Mar 1, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LE BOUGANVILLE AURANTIACA E SANDERIANA PRESENTI NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

LE BOUGANVILLE AURANTIACA E SANDERIANA PRESENTI NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Amici  miei, vi è mai capitato di incontrare un recinto, una parete, un muro rivestiti dai rami fioriti della bellissima Bouganvilleae di rimanere affascinati dalla straordinaria bellezza dei suoi fiori?
Ebbene, nella mia campagna, in contrada Montesole, a Licata, sono presenti due varietà di Bouganvillee: la varietàaurantiaca”, caratterizzata da brattee che circondano i fiori dal color rosso mattone scuro, e la varietàSanderiana”, che ha ifiori circondati da brattee di colore rosso-violaceo.

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La Bouganvillea è una pianta rampicante che, dalla primavera e fino al tardo autunno, con la sua abbondante fioritura, regala splendide macchie di colore.
In Brasile, nel 1768, fu notata dal botanico francese Philibert Commerson, ma il suo nome è un omaggio a Louis Antoine de Bouganville, il navigatore francese che scoprì questa pianta durante uno dei suoi tanti viaggi e la introdusse in Europa.
La Bougainvillea, chiamata anche Bouganvillea Buganvillea, è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Nyctaginaceae.
È diffusa in tutti quei Paesi dove il clima è mite. In Italia è coltivata in piena terra, all’esterno, solo nelle regioni più calde poichè necessita di una temperatura non inferiore ai 7 °C. A Licata la temperatura non scende quasi mai al di sotto dei 7°C neanche in inverno!
Quindi, la pianta ha trovato il suo ambiente ideale.
Le mie piante sono molto belle e vistose e ravvivano l’aspetto del mio giardino!
La Bouganvillea aurantiaca possiede rametti legnosi provvisti di spine e foglie ovate di colore verde lucente lungo tutto il fusto.
I piccoli fiori sono circondati da grandi brattee di colore rosso mattone scuro.

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La Bougainvillea Sanderiana è una pianta molto rustica, di forma raccolta, con foglie piccole, verdi, lucide e con fiori circondati da brattee di colore rosso-violaceo brillante. Possiede rametti legnosi provvisti di spine.

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Esistono in Natura 18 varietà di Bouganvillee che differiscono tra di loro per il colore dei fiori. Le grandi brattee, che circondano il fiore vero e proprio, possono essere di colore bianco, giallo, arancio, rosa, viola. Colori più frequenti per le Bouganvillee sono: il rosa, il rosso, il fucsia e il viola.
L’interesse come piante ornamentali è dato, appunto, dai grappoli dei piccoli fiori tubolosi riuniti a gruppi di tre avvolti in un involucro di tre brattee vistosamente colorate. La fioritura si protrae per diversi mesi durante l’anno.
La Bouganvillea si moltiplica per seme, ma anche per talea. E’ sufficiente asportare dalla pianta un rametto di circa 8-10 centimetri di lunghezza e piantarlo nel terreno. Il periodo ideale per le talee è la primavera. Dopo circa  tre settimane dall’impianto si potrà vedere la comparsa delle piccole radici.
Le Bouganvillee, coltivate prevalentemente a scopo ornamentale, si possono ammirare lungo i muri, nei recinti, nei cortili e vicino alle verande.
Semplici da coltivare, le Bouganvillee sono delle piante vigorose, appariscenti, vistose ma, allo stesso tempo, delicate ed eleganti.
Sono in grado di svilupparsi abbastanza rapidamente producendo una cascata di rami, di foglie e di fiori colorati che abbelliscono l’ambiente dove vivono.
Le Bouganvillee, coltivate all’aperto, richiedono un terreno fertile e amano essere poste in luoghi esposti al sole e riparati dalle correnti fredde in modo da ottenere un’ottima fioritura. Il terreno deve contenere una buona quantità di umidità.
Bisogna annaffiare la Bouganvillee solo quando il terreno è ben asciutto.
Infatti, è una pianta che sopporta bene la siccità, ma le annaffiature periodiche sono indispensabili soprattutto nel periodo estivo.
Durante i mesi freddi, invece, bisogna annaffiare il terreno solo sporadicamente e solo quando è ben asciutto.
Poiché la Bouganvillea è una pianta che cresce piuttosto velocemente, per dare una forma armoniosa è necessario potare la pianta prima dell’arrivo della primavera, durante il mese di febbraio, al termine di ogni fioritura.
Si devono eliminare tutti i rami deboli o secchi e accorciare di un terzo circa i rami principali. Con le nuove foglie e con nuova la fioritura si riprenderà spettacolarmente.
Durante la potatura bisogna usare i guanti per proteggere le dita dalla puntura delle spine che, possedendo una leggera tossicità, potrebbero causare fastidiose dermatiti.
La Bouganvillea è una pianta molto resistente e, in genere, difficilmente è attaccata dagli insetti o colpita da malattie fungine.
Eventuali malattie e parassiti potranno essere sconfitti dai trattamenti chimici e biologici. Gli antiparassitari biologici rispettano l’ambiente, sono atossici per le persone, per gli animali domestici e per gli insetti utili.
Tra le malattie crittogame, cioè quelle causate da funghi microscopici che attaccano tutte le parti della pianta, dalle radici alle foglie, si evidenziano: il marciume fogliare, che si manifesta con l’accartocciamento delle foglie e la loro precoce caduta; il marciume radicale, causato dal ristagno idrico; la tracheomicosi, una malattia fungina che provoca il disseccamento parziale o totale dell’intero fusto.
Tra i parassiti animali, che maggiormente recano danni a questa meravigliosa pianta, quelli più frequenti sono: la Cocciniglia, un parassita che si nutre della linfa della pianta, gli Afidi, che attaccano fiori e foglie soprattutto quando l’aria è umida.
Gli attacchi degli Afidi predispongono la pianta all’aggressione del “virus del mosaico”, un virus che provoca l’ingiallimento delle foglie, l’arresto della fioritura e la produzione di germogli deformati e contorti.
Nel linguaggio dei fiori la Bougainvillea assume il significato di “benvenuto”.

 

Feb 24, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA CERAMICA DI SCIACCA DECRITTA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

LA STORIA DELLA CERAMICA DI SCIACCA DECRITTA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

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Sciacca, in provincia di Agrigento, è un’altra città della Sicilia dove è ancora vigente l’antica arte della ceramica. L’origine della ceramica a Sciacca risale all’VIII – VI millennio a.C. e ancora oggi rispetta le forme e i colori dell’antica tradizione.

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Recenti scavi hanno permesso di ritrovare resti di antichi forni utilizzati per la cottura della ceramica. Esattamente, nel 1971, durante i lavori di scavo nei pressi dalla villa comunale, furono trovati altri resti di antiche fornaci per la lavorazione dell’argilla e recuperati vari frammenti di ceramica invetriata risalenti agli inizi del 1200 e conservati nel Museo di Caltagirone. Al museo regionale della ceramica a Caltagirone è conservata una “cannata” con lo stemma della famiglia “Incisa” prodotta nella prima metà del trecento. Gli “Incisa” erano famiglie nobiliari molto importanti nella città di Sciacca. I diversi scavi archeologici effettuati negli ultimi decenni nel territorio saccense hanno portato alla luce una notevole quantità di prodotti ceramici. I più antichi sono stati trovati nella grotta del Fazello, sul monte Cronio, e risalgono al periodo del neolitico; altri sono stati trovati nella necropoli dell’età del rame in contrada Tranchina, altri ancora risalenti al periodo greco-romano, in diverse parti del territorio saccense.
Inoltre, in alcuni documenti risalenti agli ultimi decenni del ‘200, sono attestati i pagamenti di dazi su vari manufatti ceramici dell’epoca.
Le fonti storiche raccontano che nel 1282 le fornaci producevano dei manufatti invetriati e le ceramiche ritrovate a Gela e ad Agrigento nei palazzi nobiliari del XVI al XVIII secolo provengono dai laboratori Saccensi. Questi ritrovamenti testimoniano la lunga tradizione della lavorazione di manufatti in ceramica a Sciacca.
Tuttavia, risale al Medioevo una documentazione storica che afferma che nella città di Sciacca ci fu una produzione di manufatti in ceramica. Il Medioevo è un periodo di circa 10 secoli che inizia con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476, e termina con la scoperta dell’America avvenuta nel 1492.
La produzione della ceramica conosce un notevole sviluppo con il progressivo diffondersi a Sciacca delle farmacie, o “speziarie“, sorte numerose in relazione all’usanza medievale che imponeva ai cittadini di curare, oltre che di ospitare, i pellegrini che si recavano a Sciacca.

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Presso le farmacie i contenitori delle erbe medicinali, che erano costituiti da vasi in ceramica a forma prevalentemente di cilindri o di grosse bocce ovoidali, erano collocati negli scaffali e presentavano ricche decorazioni espresse con i colori accesi del giallo, del verde e del blu intenso.

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Il quattrocento segnò l’affermarsi della produzione ceramica di Sciacca come una tra le più importanti della Sicilia. Ai ceramisti saccensi si commissionavano notevoli produzioni di maioliche destinate a ornare palazzi nobiliari, chiese, conventi, oltre alle farmacie del tempo.
Si realizzavano: bocce, vasi, albarelli, piatti e mattonelle.

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Molta di questa produzione è documentata attraverso gli atti notarili dai quali si conoscono i nomi dei ceramisti. I più famosi e bravi maestri maiolicari del ‘400 furono: Guglielmo Xurtino e Nicola Lu Sciuto.  Nicola Lu Sciuto, nel 1470, ha firmato quattro albarelli, uno dei quali è oggi conservato presso il Museo nazionale di Malta.
Il periodo a cavallo tra il ‘400 e il ‘500 è ricco di testimonianze della vasta produzione saccense e parecchie produzioni di mattonelle maiolicate hanno abbellito palazzi e chiese di varie parti della Sicilia a testimonianza dell’importanza dei maiolicari di Sciacca.

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Gaspare Lombardo, i maestri Scoma e Francavilla, i fratelli Lo Bue, i fratelli Lo Pipero, sono solo alcuni di questi numerosi maiolicari che operarono tra i due secoli. 
Il più antico reperto ceramico saccense è il pannello raffigurante San Calogero, collocato in una grotta sul Monte Cronio, datato 1545 ed eseguito da Francesco De Xuto. Francesco, uno dei figli del maestro Nicola Lu Sciuto, fu creatore del pavimento maiolicato della cappella dei genovesi all’interno del convento di San Francesco d’Assisi a Palermo, commissionato dai mercanti liguri presenti nel capoluogo.
Ai maestri saccensi furono richieste anche mattonelle per il Palazzo degli Aiutamicristo a Palermo nel 1490 e per il Duomo di Monreale nel 1498, decorato con migliaia di mattoni del maestro Lombardo, Nove delle mattonelle che componevano il pavimento della cattedrale, sopravvissute al suo smantellamento, sono conservate presso il Victoria and Albert Museum di Londra.La chiesa di Santa Margherita di Sciacca è decorata con mattoni forniti dai maestri Scoma e Francavilla nel 1496.
Verso la fine del ‘500 si afferma Giuseppe Bonachia, detto Maxierato, il più grande ceramista di Sciacca, che nella vita svolgeva l’attività di sergente della milizia civile che si occupava dell’ordine pubblico. Nel 1600 realizzò una serie di pannelli in maiolica, chiamati “quadro maiolicato“, raffiguranti scene del vecchio e del nuovo testamento per la chiesa di San Giorgio dei Genovesi di Sciacca, costruita nel 1520 e distrutta nel 1952.
Per comporre la fascia e il pavimento della cappella furono utilizzate 2475 mattonelle.
Per tutto il ‘600 e il ‘700 tante botteghe di ceramisti alimentarono la vasta produzione di prodotti ceramici, ma che, in seguito, la produzione ha subito una lunga stasi.
Nel dopoguerra ricominciò la produzione di ceramica. Con l’istituzione della Scuola d’Arte “Giuseppe Bonachia” così chiamata in memoria del grande maestro maiolicaro Giuseppe Bonachia, l’attività riprese brillantemente negli anni ’40 del secolo scorso.
A Sciacca esistono circa 50 botteghe artigiane che propongono numerose maioliche: vasellame da tavola, figure umane, ceramiche d’arredamento, mattonelle votive, piatti, vasi e bocce decorate con colori blu, verde ramina, giallo paglia, arancione e turchese che erano e sono rimasti cari ai maiolicari Saccensi.

