Mar 31, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A MISTRETTA

I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A MISTRETTA

  I SEPOLCRI

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Gli altari della reposizione, conosciuti come i sepolcri, “i sabburchi, i lauredda”, nella tradizione cattolica del rito della settimana santa a Mistretta, sono gli altari addobbati nelle parrocchie il giovedì che precede la Pasqua. Si chiamano sepolcri perché caratterizzano i sepolcri in cui è custodito il SS.mo Sacramento per la comunione dopo la Messa del giovedì e per l’azione liturgica del venerdì santo.
In essi è offerto a Cristo, che dovrà risorgere, il frumento.
 I “sabburchi” si preparano facendo germogliare in una ciotola le cariossidi di frumento sparse in una coltura idroponica e nascosta in un luogo buio e umido. Ricordo che mia madre, devotissima, preparava diversi sepolcri facendoli germogliare sotto il forno a legna in cucina.
Il germoglio di frumento, non potendo compiere la fotosintesi clorofilliana, assume la colorazione bionda, anziché verde, e cresce in lunghezza. Quindi i germogli, fitti, uniformi, sono legati da un nastro rosso e adornati con fiori di camelie e di rose.

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 Gli altari della reposizione sono la continuazione, sotto un altro nome, del culto dei giardini di Adone, la giovane divinità che,  nell’antica Grecia, incarnava la morte e la resurrezione. Come le piante, egli moriva d’inverno e rinasceva in primavera a significare il ritorno della stagione agricola.
Adone era il bellissimo giovane nato dall’amore di Ciniro e di Mirra e ardentemente amato da Astarte. Secondo il mito fenicio, poiché Adone era stato ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia, Astarte piangeva sconsolatamente la perdita dell’amato. Ogni anno le donne di Byblos esponevano il simulacro del corpo del dio sopra un letto di fiori detto “il giardino di Adone”, vi si disponevano intorno e auspicavano la sua resurrezione. In ogni giardino di Adone c’è la fede e la pietà cristiana.
La liturgia cristiana impone ai fedeli la visita ai sepolcri la sera del giovedì e la mattina del venerdì santo. Durante il pellegrinaggio bisogna mantenere un comportamento afflitto, recitare i misteri dolorosi del Santo Rosario, sostare in preghiera davanti al sepolcro.

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I MISTERI DEL VENERDI’  SANTO

La fede cristiana esprime la propria religiosità materializzandola nei richiami concreti delle raffigurazioni di statue e di immagini di Cristi, di Madonne, di Santi. Il Venerdì Santo è un evento penitenziale e devozionale molto sentito dal popolo amastratino che partecipa con fede e commozione al cammino processionale dei Misteri durante il quale le Vare simulano i momenti della Passione e della Morte di Cristo secondo la successione descritta nei vangeli. A Mistretta le dieci “vare”, trasportate in processione secondo l’ordine dell’evento, sono: Gesù nell’orto degli Ulivi, proveniente dalla chiesa di San Sebastiano,

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il gruppo di Giuda, proveniente dalla chiesa di San Nicola di Bari e recentemente restaurato dal pittore amastratino Sebastiano Caracozzo,

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Il  Cristo alla colonna, proveniente dalla chiesa di San Giovanni Battista,

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 l’Ecce Homo, proveniente dalla chiesa di Santa Caterina,

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Il Cristo sotto la Croce, proveniente dalla chiesa di San Giovanni,

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Gesù Crocefisso con Maria e Maddalena, proveniente dalla chiesa di Monte Carmelo,

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 Gesù in Croce, proveniente dalla chiesa delle Anime Purganti,

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la Pietà, proveniente dal santuario della Madonna della Luce,

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 il Cataletto, proveniente dalla chiesa della SS.Trinità,

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 l’Addolorata, proveniente dalla chiesa del Rosario.

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 Ogni vara rappresenta un momento della Via Crucis.

 

IL CAMMINO PROCESSIONALE

Il Venerdì Santo il cammino processionale inizia dall’ampia piazza dei Vespri, davanti alla chiesa di San Giovanni Battista, dove si radunano tutti i simulacri che poi snodano lungo i corsi principali della città di Mistretta.

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Il venerdì, in genere per tutto l’anno, è il giorno della crocifissione e della morte di Cristo Gesù, è tempo di dolore, di pianto.
A tal proposito un proverbio mistrettese così recita: ” Cu ri venniri rriri ri sabbitu chjanci”, “Chi di venerdì ride di sabato piange”.
Io ricordo che ogni vara era seguita dai cantori che intonavano il canto delle parti del Venerdì Santo, vere e proprie storie in versi poetici, chiamate “ i parti ra Santa Cruci, o i parti ru venniressantu”.
Sebastiano Lo Iacono nel suo libro “Ideologia e realtà nella letteratura popolare di Mistretta scrive: ”I cantori che con voce e gestualità rianimano la rappresentazione di una drammatizzazione immobile e muta, diventano attori-protagonisti. Essi, in fase di doppiaggio, inseriscono un audio. La scelta dei cantori dietro una certa vara è determinata anche da particolari motivazioni devozionali. Oggigiorno sopravvive solo un gruppo di cantori dietro la vara della Madonna Addolorata. Questa tradizione tende a scomparire sia perché i cantori-contadini sono ormai defunti, sia perché il senso del cantare come preghiera è venuto meno”.
Pregare cantando dietro le vare è, come dice Sant’Agostino, “pregare due volte”.
Io ricordo mio padre Giovanni e i confrati della confraternita di San Nicolò, con la testa cinta dalla corona di spine, realizzata con l’intreccio dei rami probabilmente della pianta di Gleditsia triacanthos, cantavano dietro la vara di Giuda”:

E ntussicata Maria – povira ronna!-

circannu a lu so figghiu a-ccorchi bbanna.

 

Nun lu circari, no, ch’è a la culonna

bbattutu cu na ranni  virdi canna!

Maria passa ri na strata nova

e a porta ru  furgiaru aperta era:

 

<<Oh, caru mastru, chi fai apiertu a st’ura?>>

<<Fazzu  na lancia e ttri ppuncenti chjova!>>

<<Oh caru mastru, tu pi-ccu l’a-ffari?>>.

<<L’a-ffari pi lu figghju ri Maria!>>

 

<<Oh caru mastru, nun li fari ora:

ri nuovu ti la paju la mastria!>>.

<<Oh, cara ronna, si-fforra pi-mmia,

cchju-lluonghi e-senza punta li farria!>>.

 

<<Oh, caru mastru tuttu mmalirittu

ca r’unni passi tu n-truovi rrisiettu!>>.

Maria passa ri na strata nova,

e a porta  fallignami aperta era.

 

<<Oh,  caru mastru, chi-ffai apiertu a st’ura?>>.

<<Fazzu na cruci e na curune e spini!>>.

<<Facitili cchju-llieggi chi-putiti

pirchì sunu carnuzzi ddilicati!>>

 

<<Oh, cara ronna, si-fforra pi-mmia,

tutti ri rossi e-sciuri li farria!>>.

<<Oh, caru mastru, tuttu bbinirittu

ca r’unni vai tu truovi rrisiettu!>>.

 

<<Sienti, sienti, Maria: to figghju passa

e-pporta na catina longa e ggrossa;

ri quant’è-llonga tuttu lu scuncassa,

ca purpi n-avi cchjui supra ri l’ossa!>>.

 

<<Chiamatimi a Ggiuanni ca lu uogghju.

 quantu m’ajuta a-cchianciri a-mme figghju!

La lampa ora muriu;canciati l’uogghju:

ora ca viu ch’è-mmuortu me figghju!

 

Ora ca viu ch’è-mmuortu me figghju,

ri niviru mi miettu lu cummuogghju!

Manciati carni o sabbitu, ca uogghiu:

 

vardatici  lu venniri a-mme figghju:

a-cu n-ci varda u venniri a-mme figghju

li carni si cci abbbrucinu cuom’ uogghju!>>.      

 

Oh, Santa Croce, voi vengo a trovare;

piena di sangue vi trovo allagata!

Chi fu quell’uomo che venne a morire?

Fu Gesù Cristo ch’ebbe un colpo di lancia!

Acqua domanda, non potè averne:

gli diedero la spugna intossicata!

E intossicata (è) Maria-povera donna!-

cercando suo figlio da qualche parte.

Non cercarlo, no, ch’è alla colonna,

percosso con una grande canna verde!

