sulla Riserva stessa e sul territorio siciliano.
Era, pertanto, giusto  che la Commissione toponomastica accogliesse la proposta di intitolare  una strada a Franco Galia a Licata per sensibilizzare i naturalisti a continuare la sua meritoria opera e per tramandare alle generazioni future tanta operosità. Auspico che, sull’esempio di Franco Galia, sempre più possano essere i nostri concittadini che, in vari settori, con il loro operato diano lustro alla nostra città
”.
L’Associazione “A TESTA ALTA”, nella proposta di intitolazione di una strada a Franco Galia, ha sottolineato  le innumerevoli iniziative promosse da Franco Galia e che hanno reso possibile la diffusione della cultura ambientale tra i giovani coinvolgendo le scuole di Licata e promuovendo un modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale, temi oggi di pressante attualità.
L’entusiasmo e la passione di Franco Galia, ancora oggi e a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, riescono a coinvolgere i licatesi a difendere e a proteggere l’ambiente naturalistico.

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A TESTA ALTA , in un post pubblicato nella propria pagina facebook, ha ringraziato il Sindaco Giuseppe Galanti, il Vice Sindaco Antonio Vincenti e gli Assessori comunali che hanno accolto e condiviso la proposta di intitolazione della strada a Franco Galia evidenziando l’altissimo valore simbolico, etico e civico. Il il nome di Franco Galia è fortemente legato a questi luoghi per averli studiati, valorizzati e difesi con tutte le sue forze.
Gino Galia, suo fratello, ha commentato: “ Finalmente una svolta per il grande Franco. Gli è stata intitolata quel tratto di strada che lui teneva tanto, la strada che porta all’osservatorio avifaunistico della foce del fiume Salso.
Grazie all’associazione A Testa Alta che ha creduto sempre nei suoi valori naturalistici,di legalità e di amore verso il prossimo”
.
La prof.ssa Antonella Cammilleri commenta: “  Il caro Franco, ogni tributo alla sua memoria è una lode all’onesta, alla lealtà, all’impegno profuso nel voler cambiare le cose, ma soprattutto alla bontà d’animo… A casa sua, in quella stanza su in terrazzo con le mura tappezzate con “i cartoni delle uova”, iniziò tutto. L’avvenura del WWF.
La battaglia di Franco Galia! Quella battaglia in cui è riuscito a coinvolgere le persone più diverse. Eravamo entusiasti , anche se non sapevamo dove ci avrebbe portato l’ennesima “idea balorda” di Franco Galia. Il mio ricordo di Franco è legato ad un periodo bellissimo, in quella classe di soli uomini, i miei compagni mi facevano sentire una privilegiata.
In quella classe in cui una sana competizione ci portava a fare sempre meglio, c’era lui che scherzosamente chiamavamo “il rosso”, il comunista che faceva catechesi. E nell’idea diffusa che un comunista dovesse essere per forza di cose un ateo, Franco era un riferimento fuori dalle riga. Ma lui era così: credeva in tutto quello che faceva! Era una persona seria, di quelle che ormai non le trovi neanche a cercarle con il lanternino. Un amico leale, sincero… che credeva nella sincerità degli altri.
Quella categoria di amici che sanno quando stai male anche se lo nascondi pure a te stessa! Penso spesso ai giorni trascorsi insieme: facevamo gruppo, io, Franco e Angelo Bonvissuto.
Anche Angelo è andato via troppo presto… chissà perchè le persone più buone, quelle che potrebbero dare amore al mondo, sono sottratte alla vita prematuramente. Non riusciremo mai a spiegarlo. Dobbiamo solo accettarlo! Da un paio di anni sono ritornata, da docente, nella scuola in cui ho studiato. quasi ogni anno ritrovo una classe in cui c’è solo una ragazza e puntualmente le racconto la mia “avventura”. Gli anni meravigliosi trascorsi al Geometra… il progetto di fine corso a casa “del custode”, il carissimo signor. Bonvissuto, nonchè papà di Angelo.
Ogni pomeriggio l’appuntamento era a casa di Angelo… non c’era AutoCad, si lavorava su “lenzuola” di carta, e non c’erano tavoli che bastassero a contenerli tutti. E si lavorava divertendoci, e lavorando maturavamo amicizie profonde, di quelle che ti accompagnano per la vita. Anche se la vita non è sempre dalla parte dei buoni!
Personalmente ricordo Franco Galia ospitato nella clinica Maddalena di Palermo dove lo andavo spesso a trovare durante la sua degenza.
Gli portavo tanti libri. Insieme gli facevamo tanta compagnia. Franco ed io parlavamo delle condizioni del fiume Salso, dei Cormorani, degli uccelli migratori, delle tartaruga Caretta caretta, della Riserva Naturale Orientata di Torre Salsa, a Siculiana, in provincia di Agrigento.

DELLA NATURA!
Mi diceva: “Grazie, Nella, sei molto affettuosa!”
Dimostrava di possedere piena fiducia nelle terapie. Sperava in una rapida guarigione. Non lo dimenticherò mai!
Giuseppe Patti  commenta: “Dopo 39 anni stamattina ho avuto il mio primo <contatto> con il nostro fiume Salso. Lo abbiamo disceso per circa 4 km fino alla foce, grazie alle escursioni organizzate dal WWF di Gino Galia e alla Pro Loco.
Il nostro fiume è <VIVO>  e solo da vicino puoi ammirare la fauna che lo popola.
Licata non ha mai avuto un rapporto vero con il suo fiume e queste escursioni sono un primo passo per un auspicabile innamoramento. Complimenti
!
Elisa Terrasi commenta: “I miei zii: una fonte d ispirazione grandissima e tanto onore da parte mia.Zio Franco vivrai sempre nei nostri cuori. Gino Galia grazie di portare avanti questa cosa perchè è speciale”.
 Gianluigi Pirrera commenta: “Giustissimo riconoscimento, alla memoria, per Franco”.
Anna Schirò: “ Sono contenta che è arrivato questo riconoscimento!
Massimiliano Scala:  “Io non ho avuto il piacere di conoscerlo personalmente  Fanco, (anche se mi pare che da ragazzo é stato alunno di mia mamma),ma ne ho sempre e solo sentito parlare benissimo e questo, nella nostra attuale società, non è così comune…”
Quilicata:  “Franco è sempre in mezzo a noi. Non poteva esserci modo migliore per ricordare Franco Galia, ambientalista, fondatore del WWF di Licata e dell’oasi di Torre Salsa, di cui è stato il primo direttore, di intitolargli una strada Licata”.
Il WWF commenta: “ Franco Galia è stato il primo e indimenticabile direttore della Riserva Naturale Orientata di Torre Salsa  affidata da quasi 20 anni al WWF. Volontario e attivista del WWF di Licata, Franco Galia ha dedicato la sua vita alla causa ambientalista. Scomparso prematuramente, ha lasciato un vuoto difficile da colmare, impossibile nei cuori, irraggiungibile nei risultati ottenuti da direttore della riserva”.
Le città di Licata e di Siculiana, ricorrendo la data della sua scomparsa, dal 15 al 18 giugno 2017 hanno dedicato a Franco Galia quattro impegnate giornate.

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Giovedì, 15 giugno, è stata celebrata una santa messa di suffragio  nella chiesa Madre di Licata. A seguire nella villa Messico, la cui cura è affidata al WWF di Licata, guidato dal fratello Gino Galia, è stato deposto un cippo di pietra di Siculiana con una targa che ricorda l’ambientalista licatese.
Il 16 giugno, a Siculiana, si è tenuto un convegno dell’ordine degli architetti di Agrigento.Il convegno, dal titolo “Francesco Galia, Architetto, Pianificatore, Paesaggista, Conservatore” è stato patrocinato dall’Ordine degli Architetti e da altri Ordini e Collegi professionali dell’area tecnica. Hanno relazionato: il Prof. Domenico Costantino, docente  della facoltà di Architettura dell’Università di Palermo e relatore della tesi di Laurea di Franco, e la prof.ssa Valeria Scavone, urbanista.
Il 17 giugno, nel Centro Visite della riserva di Torre Salsa è stato attivo uno sportello filatelico temporaneo con annullo postale speciale.
Presenti gli amici di Franco che hanno ricordato la responsabile figura di ambientalista e l’impegno in difesa delle tartarughe marine e della Riserva di Torre Salsa.  Quindi la passeggiata all’Oasi WWF percorrendo il sentiero “Franco Galia”.
Il 18 giugno, nella riserva orientata di Torre Salsa ha avuto luogo la festa della mietitura, organizzata proprio da Franco Galia tanti anni fa e riproposta ora per  ricordarlo.

CHI ERA FRANCO GALIA ?

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Franco Galia nasce a Licata, in provincia di Agrigento, il 4 ottobre 1965 da Vincenzo e da Vincenza Montana. Quattro sono i suoi fratelli maggiori: Giuseppe, Giovanna, Concetta e Gino.
Frequenta la scuola elementare “Angelo Parla” e la Scuola Media Statale  “Salvatore Quasimodo” a Licata. Nel 1979 si iscrive all’Istituto Tecnico per Geometri.
Sin da ragazzo aiuta il padre nel lavoro dei campi. Dal padre eredita l’amore per le piante e per la terra.
Di idee politiche comuniste, ma profondamente cattolico, frequenta la chiesa San Paolo partecipando attivamente alle attività della parrocchia.
Diventa responsabile del gruppo ACR (Azione Cattolica Ragazzi).
Nel 1984 consegue il diploma di maturità e si iscrive alla facoltà di Architettura dell’Università di Palermo dove si laurea.