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Negli anni ’80 del secolo scorso, grazie all’impegno e alla lungimiranza dei soci del Lions club di Sciacca, sono stati collocati in varie parti del centro storico alcuni pannelli in ceramica raffiguranti diversi aspetti della città.
Negli ultimi anni, grazie a una politica Comunale e Regionale favorevole, l’associazione ceramisti saccensi ha saputo creare intorno alla ceramica un vasto interesse di pubblico per questo peculiare prodotto ottenendo non solo riconoscimenti per il pregio della maiolica, ma ha saputo creare le condizioni di mercato per un export su tutto il territorio nazionale.
Negli ultimi anni, grazie alla notevole attività di promozione, la città di Sciacca è entrata a far parte dell’Associazione Nazionale “Città della Ceramica” e la sua ceramica si fregia del riconoscimento del “marchio di qualità”.
Oggi i ceramisti saccensi continuano a svolgere la loro attività artistica nel rispetto dell’antica tradizione. Producono, con le stesse antichissime tecniche: vasellame, ceramiche di arredamento privato e urbano, piastrelle, statuette, pannelli, oggetti religiosi e tanti altri svariati prodotti. Nella decorazione dei vasi continuano a prevalere i colori del passato: giallo, arancione, turchese, blu, verde, oltre alle originali caratteristiche dell’impasto e alle tradizionali tecniche di produzione che, talvolta, è possibile ammirare direttamente presso i laboratori annessi ai tanti negozi che popolano e colorano le vie di Sciacca.
La presenza del locale Istituto d’Arte e la possibilità per i giovani di imparare anche all’interno delle varie botteghe presenti in città permettono di conservare l’antica arte della ceramica di Sciacca.
Passeggiando per il centro storico di Sciacca è impossibile non accorgersi della presenza di numerosi punti vendita di coloratissime ceramiche dalle più svariate forme e dimensioni.
La ceramica, a Sciacca, costituisce un importante elemento di attrazione per tutti coloro i quali desiderano possedere almeno un oggetto della vasta e pregevole produzione ceramica saccense.

La Fonte: il Web

 

Feb 20, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA CERAMICA DI BURGIO DESCRITTA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

LA STORIA DELLA CERAMICA DI BURGIO DESCRITTA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

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Burgio è un centro agricolo di origini medioevali posto a un’altitudine di 317 metri.
Si trova in provincia di Agrigento da cui dista km 70.
Il primo insediamento si formò attorno ad un castello durante l’occupazione araba e ancora oggi mantiene, nel suo nucleo più antico, un impianto tipicamente medievale, anche se il Castello, detto dei Peralta, e la Chiesa Madre, di epoca normanna, sono i monumenti più antichi del suo centro storico. Altri siti monumentali sono: il Castello Agristìa, l’Eremo di San Adriano e il Santuario di Rifèsi, che si trovano nella riserva naturale adiacente al paese. Inoltre, il recente restauro del Convento dei Cappuccini ha consentito l’apertura del Museo delle Mummie.
Famosa come città della ceramica, Burgio vanta una secolare tradizione nell’arte delle maioliche e nella produzione delle campane di bronzo.
La fonderia di campane a Burgio, l’unica in Sicilia e una delle poche esistenti in Italia, è stata fondata dalla famiglia Virgadamo nel 1500.
Alle nuove generazioni è tramandata la passione per quest’arte che oggi è diventata un’attività artigianale e professionale.
La fonderia ha prodotto campane per secoli, destinate a tutto il mondo.
La famiglia dei Virgadamo è stata iscritta nell’albo d’oro per meriti professionali, nel Telamone di Agrigento e ha ottenuto diversi attestati e trofei.
Il signor Rocco Cacciabaudo ha dato il suo apporto alla continuazione di quest’arte campanaria aprendo, a Burgio, una propria fonderia.

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Il segreto delle ceramiche di Burgio, oltre a risiedere nella varietà delle materie prime disponibili, tra cui la pietra dura e l’argilla locale, sta nella maestria degli artigiani che, ancora oggi, lavorano nelle antiche botteghe producendo manufatti apprezzati ed esportati in tutto il mondo. Già nel 1400 nella cittadina di Burgio si sfruttavano le cave di creta per la produzione di tegole e di mattoni stagnati.
La notizia che Burgio fosse una cittadina ideale per impiantare botteghe per la ricchezza delle materie prime reperibili in loco fu dapprima portata da alcuni maestri cordai che, da Caltagirone, venivano a vendere a Burgio le corde per l’allevamento degli animali.
Nel 1564 alcuni abitanti di Caltagirone, venuti a Burgio per vendere anche i loro manufatti in ceramica, cominciano a insediarsi in questa cittadina fino a costituire qui una propria colonia impiantando fabbriche di maiolica che ben presto frenarono il predominio della ceramica di Sciacca a quel tempo assai fiorente. Il trasferimento favorì, così, la nascita degli impianti degli stazzoni (botteghe) e dei forni.
Tra i primi maestri caltagironesi che si trasferirono a Burgio si ricordano: Antonio Merlo e suo figlio Giacomo, Matteo Maurici, Giovanni e Nicola Maurici.
Quest’ultimo, nel 1597, decise di vendere tutti i suoi averi a Caltagirone per trasferirsi a Burgio dove acquistava i vasi di terracotta dai “quartarari” che poi smaltava, dipingeva per venderli altrove. La presenza dei maestri di Caltagirone a Burgio fu significativa anche per la formazione che diedero a molti allievi che dagli esperti lavoranti, come Francesco Gangarella, impararono tecniche di lavorazione e di preparazione di smalti e di colori.
L’acqua, materia prima per la produzione della ceramica, era un bene prezioso così, per evitare scontri e tensioni, nel 1600 tra il Marchese di Giuliana e il Signor Lorenzo Gioeni Cardona di Burgio fu stipulato un patto per la cessione del diritto all’acqua agli abitanti della zona del fiume Garella. Tra questi figuravano numerosi “figuli”, i vasai, e ceramisti.
Le produzioni erano specializzate nella fabbricazione di utensili da cucina: burnie, barattoli, fiaschi, vasi, piatti, quartare, uniche in tutta la Sicilia.

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La cittadina di Burgio assunse ben presto notevole importanza mantenendola fino al XVIII secolo.
I reperti, molti dei quali provengono da collezioni private, testimoniano la scelta iniziale di colori fondamentali: il blu cobalto, il giallo paglierino, il verde ramina, il bianco stannifero per ornare i manufatti disegnando ornati vegetali e, talora, ritratti maschili o femminili.

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I manufatti fittili, cioè di terracotta, erano esportati nei centri vicini: a Giuliana, a Chiusa Sclafani, a Bisaquino, a Ribera, a Sambuca di Sicilia. In Sicilia era pure fiorente la cultura cavalleresca, presente nel resto d’Italia, e a Burgio trovò manifestazione anche nella rappresentazione iconica di personaggi storici antichi: Annibale, Claudio, Lucrezia.

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Tra i maestri burgitani più importanti si ricorda il signor Nicolò Lo Cascio che, tra il 1685 e il 1703, creò uno stile personale nella serie di vasi da farmacia. Per la religiosità di Burgio, per la presenza nel territorio di confraternite e di conventi di ordini religiosi maschili e femminili, per la presenza delle farmacie conventuali, per la presenza dell’ospedale, gestito dalla Compagnia della Misericordia o del Purgatorio nel XVII le decorazioni si arricchirono di motivi sacri di carattere devozionale: di santi, di martiri Famoso  è il Cristo in croce, del 1763.
Fiorenti erano i rapporti affaristici con i mercanti genovesi dai quali i figuli ricevevano piombo, cobalto e stagno, materiali indispensabili per la lavorazione della ceramica.
Il commercio di Burgio verso le coste liguri era prevalentemente legato al frumento siciliano. Per questo motivo, nella seconda metà del XVI secolo, figuli liguri si trasferirono a Burgio, ricco centro ormai della ceramica e zona ricchissima di argilla. A testimonianza di ciò, ci  furono i numerosi matrimoni contratti tra liguri e donne del luogo.
I mattoni di Burgio meritano un discorso a parte perchè sono opere di fattura sempre più raffinata. Tra il XVIII e il XIX secolo le botteghe locali intensificarono la propria produzione di mattoni per pavimenti decorati con luminose policromie presenti ancora oggi in alcune dimore anche di Palermo.
I colori erano sempre quelli tipici dei decori locali: il giallo paglierino, il verde ramina, il bruno manganese e il bianco stannifero.
Le forme erano geometriche con intrecci di disegni che richiamavano elementi naturali.

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I mattoni di Burgio servivano come decorazioni non soltanto per i pavimenti, ma anche per rivestire i campanili di molte chiese della Sicilia ed anche nei palazzi nobiliari e nelle case private. La ricchezza economica del tempo è testimoniata anche dalla bellezza e dalla maestosità dei palazzi nobili di cui Burgio è ricca.
Il declino di questa attività fu principalmente dovuto alla concorrenza di Napoli e di Vietri sul mare a partire dal XIX secolo.
Il progetto “Ceramica risvegliata” del Comune di Burgio è nato per rivitalizzare un antico mestiere, che rischiava di estinguersi, attraverso il recupero dell’antica tradizione. Grazie a un lavoro di ricerca storica è stata promossa l’apertura di nuove botteghe artigiane e sono stati istituiti corsi di formazione per ceramisti rivolti in particolare ai giovani.
L’istituzione del Museo della Ceramica di Burgio trae origine dalla volontà di salvaguardare e valorizzare una feconda attività svolta da maestranze locali che, nel corso dei secoli, si sono alternate nel rendere sempre più preziosa e apprezzata la produzione della maiolica di Burgio.