Maria passa da una strada nuova

e la porta del fabbro era aperta:

<<Oh, caro mastro, che fai aperto a quest’ora?>>

<<Faccio una lancia e tre pungenti chiodi!>>

<<Oh, caro mastro, per chi devi farli?>>

<<Devo farli per il figlio di Maria!>>

<<Oh, caro mastro, non li fare ora:

nuovamente te lo pago il tuo lavoro!>>

<<Oh, cara donna, se fosse per me,

più lunghi e senza punta li farei !>>

<<Oh, caro mastro tutto maledetto,

che dove passi tu non trovi pace!>>

Maria passa da una strada nuova

e la porta del falegname aperta era.

<<Oh, caro mastro, che fai aperto a quest’ora?>>

<<Faccio una croce e una corona di spine!>>

<< Fateli più leggeri che potete

perché sono carni delicate!>>

<<Oh, cara donna, se fosse per me,

tutte di rose e fiori le farei !>>

<<Oh, caro mastro tutto benedetto,

che dove vai tu trovi pace!>>

<< Senti, senti, Maria: tuo figlio passa

e porta una catena lunga e grossa;

di quant’è lunga tutto lo sconquassa,

tanto che non ha più carne sopra le ossa!>>

 << Chiamatimi Giovanni che lo voglio,

perché mi aiuti a piangere mio figlio!

La lampada s’è spenta; cambiate l’olio:

ora che vedo ch’è morto mio figlio!

Ora che vedo ch’è morto mio figlio,

di nero me lo metto il manto!

Mangiate carne il sabato, lo permetto:

ma rispettate il venerdì per mio figlio:

A chi non rispetta il venerdì a mio figlio

le carni gli si brucino come olio!>>

 L’ascolto di questo canto suscitava tanta commozione!

Anche se i vecchi cantori, come mio padre, non ci sono più, la tradizione continua.
Il signor Indovino Orazio, (per gli amici Bettino), e il signor La Ganga Filippo, (per molti anni superiore della vara di San Sebastiano), sono coloro che hanno trasmesso ai confrati della Confraternita di San Sebastiano l’importanza dei canti tradizionali del Venerdì Santo, canti che orgogliosamente da 15 anni ripetono con cadenza annuale.
Già dal 2003 è stata riportata in auge la Confraternita di San Sebastiano e i confrati cantano “i parti ra Cruci” sia in chiesa, prima della processione, sia durante il cammino processionale. Queste tradizioni non si devono perdere!
La quasi totalità dei confrati conosce a memoria le strofe. I nuovi confrati, ammessi da poco tempo, si aiutano leggendo il foglietto con le strofe che discretamente nascondono nella manica della tunica.
Le vare sono accompagnate da “i truocculi”, particolari strumenti musicali che, facendoli girare a mano, producono un suono sgradevole, ma efficace.

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Almeno questa tradizione ancora si conserva!

 

LA CADUTA DEL TELONE

La chiesa Madre di Mistretta custodisce una preziosa opera d’arte: il telone quaresimale. E’ una tela artistica, di circa 80 metri quadrati di superficie,  ottenuta cucendo insieme parallelamente 14 rettangoli di lino e realizzata dal pittore Matteo Mauro di Trapani nel 1823 su commissione del sacerdote don Paolo Di Salvo. E’ unica ed eccezionale e rappresenta il mistero, la rivelazione della santità di Cristo. Il telone è l’ombra che  cade per rivelare la Redenzione.  La scena della tela rappresenta il primo processo di Gesù. L’evangelista Matteo  racconta che Gesù, dopo essere stato  arrestato, è stato portato davanti ai sacerdoti Caifa e Anna.  Erano presenti anche gli scribi e un folto pubblico.  I sacerdoti chiedono  ai presenti testimonianze contro Gesù, ma nessuno risponde.
Ad un certo momento si presentano due persone che dissero che Gesù si era vantato di ricostruire in tre giorni il tempio che era  stato distrutto.  L’evangelista Giovanni (2, 18-22) così scrive: ” Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: << Quale segno ci mostri per fare queste cose?>>.  Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei:  < < Questo tempio è stato costruito in quarantesei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?>>. Ma Egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi Gesù fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla Sua parola.
Questa frase fa adirare Caifa che è raffigurato nella tela con l’aspetto di persona molto arrabbiata. Anna, invece, punta il dito contro Gesù e un sodato alza la mano come per dare lo schiaffo a Gesù.
Matteo racconta che Gesù è condotto nel palazzo-fortezza.  Gesù sarà bastonato  e poi  crocifisso.
Nel primo piano della tela è raffigurata l’autorità religiosa mentre  in alto è raffigurata l’autorità politica con la scritta “ Senato e Popolo romano”.
In  Gesù c’è la luce mentre  gli scribi e i sacerdoti sono quasi in penombra. Quindi Gesù rappresenta la luce, mentre chi accusa rappresenta l’ombra. In primo piano c’è la colonna. Il telone narra una storia che è venuta prima, una storia reale nel presente, una storia di quello che avverrà dopo.
Il telone quaresimale è stato sottoposto a restauro per tre volte. Alla base della colonna ci sono le date degli avvenuti restauri e i nomi dei committenti. Il primo restauro è avvenuto  nel 1893 con l’arcipretura di don Francesco Portera, il secondo restauro nel mese di luglio del 1961 con l’arcipretura di don Arturo Franchina,  il terzo restauro,  nel 2009, effettuato dalla ditta Rimedi SAS di Bolzano, con l’arcipretura di Mons. Michele Placido Giordano. La cornice del telone richiama foglie di cardo, di alloro e di quercia.
La notte del Sabato Santo si verifica uno spettacolare evento: “a caruta r’u tiluni”.
Questo maestoso telo quaresimale è fatto cadere dal tetto durante la veglia di Pasqua dopo le letture e dopo il GLORIA intonato da mons. Michele Placido Giordano.  Il telone quaresimale era stato issato con le corde nel tetto della chiesa davanti all’altare maggiore del presbiterio con la base arrotolata il mercoledì delle ceneri per coprire tutta la navata centrale. Il venerdì santo il telone è completamente srotolato e nella parte inferiore si possono osservare i simboli della Passione di Gesù: la scala, la corona di spine,  i chiodi della crocifissione, le catene, i dadi, la coppa, il bastone con spugna, il martello, la  croce, le tenaglie, la lancia,  il tamburo. I simboli della Passione sono rappresentati nella collana portata addosso da mons. Michele Placido Giordano.
Questo fenomeno della “A caruta r’u tiluni” genera nei fedeli che partecipano alla funzione religiosa una grande gioia. E’ un modo scenografico per rappresentare il passaggio dal buio della morte alla luce della vita.
Cominciano a suonare le campane,  si accendono tutte le luci,  nell’altare appare Cristo con la bandiera del trionfo.
E’ finito il tempo della passione e del dolore, inizia il tempo della gioia.

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Ringrazio la signora Marisa Cittadino per aver realizzato il film che ci dato  la possibilità di essere presenti all’evento

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Il suono delle campane  annunzia al mondo Cristo, il risorto!
Questa è la buona novella che la Chiesa ci dà. Auguri, Buona Pasqua!

 

 

 

Mar 27, 2015 - Senza categoria    Comments Off on Il CERCIS SILIQUASTUM – L’ALBERO DI GIUDA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Il CERCIS SILIQUASTUM – L’ALBERO DI GIUDA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Chi era Giuda Iscariota, figlio di Simone?

Ce lo raccontano i Vangeli.

 Nel vangelo di Giovanni  (Gv 12,4-6) si legge:  Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse:<Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?>. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Giuda tradì Gesù indicandolo ai soldati del Sinedrio ebraico per farlo arrestare. Nel Vangelo secondo Matteo, in Cattura di Gesù ( 26,47-50) è scritto:<Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: “ Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. E subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì!”. E lo baciò. E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”. Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.

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Matteo continua la sua narrazione nel Suicido di Giuda ( 27,1-8): Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato. Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo:” Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Ma quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò ed andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi.
Ecco qual è l’albero dove s’impiccò l’apostolo Giuda Iscariota preso dal rimorso perché, dopo aver indicato ai soldati il Maestro, lo baciò nell’orto degli Ulivi tradendolo per trenta denari d’argento.

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E’ il Cercis siliquastrum.
Il Cercis siliquastrum, detto “Siliquastro”, e “Albero di Giuda”, è un albero appartenente alla famiglia delle Leguminosae.
In Italia cresce spontaneo, ma è coltivato come pianta ornamentale nella villa comunale di Mistretta per i suoi fiori rosa – violacei che appaiono anche direttamente sui rami e sul tronco.
E’ un albero che aggiunge valore al giardino per la sua fioritura copiosa che appare quando tutto attorno è ancora quasi completamente spoglio.