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La proclamazione della laurea

Nell’estate dello stesso anno, assieme ad alcuni amici, costituisce un “gruppo attivo WWF” e inizia il suo percorso in difesa dell’ambiente, che diventa presto la sua ragione di vita e per la quale, non di rado, sacrifica anche gli studi e gli impegni familiari.
Nell’estate del 1987 organizza la prima edizione di “Natura in Festa”, una manifestazione con giochi e musica per sensibilizzare le persone verso le tematiche ambientali.
L’iniziativa sarà ripetuta per i quattro anni successivi.
Nel novembre 1987, a coronamento di tutta l’attività svolta, la Delegazione WWF Sicilia promuove il gruppo attivo a sezione e viene nominato Responsabile della Sezione WWF di Licata.
Si occupa della difesa del territorio, della cementificazione dei fiumi siciliani, dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e speciali, del recupero della fauna selvatica ferita, della tutela delle tartarughe marine etc.
Promuove l’indagine floristica nell’area archeologica di monte Petrulla e dintorni in territorio di Licata, i progetti: “Le domeniche ecologiche”,
“I naturalisti siciliani” e “L’itinerario naturalistico della Sicilia”.
Alla fine degli anni ottanta decide di dare un freno al dilagante abusivismo edilizio costiero e intraprende delle azioni legali contro chi tenta di costruire illegalmente lungo la costa licatese, Resterà amareggiato per il cattivo funzionamento della giustizia.
Nello stesso periodo é in prima linea nella battaglia per impedire che a Torre Salsa (Siculiana, AG) venga costruito un comprensorio turistico per seimila posti letto e fa in modo che il WWF Italia acquisti nel 1989 otto ettari di terreno.
Da agosto a ottobre 1988 lavora presso la filiale di Milano delle Poste Italiane come portalettere.
Dal 1989 al 2001 ricopre la carica di responsabile dell’oasi WWF di Siculiana.
Per un disguido, non gli viene accettata la richiesta d’obiezione di coscienza al servizio militare che svolge in Marina dal marzo 1990 al marzo 1991, per i primi tre mesi a Taranto e successivamente imbarcato sulla Nave Alcione, con base ad Augusta (SR), con il grado di sottocapo radarista.
Nel mese di agosto del 1992 incontra a Licata Domenica Zagrì che sposerà a Bagheria nel 1998.
Dal 1993, e negli anni seguenti sino al 2007, organizza nell’oasi WWF di Siculiana un campo naturalistico di volontariato al quale partecipano numerosi giovani provenienti da ogni parte d’Italia e anche dall’estero.
Nel dicembre 1994 viene nominato componente del Consiglio Provinciale Scientifico delle Riserve e del Patrimonio Naturale della Provincia Regionale di Agrigento, carica che gli viene confermata nel settembre 2000.
Dal 1994 al 1995 cura il notiziario regionale del WWF Sicilia.
Ė responsabile degli obiettori di coscienza presso l’Oasi WWF di Torre Salsa e la Sezione WWF di Licata.
Nei mesi di luglio 1996/97/98/99 partecipa al progetto del Comune di Palermo “Tempo d’estate” guidando scolaresche nelle aree naturali della Provincia di Palermo.
Nell’agosto 1998 viene eletto componente del Consiglio del WWF Sicilia.
Si laurea in Architettura col prof. Domenico Costantino, docente di gestione del territorio, il 27 luglio 1999, con una tesi sul “Piano di sistemazione della Riserva naturale orientata di Torre Salsa” che, grazie soprattutto al suo impegno, viene istituita nel giugno 2000 su 760 ettari.
Da febbraio a luglio 2000 è impegnato presso la “Casa Amica” di Agrigento e la “Casa del Sorriso” di Caltanissetta come tecnico esperto nel progetto ICARO per il recupero della devianza minorile attraverso laboratori di educazione ambientale.
E’ socio fondatore della Sezione di Licata dell’Archeoclub d’Italia.
Diventa socio della Società Siciliana di Scienze Naturali.
Nel settembre 2000 ricopre l’incarico di responsabile tecnico nell’ “European Heritage Campuses 2000” che si svolge nella Riserva naturale di Torre Salsa.
Il 2 agosto 2001 viene nominato direttore della riserva. Diventa socio dell’Associazione Italiana Direttori Aree Protette.
Nei primi mesi del 2002 realizza un osservatorio avifaunistico alla foce del fiume Salso (Imera Meridionale) gestito dal WWF tramite convenzione con il Comune di Licata.
Si iscrive all’albo professionale dell’Ordine degli Architetti pianificatori paesaggisti e conservatori della Provincia di Agrigento.
Nel mese di giugno 2002 nasce il figlio Vincenzo.
Da ottobre a dicembre 2002 è docente di tirocinio in un corso di formazione professionale per il conseguimento della qualifica di “Operatore del Paesaggio”.
Cura la pubblicazione “Guida alla flora della riserva naturale di Torre Salsa” scritta dal prof. Carmelo Federico.
Da gennaio a marzo 2003 è impegnato in qualità di docente esperto esterno presso la Scuola Media Statale “Tomasi di Lampedusa” di Palma di Montechiaro (AG) in un progetto per la prevenzione della dispersione scolastica dove sviluppa il tema della raccolta differenziata dei rifiuti.
Da febbraio a marzo 2004 è impegnato in qualità di docente esperto esterno presso l’Istituto d’istruzione superiore “E. Fermi” di Licata nel progetto “Le dimore liberty a Licata. Il recupero della memoria”. Sempre nello stesso istituto, da giugno 2004 a novembre 2004, è impegnato nel progetto “Tutela dell’ambiente”.
Nell’agosto del 2005, subito dopo la prematura scomparsa del fratello maggiore, scopre la sua terribile malattia. Nonostante ciò, continua il suo impegno di sempre e a fare progetti per il futuro tra cui la specializzazione in Bioarchitettura e la candidatura alle elezioni 2008 per il rinnovo del consiglio comunale di Licata.
Si spegne il 15 giugno 2007, all’età di 41 anni.
Riposa a Licata, nel cimitero dei Cappuccini, accanto a suo padre e a suo fratello Giuseppe.
Gli amici e la comunità licatese ricorderanno per sempre Franco Galia leggendo le sue testamentarie parole: “Riposerò sotto il gelso della vita, il gelso di mio padre e del padre di mio padre. Ritornerò alla terra che mi ha generato, sarò contento di aver finalmente completato questo mio viaggio. Sarò al sicuro sotto la sua ombra e nutrirò le sue radici. E anche dopo questa vita potrò seguire le rotte dell’aquila, smarrirmi nel pensiero, volteggiare tranquillo. Quella sarà la mia eterna casa” (Franco Galia).

La  villetta di via Messico è una zona attrezzata a verde che, nel 2016, la delegazione WWF di Licata ha preso in affidamento.
La villetta era abbandonata e priva di piante a causa del Punteruolo rosso che ha distrutto tutte le palme.
Nello stesso anno 2016 è iniziata la bonifica e la piantumazione delle piante, in collaborazione con le scolaresche di Licata.
Nel 2017 è stata posta questa targa per il decennale della sua morte.

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Lo stesso anno il WWF Sicilia, Area Mediterranea, avanzò la proposta di intitolazione della villetta, intitolazione che ancora oggi si aspetta per ricordare questo grande ambientalista che negli anni si é distinto.

La villa comunale di Via Messico, traversa di Via Campobello, finalmente si chiama ” VILLA FRANCO GALIA”.
Il comune di Licata, accogliendo la richiesta dei familiari e dei tantissimi amici di Franco, ha deciso di intitolare l’area verde al pioniere dell’ambientalismo licatese.
La cerimonia inaugurale è avvenuta il 15 Luglio 2022.

 

Jun 21, 2019 - Senza categoria    Comments Off on LA CHIESA DELLA BEATA MARIA VERGINE DEL CARMELO DI LICATA RIAPRE AL CULTO DOPO ANNI DI CHIUSURA

LA CHIESA DELLA BEATA MARIA VERGINE DEL CARMELO DI LICATA RIAPRE AL CULTO DOPO ANNI DI CHIUSURA

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Oggi, giovedì 20 giugno 2019, è stata riaperta al culto dei fedeli la chiesa del Carmine a Licata chiusa da tre anni per consentire di eseguire i necessari e urgenti lavori di restauro e di rifacimento del tetto danneggiato dalle infiltrazioni d’acqua piovana.
Superata la lentezza burocratica, i lavori iniziati sono stati terminati nell’arco di pochi mesi di tempo.
A sollecitare l’intervento di restauro del tetto è stato il sindaco di allora, il prof. Angelo Cambiano, che ha ricevuto la soprintendente ai beni culturali di Agrigento, la dott.ssa Gabriella Costantino, e l’arch.Bernardo Agrò, anch’egli della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Agrigento, che ha illustrato il piano di intervento da effettuare per il recupero del tetto, della volta e del campanile della Chiesa.
La richiesta era stata già ufficialmente indirizzata alla Direzione Centrale per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto, alla Prefettura e all’Ufficio beni Culturali ed Ecclesiastici della Curia Vescovile di Agrigento.
Il commento del sindaco: “La celerità con la quale la Sovrintendenza di Agrigento sta intervenendo per il recupero della Chiesa del Carmine non fa che confermare l’attenzione posta nei confronti della nostra città per il recupero del suddetto luogo di culto”.
Anche l’attuale sindaco, il dott. Giuseppe Galanti, ha sollecitato l’intervento della Soprintendenza ai beni culturali ed archeologici per dare avvio alla celere esecuzione dei lavori.
Le sue parole: ” Io e alcuni tecnici del Comune di Licata abbiamo fatto un sopralluogo all’interno della chiesa.
Effettivamente il rischio di crollo di una parte del soffitto è molto probabile.
Del resto, il tempio è chiuso da circa due anni proprio per i problemi rilevati nella volta.
Ho segnalato, con urgenza, la situazione alla Soprintendenza ai beni culturali ed archeologici di Agrigento.
Domani alcuni architetti dell’ente e la soprintendente, dott.ssa Gabriella Costantino giungeranno nuovamente a Licata per effettuare un nuovo sopralluogo e decidere il da farsi
”.
I festeggiamenti sono iniziati lunedì 17 giugno, con le riflessioni sul santuario di Dio, a seguire l’Adorazione Eucaristica, i vespri e la benedizione elargita in uno spazio di via Sole.
Martedì, 18 giugno,  le stesse celebrazioni si sono ripetute nel cortile Galvani, nei pressi di corso Italia.
Mercoledì, 19 giugno, le stesse celebrazioni si sono ripetute in piazza Stazione.
Giovedì, 20 giugno,  il giorno in cui è stata riaperta al culto la chiesa del Carmine,  la folla dei fedeli si è riuntita  nello spazio presso le Suore del Canonico Morinello in via Palma e, in processione, giunse alla chiesa del Carmine.
Alla cerimonia di riapertura della chiesa erano presenti: don Tonino Cilia, parroco della Chiesa del Carmine, della chiesa di Sette Spade e della chiesa di San Domenico, e il cardinale Mons. Francesco Montenegro, arcivescovo metropolita di Agrigento, le autorità cittadine e numerosi fedeli.