La Fonte: Il Web

NEL PROSSIMO ARTICOLO  LA STORIA DELLA CERAMICA DI SCIACCA

 

Feb 15, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA CERAMICA DI CALTAGIRONE RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

LA STORIA DELLA CERAMICA DI CALTAGIRONE RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

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La città di Caltagirone sorge a  cavallo tra i monti Erei ed Iblei, in provincia di Catania.
La storia della ceramica di Caltagirone è scritta nel nome stesso della città, che deriva dal termine arabo “Qal’at al Ghiran”, che significa, appunto, “Castello dei Vasi”.
E’una cittadina dalle antichissime origini, una delle più preziose del Mediterraneo e, per l’eccezionale valore del suo patrimonio monumentale che caratterizza il centro storico, nel 2002 è stata insignita del titolo di “Patrimonio dell’Umanità” da parte dell’Unesco.
Tra le mura di Caltagirone abitarono bizantini, arabi, genovesi e normanni segnando la sua storia millenaria e influenzandola soprattutto per quel che concerne la produzione artistica.
Bisogna tornare indietro nel tempo, all’epoca in cui gli arabi nell’827 conquistarono la Sicilia. I ceramisti arabi si sono stabiliti a Caltagirone, città dove hanno dato impulso all’arte ceramica facendovi brillare i procedimenti tecnici portati da loro dall’Oriente.
In particolare, l’invetriatura, un rivestimento di tipo vetroso dato alle terraglie e alle maioliche allo scopo di renderle impermeabili ai liquidi e fare da fondo alla decorazione incorporandone i colori. L’invetriatura è costituita di due principali elementi, macina­ti insieme: una composizione silico-alcalina, detta “marzacotto”, e un composto di piombo e stagno calcinati insieme detto “piombo accordato”.
Le ragioni per cui la ceramica di Caltagirone nel Medioevo ebbe notevole impulso sono da ricercare: nella buona qualità delle argille, di cui abbonda la città, e nella presenza di boschi che fornivano la legna per la cottura dei manufatti nei forni.
I produttori di miele, alimentando e favorendo lo sviluppo dell’industria del miele, stimolavano i ceramisti a produrre i recipienti di terracotta per la conservazione del miele. Le quartare caltagironesi, per contenere il miele, erano note ovunque.
Nel Medioevo, il fatto che a Caltagirone il numero degli artigiani dediti all’industria del vasellame invetriato fosse rilevante è confermato dalla notizia fornita da Francesco Aprile che racconta di fornaci sepolte da una frana nel 1346 sul fianco occidentale del castello e dell’esistenza, ai primi anni del Cinquecento, di un intero rione a fianco della chiesa di San Giuliano.
Del Seicento si può dire altrettanto. Infatti, eccetto i significativi frammenti di pavimento datati 1621, opera di maestro Francesco Ragusa, e quelli del maestro Luciano Scarfia, della seconda metà dello stesso secolo, rispettivamente conservati nelle chiese di Santa Maria di Gesù e dei Cappuccini, il resto fu travolto dal terremoto dell’11 gennaio 1693 che cancellò nella parte orientale dell’isola quasi ogni traccia dell’attività plurisecolare delle officine ceramistiche caltagironesi.
Nel 1700 si ebbero palesi segni di ripresa per l’arte ceramica, che rifiorì sotto nuovi indirizzi artistici. Furono prodotti vasi con ornati a rilievo e dipinti, acquasantiere, lavabi, paliotti d’altare, statuette, alberelli, quartare, anfore, bracieri, scaldini, lucerne antropomorfe, pigne, mattonelle.
Il colore dominante nel ‘600 era l’azzurro cinerino, mentre nel ‘700 l’azzurro diventò  blu.
Tanti maestri, con la loro superba arte plastica e pittorica, hanno fatto splendere la maiolica caltagironese in ogni angolo delle case e delle chiese di Sicilia. Alcuni nomi: i Polizzi, i Dragotta, i Branciforti, i Bertolone, i Blandini, i Ventimiglia, i Capoccia, i Di Bartolo,. Angelo o Michelangelo Mirasole, nativo d’Aragona.
L’ottocento, con l’uso del cemento nei pavimenti, col dilagare delle terraglie continentali, di produzione in serie sul mercato isolano, diede un fatale colpo alla ceramica di Caltagirone che iniziò la sua parabola discendente continuando a dibattersi fra gli antichi procedimenti tradizionali di antiche botteghe prettamente artigianali.
Pure, in questo decadere, si notarono gli artisti: Giuseppe Di Bartolo, ceramista pittore e plasticatore ed Enrico Vella, abilissimo modellatore e progettista che, assieme a Gioacchino Ali, fecero assurgere a grande dignità la decorazione architettonica in terracotta lasciando eccellenti esempi che ornano ancora oggi la città, come nel monumentale cimitero, opera dell’architetto Gian Battista Nicastro.
Le conoscenze storiche sulla ceramica di Caltagirone sono state fornite dalle recenti ricerche effettuate nell’ambito della Scuola di Ceramica, fondata da Don Luigi Sturzo nel 1918, che porta il suo nome, oggi Istituto Statale d’Arte per la Ceramica.
E’ una scuola importante, che forma giovani artigiani abili in questa vecchia tradizione ceramista, che continua aggiornandosi ai tempi moderni. Inoltre, una filiale dell’Istituto può considerarsi il Museo Regionale della Ceramica, in Via Roma, al cui interno si possono ammirare circa 2.500 reperti che raccontano l’evoluzione storica, tecnica e artistica della ceramica siciliana, con particolare riferimento ai manufatti di Caltagirone, dalla preistoria fino agli inizi del novecento e la ricchissima serie di mattonelle cinquecentesche e settecentesche raccolte nel rifacimento di pavimenti di chiese dopo i disastri dell’ultima guerra.
Il Museo della Ceramica contemporanea è un’esposizione permanente di ceramiche caltagironesi, siciliane e nazionali, allestita presso il Palazzo Reburdone.
Larte della ceramica ha un grande legame con il territorio e la sua storia continua a vivere nel cuore di intere generazioni di artigiani, (detti anche cannatari), impegnati soprattutto nella decorazione degli oggetti.
Una volta terminata la modellazione, ogni artigiano gioca con fantasia scegliendo gli smalti da utilizzare e i disegni da eseguire muovendosi tra il vecchio,facendo tesoro del contributo dell’eredità della tradizione moresca, senza però rinunciare alla ricerca del nuovo.
L’arte della ceramica di Caltagirone, al fine di preservare la sua autenticità, dal dicembre 2003 è tutelata dal marchio Decop, che garantisce la provenienza e la fattura dei capolavori prodotti solo da artigiani locali.
Il viaggiatore che giunge a Caltagirone non può fare a meno di soffermarsi a guardare i negozi e le botteghe che affollano la scenografica Scalinata di Maria SS.ma del Monte, di 142 gradini rivestiti con mattonelle di maioliche artigianali con deliziosi motivi geometrici e che ha visto impegnati nell’esecuzione valenti allievi dell’Istituto come Gesualdo Aqueci, Francesco Judici, Gesualdo Vittorio Nicoletti e Nicolò Porcelli.
Si possono ammirare e anche acquistare oggetti, veri e propri pezzi della storia siciliana che si traducono in maioliche, terrecotte, vasi, statue, piatti, soli, lune, pigne minuziosamente lavorati.

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 Interessante è anche visitare i laboratori artigianali come quello di Giacomo Alessi, di Totò Regalbuto, allievo negli anni ’60 della Baca, una delle più prestigiose botteghe cataline, un’artista che organizza corsi di decorazione su ceramica. Grande maestro è anche Filippo Vento che, nella sua fabbrica-bottega, organizza corsi individuali e collettivi.
Il bravissimo ceramista dei nostri tempi, il signor Giacomo Dolce, ha portato la sua arte anche a Licata, nel negozio, sito in Corso Vittorio Emanuele, al N° civico 55, gestito dal signor  Alberto Licata.

 

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Numerosi sono stati  per Natale i presepi, i presepini e gli alberi di Natale da lui realizzati, bellissimi e originali nella loro composizione.
Oltre a questi manufatti, molto vasta è la sua produzione esposta nelle vetrine di questo negozio che invito tutti i licatesi a visitare..
Le ceramiche di Caltagirone sono apprezzate in tutto il mondo, facendo della città il fulcro dell’artigianato italiano per quanto riguarda il settore della ceramica. Tra le tipologie principali e più caratteristiche della produzione di ceramica a Caltagirone occorre menzionare quattro oggetti diventati il simbolo di questa attività. Sono: le lucerne antropomorfe, l’acquasantiera da capezzale, i fangotti,i presepi.
Le lucerne erano un oggetto indispensabile nelle abitazioni del popolo fino a quando l’olio costituiva la materia prima grazie alla quale era possibile avere illuminazione nelle case.
L’utilizzo delle lucerne si protrasse nel tempo anche dopo l’avvento di altri liquidi per l’illuminazione come il petrolio. Le lucerne erano degli eleganti contenitori d’olio atti a sostituire in pieno e con più autonomia di combustibile le vecchie lucerne metalliche. Nel suo corpo, a forma di bottiglia troncoconica, originariamente ricavato al tornio e poi modellato, ma sempre vuoto internamente, era immerso un lungo lucignolo che usciva fuori.
Nel settecento la lucerna subì una notevole modifica che la rese più agevole al trasporto per la casa e più economica nell’utilizzo. Aveva la forma di una matrona, con un braccio lungo il fianco e l’altro alla cintura, riccamente ornata di collane e di diademi.
Scomparve il pesante e capiente serbatoio e fu usata per contenere l’olio solo una piccola vaschetta ricavata nella testina della figurina. Questa figurina aveva alla base un bordo rialzato per l’eventuale raccolta dell’olio straripante.

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 Oltre alle damine, altre forme di lucerne raffiguravano gentiluomini con tube, monaci, preti, briganti, gendarmi, personaggi storici e tanti altri soggetti tratti dall’ambiente nostrano e dalla vita comune. Inoltre, la presenza di più lucerne pressoché della stessa altezza, circa 25 cm, ma di soggetto diverso e di colori vari, costituiva una festa negli ambienti signorili, ma anche nelle modeste abitazioni. L’uso di queste lucerne si diffuse ben presto in tutta l’isola e si ebbero delle imitazioni soprattutto a Collesano.
La moda delle lucerne antropomorfe nell’ottocento non solo varcò la soglia dei palazzi nobiliari, dove arredò tavoli, angoliere, comò e pianoforti, ma penetrò anche, con soggetti appropriati, nei conventi e nei monasteri. La richiesta delle lucerne si moltiplicò. Nell’ottocento, il grande artista Giacomo Failla produsse lucerne antropomorfe di ceramica dando vita a creazioni così pregiate da attrarre tutte le classi nobiliari.
La religiosità delle antiche famiglie diede impulso all’uso delle acquasantiere.
Nel settecento l’acquasantiera raggiunse il suo massimo sviluppo artistico attraverso elementi modellati e dipinti in monocromia o in policromia. I santi devozionali che più vi si riscontrano sono: la Vergine, Sant’Antonio di Padova, San Francesco di Paola, San Giacomo Maggiore, il Bambino Gesù, il volto di Cristo, San Giovanni, Santa Lucia, Santa Chiara, Santa Rosa da Viterbo, oltre ad angeli e a teste di cherubini. L’acquasantiera è formata da un’edicola nella parte superiore e da bacinella nella parte inferiore che si presenta come una coppa tornita e sagomata assai sporgente contenente l’acqua benedetta.
I componenti della famiglia vi attingevano il dito e recitavano le preghiere mattutine e serali. Nel capezzale del letto dei bambini c’erano le acquasantiere con l’immagine dell’Angelo Custode.