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L’albero di Giuda è originario del Mediterraneo orientale e dell’Europa meridionale. Il suo nome botanico deriva dal greco “kερκίς“, che significa “ago, navetta, spola”, per la forma dei suoi frutti, ma, probabilmente, la vera origine del termine proviene da “Giudea”, regione nella quale l’albero è molto comune.
Il Cercis siliquastrum si presenta come un piccolo albero nodoso, perenne, alto fino a cinque metri ed è proprio impossibile non vederlo. L’albero è una nuvola carica di fiori di colore rosa acceso in primavera, poi è spoglio d’inverno, in lunga attesa. Ad aprile grida la sua improvvisa gioia di vivere, anche se solo per una ventina di giorni. La nuvola rosa scompare, d’incanto.
L’albero cresce molto lentamente. Presenta l’apparato radicale ampio e di  media profondità e il fusto, rivestito da una corteccia grigia nerastra, ha un portamento eretto. I rami presentano la corteccia rossastra.
Le foglie, portate da lunghi piccioli, caduche, arrotondate, cuoriformi, con nervatura palmata, sono di colore verde chiaro che, da giovani, possono avere tonalità rossastre; la pagina superiore è liscia e lucida, la pagina inferiore è glauca.
Appaiono abbastanza tardivamente, in primavera, in autunno assumono un bel colore giallo, quindi cadono dall’albero.
L’insieme delle foglie rende la chioma vaporosa, arrotondata, delicata, dai contorni irregolari, dando la sensazione di leggerezza e di freschezza.
I fiori, ermafroditi, con la corolla papilionacea, profumata, sono riuniti in racemi che compaiono abbondantemente in primavera prima delle foglie. La caratteristica di questa specie è la caulifloria: i fiori spuntano direttamente dalla corteccia dei vecchi rami e del tronco nei mesi di aprile e di maggio.
La pianta inizia la sua fioritura sui rami di almeno due anni d’età regalando generose fioriture. Secondo qualche leggenda i fiori rappresenterebbero le “lacrime di Cristo” e il loro colore rosa simbolizzerebbe la “vergogna” per la grande cattiveria di Giuda.

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 L’impollinazione è entomofila.
I frutti, baccelli rossastri, che diventano bruni a maturità, appiattiti, pendenti, lunghi anche 15 centimetri, molto numerosi, coriacei restano attaccati alla pianta fino alla fine dell’inverno e persistono anche dopo la caduta delle foglie. La moltiplicazione avviene per mezzo dei semi.

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 Albero molto rustico, vive meglio se esposto in un luogo luminoso, con luce solare diretta perché, in condizioni eccessivamente ombreggiate, non svilupperebbe bene la sua bella fioritura.
Predilige un clima mite, ma resiste al freddo, risente delle gelate, soprattutto se tardive. Si adatta a qualsiasi tipo di terreno preferendo quelli ben drenati, sciolti, leggermente calcarei, ma tollera anche quelli moderatamente acidi. Sopporta bene lunghi periodi di siccità, quindi non richiede molta acqua, ma si accontenta di quella delle piogge.
Non richiede particolari potature, se non per limitare la crescita espansa della chioma e per eliminare i rami ineleganti o danneggiati. Non presenta particolari malattie.
Gli esemplari giovani, messi a dimora da poco tempo, sono più esigenti.
Grazie alla sua resistenza all’inquinamento atmosferico è utilizzato per le alberature delle strade e dei viali cittadini, ma si lascia spezzare dall’azione del vento.

Mar 19, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL SALSO, IL FIUME CHE SFOCIA NEL MARE DI LICATA

IL SALSO, IL FIUME CHE SFOCIA NEL MARE DI LICATA

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La notizia ascoltata al TG3 delle ore 14:00 del giorno 19 Marzo 2015 ha portato la mia memoria indietro nel tempo.
Il Salso, il fiume che sfocia nel mare di Licata, esondando ha causato ingenti danni nel corso degli anni.

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Il TG3 ha riferito che una bomba d’acqua, della durata di 90 minuti, ha fatto esondare il fiume Salso che ha investito un vasto territorio della provincia di Enna nei pressi delle cittadine di Regalbuto e di Gagliano Castelferrato. La forza dell’acqua ha sommerso case rurali, ha abbattuto alberi, ha distrutto le coltivazioni, ha messo in ginocchio l’agricoltura locale, ha trasportato fango e detriti.
E’ ancora vivo in me il ricordo dell’alluvione del 1976.
Ero andata a comprare la strenna da regalare a un mio amico che convolava a giuste nozze e mi trovavo da sola in Piazza Sant’Angelo a Licata. Sentivo la gente gridare: ” A cina c’è, a cina c’è” “La piena c’è, la piena c’è”.
Non avevo capito subito il significato di quelle parole perché ancora non avevo imparato il dialetto licatese.
Vedevo la gente correre.
Correvo anch’io.
Per fortuna sono riuscita ad arrivare a casa mia in tempo, ma nel mio palazzo, in Corso Umberto 100, già l’acqua del fiume Salso lambiva le scale e aveva raggiunto la cabina dell’ascensore.
Ho visto i vigili del fuoco e i vigili urbani che, con barche e canotti, navigavano in Corso Umberto cercando di soccorrere le persone imprigionate dentro le loro automobili che chiedevano aiuto, le macchine che, sollevate dall’acqua, in Corso Serrovira acceleravano la loro corsa verso il mare. Io, che allora abitavo al 10° piano, ho ospitato a casa mia per quattro giorni una coppia di genitori con tre bambini che, fuggiti dalla loro casa del quartiere Africano, si sono rifugiati nelle scale del mio condominio.
Abbiamo condiviso quello che c’era nella mia dispensa.  La paura dell’alluvione è stata molta.

 

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Un po’ di storia:
Il Salso è un fiume molto importante e, come tutti i fiumi che si rispettano, è grondante di avvenimenti storici.
Le sue rive videro il fiorire delle civiltà del Bronzo, fu via di penetrazione per i coloni greci in cerca di nuove terre, fu il probabile confine che vide fronteggiarsi e combattere greci e cartaginesi di Sicilia.
Il maggior fiume siciliano, il Salso, detto anche Imera Meridionale, scende da Portella del Bafurco sulle Madonie, nel versante meridionale, nei pressi di Petralia Sottana, a circa 1360 metri d’altitudine e attraversa le province di Palermo, di Caltanissetta, di Enna, di Agrigento con un’estensione di ben 2.002 chilometri quadrati.
Percorre l’altopiano centrale fino a sfociare, dopo un cammino di circa 144 Km, nel mar d’Africa attraversando la città di Licata e dividendola in due parti.
Sfociando al piano, a Nord della città, si divide in due rami gettandosi in mare all’interno del centro abitato con il tratto principale e all’interno della cala di Mollarella con un ramo secondario il “Fiumicello” che agisce da canale scolmatore naturale per piene di modesta entità.
Così racconta il geografo Al Edrisi: “Ma arrivato presso Licata volge a mezzogiorno emette foce a piccola distanza da quella”.
Nell’attraversare terreni franosi e argillosi, spesso salati, raccoglie, in autunno – inverno, le acque piovane di scorrimento superficiale e trasporta a valle, con l’acqua salmastra, i materiali d’erosione del suo vasto bacino.
Il carattere torrentizio del fiume Salso e la stretta dipendenza tra gli afflussi meteorici e i deflussi sono rilevati dalle sensibili variazioni della portata idrica del fiume che, nei mesi estivi, tende a zero, perciò, nei pressi della foce, si assiste all’invasione d’acqua marina che penetra per un buon tratto nel letto fluviale.
Può raggiungere portate notevoli in caso di forti e prolungate piogge fino a riprendere anse abbandonate e a sommergere la piana e la parte bassa dell’abitato.
É il più lungo fiume della Sicilia.