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E’ stato il cardinale Francesco Montenegro ad aprire la porta d’ingresso della chiesa e a consegnare le chiavi  al parroco, don Tonino Cilia.
Quindi è stata celebrata la Santa Messa.

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La chiesa era strapiena di gente che, da tanto tempo, chiedeva la riapertura della chiesa  al culto.

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Le parole del Cardinale Montenegro: ” Credo che la riapertura di una chiesa sia un momento importante di storia. E’ vero che si riapre la chiesa, ma credo che ogni chiesa ha un pezzo di storia che coinvolge la gente che ha tante speranze, tante paure e credo che noi abbiamo bisogno di guardare al passato per sapere da che parte dirigerci, per guardare  e affrontare il futuro.
E’ questo è un momento importante perché una chiesa che si apre è sempre una speranza che viene regalata.
Con la celebrazione religiosa è stato restituito alla città un importantissimo tempio, da sempre punto di riferimento per tutti i fedeli, ed un monumento barocco che dà lustro al centro storico di Licata.
Sono stato felice di presenziare, insieme al sindaco di Licata, all’onorevole Carmelo Pullara, ai componenti della giunta comunale, al presidente del consiglio comunale Giuseppe Russotto, ai consiglieri comunali ed alle autorità cittadine, alla restituzione della chiesa del Carmine alla comunità licatese”.
Le parole del sindaco della città, il dott. Giuseppe Galanti: ”Ringrazio monsignor Francesco Montenegro, il soprintendente per i beni culturali e ambientali Michele Benfari, il dirigente della sezione per i beni architettonici e storico – artistici, il dott. Bernardo Agrò, il direttore dell’ufficio beni culturali ecclesiastici Giuseppe Pontillo, il parroco don Tonino Cilia per quanto in questi anni hanno fatto per far tornare a splendere uno dei simboli della città di Licata”.

LA CHIESA DEL CARMINE A LICATA

La chiesa di Santa Maria dell’Annunziata, meglio conosciuta come “Chiesa del Carmine”, confinante con la via G. Amendola, è sita in Corso Roma, a Licata, allontanata da esso da un ampio sagrato.

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La chiesa nacque come chiesa ospitante nel convento l’ordine dei PP. Carmelitani.
Quello dei carmelitani è forse il più antico convento di Licata e, secondo la tradizione di quest’Ordine, sarebbe stato fondato dallo stesso Sant’Angelo nel 1200 e che vi avrebbe dimorato per un certo tempo prima di abitare nella casa di proprietà dell’arcivescovo di Palermo nella odierna via Sant’Andrea.
Che la chiesa sorgesse “extra moenia” si apprese da una petizione di P. Giovanni Soreth, Generale dell’ordine dei Carmelitani, rivolta al papa Callisto III nel corso del Capitolo Provinciale si Sicilia celebrato a Licata l’8 maggio 1457 con la quale riferiva al Pontefice che la Casa del Carmelo di questa città, trovandosi in aperta campagna e lontana persino dai borghi, era esposta al pericolo di incursioni barbaresche e per questo chiedeva che le venisse annessa la “ecclesia sine cura, sive cappella beati Angeli martyris sita intra muros dictae terrae”, di patronato dell’Università di Licata per rifugiarvisi in caso di pericolo e per custodirvi le cose di valore della chiesa e del convento.(Rif. Calogero Carità Immanis Gela Nunc Alicata Urbis Dilectissima AC…Storia generale della città di Licata pagg. 328 – 334).
Tutti i conventi dei religiosi (agostiniani, cappuccini, carmelitani, domenicani, cistercensi, e francescani dell’osservanza), fatta eccezione dei minori conventuali di San Francesco, erano fuori dalle mura della città per espressa decisione dei francescani e della famiglia Serrovira.
La costruzione della chiesa risale al sec. XIII, però ha subito diversi rifacimenti nei periodi successivi. Negli anni 1746- 1748 è stata definitivamente ristrutturata su progetto dell’architetto trapanese Giovanni Biagio Amico, già presente a Licata nel 1730-1731 come soprintendente alle fortificazioni. Ha ridisegnato la facciata barocca della chiesa, collaborato dai maestri scalpellini e marmorari trapanesi.
Ha dotato la chiesa di un sontuoso prospetto marmoreo grazie anche al concorso di facoltosi cittadini e di emeriti religiosi del convento.
Nel 1984 il prospetto marmoreo  della chiesa fu restaurato  dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali ed Architettonici della Sicilia occidentale.
Sopra il portale della facciata e è inciso il tondo scultoreo rappresentante la Madonna e gli Angeli.

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 La facciata è sopraelevata a tre livelli e termina il campanile a tre logge che accolgono le campane.

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All’interno la struttura della chiesa è a navata unica.

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La prima attenzione è per l’abside della chiesa dove l’altare accoglie la statua della Madonna del Carmine o del Carmelo, del sec. XVIII, che apparve a San Simon Stock e a cui consegnò lo “Scapolare”.
Col braccio sinistro sorregge il Bambino e con la mano destra lo scapolare.

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 Ai  piedi della statua è poggiata la statuina di San Simon Stock.