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Nelle campagne le acquasantiere erano appese all’entrata delle abitazioni quasi per ricordare la necessità d’intingere le dita nell’acqua benedetta per allontanare, col segno della croce, gli influssi malefici e per proteggere la casa dai ladri.
Il fangotto in ceramica è una realizzazione popolare del XX secolo utilizzato a tavola dalle antiche famiglie siciliane come unico piatto di condivisione.

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Caltagirone è anche detta “Città dei Presepi” per la tradizione artistica che impegna gli artigiani ceramisti a preparare, in maiolica policroma o in terracotta, i personaggi della Natività, pezzi unici realizzati in maniera originale per la grandezza, per il colore e per il tipo di materiale impiegato. Le prime figure del presepe in ceramica risalgono al Medioevo e, nel corso del tempo, possedere degli esemplari rappresentò per i nobili dell’epoca un simbolo del proprio stato sociale e, in generale, per tutti un vanto. Anche oggi, nelle oltre cento botteghe artigiane della città, è possibile acquistare i personaggi del Presepe in ceramica.

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Il primo presepe di cui si ha memoria risale al Natale del 1223. Fu San Francesco a chiedere agli abitanti di Greccio, un paesino del Lazio, di interpretare il presepe vivente. Da allora, sostituite le persone con le figurine di terracotta, gesso o legno dipinto, l’usanza di allestire il presepe si estese in molte regioni italiane per rievocare la venuta del Salvatore.
Nel settecento fra i “santari”, una vera e propria categoria d’artigiani che producevano statuine della Sacra Famiglia, dei santi e dei presepi, si devono ricordare i signori Antonio Branciforte ed Antonio Margioglio. Sul finire del secolo questa tradizione, diffusa in tutte le classi sociali, assurse ad alti livelli artistici.
Le statuine in terracotta policroma di Giuseppe, Salvatore e Giacomo Bongiovanni, di Bongiovanni Vaccaro hanno avuto riconoscimenti e premi in tutta l’Europa ed il privilegio d’essere esposte al British Museum di Londra e nel Museo di Monaco di Baviera.
Il presepe di Caltagirone è semplice, in sintonia con le sue origini francescane, che nulla ha che fare con la celebrazione del potere e dello stile di vita dei nobili e dei borghesi. Possedere un presepe di Caltagirone diventò per le famiglie e per le chiese un vanto, quasi uno status symbol.
La tradizione di creare i presepi, tramandata da padre in figlio e sino ai nostri giorni, è ancora viva nelle botteghe artigiane della città di Caltagirone.

La Fonte: il Web

NEL PROSSIMO ARTICOLO  LA STORIA DELLA CERAMICA DI BURGIO

 

Feb 10, 2020 - Senza categoria    Comments Off on ANTONIO MANNO DI MISTRETTA L’ARTISTA DELLA BELLA CERAMICA!

ANTONIO MANNO DI MISTRETTA L’ARTISTA DELLA BELLA CERAMICA!

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Mistretta, nota cittadina sui monti Nebrodi, è orgogliosa di avere dato e di continuare a dare i natali ai suoi cittadini che si sono distinti e ancora si distinguono nelle diverse arti: nella poesia, nella letteratura, nella musica, nella pittura, nella scultura etc, personaggi pronti a valorizzare i suoi tesori ambientali, naturalistici, architettonici, religiosi e folkloristici.
Antonio Manno è uno di loro!

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E’ un bravissimo artista, capace di creare veri capolavori degni di grande ammirazione.
Carissimo Antonio Manno, mio grande amico, personalmente voglio congratularmi con te per la tua capacità creativa soprattutto nell’arte della Ceramica e della Pittura. Antonio non sei solo amico mio, ma sei amico dei mistrettesi per il tuo carattere aperto, socievole e accogliente.

Chi è Antonio Manno?
Antonio Manno nasce a Mistretta il 9 ottobre 1987. Fin da piccolo dimostra di possedere una spiccata attitudine per le attività di disegno tanto da essere stimolato e orientato dalla famiglia a intraprendere gli studi artistici.
Nel 2006, all’Istituto Regionale d’Arte di Santo Stefano di Camastra, consegue il diploma in Grafica Pubblicitaria.
Dopo un’attenta analisi del percorso effettuato e della prospettiva futura, capisce che la passione, quella vera, è per la Pittura nel senso stretto del termine. Decide di iscriversi all’Accademia Delle Belle Arti di Palermo frequentando il corso di Pittura. Nei primi tre anni di frequenza al corso sperimenta e approfondisce le più svariate tecniche pittoriche dando libera esplosione alla propria immaginazione prediligendo uno stile che abbraccia la corrente del surrealismo. Nel 2010   consegue la laurea triennale in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo, indirizzo Pittura, con la meritata votazione di 110/110.
Le tecniche pittoriche antiche sono state l’argomento della tesi. Ha affrontato un tema molto personale per un mistrettese, ovvero su San Sebastiano, prendendo, come esempi, le icone classiche e importanti di vari artisti come il Mantegna, il Perugino, Tiziano e via via fino ad arrivare alla realizzazione scultorea del concittadino mistrettese Noè Marullo.
Il corso specialistico è affrontato sia sul piano pittorico, sia su quello calcografico usando le tecniche dell’incisione e della litografia.
Quindi un cambio di direzione: i temi affrontati adesso fanno parte della realtà e non più della surrealtà. Antonio predilige la raffigurazione iperrealista e, principalmente, le scene che riguardano il territorio dove vive e che lo hanno caratterizzato: usanze, lavori e tradizioni del passato, ma che vivono anche oggi. Nel 2012 consegue la laurea Specialistica nel medesimo indirizzo con la votazione di 110/110 con lode presentando una tesi demo-etno-antropologica su Mistretta e sugli antichi mestieri attraverso il segno, una serie di immagini d’epoca realizzate con la tecnica dell’incisione, della litografia e del disegno a carboncino. Partecipa a tre collettive di pittura che tendono a rivalutare alcuni quartieri del centro storico di Mistretta.
Nel 2014, dopo aver frequentato diversi laboratori e avendo appreso bene l’arte della ceramica, avvia un’attività di ceramica, di disegno e di pittura a Mistretta, impiantando la sua bottega in via Giovanni Falcone n.68,dove attualmente lavora collaborato dall’affettuosa moglie, la signora Carmen  Marino.

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Antonio è un artista, che produce ceramiche pittoriche con abilità e con maestria, che sa seguire accuratamente ogni fase della produzione dei manufatti, dall’idea, alle forme, ai decori impegnandosi fino a ottenere i risultati desiderati.
La sua produzione comprende ceramiche ornamentali e di uso domestico quali: piatti decorati con motivi floreali e con immagini di Santi,

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barattoli da cucina  e utensili, vasi, le pigne, simbolo di abbondanza e di prosperità,

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 piccole formelle con l’effigie di San Sebastiano, patrono della città di Mistretta, presepi e presepini,

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 lumi e teste di moro,

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complementi d’arredo per ambienti interni ed esterni, oggetti vari per ricordare momenti particolari o per celebrare eventi e festività.
Vasto è, pertanto, l’assortimento di articoli da regalo di diverso tipo, anche in pittura

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Nei suoi lavori Antonio trae ispirazione dall’arte sacra, attraverso riproposizioni di grandi classici, ma anche dalla cultura locale, dalla tradizione siciliana e, in genere, dalla bellezza dell’arte in tutte le sue forme. Particolare rilievo dà, senza dubbio, alla collezione “Carretto” riproducendo i colori, i decori e le tematiche che si trovano usualmente nei pittoreschi carretti tipici siciliani.
Realizza anche inserti, disegni, dipinti su tela e trompe l’oleil.
Questo tipo di pittura nasce dall’insieme di prospettiva e di realismo, metodi che puntano a superare il limite tra realtà e finzione creando uno spazio visivo che si allarga a piacimento del cliente.
Nel laboratorio di Antonio Manno, si possono ammirare e acquistare ceramiche di notevole pregio realizzate e dipinte rigorosamentea mano, manufatti che integrano tradizione e modernità con uno stile unico e originale, che racconta lo spirito e l’anima dei luoghi siciliani dove il maestro vive e trae ispirazione.
Io penso che la visita al laboratorio di Antonia Manno sia gradevole alla vista, istruttiva, e ideale per abbellire le nostre case con i suoi lavori. L’impegno di tutti è quello di diffondere il giovane marchio di Antonio Manno che segue gli esempi della tradizione e punta sulla creatività, sulla bellezza e sul patrimonio storico-artistico legato al territorio. La qualità e la cura dei dettagli sono i tratti distintivi che rendono unica e irripetibile l’opera creativa di Antonio Manno.

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 Le riflessioni di Antonio Manno: ” Dopo la laurea la direzione da prendere è sicuramente quella del lavoro e ormai, lontano da Palermo, che tanto respiro mi ha dato dal punto di vista artistico, mi sono guardato intorno ed ho visto quanta poca possibilità avevo a Mistretta di continuare a fare quello che mi piaceva fare. Poi, ho avuto l’idea di visitare la ceramica di Santo Stefano di Camastra, unica realtà artistica, lavorativamente parlando, cittadina vicina a Mistretta, a casa mia!
Qui si vive di Ceramica e mi accorgo che non è poi una tecnica così lontana dalla pittura, cugina stretta della ceramica, se si prende con passione. Quindi, ricevendo accoglienza in vari laboratori ceramici del luogo, giorno dopo giorno ho capito che la tecnica era più difficile di quella che pensassi, che il margine di errore durante l’applicazione del colore sulla superficie smaltata è davvero minimo, che una gradazione più o meno acquosa della pennellata potrebbe rovinare l’oggetto.
Una volta presa confidenza con la tecnica, mi sono accorto, invece, di quanta soddisfazione trovavo nello svolgimento di tutte le fasi del lavoro.
I colori, dapprima spenti, diventavano brillanti dopo la cottura, una vera e propria magia! Così, dopo una
bella esperienza di apprendista, non trovando opportunità lavorative concrete, e dopo aver girato in lungo e in largo per conoscere importanti realtà ceramiche come Faenza, Bassano del Grappa, Caltagirone, Sciacca, ho preso la decisione, sofferta e complessa, di aprire una bottega d’arte a Mistretta.
Fino ad oggi le soddisfazioni sono state molte! Avere un laboratorio tutto per me è stato il desiderio più grande che è divenuto realtà, uno spazio a mia disposizione dove sperimentare nuove tecniche, dove creare i manufatti, dove passare anche lunghe le notti a lavorare, anche perchè chi, come me, fa il mestiere di artigiano sa bene che non ci sono orari di lavoro, ma il tutto si muove attorno alle tempistiche, alle scadenze, ma, soprattutto, all’ispirazione.
La mia ceramica, dal punto di vista stilistico, predilige quasi completamente il genere figurativo e, da questo punto di vista, sono ancora in fase di studio.
Prediligo raffigurare il <<bello ideale>>, che apprezzo nelle opere dei più grandi artisti del passato che hanno realizzato, attraverso i loro sapienti colpi di pennello, opere meravigliose.
Ricordo: Raffaello, Leonardo, il Perugino, Michelangelo, ma anche la pittura considerata di pittori <<Minori>> presente nel nostro territorio e che si può toccare con mano nei nostri musei e nelle nostre chiese. Insomma gli spunti non mancano di certo! Altrettanti illustri pittori ceramisti hanno costruito la storia della ceramica e il mio sguardo è sempre rivolto momentaneamente al periodo rinascimentale dove, soprattutto nel centro dell’Italia, operavano alcuni come Mastro Giorgio Andreoli, inventore della tecnica del lustro (oro e rubino) su vasi in ceramica. Anche dal punto di vista dell’ornato mi trovo in una fase di studio.
Mi piace affrontare sempre nuovi decori attraversando i vari stili, dallo stile romano a quello gotico a quello rinascimentale al barocco fino al liberty o, addirittura, ai decori del carretto siciliano che, per la loro vivacità, amo particolarmente. Da sottolineare anche tutte le ispirazioni per immagini e per decori che traggo dalla mia stupenda cittadina attraverso scorci e opere scultoree realizzate dagli antichi maestri scalpellini
”.