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Molto prima di giungere al piano, il Salso riceve, infatti, liquami civili e industriali molto inquinanti, non certamente compatibili col suo delicato equilibrio ecologico che è completamente sconvolto nell’attraversamento dell’abitato di Licata. Mancano o non sono funzionanti i depuratori delle acque luride.
Da parecchi anni, infatti, il suo ecosistema è fortemente compromesso. D’estate, quando la portata è minima, è frequente il triste e famoso fenomeno dell’eutrofizzazione, le cui esalazioni sono ben note all’olfatto dei licatesi, che impedisce anche la vita a molti animali che là abitano.
Nel 1154 l’arabo Sherif Al Edrisi, geografo del conte Ruggero, ricorda così un pesce dalle carni grate al palato che vi si pescava abbondante “Il fiume, che mette foce presso Licata, si chiama Salso nel quale abbonda del buon pesce da mangiare, grasso e delicato al gusto”.
Era l’Alosa o Cheppia, specie che risaliva il fiume per riprodursi ed è scomparsa quando, sensibile all’inquinamento fluviale, vi installarono presso la foce un’industria chimica.
Oggi quell’industria è stata smantellata, ma le Alose non sono tornate.
L’Alosa era molto abbondante anche nelle acque del Tevere e dell’Arno da dove, decimata dall’inquinamento e dagli sbarramenti, è oggi ugualmente scomparsa.
Le acque del fiume si caricano di soluti per la presenza di cloruri e solfati quando attraversano l’altopiano interno ricco di depositi evaporatici di salgemma. La concentrazione, variabile da 1,5 a 4,5 gr/l in relazione alla stagione e alla piovosità, ostacola la sopravvivenza degli esseri viventi e rende il corso d’acqua non sfruttabile per scopi irrigui.
Solo quando piogge eccezionali lo rendono impetuoso, ritorna brevemente in vita e, dopo che l’ondata di piena avrà trascinato via i sedimenti inquinanti e soffocanti, il fiume ospiterà la fauna marina delle foci quali anguille e cefali, ma per breve tempo. Portate eccezionali del Salso-Imera hanno determinato frequenti esondazioni della piana e, qualche volta, anche dell’abitato di Licata.
L’esondazione del 1915 ha distrutto il vetusto ponte di legno all’interno della città, ha separato il centro di Licata dal quartiere Oltremonte, ha causato la morte di 109 persone che, incuranti del pericolo, si sono affacciate sul fiume per ammirare lo spettacolo, ed ha danneggiato pesantemente la flora e la fauna.
Un’altra calamità ecologica si è verificata durante l’importante ondata di piena del 1976, quella che ricordo io, quando l’acqua ha sommerso gran parte del centro abitato invadendo le case basse, i negozi e le scuole del quartiere Africano.
Automobili, macchine per cucire, frigoriferi, televisori, materassi, piatti e altri mobili e suppellettili, che la forza dell’acqua, con violenza, ha trascinato via all’esterno delle case, galleggiavano tristemente. Nel 1991 l’onda di piena si riversò sul ramo del Fiumicello distruggendo numerose villette nelle contrade di Ciavarello e di Mollarella. Per questo motivo i terreni della piana sono d’origine alluvionale nella parte più bassa, con prevalenza di argille e di sabbie. L’ultima esondazione si è temuta a Licata il 02/02/2014.

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Un proverbio licatese recita “Caliti juncu ca passa a cina”.
Ora che la qualità delle acque del fiume è migliorata per alcuni interventi, sicuramente non completamente risolutivi, esso sa dare ospitalità a molti esseri viventi, soprattutto agli uccelli migratori che sostano e nidificano presso la sua foce. Lungo gli argini del fiume, la Cannuccia di Palude, nel suo canneto molto fitto di vegetazione, ospita una fauna ornitologica stanziale e di passa molto numerosa e varia accompagnata dalla presenza di vari tipi di insetti, di zanzare, di crostacei, di rettili etc.
Durante i mesi invernali, con un po’ di fortuna, è possibile ammirare il Tuffetto, uccello timido e diffidente, che si nasconde fra le fronde della folta vegetazione.
Ho visto riposare o pescare nelle acque del fiume Salso il Cormorano, dalla nera livrea, solitario o in gruppo, durante tutti i mesi invernali.

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 Tempo fa in primavera ho ammirato l’Airone bianco, che cacciava le prede immerso nell’acqua e l’Airone cinerino, che preferisce riposarsi appoggiandosi su una zampa sola.
Nascosto nel canneto, raramente sosta il Falco di palude durante la sua migrazione in autunno.
Anche la Gallinella d’acqua preferisce nascondersi nel groviglio del canneto, ma, essendo più socievole, si lascia osservare mentre nuota, si tuffa nelle acque per alimentarsi, corre. La sua visione è più frequente perché sosta lungo la foce del fiume regolarmente per quasi tutto l’anno.
Dal mese d’agosto in poi, fino alla primavera successiva, è possibile osservare la Folaga.
Sono uccelli che vivono in gruppi più o meno numerosi e che, sorvolando il letto del fiume per rifornirsi lungo le rive, attirano l’attenzione con il loro strepitare e rumoreggiare.
Lungo gli argini impervi nidificano il Gabbiano comune e il Gabbiano reale col suo piumaggio bianco e grigio.

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 Si è perfettamente adattato all’ambiente costiero, si ammira nelle sue spettacolari evoluzioni aeree per poi poggiarsi anche a terra senza temere la presenza di estranei. Lungo l’ultimo tratto del corso del Salso, nonostante l’alto tasso d’inquinamento, durante i periodi di passa, è abbastanza facile osservare la Garzetta.
Il Ramarro, la Testuggine palustre e il Gogilo sono rettili presenti sulla foce del fiume. Nel 1976 la piena che invase le strade dell’abitato, portò con sé numerosi esemplari di Testuggine palustre. Le Testuggini, disorientate, si muovevano per le strade coperte dal fango nel tentativo di riguadagnare il loro habitat naturale. Anche i molti cani randagi amano passeggiare lungo le sponde del fiume Salso.

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Il fiume Salso è stato capace di plasmare, anno dopo anno, paesaggi di gole e di stretti dalle pareti intarsiate e variopinte, valli silenziose ove ci si aspetta di udire ancora il flauto di Pan; pigre e voluttuose sono le anse tondeggianti nel suo approssimarsi al mare.
Il fiume Salso richiede continui interventi di protezione, di manutenzione, di tutela e di difesa fluviale per la valorizzazione dello stesso paesaggio naturale.

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Chissà, forse il suo Genio, la cui rabbia improvvisa, violenta, distruttiva e catartica che i licatesi hanno ben conosciuto, li sta solo aspettando. Forse aspetta che “L’Uomo” faccia il passo finale, dell’autodistruzione, cessando così di violentare la sua natura?

Mar 9, 2015 - Senza categoria    Comments Off on SAN GIUSEPPE – LA SUA VITA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

SAN GIUSEPPE – LA SUA VITA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Nella Chiesa universale, con grande solennità, il 19 marzo di ogni anno si celebra la festa di San Giuseppe, il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza”.
In campo liturgico e sociale San Giuseppe è festeggiato anche il 1° maggio, giorno in cui si celebra la festa del lavoro, quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII.
Il nome Giuseppe è originario dall’ebraico “Yosef” e dal  latino “Ioseph” che significa “Dio aggiunga”, come dire “aggiunto in famiglia”.
Giuseppe, nato probabilmente a Betlemme, era di stirpe regale perché discendente della casa di Davide. La famiglia di origine aveva avuto nel passato una parte molto importante nella storia d’Israele, tuttavia le necessità della vita lo costrinsero ad avviare nel paese di Nazareth dove abitava l’attività artigianale nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori, umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, costruiti dall’abilità delle sue ruvide mani.
Sulla sua esistenza non si hanno molte notizie certe ad eccezione di quelle che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca.
I vangeli apocrifi si sbizzarrirono, invece, attorno alla sua figura.
Secondo il Nuovo Testamento San Giuseppe è lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque Gesù. I Vangeli e la dottrina cristiana affermano che il vero padre di Gesù è Dio stesso: Maria lo concepì per virtù dello Spirito Santo. Giuseppe, informato dell’azione miracolosa da una visione avuta in sogno, accettò di sposarla e di riconoscere Gesù come suo figlio legittimo. Giuseppe divenne, così, il padre putativo di Gesù. Dal latino “puto” “credo“, cioè colui che “crede” di essere suo padre. Nel Vangelo di Luca, nella Genealogia di Gesù ( 3,23) si legge:” Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent’anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe…”
La tradizione apocrifa racconta che Giuseppe, già in età avanzata, si unì ad altri celibi della Palestina, tutti discendenti di Davide, richiamati da alcuni banditori provenienti da Gerusalemme. Il sacerdote Zaccaria aveva ordinato che fossero convocati tutti i figli di stirpe reale per sposare Maria, la giovane fanciulla. Su indicazione divina, ognuno avrebbe condotto all’altare il proprio bastone.
Dio avrebbe fatto fiorire il bastone meritevole. Entrato nel tempio, Zaccaria pregò insieme a loro, quindi restituì i bastoni ai legittimi proprietari. Mentre Giuseppe se ne stava nel luogo più lontano e ritirato, perché si considerava indegno, la sua verga fiorì e si ricoprì di candidissimi fiori. Una colomba, vista scendere dal cielo, si pose sul suo capo. Era stato scelto da Dio come sposo della santa fanciulla.