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Lo Scapolare o abitino

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Un po’ di storia: Il monte Carmelo, in aramaico “Karmel” “giardino, paradiso di Dio”, è un rilievo montuoso calcareo alto 528 metri che si trova nella sezione nord-occidentale di Israele, nell’Alta Galilea. Si estende da SE a NW tra la piana di Esdraelon e quella di Sharon giungendo fino al mar Mediterraneo e articolando la costa nell’omonimo capo ai piedi del quale sorge la città di Haifa. Possiede una vegetazione bella e rigogliosa. E’ ricoperto di boschi, uliveti, vigneti. E’ citato più volte nell’Antico Testamento, in connessione con la vita del profeta Isaia (III Re 18,19 ss) e di Eliseo (IV Re 2,25), rispettato, per questo motivo, dagli israeliti, dai cristiani, e da musulmani.
Al monte Carmelo è legato l’Ordine dei carmelitani.
Fin dal tempo dei Filistei il monte Carmelo fu luogo di sosta di asceti. Dopo la morte di Gesù, su questo monte si ritirarono alcuni cristiani per attuare i suggerimenti evangelici.
Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si legge che Elia, il primo profeta d’Israele, raccogliendo proprio sul monte Carmelo un insieme di seguaci, operò in difesa della purezza della fede in Dio vincendo il confronto contro i sacerdoti del dio Baal. Elia, dimorando sul monte Carmelo, ebbe la visione della Vergine che, come una piccola nube, si alzava dalla terra verso il monte portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In seguito, sul monte Carmelo si stabilirono alcune comunità monastiche cristiane.
La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo sul monte Carmelo si ritirarono gli eremiti vicino alla fontana del profeta Elia.
I crociati, nell’XI secolo, incontrarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di San Basilio. Il monte Carmelo, data l’affluenza di quanti si raccoglievano intorno ai primi Carmelitani, divenne incapace di ospitarli tutti.
Così molti eremiti, devoti alla Vergine, si diffusero prima in Palestina e, successivamente, in Egitto ed in tutto l’Oriente.
Verso il 1150 finalmente gli eremiti si organizzarono a condurre una vita comune e realizzarono dei monasteri carmelitani che si diffusero anche in occidente, in Sicilia e in Inghilterra. Attorno al 1154 sul monte Carmelo si ritirò anche il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina assieme al cugino Aimerio di Limoges, patriarc
a di Antiochia. Insieme decisero di riunire sul monte Carmelo alcuni eremiti invitandoli a trascorrere una vita monastica.
Gli eremiti continuarono ad abitare sul monte Carmelo anche dopo l’avvento del cristianesimo. Alcuni eremiti sul monte Carmelo, vicino alla fontana di Elia, edificarono il primo Tempio dedicato alla Vergine che, per questo motivo, si chiamò “Madonna del Carmelo o del Carmine”. Questo gruppo di eremiti prese il nome di “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”. Il monte Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame alla Vergine Maria. Iniziò così il culto a Maria, “amata da Dio”, il più bel fiore del giardino di Dio, laStella Polare”, la “Stella Maris” del popolo cristiano.
Nella seconda metà del sec. XII giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo che, continuando il culto mariano, si riunirono in un Ordine religioso, l’ordine carmelitano, fondato in onore della Vergine alla quale si professavano particolarmente legati.
L’Ordine non ebbe, quindi, un vero e proprio fondatore, anche se considera il profeta Elia il suo patriarca.
Il patriarca di Gerusalemme, Sant’Alberto Avogadro (1206-1214), originario dell’Italia, dettò la “Regola di vita” dell’Ordine Carmelitano.
Veglie, digiuni, astinenze, pratica della povertà e del silenzio furono i principi dominanti della “Regola di vita”.
Essa fu approvata da papa Onorio III con la bolla “Ut vivendi normam” il 30 gennaio del 1226.
Nel 1251 papa Innocenzo IV approvò la nuova Regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede.
Una conferma più solenne dell’Ordine Carmelitano fu data nel 1273 con il Concilio di Lione che aboliva tutte le nuove Congregazioni facendo rimanere in vita solo i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani.
Intorno al 1235, a causa delle incursioni dei saraceni, i frati dovettero abbandonare la Palestina per stabilirsi in Occidente.
Il loro primo monastero trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Altri monasteri sono stati edificati a Marsiglia nel 1238, a Kent nel 1242, a Pisa nel 1249, a Parigi nel 1254 diffondendo il culto di Colei a cui “è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron” (Is 35,2).
Il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”.
Detto questo, la Vergine Maria scomparve in un profumo di Cielo lasciando nelle mani di Simon Stock il pegno della Sua Prima “Grande Promessa”.
La Madonna, dunque, con la Sua rivelazione, ha voluto dire che chiunque indosserà e porterà questo Scapolare, la divisa carme­litana, non solo sarà salvato eternamente, ma sarà anche difeso in vita dai pericoli.
Non bisogna credere, però, che la Madonna, con la sua Grande Promessa, voglia ingenerare nell’uomo l’intenzione di assicurarsi il Paradiso conti­nuando a peccare, oppure generare la speranza di salvarsi, anche senza meriti, piuttosto Lei si adopera per la conversione del peccatore che indossa con fede e devozione l’Abitino fino al giorno della sua morte.
Lo scapolare consiste nella promessa della salvezza dall’inferno per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Queste parole pronunciate dalla Vergine Maria, quindi, non ci dispensano dal vivere secondo la legge di Dio; ci promettono soltanto l’intercessione della Beata Vergine Maria per una santa morte.
Lo “Scapolare” detto anche “Abitino”, non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di “rivestimento” che richiama la veste dei carmelitani, l’affidamento alla Vergine per vivere sotto la sua protezione e in comunione con Maria e con i Suoi fedeli.
Fu San Simon Stock, dunque, a diffondere il culto per la Madonna del Carmelo.
Compose per Lei il “Flos Carmeli” il “Fiore del Carmelo”, una delle preghiere più importanti e famose dedicate alla Madonna del Monte del Carmelo:
Flos Carmeli, vitis florigera, splendor coeli, Virgo puerpera, singularis.
Mater mitis, sed viri nescia, carmelitis esto propitia, stella maris.
Radix Iesse, germinans flosculum, hic adesse me tibi servulum patiaris.
Inter spinas quae crescis lilium, serva puras mentes fragilium, tutelaris!
Armatura fortis pugnantium, furunt bella tende praesidium scapularislo
Per incerta prudens consilium, per adversa iuge solatium largiaris.
Mater dulcis, Carmeli domina, plebem tuam reple laetitia qua bearis.
Paradisi clavis et ianua, fac nos duci quo, Mater, coron
Fior del Carmelo, vite fiorita, splendore del cielo, tu solamente sei vergine e madre.
Madre mite, pura nel cuore, ai figli tuoi sii propizia, stella del mare.
Ceppo di Jesse, che produce il fiore, a noi concedi di rimanere con te per sempre.
Giglio cresciuto tra alte spine, conserva pure le menti fragili e dona aiuto.
Forte armatura dei combattenti, la guerra infuria, poni a difesa lo scapolare.
Nell’incertezza dacci consiglio, nella sventura, dal cielo impetra consolazione.
Madre e Signora del tuo Carmelo, di quella gioia che ti rapisce sazia i cuori.
O chiave e porta del Paradiso, fa’ che giungiamo dove di gloria sei coronata. Amen”.

Ad animare le funzioni religiose che si susseguono nella chiesa del Carmine è il coro “Fiore del Carmelo”.

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Scarse sono le conoscenze sulla vita di San Simon Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265). Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, egli maturò la decisione di entrare a far parte dei Carmelitani e, completati gli studi a Roma, fu ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva 82 anni, fu scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani facendone un ordine mendicante.
Un secolo dopo l’apparizione a San Simon Stock, la Beata Vergine del Carmelo apparve al Pontefice Giovanni XXII e, dopo avergli raccomandato l’Ordine del Carmelo, gli promise di liberare i suoi confratelli dalle fiamme del Purgatorio il sabato successivo alla loro morte.
Questa seconda promessa della Vergine porta il nome di “Privilegio Sabatino” che ha origine dalla Bolla Sabatina dello stesso Pontefice Giovanni XXII e datata il 3 marzo del 1322 ad Avignone.
Per usufruire della Grande Promessa fatta a San Simon Stock, bisogna ricevere lo Scapolare da un sacerdote, portarlo sempre addosso devotamente e iscriversi alla Confraternita.
Per usufruire del Privilegio Sabatino bisogna osservare la castità del proprio stato e recitare alcune preghiere assieme al sacerdote nell’atto di consegnare e di ricevere lo Scapolare.
La statua lignea della Madonna del Carmelo è stata restaurata dall’artista Salvatore (Totò) De Caro nel mese di giugno del 1967.

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Anche L’altare, gli affreschi e il coro di angeli, posti dietro all’altare maggiore, sono stati restaurati dal pittore Salvatore De Caro. Il restauro è iniziato il 16 novembre del 1966 ed è stato ultimato il 25 febbraio del 1967.

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Foto d all’album di famiglia

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I lavori sono stati commissionati dal parroco, il Prevosto parroco padre Gaetano Antona.
La cappella è stata inaugurata e benedetta dal vescovo di Agrigento Mons. G. Petralia il 15 luglio 1967.
L’affresco della volta, che raffigura la Madonna che porta in cielo le anime del Purgatorio, è stato restaurato dal pittore Antonio De Caro, fratello di Salvatore, e dal figlio Paolo come anche parte della chiesa dal 1962 al 1977.

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Le pareti laterali della chiesa sono arredate dagli altari.
Nella parete destra si ammirano: l’altare della tela che rappresenta l’estasi di Santa Maria Maddalena dei Pazzi (cm. 305x 205), del  1732,  opera del trapanese Giuseppe Felici  (1656-1734),  commissionata dal P.M. Carlo Filiberto Lo Monaco.
La tela è stata restaurata dalla Banca Popolare Sant’Angelo a gennaio del 1995 in occasione del suo 75° anniversario della fondazione.

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L’altare che accoglie la statua di Santa Lucia.

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Il 13 dicembre di ogni anno nella chiesa del Carmine si festeggia solennemente Santa Lucia il cui fercolo era portato a spalla dalle donne.

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https://www.youtube.com/watch?v=-65YD3niUS0&t=1s

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L’altare del Cristo accoglie il Cristo in croce e, ai suoi piedi, Maria Maddalena.

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Nella parete sinistra si ammirano: l’altare della tela che raffigura la morte di San Giuseppe (cm. 305 x 205), di Giuseppe Felici, eseguita nel 1732 e commissionata da P. Angelo Pellegrino.

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La tela è stata restaurata dalla Banca Popolare Sant’Angelo a gennaio del 1995 in occasione del suo 75° anniversario della fondazione.
L’altare di Santa Teresina del Bambin Gesù dal volto santo.

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L’altare che accoglie la statua di San Giuseppe che tiene il brancio il Bambinello.

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Della scuola del Gagini è l’arco di marmo bianco del secondo altare del lato sinistro della navata dove sono effigiati i fondatori di Gela e le armi araldiche del committente.
Inoltre le pareti sono impreziosite da dieci medaglioni, opera di Domenico Provenzani di Palma di Montechiaro, posti tra gli altari e l’abside, con i Santi carmelitani, tra cui Sant’Angelo e Sant’Alberto. 

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Gli altri medaglioni (190 x 115cm)  appartengono ai carmelitani: S.Andrea Corsini, S. Sinecletica, S. Dionisio papa, S. Simone, S. Teresa d’Avila, S. Telesforo papa.
Alcuni monumenti funebri, posti in entrambi i lati del portone, risalenti al 1500 – 1600, ricordano personaggi importanti della società licatese di cui, purtroppo, non si leggono i nomi perché scoloriti dal tempo.
Alcune figure sono distese sul tetto del sarcofago, altre sono rappresentate con il busto a tutto tondo.  Sono: di Andrea Minafria (1576), di Palma Minafria (1579), di Antonia Belvisa Plancto (1607), di Giovambattista Formica (1626), di Antonio Serrovira Anelli (1637) e di Tomma di Impellizzeri. E’ stata distrutta la cappella gentilizia che ospitava le tombe della potente famiglia baronale dei Caro.

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 Le lapidi ricordano i cari estinti.

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Importanti sono la cantoria e l’organo.