Auguri Antonio, di un buono e lungo cammino!

 

 

 

 

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Feb 6, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA CERAMICA DI SANTO STEFANO DI CAMASTRA RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA.

LA STORIA DELLA CERAMICA DI SANTO STEFANO DI CAMASTRA RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA.

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Al confine tra le province di Messina e di Palermo, a circa 50 chilometri a est di Cefalù, sorge la cittadina di Santo Stefano di Camastra, meglio conosciuta come “La Città delle Ceramiche”.
E’ posizionata a 70 metri sul livello del mare. E’ una cittadina molto caratteristica, unica nel suo genere.
Città d’arte, Santo Stefano, porta e punto più alto del mondo nebrotico, prezioso gioiello urbanistico e architettonico restituito alla sua originale purezza.
Piccolo mondo dove miracolosamente persiste e continuamente si ricrea il lavoro più antico dell’uomo, la ceramica, che unisce e armonizza i quattro elementi empedoclei, che crea forme, inventa di continuo linee inedite e colori smaglianti.” (V. Consolo).
L’arredo urbano è abbellito dagli inserti di ceramica colorata e decorata.
Le sue strade sono piene di botteghe che espongono coloratissimi manufatti di ceramica. I numeri civici delle abitazioni private, le insegne dei negozi e dei bar, i pavimenti dei locali, le fontane, i sedili, i muri sono rivestiti da splendidi lavori di ceramica e di mattonelle maiolicate che conferiscono alla cittadina di Santo Stefano di Camastra una cornice unica e magica.
Chi giunge a Santo Stefano di Camastra, oltre alle tante vetrine dei negozi, dovrebbe visitare: il Duomo, costruito nel 1685, contenente bellissime statue e dipinti del ‘600 e del ‘700; la Chiesa di Maria SS.ma della Catena, che accoglie la tomba del Duca di Camastra, il Palazzo Trabia, sede del Museo della Ceramica, il Palazzo Armao, sede della Biblioteca Comunale, arricchito all’esterno da frontoni neoclassici e decorazioni in ceramica. Anche le tombe del Cimitero Vecchio sono rivestite di antiche mattonelle.
Obbligatoriamente dovrebbe affacciarsi dai bellissimi e frequentati balconi “belvedere” dai quali si vedono: il mar Tirreno, le isole Eolie, la montagna di Mistretta.
La storia di Santo Stefano di Camastra è racchiusa nei toponimi: prima si chiamava Noma, civiltà di pastori e di contadini; poi Santo Stefano di Mistretta, perché era un piccolo agglomerato urbano posto a 500 metri di altitudine, alle dipendenze di Mistretta, ma che, nel 1682, fu distrutto da una frana. La popolazione si trasferì presso la costa, nella località “Piano del Castellaccio”,  nella terra di proprietà di don Giuseppe Lanza Baresi.
Dal 1682 la storia di Santo Stefano di Camastra si lega, quindi, alla figura di don Giuseppe Lanza Barresi, cavaliere dell’Alcantara, Duca di Camastra e Principe di Santo Stefano che, nel 1683, ottenne dal Viceré di Sicilia la licenza di riedificare l’attuale città.
Don Giuseppe Lanza Barresi, nel concepire l’idea del nuovo centro urbano, accolse i suggerimenti di uno dei più grandi ingegneri militari del 1600, il Grunemberg.
L’impianto urbanistico fu disegnato sullo schema di uno dei parchi di Versailles e al quale si richiama la forma della pianta della villa Giulia di Palermo.
Quindi, la città di Santo Stefano di Camastra porta il nome di Don Giuseppe Lanza Barresi Duca di Camastra.
Il centro storico di Santo Stefano è, senza dubbio, uno dei più affascinanti centri storici presenti in Sicilia.  Si presenta con un quadrato imperfetto diviso in 4 parti e al cui interno si inseriscono un rombo e due diagonali.
Per facilitare l’opera di costruzione presso le cave di argilla furono impiantati i cosiddetti “stazzuni” dove si producevano il materiale da costruzione e il vasellame per uso domestico. Tracce di forni e testimonianze storiche lasciano supporre l’esistenza di un’attività ceramista sin dall’epoca araba.
Fin dai primi anni del XVIII secolo gli “stazzunari” stefanesi producevano manufatti di terracotta.
Grazie all’iniziativa di don Michele Armao, designato dalla vedova del Duca di Camastra “Governatore della terra di Santo Stefano”, fu insediata la prima fabbrica specializzata nella tecnica dell’invetriatura per la realizzazione di 100 giare stagnate per la conservazione dell’olio.
L’incarico fu affidato a Mastro Domenico Lo Presti, proveniente da Barcellona Pozzo di Gotto, e residente a Sant’Agata di Militello.
Egli, insieme all’apprendista Antonino Ragazzo, si trasferì nella città di Santo Stefano di Camastra dove impiantò, con il benestare di don Michele Armao, la propria fornace perché, per contratto, il trasporto del materiale da Barcellona a Santo Stefano di Camastra doveva avvenire a “proprio risico e periculo”.
La storia continua…
Santo Stefano di Camastra è oggi un punto di riferimento nell’arte della ceramica ed è il maggiore centro produttivo di ceramiche della Sicilia occidentale. Le botteghe artigiane, che sostengono l’economia del paese, vantano una produzione artigianale della ceramica con un ricchissimo repertorio di forme, di figure e di colori che coesistono con i motivi tradizionali.

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L’ideazione dell’oggettistica in ceramica risale già al periodo tra il 5.000 e il 10.000 a.C., quando gli antichi uomini, usando la creta bagnata, modellata, essiccarla al sole, o posta sul fuoco, ottenevano recipienti in ceramica dura: giare per conservare l’acqua e l’olio, pentole per cucinare, grandi piatti, ciotole, etc.
Pirandello nel suo racconto “La giara” scisse: “Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella, panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa”.

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A Santo Stefano di Camastra ci sono stati i primi lavoratori della creta a mano. Poi, grazie ai primi utilizzi della tecnologia della ruota, cioè il tornio da vasaio, cominciarono a costruire vasi, anfore, ciotole e orci.

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Successivamente inizio la produzione degli oggetti di ceramica, di mattoni, di tegole e di piastrelle.

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L’argilla si estraeva dalla cava nelle grotte o nelle gallerie trasportandola con i cufina, contenitori in verga di forma tronco-conica e, se c’era spazio nella galleria, entravano anche gli asini adibiti al trasporto dell’argilla. Si chiamavano “scecchi ritaluora”.
“U ritaluoro” era un uomo che disponeva di un certo numero di asini per il trasporto e per la consegna dell’argilla ai committenti che la ordinavano.  Lo aiutavano i suoi figli e qualche altro ragazzino pagato per compiere questo lavoro. Ogni asino trasportava in media 60Kg di argilla a “viaggiu” ripartita in due “cancietri”, ceste di verga di forma allungata.  Ogni cesta aveva la capacità di 30Kg.
Nel XIX secolo avvenne la trasformazione della tecnica di produzione da artigianale a industriale.
Il salto di qualità si deve a don Gaetano Armao che, pur continuando a produrre materiale fittile e stoviglie invetriate per uso domestico, cominciò a sperimentare nuove tecniche per la produzione della ceramica, in particolare dei mattoni maiolicati, cimentandosi, in seguito, nella produzione di vasi alla maniera greca o etrusca.

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Nel dopoguerra le fabbriche non produssero più mattoni e anche la produzione delle ceramiche subì una stasi.
I pochi ceramisti rimasti continuarono a realizzare oggetti di uso quotidiano.
In seguito all’apertura della statale 113, che collega Palermo a Messina, nacquero le nuove botteghe artigianali con lo scopo di offrire ai turisti oggetti tipici della tradizione locale. Purtroppo, con l’uso dell’autostrada  A/20 Palermo – Messina, i viaggiatori non attraversano più il centro di Santo Stefano di Camastra con grave danno per l’economia locale.
Tuttavia, numerosi sono i negozi e i laboratori di ceramica che espongono i loro manufatti: piatti, tazze, brocche, caraffe, vasi, acquasantiere, oggettistica di vario genere, mattonelle, che vivacizzano soprattutto tutta la Nazionale, la via che si allunga in direzione di Messina.

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Tutti i manufatti sono decorati a mano e dipinti con motivi tipici siciliani.
Molta ceramica oggi è prodotta industrialmente, tuttavia si trovano ancora piccoli artigiani che realizzano pregiate ceramiche rigorosamente lavorate a mano.
E’ presente anche una grande esposizione di prodotti realizzati in pietra lavica, soprattutto tavoli rettangolari, quadrati e rotondi,  con un’ ampia possibilità di scelta.

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 Il luogo di nascita delle piastrelle può essere fatto coincidere con i paesi mediterranei orientali dove nel 3.000 a.C. gli egiziani fabbricavano mattonelle smaltate con la vernice azzurra ottenuta dalla malachite, che ancora oggi ricopre gli amuleti egizi per eccellenza.
La piastrella era un prodotto particolarmente sofisticato e molto costoso, utilizzato solo per le costruzioni di maggiore importanza e prestigio.
Inizialmente, come i vasi e le stoviglierie, le piastrelle erano prive di rivestimenti o smalti e prevalentemente incise.
Durante la supremazia greca e romana tali produzioni caddero in disuso, conservandosi solamente nella civiltà che più contribuì alla diffusione dell’utilizzo della piastrella: quella araba.
Furono, infatti, questi popoli che raggiunsero, nella produzione delle piastrelle, rilevantissimi risultati artistici imparando a sostituire i graffiti con linee di pigmento, a ottenere differenti colorazioni e a tenerle separate.
L’espansione araba a Ovest e le repubbliche marinare contribuirono a diffondere questi prodotti in tutto il Mediterraneo dove nacque una cultura della piastrella, prima con la maiolica e poi con le ceramiche.
La piastrella, inizialmente usata solo per il rivestimento di pareti, inizia ad essere utilizzata anche per rivestire soffitti, scalini, panche e muretti.
La fiorente e apprezzata produzione di mattonelle maiolicate a Santo Stefano di Camastra favorì l’esportazione in tutto il meridione d’Italia e in diversi paesi dell’Africa settentrionale.
La realizzazione delle mattonelle maiolicate richiese una migliore organizzazione delle officine che attinsero a maestranze specializzate provenienti da Napoli e dalla Francia.
L’argilla veniva pressata in “finestre” di legno di 22 cm di lato e marchiata sul retro con il nome della fabbrica.
La creta, asciugando, si rimpiccioliva e il mattone “stampato” raggiungeva la misura tradizionale di cm. 20 x 20.