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L’emblema di San Giuseppe è il giglio bianco, simbolo di purezza. A Licata la pianta di Asfodelo è chiamata “il bastone di San Giuseppe”. Giuseppe, perplesso dalla scelta caduta su di lui, fece notare la sua anzianità, ma il sacerdote lo esortò a non disubbidire alla volontà di Dio.
Allora Giuseppe, fiducioso, accolse Maria come sua sposa, anche se ella continuò ad abitare nella casa di famiglia, a Nazareth di Galilea, ancora per un anno che era il tempo richiesto presso gli Ebrei tra lo sposalizio e l’entrata della sposa nella casa dello sposo.
Poiché l’Angelo le aveva detto che Elisabetta era incinta (Lc 1,39), accompagnata da Giuseppe, andò a trovare la cugina che era nei suoi ultimi tre mesi di gravidanza. Dovette affrontare un lungo viaggio di 150 Km poiché Elisabetta risiedeva ad Ain Karim in Giudea.
Maria rimane presso di lei fino alla nascita di Giovanni Battista.
Fu proprio in questo luogo che Maria ricevette l’annuncio dell’Angelo Gabriele e lei rispose: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” ( Lu 1,38). Maria accetta la divina maternità con quello slancio e con quella totale disponibilità verso la volontà di Dio che Le proveniva dal suo stato di Immacolata Concezione. “Come è possibile? Non conosco uomo” (Luca 1,34).
Maria, tornata dalla Giudea, rivelò al suo sposo la sua maternità. Giuseppe, dubbioso, per non sapersi spiegare la maternità di Maria, meditò di rimandarla in segreto. In Matteo (1,19) si legge: “ Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” per non condannarla in pubblico. Infatti, denunciando Maria come adultera, la legge prevedeva che fosse lapidata e il figlio del peccato perisse con Lei (Lv 20,10; Dt 22, 22-24).
Ecco, a dissipare i suoi timori, un angelo apparso in sogno a Giuseppe, gli disse: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tu sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” Matteo (1, 20-21).. Destatosi dal sonno, rasserenato, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo e prese con sé la sua sposa accettando il mistero della maternità e le successive responsabilità. Giuseppe fu luce di esemplare terrena paternità. Gli diede il nome “Gesù” “Dio salva”, cominciò a scaldare il figlioletto nella povera culla della mangiatoia, lo mise in salvo in Egitto, lo cercò quando, dodicenne, era “sparito’’ nel tempio, lo educò, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”, lo guidò nel lavoro di falegname.

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 Tra gli ebrei dell’epoca, i bambini già all’ età di cinque anni iniziavano ad istruirsi nella religione e nell’ apprendere il mestiere del padre. Probabilmente anche Gesù praticò il mestiere di falegname.
Giuseppe, fino a trenta anni della vita del figliolo, gli fu sempre accanto con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i progetti divini.
Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” raggiungesse la maturità e iniziasse la vita pubblica; dunque una volta espletato il suo ruolo di padre putativo. Secondo i Vangeli apocrifi, San Giuseppe morì all’età di 111 anni, colpito da malattia, tra le braccia di Gesù e di Maria, nel modo più sereno possibile.
Venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa, il culto di San Giuseppe si diffuse rapidamente. A diffondere il culto di San Giuseppe, che andò crescendo nella venerazione dei fedeli fino al tempo di Pio IX che ne proclamò la superiorità su tutti gli altri santi, fu San Tommaso d’Aquino.
Leone XIII lo elesse patrono della Chiesa e delle famiglie cristiane: <<In Giuseppe hanno i padri di famiglia il più sublime modello di vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esempio d’amore, concordia e fedeltà coniugale; i vergini un tipo e difensore insieme dell’integrità verginale. I nobili imparino da lui a conservare anche nell’avversa fortuna la loro dignità e i ricchi intendano quali siano quei beni che è necessario desiderare. I proletari, gli operai e quanti sono in bassa fortuna debbono da lui apprendere ciò che hanno da imitare>>.
Non ci sono reliquie di ossa di San Giuseppe. La città di Perugia dal 1477 vanta di possedere l’anello nuziale di San Giuseppe.
Esso proviene da Chiusi, dove è stato portato da Gerusalemme nel XI secolo. Nella chiesa di Notre-Dame di Parigi sarebbero custoditi gli anelli di fidanzamento di Maria e di Giuseppe.
In Francia, nel 1254 il sire di Joinville portò la cintura di Giuseppe i cui frammenti sono nella chiesa parigina di Foglianti. Ad Aquisgrana, in Germania, nel tesoro di Carlo Magno sono conservati le fasce o i calzari che avrebbero avvolto le sue gambe. Nel Sacro Eremo di Camaldoli è conservato il bastone di San Giuseppe. Esso proviene da Nicea, offerto dal cardinale Basilio Bessarione nel 1439. In molti altri luoghi si trovano frammenti delle vesti di San Giuseppe.
Numerose sono le persone e le associazioni e che considerano San Giuseppe il loro patrono.
A Mistretta, nella sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, la statua e il quadro di San Giuseppe accolgono i soci.

Preghiera a San Giuseppe

San Gisippuzzu giustu e santu
‘n testa purtati lu Spiritu Santu,
‘nta li mani lu santu vastuni
siti lu patri ri nuostru Signuri.
Accumpagnastu Maria in Egittu
accompagnati a mmia nna ‘stu bisuognu strittu.
San Gisippuzzu nun m’abbannunati
nne cchiù estremi nicissitati.

San Giuseppuccio giusto e santo
in testa portate lo Spirito Santo
nelle mani il santo bastone
siete il padre di nostro Signore.
Accompagnaste Maria in Egitto
accompagnate me in questo bisogno stretto.
San Giuseppuccio non m’abbandonate
nelle estreme necessità.

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Statua donata dal barone Carchiamo e si trova all’ingresso della Società Operaia a Mistretta

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San Giuseppe è protettore specificatamente dei falegnami, degli ebanisti, dei carpentieri, ma anche dei pionieri, dei senzatetto. Nel XV secolo era invocato contro il flagello della peste e contro l’usura. Il Monte di Pietà, il luogo dove si recava la gente che, trovandosi nello stato di bisogno, chiedeva prestiti affidando al Monte oro e qualche oggetto prezioso in cambio di denaro, si chiamava Monte di Pietà di San Giuseppe. E’ invocato dall’infanzia, dagli orfani, dai giovani, dalle ragazze da marito, dalle famiglie cristiane, dai profughi, dagli esiliati.
Si invoca la sua grazia, inoltre, per guarire le malattie degli occhi, per sostenere gli ammalati gravi e, in particolare, per i moribondi.
A Mistretta ancora oggi la signora Gaetatina Lo Menzo Castelluccio osserva la tradizione votiva dei “Virgineddi di San Giuseppe” alla quale anche io ho partecipato tantissimi anni fa quando ero bambina.
Siccome c’era molta povertà, allora le maestranze locali offrivano un pranzo ai bambini poveri e soprattutto abbandonati
La tradizione è stata continuata da quelle famiglie che, per avere ricevuto una grazia per intercessione di San Giuseppe, esprimono il voto di ringraziamento organizzando i “virgineddi di San Giuseppe”.
Oggi a questa cerimonia sono invitati tutti i bambini del vicinato di qualsiasi estrazione sociale.
La padrona di casa, il giorno prima della festa, allestisce l’altare di San Giuseppe addobbandolo nel miglior modo possibile ed esponendo il quadro di San Giuseppe. Davanti all’altare imbandisce una lunga tavola attorno alla quale prendono posto i bambini ordinati e comodamente seduti. La tovaglia bianca, ricamata, adorna la tavola e i fiori, soprattutto i gigli di San Giuseppe, donano una bella nota di colore.
Davanti al posto di ogni bambino è messa in bella mostra un’arancia tagliata già a spicchi per facilitare loro il cibarsi. Come piccola penitenza, obbligatoriamente si deve rispettare il digiuno fino a mezzogiorno. A mezzogiorno il sacerdote, padre Michele Placido Giordano, il parroco della chiesa Madre di Mistretta, si reca in quella casa per benedire l’altare di San Giuseppe e la tavola dei “virgineddi”. Tutti insieme recitano la preghiera di ringraziamento a San Giuseppe. Inizia il lauto pranzo.
Il primo piatto consiste in una porzione di pasta con i finocchietti selvatici e le lenticchie. Il secondo piatto comprende un’abbondante porzione di baccalà fritto. Completano il pranzo gli “sfingi”, i caratteristici dolci di San Giuseppe.

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 Terminata l’abbuffata, l’allegria compagnia va via. Ogni bambino riceve un sachetto con la merenda da portare a casa e consumare la sera per cena.
La signora Gaetatina in ogni sacchetto inserisce: un pezzo di pane a forma di bastone di San Giuseppe, un’arancia, alcuni pezzetti di finocchio dolce, un pezzetto di baccalà avanzato, una confezione di cioccolata alla Nutella e tanta devozione a San Giuseppe.
Bisognerebbe evitare di disperdere le vecchie tradizioni paesane istruendo nelle scuole i bambini al mantenimento delle usanze popolari. Auguro a tutti quelli che portano il nome di Giuseppe di essere paterni, buoni e generosi seguendo i Suoi esempi di onestà, di rettitudine, di giustizia, di laboriosità.