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Alle spalle  dell’altare maggiore ci sono i locali della sagrestia, numerosi, ampi, intercomunicanti, che conservano ancora l’originaria volta a crociera ascrivibile al XIII-XIV sec. partita da robuste nervature che poggiano sui piedritti angolari.
L’arredo ligneo è andato distrutto a causa di un incendio, verificatosi nel 1995, unitamente ad alcune opere d’arte di buon livello artistico.
Io ricordo che i parrocchiani hanno comprato i paramenti sacri che padre Gaetano Antona ha mostrato durante una funzione reliosa.
Particolarmente interessante è il chiostro del convento, del sec. XVI.
Si accede all’interno del chiostro superando il portale,  della seconda metà del settecento, opera di Giovan Biagio Amico.

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 Superato l’ingresso del chiostro, nella parete sinistra, lunedì 22 agosto 2022 è stata scoperta la lapide in memoria del Premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo.

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Ha presenziato il signor Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel che ha recitato una poesia scritta da suo padre Salvatore suscitando una grande emozione e riscuotendo numerosi applausi.

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L’evento è stato organizzato grazie all’interessamento e al coordinamento dei Lions Club Roccalumera Quasimodo e Licata, rappresentati all’evento rispettivamente dal Past Presidente Avv. Carlo Mastroeni e dalla Presidente Avv. Gloria Incorvaia in sinergia con l’Amministrazione Comunale di Licata, rappresentata dal Sindaco, Dott. Pino Galanti e dagli Assessori al Turismo, Avv. Tony Cosentino e alla Cultura, Dott.ssa Violetta Callea.
Erano presenti inoltre: la Cerimoniera Distrettuale del Distretto 108 Yb Sicilia, Avv. Daniela Cannarozzo, la Presidente della Zona 27 del medesimo Distretto, Dott.ssa Angela Licitra, il Presidente del Lions Club Agrigento Valle dei Templi, Prof. Francesco Pira, il Past Presidente del Lions Club Ravanusa Campobello, Dott. Giuseppe Caci, vari Officer distrettuali e soci Lions.

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Da ammirare sono: lo stemma carmelitano, gli archi e le colonne che circoscrivono il perimetro e le due bifore.

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I molti locali sono adibiti a uffici del Comune di Licata.
Un’elegante scala laterale conduce al piano superiore del convento la cui edificazione risale al 1200.

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Il convento, posto lateralmente al chiostro e che si estende per una cinquantina di metri lungo il Corso Roma, è annoverato tra i più importanti conventi carmelitani in Sicilia.

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L’edificio ebbe  un importante posto nella storia secolare dell’ordine carmelitano ospitando per ben due volte il suo capitolo generale riservato a tutti i monasteri del mondo.
Ospitava quaranta religiosi e numerosi conversi.
Fu scelto dall’ordine Carmelitano come casa e collegio che accoglieva studiosi di tutta la Sicilia e, principalmente,  i religiosi carmelitani e anche i religiosi secolari.
Vi studiò  il licatese P. Leonardo Bonasisia che, nel 1442, raggiunse Padova per conseguire la laurea in teologia.
Negli atti del capitolo provinciale, celebrato a Modica nel 1452, si legge che alle cariche di Reggente e di Rettore del Collegio di Studi licatese venivano preposti il P. Giovanni  De Anselmo, priore del comune di Licata, e P. Giovanni de Miglano, entrambi licatesi.
Più volte ampliato nei secoli, la forma attuale si deve alla ristrutturazione dell’arch. Giovanni Biagio Amico.
Nel semplice prospetto  finestre e balconi si affacciano sul Corso Roma.
Recentemente il convento è stato restaurato dall’arch. Antonino Cellura, di Licata, e restituito alla città nel suo aspetto originario nel 2007.
L’aula capitolare, con porte e finestre di inconfondibile stile chiaramontano, e due busti laterali con relative iscrizioni lapidarie, favorisce la presentazione di eventi culturali di grande rilevanza.
Il  busto è quello del  il carmelitano Tommaso Sanchez, priore generale.

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Il busto è quello del carmelitano Gapsare Pizzolanti, vescovo di Cervia. Entrambi licatesi e della medesima epoca.

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I locali, posti al piano terra, sono adibiti a uffici comunali, ad attività commerciali, a sodalizi.
Una bella statua con una corona di marmo in mano accoglie il visitatore.
E’ il modello della statua della Vittoria del monumento dei Caduti, opera di Antonio  De Caro

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Le volte dei soffitti a cassettoni lignei dei saloni del piano superiore, comunicanti tra dl loro, sono abbellite da intagli policromi con ritratti di santi.

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Con la soppressione degli Ordini Religiosi la chiesa e il convento passarono al Demanio che, nel 1869,  affidava la chiesa all’ex carmelitano  P. Bruno da Licata.
Nel 1878 gli succedette P. Angelo Cipriano.
Nel 1888  il  P. Sebastiano da Licata informava il P. Generale che la Rettoria del Carmine era passata sotto la giurisdizione del clero secolare, mentre l’ufficiatura veniva mantenuta ancora dai PP. Carmelitani.
Data la povertà in cui era caduta la chiesa, nel maggio del 1895 il P. Generale Luigi Gallì ( 1889-1900) inviò al provinciale di Sant’Angelo, cui competeva la casa, 301£  “per la chiesa di  Licata”, somma impiegata per l’acquisto degli arredi sacri.
Nel 1896 una parte degli archi del chiostro vennero tamponati dal priore P. Carmelo Pomilia per i continui furti,  mentre i rimanenti furono rinforzati con catene  “per lasciare la luce ai poveri che venivano a rifocillarsi”.
La chiesa dell’Annunziata, che il comune di Licata aveva ricevuto, ai sensi della legge del 7 luglio 1866 e dell’atto del 15 maggio 1867, dal Fondo per il Culto, venne retrocessa alla chiesa agrigentina con atto notarile del 12 marzo 1936 redatto dal notaio Gaetano Giganti Gallo di Palma di Montechiaro. Assieme alla chiesa e ai beni mobili e agli arredi sacri l’allora Podestà di Licata, prof. Domenico Liotta, concesse alla Curia Vescovile, rappresentata dal Prevosto Parroco Mons. Angelo Curella, i locali del primo piano dell’ex convento, per il rettore e per l’amministrazione della rettoria.
I restanti locali, allora adibiti a orfanotrofio, restarono di proprietà del Comune.

Jun 17, 2019 - Senza categoria    Comments Off on “SINTITI SINTITI” IL LIBRO DEL PROF. CARMELO DE CARO PRESENTATO A LICATA

“SINTITI SINTITI” IL LIBRO DEL PROF. CARMELO DE CARO PRESENTATO A LICATA

 E’ stato presentato a Licata il libro del prof. Carmelo De Caro, pubblicato postumo, su sollecitazione del prof. Carmelo Incorvaia, allora preside dell’ Istituto Comprensivo Antonino Bonsignore” di Licata.
Leggendo nello studio di casa mia le sue carte manoscritte, sulle quali lavorava a mia insaputa, ho capito che aveva scritto dei racconti, anche di personaggi particolari di Licata, e alcune poesie.
Così, dopo un’attenta lettura e dopo avere trascritto i contenuti, ho voluto pubblicare il libro, contenente 19 racconti e 16 poesie, per continuare a trasmettere la memoria viva della presenza di Carmelo De Caro.

Sabato, 31 gennaio 2004, il libro è stato presentato nella sala delle conferenze del Museo Archeologico di Licata sito in via Dante.

Sono intervenuti:

– il sindaco di Licata, dott. Angelo Biondi

– il soprintendente per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento, dott.ssa Gabriella Costantino,

– il direttore del Parco della Valle dei Templi  arch. Pietro Meli
– il prof. Carmelo Incorvaia

– Padre Gaspare Di Vincenzo.

Ha relazionato la prof.ssa Bruna Montana, preside del liceo classico “V.  Linares” di Licata.

Grazie alla prof.ssa Vitalba Sorriso, presidente dell’AAL (Associazione Archeologica Licatese)

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 Il  racconto:

“MICHELANGELO

Il primo maggio di ogni anno venivano a prenderlo col camion,e siccome il mezzo non aveva dove girare in quella stradetta senza uscita, rimaneva fermo all’incrocio con la strada principale e loro lo sollevavano di peso con tutta la sedia e lo portavano a spalla, di corsa vociando, proprio come uno dei ceri della festa del Patrono fino al camion.
Bestemmiando si arrampicava, quintale abbondante, trascinando quella gamba come morta lungo il cassone dell’autocarro mentre gli altri di sopra, lo tiravano. Sedeva poi sul cassone bene in vista tra le bandiere rosse con falce e martello, intronato dalla potente tromba che gridava nell’aria mattutina gli inni rossi.
Tra le cosce il fiasco di vino cerasuolo.
Invariabilmente la sera tornava a casa ubriaco e, prima di cadere addormentato, picchiava la moglie.
Subito dopo la guerra, quando la gamba era ancora sana e forte, faceva il pescatore e, di tanto in tanto, il corriere di cocaina che qualche nave gli passava al largo e lui e i suoi figli portavano aterra sulla barca con la vela d’arancione scolorito.
La sbarcavano all’interno delle cassette di pesce con la lattugadi mare sopra e la facevano sempre franca.
Una casa sdirupata dalle bombe, sorvegliata a vista dalle donne,era il temporaneo nascondiglio della cocaina fino a quando un altro corriere la portava via.
Le guardie di finanza venivano di tanto in tanto a far visita a Michelangelo e alla sua famiglia, ma sapevano già in partenza che era tempo perso.
Tra quelle stradine, strette e storte come le budella attorcigliate di un morto di fame, la voce correva veloce sulle ali del sussurro affrettato: « a finanza! a finanza!»
Invariabilmente la perquisizione, per quanto rigorosa e accurata, di quel pianterreno fuligginoso, di quell’unico stanzone semibuio dove dormivano e cucinavano, non svelava alcunché di minimamente sospetto o compromettente; nemmeno nella naca dondolante in un angolo con l’ultimo nato dentro.
Nell’antichissimo quartiere marinaro, tutti, ma proprio tutti, avevano un soprannome.
A volte di recente acquisizione, ma molto spesso ricevuto come un’eredità dal padre o dalla madre che a loro volta l’avevano ereditato nascendo.
In quelle strade, simili a profonde gole, dove d’inverno, anche per diversi mesi, il sole non riusciva a lambire il selciato medievale, era impresa vana cercare una persona col suo cognome: gli interpellati avrebbero risposto di non conoscerla mentre tutti si sarebbero prodigati a spiegare dove abita, a mandarla a chiamare con un ragazzino se appena si accennava al soprannome.
Pareva proprio che il cognome dovesse essere qualcosa di superfluo, un’etichetta imposta dalla legge solo per complicare la vita di quella gente che già tanto complicata l’aveva nell’impresa quotidiana di tirare avanti.
E quante ire di sergenti e quante punizioni per quelli che, andando a militare di leva, restavano indifferenti nel sentir gridare il loro cognome e nome!
Ma solo perché non c’erano abituati, anche se in prima elementare il maestro aveva tanto insistito per farglielo entrare in testa.
In quell’antico quartiere a ridosso del mare c’erano i «Longhi» ed erano molto alti, i «Pospiriddrara» e un loro antenato fabbricava fiammiferi. La «Bifara modda» era una donna grassa e flaccida che stava sempre su una seggiolina che non riusciva a contenere le sue straripanti natiche per cui dava proprio l’impressione di una enorme bifara.
Ma c’erano anche soprannomi, come «Pilaù» o «‘Mbambarambà», il cui significato si era perso nel foscume del tempo. E poi, non era forse il cognome un antico soprannome dato dai vicini per distinguere una famiglia o una persona da un’altra legalizzato e congelato poi sui libri dell’anagrafe?
Così, per tutta la marina, Michelangelo era Michelangelo e basta, sua moglie Annettina la Michelangela e i figli Peppe il Michelangelo, Viciuzza la Michelangela e via di questo passo.
Michelangelo aveva sette figli, due femmine e cinque maschi. Peppe, il maggiore, aveva le carte macchiate per una coltellata vibrata ad un compagno di dispensa.
Cosa da poco, si sa, con qualche bicchiere in più.…… La ferita infatti non era per niente grave, ma quello era morto di cancrena dopo due mesi perché quel coltello aveva prima tagliato l’aglio crudo per condire il polpo cotto con olio, prezzemolo, sale e pepe, e, quando si era deciso ad andare all’ospedale, era troppo tardi.
Angeluzzo, il più piccolo, andava in giro scalzo anche d’inverno con quei piedi sempre rossi e callosi. Non superò mai la prima elementare perché non riusciva a star seduto sui banchi e le scarpe ai piedi gli facevano sempre male.
Preferiva giocare a briscola con gli amici su una barca capovolta. E poi aveva perso il libro acquistato di seconda o forse di terza mano, il quaderno e la penna col pennino quella giornata ancora tiepida d’ottobre quando, all’aritmetica, aveva preferito i tuffi dal molo caricatore e un’onda maligna e capricciosa aveva portato via d’un colpo tutte le vane promesse di una cultura estranea al suo mondo.
Quando andò a scavare nelle miniere di Marcinelle gli bastò saper scrivere la sua firma.
Uomo di natura violenta, Michelangelo aveva un passatempoche lo divertiva: insultare pesantemente e senza motivo i figli.
Mentre le donne e i più piccoli, pur odiandolo dal più profondo del cuore, subivano passivamente, il primo e il secondo figlio lo rintuzzavano fino a che, complice qualche bicchiere, in casa deiMichelangeli si scatenava il finimondo.
Il padre si batteva coi figli più grandi sfasciando sedie e tavoli,rovesciando la credenza già reduce di altri simili trattamenti.
Come rispettosi di un oscuro codice di comportamento nonscritto, ma sentito nel più profondo dei visceri, nessuno deicontendenti mai tirò fuori il coltello, né mai nessuno dei vicinitentò di dividerli, non tanto per paura di prenderle, quanto perquell’oscuro codice che diceva loro che erano faccende private a cui non dovevano immischiarsi.
La mattina dopo si potevano vedere i Michelangeli, come sempre muti e imbronciati, intenti a rimagliare la rete, rifare lo stroppo,sostituire la drizza, cogli occhi bassi, le labbra serrate comerimuginassero chissà quali pensieri.
Michelangelo si era guadagnata la fama di grande comunista terrorizzando i preti che, puntualmente ogni anno a maggio, si presentavano sulla soglia di casa sua col pio intento di benedirla.
In quell’occasione forgiava bestemmie sempre nuove manifestando una gran fantasia che faceva inorridire il povero sacerdote.
Tre giorni di gran gloria aveva vissuto nel maggio del quarantaquattro quando, contribuendo validamente nell’intento di precipitare il paese nel caos, forse più di quanto lo era stato dopo l’otto settembre, si era unito a un gruppo di facinorosi armati fino ai denti che, all’ombra della bandiera rossa, aveva saccheggiato, depredato e ucciso.
Egli, che di politica non doveva certo capirne molto e che amava quella bandiera forse solo perché di un colore certamente a lui congeniale, partecipò al sacco del suo paese come un novello lanzichenecco che viene da lontano, e non certo come l’angelo del Giudizio di cui portava il nome, e sparò col mitra, lanciò bombe, sequestrò i notabili del paese e terrorizzò i suoi paesani che già tante ne avevano viste nei giorni di guerra il cui ricordo era ancora vivo e bruciante per molti.
E così quell’uomo, che non conosceva certo gli scritti di Gramsci o la linea politica di Togliatti, ma che coltivava religiosamente un bel paio di mustacchi alla Stalin, diventò il simbolo vivente del comunismo paesano così come era inteso dalla povera gente.
Popolo ignorante certamente ma che percepiva nettamente stanchezza e frustrazione ma anche voglia di cambiamento dopo che il fronte di guerra aveva risalito lo stivale e la monarchia e il fascismo agonizzavano.
Per quella gamba paralizzata era considerato dai compagni un martire al contrario perché utti loro pensavano, ma nessuno mai lo disse, che non era stato il vino a incancrenirgliela così. Le si era paralizzata all’improvviso da un giorno all’altro.
Sano era andato a dormire la sera e il giorno dopo si era ritrovato con quell’arto inerte incapace di muoversi e sostenere quel corpo massiccio.
I bene informati raccontavano che il giorno prima Michelangelo stava sull’uscio di casa ad arrostire una coscia di capretto quando qualcuno di passaggio gli aveva chiesto, scherzosamente, cosa stesse arrostendo e a lui venne in mente la madre di tutte le bestemmie.
Con un sorriso furbo sotto i mustacchi, con quegli occhietti piccoli e vivacissimi, tra il serio e il faceto, aveva risposto: «Non lo vedi, stronzo? E’ la coscia del Bambino che sto arrostendo».

Si era sotto Natale.                                                                 gennaio ’96

Jun 10, 2019 - Senza categoria    Comments Off on UNA PAGINA DELLA STORIA MUSICALE DI LOCOROTONDO:CATALDO CURRI – IL LIBRO DI DONATO FUMAROLA E DI GIUSEPPE TURSI PRESENTATO A LICATA

UNA PAGINA DELLA STORIA MUSICALE DI LOCOROTONDO:CATALDO CURRI – IL LIBRO DI DONATO FUMAROLA E DI GIUSEPPE TURSI PRESENTATO A LICATA

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Oggi, 7 giugno 2019, l’aula Falcone-Borsellino è stata teatro di un importante evento culturale.
Infatti, in questa sala, ospitata presso la Parrocchia di San Giuseppe Maria Tomasi, a Licata, la confraternita di San Girolamo della Misericordia ha organizzato questo evento per ricordare la figura umana e professionale del M° Cataldo Curri, insigne musicista e compositore di opere famose.
E’ stato presentato il libro “UNA PAGINA DELLA STORIA MUSICALE DI LOCOROTONDO: CATALDO CURRI” . degli autori Donato Fumarola e Giuseppe Tursi.

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” Una pagina della storia musicale di Locorotondo: Cataldo Curri ” è il libro che racconta la biografia e la storia delle attività artistiche dell’insigne M° Cataldo Curri grazie al minuzioso lavoro di ricerca del prof. Donato Fumarola e del prof Giuseppe Tursi.
Nel testo è inserito il catalogo delle sue opere corredato da oltre 70 foto inedite. Insieme al libro sono allegate alcune foto in formato grande che documentano varie e importanti occasioni. Le appendici finali del volume narrano fatti inediti riguardanti la banda bianca e alcuni dei suoi componenti.
La presentazione del lbro è del M° Angelo Schirinzi, la copertina illustrata è del disegnatore e grafico pubblicitario Alberto Camarra. Il grazie per la pubblicazione del volume va all’Associazione culturale Santa famiglia della c.da Lamie di Olimpia, alla Banca Popolare di Bari e al gruppo Macomed per il loro contributo.
A sollecitare l’evento per la presentazione del libro è stato il rev.padre Totino Licata, parroco della Parrocchia di San Giuseppe Maria Tomasi e assistente spirituale della confraternita di San Girolamo della Misericordia.
Ha condotto i lavori il prof. Francesco Pira Delegato alla Cultura della Confraternita.
Sono intervenuti: il prof. Donato Fumarola e il dott. Angelo Gambino.