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Una volta asciugate, le mattonelle venivano messe a cuocere in forni a legna.
L’operazione di cottura durava circa venti ore e quella di raffreddamento due giorni.
Le mattonelle venivano poi decorate. I colori più usati erano: il verde ramina, il giallo-arancio, il blu cobalto, il rosa e il manganese, quasi sempre su smalto bianco.
Dopo la decorazione, si procedeva alla seconda cottura.
Il trasporto avveniva tramite i carretti, ma, soprattutto, via mare con appositi velieri ormeggiati nella zona delle “Barche Grosse”.
Il repertorio dei decori, in un primo momento non  molto vasto, si fece via via più ricco di interventi manuali.
Ad ogni decoro viene dato un nome: “rococò”, “cinque punti”, “rigatino”, “lancetta“, ma vengono anche introdotti motivi francesi presenti nelle porcellane settecentesche che utilizzano solo il blu cobalto su bianco.
Importante, per la formazione dei nuovi giovani artisti, è l’attività dell’Istituto Regionale d’Arte per la Ceramica, oggi Liceo Artistico, frequentato da studenti provenienti anche dai paesi vicini.
L’ex dimora di don Giuseppe Lanza Barresi, Duca di Camastra, oggi denominato Palazzo Trabia, è la sede del Museo della Ceramica, ma è anche un centro polivalente per attività culturali.

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Attualmente la raccolta museale consiste nell’esposizione di una vasta serie di oggetti dell’antica tradizione stefanese,

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 oggetti d’uso quotidiano legati alle esigenze della famiglia e del lavoro, ma espone anche un assortito campionario della produzione moderna.
Vasta è pure la raccolta delle antiche mattonelle maiolicate, circa 1500, vero vanto della produzione di Santo Stefano di Camastra dal XVII secolo ad oggi.
Se è vero che i maestosi palazzi siciliani furono impreziositi dalle splendide mattonelle di Santo Stefano di Camastra,

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è anche vero che la tecnica di smaltare e di decorare mattoni è stata ed è la vera arte dei maestri ceramisti stefanesi che, insieme alla produzione più “povera” degli oggetti d’uso comune e della ceramica artigianale, hanno fatto di questo centro una vera e propria città d’arte che vuole continuare a imporsi con grande dignità all’attenzione culturale ed economica del mercato nazionale e internazionale.

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Le Fonti:
– Il libro Santo Stefano di Camastra LA CITTA’ DEL DUCA a cura di NUCCIO LO CASTRO
– Depliant turistico  SANTO STEFANO DI CAMASTRA
– Segreteria Ceramiche DESUIR DUCA DI CAMASTRA

NEI  PROSSIMI ARTICOLI: LA FIGURA  DEL CERAMISTA AMASTRATINO ANTONIO MANNO E, SUCCESSIVAMENTE, LA STORIA DELLA CERAMICA DI CALTAGIRONE!

 

 

Feb 1, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLE CERAMICHE SICILIANE RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

LA STORIA DELLE CERAMICHE SICILIANE RACCONTATA DA NELLA SEMINARA AL CUSCA DI LICATA

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Giovedì, 23 gennaio 2020, Nella Seminara ha trascorso un bellissimo pomeriggio al chiostro Sant’Angelo di Licata, nella sala intitolata alla cantante  licatese Rosa Balistreri, la sede del CUSCA  (Centro Universitario Socio Culturale Adulti)  per avere relazionato sul tema della storia e della presenza delle attività ceramiche in Sicilia.
Ha iniziato il suo discorso con un caloroso ringraziamento all’insegnante Cettina Greco, la presidente del CUSCA, e a tutti i componenti del CUSCA per averLa invitata affidandoLe il prestigioso incarico  di docente.

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Cettina Greco

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Nella Seminara, con la sua capacità di sapere dialogare, è riuscita a coinvolgere tutte le persone presenti nella sala, che l’hanno ascoltata e calorosamente applaudita.
Ha concluso l’evento ringraziando nuovamente la presidente del CUSCA, l’ins. Cettina Greco, e tutti i presenti, per averle dato la possibilità di parlare di questo importante argomento sulle ceramiche siciliane proiettando anche un nutrito numero di fotografie, aiutata dal signor Giovanni Mancuso, che ringrazia.
Ha ricevuto in regalo l’originale e significativo cappellino simbolo del CUSCA.

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E’, attraverso lo studio della ceramica, che gli storici ricavarono notizie sulle diverse culture che si erano avvicendate nel luogo dove sono stati ritrovati i manufatti, sulle usanze dei popoli, sulle relazioni e sugli scambi con altre popolazioni.
Secondo la storia, fin dal periodo Neolitico molte persone si dedicarono alla produzione di oggetti di ceramica.
La materia prima era l’argilla, diffusissima in natura, facile da depurare, impastare, modellare; permette di ottenere oggetti durevoli nel tempo, resistenti al fuoco, impermeabili all’acqua, ottimi per la conservazione e il trasporto.
I primi oggetti erano modellati a mano e asciugati al sole.
In seguito furono cotti direttamente sul fuoco e, infine in forni a legna, dove la temperatura era altissima e costante per tempi lunghi.
Le decorazioni furono ottenute inizialmente per impressione sull’argilla fresca di unghie, di bordi di conchiglie, di punzoni, di cordicelle.
In Sicilia le ceramiche più antiche sono state ritrovate nella zona di Sciacca.
Alla fine dell’era neolitica si erano via via diffusi diversi tipi di ceramica incisa, dipinta, di diverse forme e dimensioni che erano chiamati col nome della località di provenienza.
Ancora prima della colonizzazione greca i Sicani e i Siculi produssero vasellame prima plasmato a mano libera, poi forgiato a tornio e, successivamente, impreziosito con decorazioni a incisione e poi dipinto.
La Sicilia, per la sua posizione geografica, è stata sempre oggetto di conquista da parte delle più importanti civiltà.
Infatti, hanno lasciato la loro impronta i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Svevi, gli Spagnoli e i Francesi.
I Greci, in particolare, hanno sfruttato la ricchezza del sottosuolo delle colline argillose per trarre la materia prima, cioè l’argilla.
L’influenza della civiltà greca fece nascere in Sicilia la produzione di vasellame dipinto nero-lucido e, più tardi, anche di ceramiche rosse.
I ceramisti siciliani, sebbene siamo stati influenzati dalle varie dominazioni, tuttavia hanno sempre evidenziato nell’arte della ceramica la loro sicilianità.
Durante la dominazione musulmana la Sicilia acquisì le nuove tecniche portate dagli Arabi.
L’influenza musulmana fu talmente importante che rimase presente con gli stessi motivi decorativi e con le stesse tecniche usate anche durante le dominazioni successive.
Nella seconda metà del XIV sec., con l’affermarsi della dominazione spagnola, si ebbe un leggero mutamento tecnico e stilistico e si introdussero nuovi colori, come il blu insieme al giallo, al verde e al manganese.
Nel tardo ‘500 e nei primi anni del ‘600 la ceramica siciliana copiò lo stile della produzione italiana.
L’influsso rinascimentale si avvertì a Palermo, a Messina, a Siracusa.
Gli artigiani di quel periodo imitarono le maioliche di Venezia e di Faenza, le prime a essere conosciute nell’isola.
In quel periodo s’impose, su tutta l’isola, la produzione palermitana con i bellissimi vasi ovali che si rifacevano ai vasi siculo–musulmani.
Un posto particolare nella storia della ceramica siciliana del ‘600 e del ‘700 occupò la città di Caltagirone.
Sono stati prodotti: alberelli,  “quartare ”, anfore, vasi a forma di civetta, bracieri, scaldini, lucerne antropomorfe, vasi decorativi, pigne, carciofi verdi e mattonelle.
Il colore dominante nel ‘600 era l’azzurro cinerino, mentre nel ‘700 l’azzurro diventò blu.
L‘800 vide in Sicilia il diffondersi di ceramisti che si dedicarono alla modellatura di figurine.
Tra i prodotti siciliani di questo periodo non possiamo tralasciare le famose lucerne a figura umana, prese come modello dal mondo popolare e spesso raffigurati in chiave ironica. Stessa diffusione di quelle di Caltagirone molto più belle. Nel corso del ‘800 la produzione delle lucerne divenne più fiorente, soprattutto grazie all’artigianato calatino.
I ceramisti calatini popolari riprodussero i personaggi del loro tempo, tratti dalla vita borghese e popolare: dame, donne del popolo, pastori, gendarmi, briganti e anche soggetti tratti dalla mitologia latina e greca.
La moda delle lucerne antropomorfe nell’Ottocento non solo varcò la soglia dei palazzi nobiliari e  arredò tavoli, angoliere, comò e pianoforti, ma penetrò anche, con soggetti appropriati, nei conventi e nei monasteri.
Di ceramica è anche la vasta collezione di statuette raffiguranti personaggi del presepe, delle arti e dei mestieri siciliani: il pescatore, il panettiere, il carrettiere, il fabbro, ecc.
Ogni figura rappresenta un’epoca, un costume, una condizione sociale.
Questi oggetti sono dei piccoli capolavori. Accanto alla produzione di lucerne antropomorfe e di statuette, nel corso dell‘800, si ebbe una notevole produzione di ceramica proveniente da diversi paesi siciliani: da Collesano, da Patti, da Santo Stefano di Camastra, da Caltanissetta, da Terrasini.
All’inizio del. XX secolo l’artigianato siciliano subì una grave crisi e delle antiche fornaci del passato oggi rimangono attive soltanto quelle di Santo Stefano di Camastra, di Caltagirone, di Burgio,  di Sciacca

La Fonte: il Web

 NEL PROSSIMO ARTICOLO LA STORIA DELLA CERAMICA DI SANTO STEFANO DI CAMASTRA.

 

Jan 21, 2020 - Senza categoria    Comments Off on “LA PROCESSIONE DEI PICCOLI” CON LE MINIATURE DEL FERCOLO DI SAN SEBASTIANO E DELLA VARETTA A MISTRETTA.

“LA PROCESSIONE DEI PICCOLI” CON LE MINIATURE DEL FERCOLO DI SAN SEBASTIANO E DELLA VARETTA A MISTRETTA.

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Da quest’anno 2020 la festa di San Sebastiano si è arricchita di un nuovo evento: la “Processione dei Piccoli”.
La devozione del popolo amastratino a San Sebastiano, patrono della città di Mistretta, è grande.
Anzi immensa!

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Essa si manifesta anche attraverso i bambini che, vestiti come i portanti adulti, indossando il tradizionale abito costituito dalla camicia bianca, dal fazzoletto color carminio, dai pantaloni di velluto nero, dalle calze grigie di lana filata, per richiamare la cultura contadina,  hanno assunto l’incarico di portare sulle loro spalle il peso delle miniature della vara di San Sebastiano e della varetta per la “Processione dei Piccoli”.