Il mio amico, l’ing. Salvatore Pernicone, ha portato la tradizione dei “Virgineddi” da Leonforte, in provincia di Enna, il suo paese d’origine, a Licata, dove abita assieme alla sua famiglia.
Ha imbandito la tavola con tantissime forme di pane, simbolo di ospitalità e di accoglienza, e con il vino dell’Eucaristia.  Nel grande altare, sotto il quadro di San Giuseppe, il pane ha la forma di ostensorio, di croce, di palma, del bastone di San Giuseppe.
La tavola, ricca e abbondante di tanti altri prodotti, ha accolto calorosamente le persone indigenti.
La restante parte, in sovrabbondanza, dei prodotti culinari è stata trasportata nella Parrocchia di Santa Barbara e devoluta in beneficenza. Complimenti a tutta la famiglia Pernicone non solo per la devozione a San Giuseppe, ma anche per  l’alto senso dell’amore del prossimo.

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 LA CULLA DI SAN GIUSEPPE

La culla di San Giuseppe, questa leggenda medievale, è stata tratta dalla raccolta de  “I GRANDI LIBRI DELLA RELIGIONE”, editrice Mondatori, nel volume LEGGENDE CRISTIANE,  Santi, Martiri, Pellegrini, alle pagine 159-161.
Poiché racconta una buona azione di carità umana compiuta dal falegname Giuseppe, voglio condividerla con i miei amici per lodare insieme San Giuseppe.
Sufo, il ricco mercante che vendeva la tela sulla piazza di Nazareth, quel mattino lasciò la sua bottega e si recò dal falegname Giuseppe. La casa di Giuseppe, un dado sotto un albero di datteri, era un po’ fuori mano, e così Sufo dovette sudare un po’ sotto il sole per raggiungerla.
<<Giuseppe!>> chiamò il mercante affacciandosi alla botteguccia del falegname. <<Sono già venuto ad ordinarvi l’arca del pane il giorno prima delle mie nozze; ora vengo a chiedervi la culla per il mio primogenito. Fatemi una culla degna di un re, di buon legno pregiato, che duri, riccamente istoriata e decorata. Sufo può spendere!>>
Il giorno seguente Giuseppe si mise all’opera di buon mattino. Cercò un legno di cedro di bella vena verdiccia, forte ma anche pastoso e docile ai ferri del falegname e ci lavorò tutto il giorno fino a tarda sera, perché aveva bisogno di quel guadagno. Era il mese dei tributi e bisognava dare a Cesare quel ch’era di Cesare. La mattina dopo la culla era finita; Giuseppe l’aveva lavorata con grande amore. Per dondolarla sarebbe bastata la dolce melodia di una ninnananna. Giuseppe si recò alla bottega di Sufo con la culla.
<<Eccovi servito, messere Sufo. Maria m’ha dato i suoi consigli perché fosse fatta come piace alle mamme>>.
Sufo osservò la culla e cadde dalle nuvole. Non c’era segno di ricchezza in quel pezzo di legno. Ai suoi occhi la culla era un giaciglio povero e meschino.
E fu così che Sufo cacciò Giuseppe dalla bottega.
Tornando verso casa, carico della culla e di malinconici pensieri, Giuseppe si imbattè in Lisa, una cara amica di Maria, poverissima, rimasta vedova pochi giorni dopo aver partorito un figlio maschio. Il padre, ammalatosi gravemente, aveva potuto tenerlo in braccio solo per pochi giorni. La donna raccontò di aver camminato tutto il giorno per cercare giunchi lungo il fiume. Voleva fare una culla per il suo piccolo, come si fanno i canestri; ma non aveva trovato che un piccolo fascio di rami marci.
<< Prendete questa già fatta>> le sorrise dolcemente Giuseppe. <<Sufo, il mercante, non l’ha voluta. Il vostro bambino ci starà come il pane nella madia>>.
<<Potessi pagarvela, sì che la prenderei.>>
<<Prendetela, Lisa, è vostra.>>
E le lasciò la culla sulla porta di casa senza aspettare né benedizioni né ringraziamenti.
Lisa sapeva bene che Giuseppe non era meno povero di lei. Tante volte aveva pesato con gli occhi il poco pane che Maria portava al forno per la cottura. Ma la culla era così bella che fece la gioia del piccolo e della madre. Lisa, venuta la sera, vi deponeva il bambino e cominciava a cantare una dolcissima melodia. Quel canto si diffondeva nella contrada silenziosa e giungeva in tutte le case di Nazaterh. Il vento ne trasportava l’eco lontano lontano nell’oscurità della notte. La voce di Lisa era così limpida e serena che chi la udiva ci sentiva i colori della felicità. D’improvviso, però, il tono si faceva mesto e accorato, come se la mamma fosse stata trafitta per un attimo da una punta di malinconia. La sua voce tremava come un filo d’acqua nel vento, si oscurava per un momento come la luna al passar di una nuvola. Sul suo cuore scendeva il pensiero che la sua felicità era costata un dolore al falegname Giuseppe.
Sufo si fece fare da un altro artigiano la culla per il figlio ormai nato :ricca, pesante e massiccia  come un trono. La pagò un prezzo da dire sottovoce per non offendere la povertà. E vi mise a dormire il suo puttino adorato. Ma questa culla regale si dondolava a fatica e, muovendosi, faceva un rumore così sgradevole da tenere sveglio il bambino. La nutrice, a furia di dondolare, finiva per addormentarsi mentre il pargoletto continuava a piangere  e a strillare disturbato dalla nenia lamentosa di quel legno pesante.
Un mattino Sufo, non potendo più sopportare la tortura del neonato e lo stridere di quella culla, andò da Lisa e le disse: <<Datemi la culla del vostro bambino; vi pagherò quel che volete>>.
<<Come potrei farne dono a Voi senza offendere l’animo generoso che me l’ha regalata?
Non ci penso affatto!>>
<<Andrò da Giuseppe ad ordinargliene un’altra>>.
Ma Giuseppe era alquanto indaffarato in quei giorni. Per intervento della Provvidenza, aveva ricevuto alcune ordinazioni urgenti e lavorava di buona lena.
<<Mi spiace, messer Sufo, ma ne avrò almeno per una stagione. Abbiate pazienza se vi dico che non posso soddisfarvi subito>>.
<<E il mio bambino>> sbottò Sufo << dove lo metto a dormire>>?
<<Chiedete a Lisa di fargli posto vicino al suo. La culla è grande>>.
Sufo tornò da Lisa.
<<Se non volete che questo >>, disse la donna, <<portatemi il bambino questa sera. Il mio canto basterà per tutti e due>>.
<<A proposito>>, chiese Sufo, <<cos’è quella nota di dolore che turba ad un certo punto la dolcezza della vostra canzone? Si sente che avete una spina nel cuore>>.
<<Ogni notte, mentre canto, mi viene in mente che la mia gioia è costata un dolore al falegname Giuseppe. Il dolore che gli avete procurato voi>>.
Sufo tornò da Giuseppe e gli disse: <<Lasciate che vi paghi la culla, Giuseppe, se dovrò metterci a dormire il mio bambino>>.
<<Io sono già stato ripagato in benedizioni da quella povera vedova .E quelle benedizioni sono diventate Provvidenza per me. Farei un cattivo affare se scambiassi queste benedizioni con un quattrino. Quella culla è leggera e trotta felicemente perché è la culla della carità. Non pagate me, ma prendetevi piuttosto cura di quella poveretta che non sa di che vivere>>.
Sufo decise di prendere in casa sua la vedova e il figlioletto e le chiese di essere nutrice del suo primogenito.
Quella notte i due bimbi dormirono placidamente nella culla di Giuseppe dondolati dal canto struggente e dolcissimo di Lisa. Anche Sufo, finalmente, trovò sonno nel pensiero che la carità d’un povero aveva riportato a lui, tanto ricco, la pace e la serenità.

  

LA CHIESA DI SAN GIUSEPPE A MISTRETTA

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La chiesa San Giuseppe fu edificata fuori delle antiche mura della città come cappella tombale di una nobile famiglia del luogo, probabilmente della famiglia Allegra o Gallegra.
Non si conosce esattamente il periodo della sua costruzione, ma la chiesa esisteva già nel 1595, come riporta l’iscrizione sull’architrave del portale in pietra arenaria locale, opera di  ignoto scalpellino siciliano.