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Il tavolo dei relatori

Dax: Francesco Pira- Donato Fumarola, Angelo Gambino

Purtroppo era assente  Giuseppe Tursi, co-autore del libro assieme a Donato Fumarola perché improvvisamente è venuto a mancare il 6 maggio u.s.

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Ha introdotto i lavori il dott. Angelo Gambino, governatore della confraternita di San Girolamo della Misericordia, che, dopo il benvenuto e i cordiali saluti, ha ringraziato padre Totino Licata per l’ospitalità, i licatesi presenti e, soprattutto, l’autore del libro, il prof Donato Fumarola per essere giunto a Licata da Locorotondo per partecipare alla presentazione del suo libro sulla vita e le opere del M° Cataldo Curri. Ha affermato che ancora oggi i brani musicali del M° Curri sono eseguiti dalle bande locali durante le Celebrazioni del Venerdì Santo amministrate dalla stessa Confraternita.

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Padre Totino Licata, nel suo intervento, ha letto  il suo contributo al libro: “Ricordo il Maestro Curri, la sua tenacia e la sua affabilità, il suo modo discreto e perfettamente educato di relazionarsi con gli altri. La sua presenza a Licata ha contribuito ad una crescita culturale non indifferente. Insegnava musica. Non dobbiamo dimenticare che il corpo bandistico di Licata era divenuto Banda di Giro. Il Comune lo aveva assunto, dopo un regolare concorso, e la sua vita la spese per questa nostra città”.

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Durante la cerimonia della presentazione dl libro il prof. Francesco Pira ha ripetutamente stimolato il prof. Donato Fumarola a raccontare aneddoti del grande compositore e direttore d’orchestra Cataldo Curri. Come lui stesso ha affermato: ”E’ stata una bellissima conversazione sul grande Maestro”.

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Cordiale è stato il dialogo del prof Donato Fumarola. Le se parole: “A Licata, fra di voi,  mi sono sentito subito a casa per la calorosa accoglienza”. Quindi ha raccontato parte della sua storia privata. Ha citato la frase scritta dal professor Calogero Carità:”Durante i suoi quindici anni di permanenza a Licata il M° Curri educò la gente, anche gli strati più popolari, ad accostarsi all’attività concertistica esibendosi ogni sabato sera e domenica mattina con musiche in palco in piazza Progresso o alla villa Regina Elena alla presenza di un numeroso pubblico entusiasta”. Infine ha ringraziato: Don Totino Licata, Angelo Gambino, Francesco Pira, Pierangelo Timoneri Giuseppe Nogara e la grande Banda Musicale Bellini – Curri. Il ringraziamento più sentito è andato al carissimo amico Pinuccio Tursi, nonchè co-autore del libro su Cataldo Curri. Senza il suo apporto, e senza il sostegno dell’ass.ne Santa Famiglia di Lamie D’Olimpia e della Banca popolare di Bari questo progetto non sarebbe stato realizzato.

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Hanno dato la loro testimonianza sulla presenza del M° Curri a Licata: l’amico Pierangelo Timoneri,

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il poeta Lorenzo Peritore,

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 il musicista Angelo Onorio,

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  la signora Anna Dainotto,

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il dott. Angelo Gambino che hanno raccontato episodi della vita del M° Curri o vissuti personalmente o appresi dalle persone, padri e fratelli, che l’hanno conosciuto.

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 Riporto integralmente il discorso di Pierangelo Timoneri: “L’amicizia con Donato Fumarola nasce nell’estate del 2009 quando mi scrisse questo messaggio: <<Vorrei avere notizie sul M° Cataldo Curri. Un grazie di cuore da parte di tutti i locorotondesi per il tuo lavoro di ricerca>>. In quell’anno ero alla ricerca di marce di Curri e di autori di banda per la mostra fotografica sulla Settimana Santa a Licata. Da qui sono nati la corrispondenza con Fumarola e lo scambio di materiale su Curri. L’ho fatto mettere in contatto con don Totino Licata e con Giuseppe Nogara, capobanda della Bellini-Curri. Nel 2016, all’improvviso e inaspettatamente, Fumarola mi chiese di scrivere un capitolo sul suo libro, sulla presenza di Curri a Licata e sulle processioni, così sentite e partecipate nella nostra città. Ho accettato con qualche timore ed ecco che nel libro trovate un mio contributo. Non ho avuto modo di conoscere il M° Curri, ero piccolino quando per l’ultima volta diresse il concerto del Venerdì Santo a Licata, ma ho i ricordi di mio padre, amante della musica classica e della lirica, che me ne parlava e che faceva parte della filarmonica. Egli mi ha trasmesso questa passione. Con don Totino Licata nel 1994 e nel 1995 ho fatto parte del coro per il Venerdì Santo ed oggi faccio parte del coro polifonico “Luigi Cherubini” che quest’anno abbiamo ripreso i brani che venivano eseguiti dalla Filarmonica. Per questo evento della presentazione del libro ho realizzato la mostra fotografica e di documenti relativi al M° Curri. Concludo questo mio breve intervento con quanto ho scritto sul libro. <<Grato al carissimo Donato Fumarola per avermi invitato a scrivere un intervento sul suo libro dedicato al M° Curri>>. Concludo con il desiderio che si possa indicare il maestro come una persona che ha lasciato un segno tangibile nella storia delle due città, Licata e Locorotondo, ed in ogni luogo dove è stato chiamato per dirigere bande musicali. Importante in questo senso è conservarne e tramandarne la memoria attraverso valide iniziative. A Licata qualche anno fa gli è stata intitolata una via e una banda musicale ne porta il suo nome. Sarebbe interessante proporre all’Amministrazione Comunale di Licata la realizzazione di un busto o l’installazione di una lapide del maestro da collocare nella villa Regina Elena, luogo dei suoi concerti, per farlo conoscere agli alunni delle scuole e per dedicare al compianto maestro ogni iniziativa bandistica e musicale”.

Durante il convegno hanno dato prova della loro bravura i musici della Banda Bellini-Curri, diretti dal capobanda Giuseppe Nogara, che hanno suonato “La Dolente” e “Lacrime” opere del M° Cataldo Curri. La Banda Musicale Bellini- Curri, attraverso le parole del capobanda Giuseppe Nogara, ritenendosi onorata di partecipare all’evento organizzato dalla confraternita di San Girolamo della Misericordia per la presentazione del libro del prof. Donato Fumarola, ringrazia gli organizzatori.

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La visita alla mostra delle fotografie e dei documenti relativi al M° Curri, curata dall’operatore culturale Pierangelo Timoneri, è stato un altro momento di arricchimento culturale.

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La cerimonia ha suscitato grande interesse e gli applausi della platea sono stati calorosi e abbondanti.

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Alla fine il prof. Donato Fumarola ha firmato la dedica al suo libro e ha salutato gli amici

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CATALDO CURRI  nasce a Locorotondo (BA) il 17 gennaio 1892.

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Musicista e compositore, diplomatosi al Conservatorio di Napoli e completati gli studi divenne direttore di banda. Nel 1931 emigrò in Argentina dove si inserì a suonare il primo corno nell’orchestra diretta dal maestro Arturo Toscanini.
Alla fine della seconda guerra mondiale ritornò in Italia. Nel 1947 partecipò e vinse il concorso per maestro di banda musicale bandito dal Comune di Licata dove M° Curri rimase fino al 1962 da egregio direttore della banda musicale. Non solo fu un eccellente direttore della banda, ma seppe unire alla musica le voci di diverse persone amanti del canto per la costituzione della Filarmonica “Petrella” che ogni anno, nella ricorrenza del Venerdì Santo, si esibiva sul palco allestito in piazza Progresso la sera dopo la deposizione del Cristo che scende dalla Croce. Per questa ricorrenza Curri compose varie marce funebri, tra le quali: LACRIME, LA DOLENTE, ULTIMO GIORNO. Dopo essere andato in pensione, il M° Cataldo Curri si ritirò a Pistoia, nella casa della figlia, dove morì l’11 maggio 1978 e per suo desiderio fu sepolto nella sua città natale esprimendo il desiderio di accompagnare il suo feretro col  suono di “Lacrime”.

DONATO FUMAROLA, nato a Locorotondo, all’età di dieci anni ha iniziato gli studi musicali diplomandosi in seguito in Pianoforte, Musica Jazz e Didattica Della Musica presso i conservatori di Matera e Monopoli . Nel 1991vince il suo primo premio assoluto al VI Con.Naz.Pianistico “Città di Valentino” di Castellaneta (Ta) seguiranno altri cinque primi premi assoluti in altrettanti Conc. Naz. ed Internazionali con formazioni cameristiche. Nell’ estate 98 ottiene una borsa di studio I.S.M.E.Z. al Conc. Inter. di musica da camera “ Città di Gubbio”. Dopo aver praticato un lungo apprendistato e perfezionamento nei campi della musica classica, e contemporanea, in diversi Conservatori e Accademie Musicali italiane con i maestri tra i quali: R.Corlianò,R.Cognazzo, T.Lievitina, K.Bogino,C.Grante (pianoforte e musica da camera), S.Gorli, D.Ghezzo (composizione), S.Miceli F.Piersanti (musica per film) tappa fondamentale nella sua evoluzione artistica è stata l’immersione nell’improvvisazione totale, nel 1999, nell’ensemble“Labirinto” del M. Gianni Lenoci. Seguiranno numerosi seminari con Maestri e Performer quali: Bruno Tommaso, Jean Derome, Gerardo Iacoucci, Francesco de Grassi, Stefano Battaglia,Marco Fumo. Diverse sue composizioni, sono state eseguite in numerosi recital, festival e rassegne musicali nazionali quali: Bologna (Accademia Filarmonica 1997 e 2000), Bari (Dipartimento di musica contemporanea ’99 in collaborazione con la New York University), Otranto (Salento musica XXedizione ’99), Alberobello Jazz 2004, Monopoli (III, IV eV Meeting della Scuola di Didattica Della Musica 2007,2008e 2009). Le sue collaborazioni vanno dalla musica classica a quella contemporanea, dal jazz al tango, alla musica gospel, alla sonorizzazione di film muti. Una sua sonorizzazione del film Emak-Bakia (1926)di Man Ray è stata segnalata alla terza edizione del festival “Harlock 2001-Rimusicazioni Film Festival di Bolzano. Nel maggio 2008 il direttore del Cons. “Nino Rota” di Monopoli e il comitato scientifico del corso di Didattica Della Musica, gli hanno conferito un Diploma di Merito per le sue composizioni, molto intense sia dal punto di vista artistico, sia da quello dell’ impegno civile, morale e umano. Suoi lavori sono pubblicati presso la casa editrice Florestano di Bari. Insegna pianoforte presso la Carl Orff di Putignano e Alberobello.
Dal web:http://www.donatofumarola.com/