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Giorno 18 gennaio 2020 le miniature della vara di San Sebastiano e della varetta sono entrate nella chiesa del Santo Patrono a Mistretta per ricevere la benedizione, impressa da Mons. Michele Giordano durante la messa vespertina.

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Il giorno successivo, esattamente domenica, 19/2020, si è svolta la “Processione dei Piccoli”.  Infatti, per la prima volta le miniature della vara di San Sebastiano e della varetta sono state portate in processione dai “portanti bambini”.

I piccoli, circa 80 Bambini, dai 6 ai 12 anni di età, nella ricorrenza dei  festeggiamenti in onore di San Sebastiano sono stati i diretti protagonisti in quello che rappresenta simbolicamente il gesto di consegna dei portanti alle nuove generazioni. I piccoli portanti, infatti, indossavano il tradizionale abbigliamento dei portanti adulti.
Durante il cammino processionale hanno seguito il percorso che il fercolo di San Sebastiano percorre due volte all’anno lungo le vie della città: il 20 gennaio, il giorno del Suo martirio, e il 18 agosto, il giorno “ra festa ri vutu”, “della festa del voto”. Come da tradizione, il fercolo di San Sebastiano è stato preceduto dalla Varetta degli Angeli e con i ceri votivi, simbolo delle grazie ricevute. la reliquia di San Sebastiano è stata portata nelle mani di Mons. Michele Giordano.

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I bambini portanti hanno svolto questo piacevole compito con fede, con entusiasmo, assumendo un comportamento composto, ordinato e corretto.

I piccoli hanno imitato i grandi!
La tradizione, come in questo caso dei portanti che si tramanda da padre in figlio, è importante in ogni cultura e in ogni civiltà.
E’ un valore inestimabile per le nuove generazioni che avvertono il desidero di rimanere legati alle antiche tradizioni. Tradizioni familiari,sociali, religiose, che sono l’anima di ogni comunità e che rappresentano il patrimonio culturale-storico-religioso.
La processione dei piccoli portanti  è stata l’anteprima della festa grande del patrono San Sebastiano che si conduce, attraverso il cammino processionale della vara grande di San Sebastiano e della varetta il 20 gennaio. Lodevole il comportamento dei genitori. Hanno accompagnato i loro figli, durante il percorso, con sorrisi e con carezze, orgogliosi di aver abbigliato i  piccoli portanti. La processione è stata animata dal suono della Banda musicale e dalla presenza di tanti mistrettesi commossi ed entusiasti.
Gli artisti che hanno realizzato il piccolo fercolo di San Sebastiano nel 1996 sono stati i signori: Pane Sebastiano, Pane Andrea, Pane Maurizio, Tamburello Antonino.
Gli artisti che hanno realizzato la varetta nel periodo fine anno 2019 inizio anno 2020 sono stati i falegnami: Nino Lipari e Amato Giuseppe e il ceramista Antonino Manno che l’ha decorata.

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I capolavori: la varetta

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La vara piccola di San Sebastiano

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Le miniature insieme alla vara grande di San Sebastiano

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I calorosi complimenti e ringraziamenti, pertanto, sono stati diretti a coloro che  hanno realizzato le miniature della vara e della varetta, al comitato dei festeggiamenti di San Sebastiano, per avere sollecitato questa iniziativa di aggiungere la miniatura della varetta, a quanti hanno contribuito materialmente alla realizzazione di queste opere: le ceramiche Colorcotto snc, la Ditta Fratelli Tusa, la cartolibreria Pellegrino, la corniceria Belle Arti Torcivia, la falegnameria Marchese Vito e figlio, la Direzione Presidio Ospedaliero di Mistretta.
Che l’amore di Dio e di San Sebastiano possa riempire la vita di questi piccoli portanti aprendo il loro cuore e la loro  mente guidandoli nella giusta via, e tutta la comunità  amastratina .
W San Sebastiano!

Il commento di Antonio Manno, di Lipari Antonino  e di Giuseppe Amato: “ Ci abbiamo messo tutto l’impegno possibile. E’ il cuore che ha diretto i lavori.  Ringraziamo il comitato di San Sebastiano per aver creduto nelle nostre capacità. Adesso tocca a loro…ai nostri piccoli portanti che domani ci renderanno orgogliosi. W S. Sebastiano!!!.
Viva San Sebastiano!

Invocazione a San Sebastiano

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Jan 9, 2020 - Senza categoria    Comments Off on “NATA DUE VOLTE” IL LIBRO DI VIVIANA GIGLIA PRESENTATO NELLA CHIESA BEATA MARIA VERGINE DI MONSERRATO A LICATA

“NATA DUE VOLTE” IL LIBRO DI VIVIANA GIGLIA PRESENTATO NELLA CHIESA BEATA MARIA VERGINE DI MONSERRATO A LICATA

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Mercoledì 08/01/ 2020 grande cerimonia nel locale attiguo alla chiesa della BEATA VERGINE DI MONSERRATO, meglio conosciuta come la chiesa del SACRO CUORE, in via Generale La Marmora, a  Licata

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per avere accolto la dolce amica Viviana Giglia che ha presentato il suo libro autobiografico dal titolo “NATA DUE VOLTE” Edizioni Carmelitane – nella collana “Presenza del Carmelo”.

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Nel libro si legge la storia di una giovane donna che, con coraggio, con fermezza e con fede, nonostante le sue fragilità, affronta le difficoltà del vivere la sua vita quotidiana.

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Come se fossimo tutti presenti. basta cliccare su

 

 

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Ha introdotto i lavori il giovane scout Marco Bernasconi che ha proiettato il significativo video sulla disabilità e sui valori  del rispetto e dell’accoglienza.

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I giovani del gruppo SCOUT Licata 4 sono stati bravissimi nel rappresentare, nelle loro scenette, alcune disabilità quali la cecità, la difficoltà di movimento, la menomazione di un arto.

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Hanno relazionato: P. Roberto Toni O.Carm, Priore Provinciale della Provincia Italiana dei Carmelitani, e la prof.ssa Antonella Cammilleri.
Ha moderato l’evento il signor Giacomo Giurato, presidente regionale di ADOCES SICILIA (ASSOCIAZIONE DONATORI CELLULE STAMINALI E SANGUE CORDONALE).

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Il tavolo dei relatori

Da sx: Giacomo Giurato – P. Roberto Toni -Viviana Giglia- Antonella Cammilleri

Tutti i discorsi, tutti gli esempi, tutte le iniziative, come l’abbraccio finale fra tutti i presenti, hanno messo in luce il valore della vita perché “essa é un dono meraviglioso e vale sempre la pena di viverla fino in fondo”.

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Giacomo Giurato

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Sulla pagina delle Edizioni Carmelitane è scritto: ”Questo libro autobiografico vuole essere una testimonianza di vita e di un percorso di fede. Un cammino di accettazione, fatto di persone, incontri e cadute in continua evoluzione, che trova in Gesù Cristo secondo il carisma del Carmelo il suo <<porto sicuro>>. Una vita non facile, ma che riesce a svoltare, imparando dai propri limiti e trasformandoli in punti di forza. Scegliendo e capendo di dover seguire l’insegnamento di un grande uomo, uno straordinario Papa ora Santo che diceva: <<Prendi in mano la tua vita e fanne un capolavoro>> (Giovanni Paolo II).
L’intervento di P.Roberto Toni: ” La mia non vuole essere una prefazione. E’ soltanto il dire “grazie”.
Grazie perché non è facile scrivere di se stessi così come Viviana ha fatto. Tirando le fila dei ricordi, ripercorrendo il passato, riproponendo, anzitutto a se stessa, volti e sentimenti.
Ci vuole coraggio. E ci vuole un perché.
Nel caso di Viviana il “perché scrivere” è, in realtà un “per chi scrivere”.
Ce lo dice lei stessa, quasi scusandosi per essersi messa al centro dell’attenzione su questi fogli di carta; sì, Viviana si scusa sia all’inizio che alla fine di questo suo libro, col risultato di includere tutto il suo testo dentro un atteggiamento di delicatezza. Tuttavia, ci dice, e lo fa con forza, che ha scritto perché chi legge possa trovare un motivo di speranza, una spinta per lottare, per alzare lo sguardo o abbassarlo, per incontrare davvero se stesso, gli altri, Dio.
Viviana ci dona una storia impegnativa.
La sua storia.
Lo fa con delicatezza e potenza, con umiltà e audacia.
Senza pretendere di insegnarci qualcosa, ma volendo comunicarci il valore della vita, delle esperienze e delle persone incontrate nel suo percorso, tutte indicate come preziose, siano esse Pontefici o bambini, luminari della medicina o semplici barellieri. Ma scrivere riconoscendo, anche nel dolore e nell’incertezza perdurante, il bene e la grazia, scrivere indirizzandosi a chiunque possa trarre da un’esperienza raccontata senza sconti un motivo di incoraggiamento, scrivere così è molto diverso da un semplice esercizio autoreferenziale. Scrivere così è scegliere di accogliere la vita e volerla consapevolmente donare. Viviana ci racconta di sé in ogni aspetto, con una sincerità che ti disarma e ti coinvolge. Ti guarda negli occhi, ti prende per mano, ti accoglie nella sua vita.
La normalità di una forza che non nasconde la debolezza, di una fede che non elimina le domande, la scelta di sperare, l’accettazione che non è rassegnazione, le paure presenti ma guardate in faccia e chiamate per nome, i limiti accettati ma genialmente trascesi… come potrei chiamare tutto questo? Queste pagine sono un dono. Un dono di vita, vissuto parola per parola ed ora offerto a noi. Ho incontrato Viviana come una sorella che fa parte, come me, di una Famiglia nella Chiesa, la Famiglia carmelitana. E’ stata guidata a divenire Terziaria, consacrata laica, da una devozione antica nella sua Licata (Sant’Angelo carmelitano martire) e da un’altra Persona, la Donna del silenzio e della Parola, la Donna dell’attenzione e della quotidianità, l’umile Ragazza di Nazareth completamente donata a Dio e al prossimo, Maria.
L’augurio che faccio a Viviana è di essere sempre, con la luce e con la forza del Signore Gesù, una guerriera, condottiera in prima linea di quella “rivoluzione della tenerezza” di cui il mondo oggi ha bisogno (cfr. Papa Francesco, Discorso ai Carmelitani, 21 settembre 2019).Grazie!