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La chiesa presenta una facciata semplice. Pochi gradini ne favoriscono l’accesso all’interno costituito da una sola navata. Una grande struttura in ferro battuto circonda la parte bassa del frontale che si eleva su tre livelli. Nel secondo livello si aprono due finestre, mentre nel terzo livello si apre una sola finestra. Il frontale della facciata termina con un triangolo isoscele.

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Lateralmente, a sinistra, s’innalza la torretta campanaria a tre livelli, nel XVIII-XIX secolo, da dove sporgono le finestre di diversa forma protette da grate di ferro. La torre campanaria è provvista di due campane.
In epoca normanna essa era stata costruita come torre d’avvistamento, secondo il programma di potenziamento dell’antico sistema fortilizio della città. Nel 1595 fu annessa alla chiesa e ristrutturata nel 1760, quando furono eseguiti altri lavori edilizi.

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Le modifiche strutturali e decorative più radicali si datano a partire dal 1760, quando il sacerdote don Felice Mandato, per disposizione testamentaria, con il denaro ricavato dalla vendita dei propri beni, ha promosso l’istituzione del  Collegio di Maria, più precisamente, dell”Istituto del SS.mo Bambino Gesù e della Sacra Famiglia. Il collegio di Maria è addossato al  lato destro della chiesa.
L’istituto religioso è sorto perospitare ed  educare le ragazze povere ed orfane e sostenuto dalle generose offerte dei benefattori.
Secondo il prof. Giovanni Travagliato le modifiche strutturali e decorative iniziarono a partire dal 1760 quando, su incentivo di Mons.Gioacchino Castelli, Vescovo di Cefalù, fu costruito l’adiacente Collegio di Maria, inaugurato ufficialmente due anni dopo e affidato alle religiose che ancora oggi lo abitano.
La storia del sacro edificio da questo momento seguirà dunque le vicende del Collegio, inaugurato ufficialmente il 14 maggio 1762.

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Ricordo perfettamente che le orfanelle delle suore del collegio di Maria e delle suore della Croce accompagnavano il defunto durante il suo funerale per espressa sua volontà o per scelta dei parenti.
Le suore di “San Giuseppe”, per assistere alle funzioni religiose, fino a qualche decennio fa non si mescolavano all’assemblea dei fedeli, ma partecipavano da dietro le finestrelle della cantoria.

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Pur rimanendo inalterate le forme e le dimensioni, nel 1818 avvennero notevoli mutamenti negli altari in marmo, negli stucchi, nei lampadari e nei candelieri in legno dorato.
Chiusa per il necessario restauro, la chiesetta fu riaperta al culto nel 2001 quando il nuovo altare è stato benedetto dal vescovo di patti mons. Ignazio Zambito l’undici marzo dello stesso anno.
Dell’originaria struttura decorativa del tempio rimase lo splendido gruppo ligneo della sacra famiglia con  San Giuseppe posto nell’ altare maggiore del presbiterio. La sacra famiglia è una scultura realizzata da di Noè Marullo.
Nell’opera, firmata in basso, è scritto: “Opera d’arte del paesano Noè Marullo per cooperazione di Basilio Porrazzo Anno 1912” . Vuol dire che l’opera è stata realizzata dallo scultore amastratino però la committenza è stata la corporazione degli ebanisti e dei falegnami della quale Basilio Porrazzo rappresentava la categoria.

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 Il gruppo è formato da tre statue.
Col Concilio di Trento c’è una diffusone non solo della figura di San Giuseppe, ma,  soprattutto,  della sacra Famiglia. Questo culto è stato voluto anche da papa Leone XIII e Noè Marullo  si è attenuto a ciò che ha scritto nell’enciclica Leone XIII.
Il trittico è formato dalla Madonna, vestita con un abito rosso e coperta dal manto celestiale, il Bambino, che tiene in mano il mondo, come per dire che Gesù è il salvatore  del mondo, e San Giuseppe che mostra il bastone fiorito. La Madonna è la moglie di Noè Marullo, la signora Stella Cuva, il bambino è Giustina,  la figlia, morta all’età di 16 anni, San Giuseppe è l’immagine di Marcello Capra, un ebanista aiutante di Marullo.
La sacra famiglia  è in cammino ed è di esempio per le altre famiglie.
La Madonna protegge il bambino tenendolo per mano, mentre poggia  l’altra mano sul  suo cuore come per dire che è  stata l’ancella di Dio e, per amore, ha dato alla luce Gesù, il Redentore. San Giuseppe protegge entrambi  abbracciandoli dalla parte posteriore.
L’espressione dl volto di San Giuseppe è pensierosa, forse perchè  sente la responsabilità  del futuro di Maria edi Gesù.
Secondo l’interpretazione dell’ emerito papa Benedetto XVI Maria rappresenta la Chiesa e San Giuseppe con il pastorale rappresenta il sacerdote della Chiesa.

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Da ammirare anche il Crocefisso ligneo, statua policroma ante 1734.
L’altare del SS.mo Crocifisso funge da reliquiario con l’aggiunta di riquadri con reliquie di santi e le figure dell’Addolorata e di San Giovanni dipinte su tela poste lateralmente sotto le braccia della croce.

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 Il gruppo ligneo polocromo raffigura la Sacra Famiglia, opera di Noè Marullo, coadiuvato da Basilio Porrazzo, del 1912.

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 L’altare di Santa Teresina di Lisieux accoglie la statua lignea policroma, del XX secolo.

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L’altare del “Noli me tangere” accoglie la pregevole tela di Giuseppe Velasco, detto il Velasquez siciliano, che rappresenta Gesù Risorto e la Maddalena.  Nell’opera emerge un intimo lirismo e una mirabile completezza d’espressione.

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La tela raffigura San Giuseppe patriarca. E’ un olio su tela probabilmente di Antonino Manno, della seconda metà del XVIII sec.

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La tela raffigura l’Immacolata Concezione fra gli angeli e la colomba. E’ un olio su tela, di probabile opera di Antonino Manno, della seconda metà del XVIII sec.

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All’ingresso della chiesa, sul lato destro, si possono ammirare tre busti scultorei e marmorei di fine fattura che ricordano autorevoli e generosi benefattori della famiglia Allegra o  Gallegra, componenti famigliari  insigniti del titolo di “Baroni di San Giuseppe“, accompagnati dallo stemma e dai nomi abbreviati, probabilmente gli abati Benedetto e Giovan Battista, e l’anziana madre o sorella R., della fine del XVIII-inizi del XIX. secolo.

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 La grande moderna statua di Padre Pio da Pietrelcina accoglie i fedeli a braccia spalancate.
Il 23 settembre si festeggia nella chiesa di San Giuseppe e si porta in cammino processiionale per le vie del paese.