Dalla seconda di copertina del libro

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  Dalla seconda di copertina del libro

GIUSEPPE TURSI

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Jun 1, 2019 - Senza categoria    Comments Off on L’ECBALLIUM ELATERIUM, IL COCOMERO ASININO

L’ECBALLIUM ELATERIUM, IL COCOMERO ASININO

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Sono sicura che a nessuno di noi, attenti osservatori della Natura, è sfuggito l’incontro con questa pianta molto diffusa in Italia e in Sicilia. I suoi habitat sono molto estesi: dal piano alla zona submontana, sino a 800 m di quota, lungo i sentieri, ai margini dei coltivi, su terreni incolti, aridi e sassosi, sulle macerie, nelle zone costiere come le dune e lungo le spiagge. Non è raro incontrare questa pianta anche a
Mistretta e a Licata.
Sotto i marciapiedi di una palazzina vicina alla mia ho notato una pianta che mostrava contemporaneamente larghe foglie, bei fiori gialli e grossi frutti ovoidali.
Mi accostai ad essa e, per meglio fotografarla, m’inginocchiai accanto ad essa. Avevo appena iniziato la mia ispezione quando all’improvviso fui investita da un’emissione multipla di schizzi di liquido appiccicoso misto a corpuscoli scuri che centrarono la mia faccia e la macchina fotografica.
Gli occhi, fortunatamente, sono stati protetti dagli occhiali.
Mi sono arrabbiata veramente!
Il mio è soltanto un avvertimento per essere attenti, amici miei, a non calpestare, a non toccare, a non sfiorare questa pianta che, fra poco tempo, sarà presente e molto invadente.
In botanica il suo nome scientifico è: “Ecballium elaterium”.
E’ conosciuto con molti altri sinonimi italiani:Cocomero asinino, Elaterio, Schizzetti, Sputaveleno” perché nella polpa è contenuta una sostanza amarissima e molto tossica.  Da noi, in Sicilia è chiamato Citrulìcchiu”.
Etimologicamente il nome del genere “Ecballium” deriva dal verbo greco “έκ-βάλλω”,sbalzar fuori”, alludendo alla caratteristica del frutto che schizza i semi.  Il nome della specie“elaterium” deriva sempre dal greco “έλατήριος”, “chespinge, che allontana”.
L’Ecballium elaterium è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Cucurbitacee. Originaria dalle regioni aride dell’Africa settentrionale, è diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo.
E’ una pianta verrucoso-ispida, cespugliosa, alta sino a 50 cm, con fusti prostrati, succulenti, angolosi, ramosi e senza viticci.

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Le foglie, sostenute da lunghi piccioli, sono ovato-cuoriformi, con apice acuto e margine ondulato, molto spesse e di colore verde-grigio.

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I fiori, piccoli, monoici, colorati di giallo chiaro e striati di verde, sia i femminili sia i maschili compaiono nell’ascella della stessa foglia, ma su peduncoli distinti.  Sia la corolla sia il calice sono divisi in 5 lobi. I fiori maschili sono riuniti in racemi; i fiori femminili sono solitari e saldati ai rami. L’antesi è molto lunga: da aprile ad ottobre.

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I fiori femminili, dopo la fecondazione, producono il frutto. Il peduncolo che lo sostiene è ripiegato ad uncino e quindi l’attaccatura del frutto è rivolta verso l’alto.
Il frutto, una bacca ovoide, dalle dimensioni di 3–4 cm, di colore verdastro, oblungo, ruvido-irsuto, pendente, a maturità si stacca dal peduncolo e dal foro lancia i semi a parecchi metri di distanza, anche oltre i 3 metri, alla velocità di circa 10 m/s.

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All’interno del frutto si formano dei gas e dei liquidi che, a maturazione, aumentano di pressione. Basta sfiorare la pianta per provocare il distacco del frutto e la violenta fuoriuscita dal foro dell’attaccatura dei semi e del liquido nel quale sono immersi favorendo, così, la diffusione della specie. Il frutto, svuotato, è spinto in direzione opposta per il contraccolpo. Questo comportamento è accompagnato da un odore disgustoso. Il frutto non è buono da mangiare.
La sua polpa non solo è molto amara, ma contiene l’elaterina, una sostanza assolutamente tossica da cui il nome volgare di “Sputaveleno”.
Questo meccanismo di dispersione dei semi risponde ad una naturale esigenza della pianta ecologicamente aggressiva in habitat aridi: far crescere le piante figlie in zone lontane il più possibile dalla pianta madre per evitare competizioni tra di esse per l’occupazione del suolo, per il rifornimento dell’acqua e per estendere al massimo il controllo del territorio.
Il Cocomero asinino, oltre all’elaterina, include altri principi attivi: l’elaterinide, la cocurbitacina, gli alcalodi cinoglossina e consolicina, per cui possiede proprietà farmacologiche impiegate in campo terapeutico.
Nella medicina popolare, fin dai tempi antichi, la polpa dell’Ecballium fu impiegata dagli Egizi, dai Romani e dai Greci.
Il filosofo greco Teofrasto di Ereso consigliava l’uso della radice per combattere la scabbia delle pecore. In seguito la polpa del frutto fu impiegata anche dai medici arabi e in particolare da Avicenna che considerò l’elaterina fra i rimedi più utili e più efficaci.
Ippocrate raccomandava molta prudenza nella somministrazione dell’Elaterio, un miscuglio di sostanze estratte da vari frutti delle Cucurbitacee, dimostrando di conoscere esattamente non solo la sua attività terapeutica, ma anche gli inconvenienti che possono derivare da un uso incauto di questa droga.
I seguaci di Ippocrate utilizzavano le radici e le foglie.
Il Leclerc, in un suo articolo ricco di notizie storiche, scrisse che l’Ecballium può essere annoverato fra le droghe di più antico uso; <<Son emploi remonte à l’aurore de la Médecine>>.
Dioscoride diede un’esatta descrizione del metodo di preparazione dell’Elaterio estratto dal frutto dell’Ecballium, metodo che fondamentalmente corrisponde a quello impiegato anche attualmente.
L’elaterina, contenuta nella polpa del frutto, è una sostanza amarissima e altamente tossica.
Mangiare la polpa può causare fastidiose infiammazioni alla mucosa della bocca e seri disturbi gastrointestinali. L’elaterina è attiva già alla dose di pochi milligrammi.
Gli estratti della polpa del frutto dell’Ecballium attualmente sono impiegati in veterinaria per il loro effetto purgante.
Null’uomo sono utilizzati quasi esclusivamente per uso esterno.
Con la radice, prima macerata e poi bollita nell’aceto, si effettuavano massaggi che attenuavano i dolori reumatici e il gonfiore delle gambe. Infatti, il suo principio attivo, particolarmente idrosolubile,  aveva proprietà antinfiammatorie ed analgesiche.
Tuttavia sembra che questa pianta abbia proprietà terapeutiche che riescono a curare alcuni malanni quali la sinusite, gli stati emorroidari, le affezioni oculari, i dolori articolari, le ostruzioni delle vie biliari, le infezioni della pelle, in particolare quelle molto contagiose. In medicina si può usare il liquido essiccato come forte purgativo,ma ne è sconsigliato l’uso data l’elevatissima tossicità.
Infatti, per la sua alta tossicità bisogna usare la droga solo ed esclusivamente sotto lo stretto controllo del proprio medico.
Il quadro tossicologico, causato sia dall’ingestione sia dal contatto cutaneo con la pianta, è costituito dai sintomi di violenta gastroenterite, nausea, vomito e diarrea.
Dopo un lungo periodo durante il quale fu quasi completamente abbandonato, l’uso dell’elaterio fu ancora ripreso nel 1700 e nel 1800 da alcuni medici inglesi fra i quali il Sydenham e il Lister.

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Questa droga fu esaurientemente trattata in molti testi di Medicina e inscritta nelle farmacopee di quasi tutti i paesi d’Europa e d’America. La Farmacopea degli Stati Uniti ha registrato l’elaterio sino al 1813 e l’elaterina sino al 1916, mentre dell’elaterio e dell’elaterina si trova menzione nella Farmacopea inglese sino al 1914.
Attualmente l’uso dell’elaterio e dell’elaterina é di nuovo quasi completamente abbandonato.
Una buona droga, a contenuto fisso e controllato in elaterina, potrebbe sempre trovare utile impiego anche ai giorni nostri.

 

 

 

 

 

 

 

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