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P. Roberto Toni

L’intervento della prof.ssa Antonella Cammilleri: AGNESE, VIVIANA…(ED IO)
Non è la prima volta che Viviana mi concede il privilegio di leggere in anteprima un suo racconto, ma la mia meraviglia è grande quando mi dice: “Troverai una pagina in bianco, mi piacerebbe se scrivessi qualcosa”…
Un foglio bianco è pericoloso, puoi riempirlo a caso ma puoi correre anche il rischio di denudarti, scrivendo.
E in questo caso il rischio che corro è davvero grande.
Le cose non succedono mai per caso, ne sono certa. E non è solo una strana coincidenza se quella mattina, mentre Viviana mi scriveva un messaggio in cui mi chiedeva di leggere un suo manoscritto, stavo “divorando” il libro di Agnese Borsellino, la  moglie di Paolo,che ha donato i suoi preziosi ricordi a Salvo Palazzolo, il coautore.
“Ti racconterò tutte le storie che potrò” questo è il titolo del libro; le storie sono quelle che Paolo raccontava alla sua amata,perché l’amore, diceva il grande magistrato, si deve inventare giorno dopo giorno.
“La bellezza più grande è l’amore per la vita, per la propria famiglia, per la propria terra, per le sue imperfezioni (…) Agnese era sicura che le sue parole avrebbero ridato il coraggio di sognare e di progettare, scrive Palazzolo nella postfazione. “Perché la vita è bella”, mi disse l’ultima volta che ci incontrammo, “me l’ha insegnato il mio Paolo, me lo ripeteva canticchiando le canzoni della nostra giovinezza. Gli sarebbe piaciuto il film di Benigni che s’intitolava proprio così, “La vita è bella”. Racconta che può emergere tanta speranza anche dove sembra non esserci. Quel film, l’avremmo guardato tutti quanti insieme, figli e nipoti, seduti allegramente in soggiorno”.
Potrei non aggiungere altro! Potrei fermarmi qui.
Leggendo il libro di Viviana ho riscontrato la stessa fede. La stessa speranza e a tratti lo stesso sconforto di Agnese, ma soprattutto la stessa rabbia che diventa forza motrice.
Quanta energia può scaturire dal dolore!
Il dolore ti trasforma, inevitabilmente. Può rendere cattivi, ma il dolore può scatenare tempeste. Quelle che rimettono a posto le cose.
Quanta forza c’è in Viviana quando dice che i suoi sogni di adolescente si sono spenti (qualcun altro avrebbe scritto sono stati distrutti), ma la luce si è soltanto affievolita e i sogni hanno cambiato rotta. I sogni di un’adolescente sono stati sostituiti dai sogni di una donna, una “spaccarotelle”.
“Dobbiamo circondarci di cose belle”, dice Agnese, “pensa come sarebbe bella questa Italia se ognuno di noi realizzasse un suo piccolo sogno e lo offrisse agli altri”.
Ognuno di noi. I sogni di tutti, dunque… sogni che si reggono su due gambe, sogni che si muovono su due rotelle, sogni che vanno alla cieca, sogni che vanno a zonzo. Sogni che si affidano a Dio, altri che quel Dio lo cercano ancora.
Quest’ultimi sono i miei.
Grazie Vivianù, ti sarò eternamente grata per questa bella opportunità!

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Antonella Cammilleri con l’autrice Viviana Giglia

Il discorso dell’autrice Viviana Giglia: ”Spesso la vita non va esattamente come avremmo voluto, accade qualcosa che ci travolge come un temporale improvviso e dobbiamo faticare perché dopo tanta pioggia torni a risplendere l’arcobaleno.
Scrivere di se stessi non è cosa facile.
Ho provato a raccontarvi la mia storia perché credo che molte persone possono rispecchiarsi nelle mie parole e perché no, trarre uno spunto per trovare dentro se stessi la forza di lottare.
La vita è un percorso impervio; puoi cadere ma devi sempre trovare la forza per rialzarti. Capire che non bisogna mai aver paura di chiedere aiuto; farlo non è segno di debolezza anzi, è un bisogno che dobbiamo colmare per riuscire a star meglio”.

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Viviana Giglia è autrice di altri libri. Le sue parole: ” Non mi reputo scrittrice solo perchè ho delle pubblicazioni, ma scrivo per diletto”.
Coinvolgente la narrazione dell’abbraccio con Papa Francesco, definito un grande uomo.
Brava Viviana!

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Infine, Viviana Giglia ha indirizzato il suo caloroso grazie ai relatori, ai bravissimi giovani Scout del Licata 4, al numeroso pubblico.
Gli applausi  sono stati abbondantissimi, sinceri e calorosi.

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Anche gli abbracci sono stati tanti e molto affettuosi!

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I commenti:

del fratello Davide
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di Chiara Santamaria: In un periodo buio della mia vita…. arrivi tu…. o meglio arriva il tuo libro… la tua testimonianza di vita…. L’ho letto in meno di un’ora…. Ho pianto tanto mentre lo leggevo e mi sentivo come quando siamo a casa tua, prendiamo il caffè e parliamo delle nostre cose! Ti ho sempre detto che ti ammiro per la tua forza e tenacia! Ma Devo dire anche altro…. le diversità non esistono! Sono barriere mentali. Non esiste diversità!Ti voglio tanto tanto tanto tanto tanto bene!!!!!!

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di Giuseppe Oliveri: Volevo dire il mio grazie pubblicamente a Viviana per il grande e gradito regalo che mi ha fatto. Veramente sei un dono prezioso di Dio. Sicuramente chi lo leggerà, e io invito tutti a farlo, si innamorerà della tua storia che, dalla sofferenza accettata, si può rinascere alla vita . Auguri Grazie Maestra di vita.

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L’ editore P. Sebastian Benchea

La sua Biografia:
Viviana Giglia è nata a Licata (Agrigento) il 03/04/1983.

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 Nel 2007 consegue la Laurea come Educatore Professionale all’Università di Palermo. Nello stesso anno inizia a scrivere per vari giornali cittadini fino al 2018.
Nel 2014 vinse il secondo posto del premio letterario nazionale per racconti brevi, indetto da Disabili News “Un premio alla tua storia”, con il racconto “Un legame profondo, inaspettato”, pubblicato nell’e-book “Storie di vita”.
Nel 2015 fu pubblicato il racconto ”Un bivio per rinascere” nella raccolta “I racconti di Malgrado tutto”, a seguito del concorso dell’omonima testata giornalistica.
Ha curato la rubrica “Spaccarotelle” sulla testata online “medialuce.it”.
Attualmente, collabora con la redazione delle schede formative in vista dei due centenari importanti per l’ordine (Sant’Angelo di Licata ed il Beato Angelo Paoli), per i Terz’Ordini Carmelitani italiani e non solo. Ha scritto molti e interessanti articoli sul mensile “La Vedetta”.soprattutto sulla vita di Sant’Angelo Martire, il Patrono della città di Licata.
E’ definita come attivista per la difesa dei diritti delle persone con disabilità”.
Viviana è unica! Da Liquid Lives: “Non si è speciali, lo si diventa. E lo si diventa per quel qualcuno che riesce a vedere in noi quello che il resto del mondo non cerca neanche di scoprire”.
Viviana, anche il mio è un abbraccio forte, affettuoso e sincero!

 

Jan 1, 2020 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERO DI PICEA PUNGENS KOSTERIANA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ALBERO DI PICEA PUNGENS KOSTERIANA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

 

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Il Picea pungens varietà “kosteriana” è una bellissima coniferasempreverdepresente nelgiardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta con diversi esemplari. Il Picea pungens kosteriana è detto “Abete azzurro” a causa della colorazione verde blu dei germogli che spuntano in primavera.

 

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Etimologicamente il nome del gene “Picea”, utilizzato già dai latini, potrebbe derivare da “Pix picis”pece”, in riferimento all’abbondante produzione di resina.
Il nome della specie “ pungens” fa riferimento alle punte acute e pungenti degli aghi.
L’alberello presente nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è la varietà “Koster”. Secondo la teoria di den Ouden la varietà Kosteriana dopo il 1885 fu selezionata da seme su una base locale da Arie Koster Mz di Boskoop (Olanda).
Appartenente alla numerosa famiglia delle Pinaceae, Il Picea pungens kosterianaè stato introdotto in Europa proveniente
dall’ America settentrionale, diffuso in tutta Italia e coltivato esclusivamente come pianta ornamentale per l’effetto cromatico argenteo dei suoi rami.
Albero medio-piccolo, quello della villa comunale ha raggiunto un’altezza di circa tre metri, ma la specie può raggiungere anche i trenta metri d’altezza crescendo molto lentamente per la sua longevità.

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Presenta un portamento piramidale con unico tronco diritto, che può raggiungere 1,5 metri di diametro, e rivestito dalla corteccia rugosa, a scaglie, profondamente scanalata nella parte inferiore del tronco, di colore grigio scuro-marrone.

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I rami del primo ordine sono numerosi, corti o moderatamente lunghi, sviluppati orizzontalmente, più eretti o assurgenti quelli vicini alla cima. I rami del secondo ordine sono densi, rigidi, sviluppati in orizzontale.

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I rami sono coperti dalle foglie aghiformi, con le punte pungenti, rigide, lunghe 1,5-3 cm e leggermente ricurve, robuste, di colore azzurro – argento intenso con riflessi bluastri.

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Possiedono gli stomi su entrambe le pagine, disposti su 3-6 linee per ogni pagina. I fiori maschili sono strobili ovoidali, gialli, ascellari, cilindrici, lunghi 2-3 cm.
I fiori femminili, più lunghi di quelli maschili, si trovano all’apice dei rami.
La pianta fiorisce quasi tutto l’anno.
I coni femminili sono terminali, sessili, ovoidali-oblunghi o cilindrici, inizialmente eretti, poi pendenti a maturazione, lunghi 5-8 cm e larghi 3-4,5 cm, inizialmente verdi, poi marroni-giallastri o marroni-pallidi. Le pigne sono pendule, di colore marrone chiaro lunghe circa 12 centimetri.

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 I semi, marroni, sono ovoidali, appuntiti, lunghi 3 mm, con parte alata obovata lunga 6-9 mm, marrone-giallastra.
La moltiplicazione avviene per seme in primavera. Durante i mesi estivi è possibile praticare talee semilegnose.
L’habitat naturale del  Picea pungens kosteriana  è prevalentemente lungo torrenti di montagna, negli umidi versanti settentrionali, su litosuoli montani e ghiaiosi vegetando bene ad altitudini comprese tra i 1000 e i 3300 metri. Pertanto l’areale è molto vasto e, sebbene le subpopolazioni siano sparpagliate e non numerose, non vi sono evidenze di declino delle stesse. Per questi motivi è classificata come specie a rischio minimo nella Lista rossa IUCN.
Ogni albero presente nel giardino di Mistretta è ben inserito nel suo ambiente montano, non teme il freddo, vive bene isolato, posto su un terreno acido, anche povero ma sciolto e con un ottimo drenaggio.

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 Albero molto rustico, tollera bene anche le alte temperature, soffre la siccità, quindi è indispensabile annaffiarlo quando è necessario,  resiste all’inquinamento atmosferico.
Richiede almeno alcune ore al giorno di irradiamento solare. Ogni 2-3 anni, verso la fine dell’inverno o l’inizio dell’autunno, è prudente mescolare al terreno, ai piedi del fusto, una buona quantità di fertilizzante per portare il giusto apporto di nutrienti alle radici che subito si sviluppano abbondantemente.
Con l’innalzarsi delle temperature diurne, all’inizio della primavera, è bene praticare anche un trattamento preventivo con un insetticida ad ampio spettro e con un fungicida per prevenire lo sviluppo di malattie il cui dilagare è favorito dall’elevata umidità ambientale. Il Picea pungens kosteriana  teme l’attacco degli afidi, degli acari e degli insetti xilofagi.

 

 

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