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Mar 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’8 MARZO E LE ACACIE DEALBATA E RETINOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’8 MARZO E LE ACACIE DEALBATA E RETINOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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La Giornata internazionale della donna, comunemente definita la “Festa della Donna”, ricorre l’8 Marzo di ogni anno per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne ma, principalmente,  per evidenziare le discriminazioni e le violenze che, purtroppo, ancora oggi subiscono in molte parti del mondo.
Perciò l’8 Marzo non è un giorno di festa, ma una rievocazione della conquista dei diritti di cui godiamo oggi, noi donne moderne: il diritto al voto, l’uguaglianza sul lavoro, la parità tra i sessi, l’amore assoluto.
La storia racconta che la Giornata Internazionale della Donna nacque negli Stati Uniti il 3 maggio 1908 durante una conferenza tenuta ogni domenica dal Partito socialista di Chicago nel Garrick Theater. Alle riunioni erano invitate a partecipare anche le donne.
Quella conferenza fu chiamata “Woman’s Day” “il giorno della donna” .
In assenza del relatore designato, a presiedere quell’assemblea fu  la socialista Corinne Brown, persistente sostenitrice dei diritti delle donne.
Corinne Brown, nel suo discorso, evidenziò lo sfruttamento delle operaie da parte dei datori di lavoro che impegnavano le operaie in lunghe e spossanti ore di lavoro e le retribuivano con paghe bassissime.
Affrontò  anche il discorso sulle discriminazioni sessuali e sull’estensione del diritto al voto alle donne.
Dopo quel discorso, che non ebbe effetto immediato, il Partito Socialista americano decise «di riservare l’ultima domenica di febbraio del 1909 per l’organizzazione di una manifestazione in favore del diritto di voto femminile».
Sull’istituzione della Giornata Internazionale della Donna esistono molte narrazioni più o meno veritiere.
Una, molto famosa, narra che la Festa della Donna fu istituita nel 1908 in memoria delle operaie morte nel rogo della fabbrica “Cotton”, forse mai esistita, di New York.
Un gruppo di operaie dell’industria tessile “Cotton”, scioperarono per protestare contro le disumane condizioni di lavoro alle quali erano sottoposte.
Dopo alcuni giorni di conflitto con le maestranze, l’8 marzo il proprietario, per ripicca, bloccò tutte le porte di uscita dello stabilimento.
Scoppiò uno spaventoso incendio che causò la morte di 129 operaie.
Veramente si tratta di una leggenda nata negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Questo racconto è stato contestato da molte persone.
Successivamente, la data dell’8 Marzo, come giornata di lotta internazionale a favore delle donne, fu proposta da Rosa Luxemburg.
In realtà, pare che si faccia un po’ di confusione con la tragedia verificatasi a New York durante l’incendio della Triangle Waist, la “fabbrica delle camicette bianche”, verificatasi davvero il 25 marzo del 1911. A causa di  un enorme incendio sviluppatosi dentro la fabbrica, perirono nel rogo 126 donne, in maggior numero giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.
La storia delle operaie perite nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company è stata raccontata dalla licatese Ester Rizzo, autrice del libro “Camicette bianche Oltre l’8 Marzo” che ha trasformato il numero 126 nelle concrete sembianze di quelle donne, diverse per età, per provenienza geografica e per religione, ma accomunate dal coraggio dell’espatrio, dalla condizione di operaie in terra straniera e, purtroppo, anche dalla stessa morte, mandate al rogo dall’incuria, dalla superficialità, dall’avidità e dalla cupidigia umana.
Obiettivo dell’autrice di “Camicette bianche Oltre l’8 Marzo” è stato quello di raccontare la storia di queste donne migranti di un secolo fa, di ricostruire le loro identità, le loro origini, i loro nuclei familiari. Le vittime siciliane furono 24 fra cui Clotilde Terranova.
Clotilde era a nata a Licata il 27 settembre del 1887. Aveva 24 anni.
L’8 Marzo è una data davvero rivoluzionaria.
L’8 Marzo del 1917 a San Pietroburgo le donne marciarono lungo le strade per il «Pane per la Pace» chiedendo a gran voce la fine della guerra e manifestando per i propri diritti. Evento che in Russia diede origine alla Rivoluzione di febbraio, alla successiva destituzione dello zar e all’attribuzione del diritto di voto alle donne stesse.
In Italia la Giornata della Donna fu istituita per la prima volta nel 1922  anche se, per iniziativa del Partito Comunista Italiano, inizialmente coincise con il 12 marzo, giornata in cui cadeva la prima domenica successiva all’8 Marzo.
Perché è stata scelta l’Acacia dealbata, cioè la Mimosa, come simbolo della festa delle donne?

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Sembra che in Italia l’idea di eleggere il fiore di Mimosa come simbolo della “Festa della Donna” sia da attribuire all’iniziativa, risalente al 1946, delle femministe Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei.
Avendo saputo che Luigi Longo, il vicesegretario del Partito Comunista Italiano, voleva regalare nel giorno della “Festa della Donna” un mazzetto di viole, gli suggerono di scegliere un fiore più povero e più diffuso nelle campagne.
E’ stata scelta la Mimosa perchè la pianta fiorisce proprio nei primi giorni di marzo, quando la Natura si risveglia dal lungo letargo invernale e Persefone ritorna sulla terra e anche per il bel colore giallo dei fiori.
Perché le foglie della Mimosa, appena accarezzate da un leggero alito di vento, o stimolate involontariamente dalle ali di una farfalla o da quelle di un uccellino, o sfiorate dalla carezza delle nostre dita, o per l’alternarsi del giorno e della notte, si accartocciano, si chiudono per pudicizia, per modestia, per vergogna.
La DONNA è così raffigurata da fiori di Mimosa, per la loro delicatezza, per la loro riservatezza, per la loro purezza.
Un ramo fiorito di Mimosa, offerto alle donne l’otto Marzo, giorno in cui ricorre la “Festa della Donna”, da me non condivisa, deve essere offerto sempre a ciascuna Donna.
La DONNA Dona la Vita! E’ la MAMMA!
Anch’io offro un mazzetto virtuale di fiori di Mimosa e un caloroso abbraccio a tutte le Donne.

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 La donna deve essere sempre rispettata, amata, onorata, protetta, valorizzata e non festeggiata solo quel giorno dell’anno!

Ecco perché dico:

No alla violenza.

No ai maltrattamenti.

No allo stalking.

No ai plagi psicologici.

No alle limitazioni personali.

No agli uxoricidi.

No ai femminicidi.

No! No! No!

Dico Si all’ammirazione della pianta e dei fiori di Mimosa per l’eleganza, la bellezza, la fragranza.
Adesso conosciamo meglio le piante di Acacia, questo bellissimo spettacolo che la Natura benignamente ci regala!

 

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 ACACIA DEALBATA  E ACACIA RETINOIDES

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L’Acacia dealbata è un albero sempreverde appartenente alla Famiglia delle Mimosaceae.
E’ originaria dell’isola di Tasmania e coltivata a scopo ornamentale per le sue meravigliose e caratteristiche fioriture precoci e abbondanti.
E’ stata importata in Europa alla fine del ‘700 e dove si è facilmente inserita prosperando quasi spontanea in diversi ambienti. In Italia è molto sviluppata in Liguria, in Toscana e nel Meridione.
E’ coltivata anche lungo le coste dei grandi laghi del Nord dove può beneficiare di temperature più miti. Preferibilmente vegeta bene nelle aree con clima temperato, sopporta il gelo solo se di breve durata, teme gli inverni molto rigidi e le temperature che permangono per lungo tempo al di sotto dello zero e che potrebbero provocare la sua morte. Anche il vento freddo la danneggia.
Il termine “Acacia” deriva dal greco antico “ακίς”, “punta, lancia” mentre il termine ”dealbata” deriva dal latino “dealbo”, “puro, brillante” alludendo al colore giallo-brillante dei suoi fiori. Comunemente è conosciuta col nome di “Mimosa” .
Il nome “Mimosa” deriva dal latino “mimus”  “mimo, attore” alludendo alla sensibilità della pianta capace di cambiare aspetto come i mimi nella scena teatrale. Infatti la pianta compie movimenti fotonastici e seismonastici mediante i quali le foglioline opposte si stringono e il  picciolo della foglia si inarca. Questa sensibilità è massima nella Mimosa pudica.
Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta vegetano molte piante di Acacia dealbata.
La pianta d’Acacia dealbata ha un portamento eretto con il fusto alto fino a 8 metri, mentre nella terra d’origine raggiunge anche i trenta metri d’altezza. Il fusto, rivestito da una corteccia di colore verde-grigio negli alberi giovani e tendente al bruno quasi nero nelle piante anziane, è spoglio in basso, mentre in alto si allarga a formare la chioma ampia e scomposta che, in inverno, assume una colorazione gialla.
Le foglie, alterne, bipennate, di colore verde argenteo, composte da numerosissime foglioline, sono disposte in 8-20 paia di pinnule perpendicolari al rametto e composte a loro volta da circa 20-30 paia di foglioline perpendicolari alla nervatura principale.
Le foglie si richiudono di notte, o quando la temperatura è rigida, o durante i temporali, o quando sono appena sfiorate.
I fiori, plumosi, riuniti in capolini sferici, di colore giallo-limone, si sviluppano all’ascella delle foglie e sono noti come i “fiori di Mimosa”. L’Acacia è molto utilizzata come pianta ornamentale grazie alla sua splendida e profumata fioritura.
La grande quantità di fiori, che emanano un inconfondibile profumo, conferisce a questa pianta un fascino molto particolare.

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La fioritura avviene tra i mesi di gennaio e di marzo.
Il frutto è un legume lungo da 4 a10 centimetri e, quando è maturo, assume una colorazione nerastra. Al suo interno sono ospitati i semi piccoli, duri e lucidi per mezzo dei quali la pianta si riproduce a primavera. La germinazione avviene dopo circa un mese. La riproduzione può avvenire anche per talea, da praticare sempre nei mesi primaverili.
L’Acacia dealbata è una pianta molto delicata e molto utile per abbellire i giardini pubblici e le ville private.
Desidera essere piantata in posizioni riparate dove può ricevere la luce diretta del sole anche per molte ore del giorno. Preferisce suoli acidi e ben drenati e dove esiste una buona umidità. Per i primi anni di vita, per dare un aspetto più ordinato dopo la fioritura e prima dell’inizio dell’attività vegetativa, anche per prevenire lo spezzarsi dei rami a causa del vento, l’Acacia va potata accorciando abbastanza i suoi rami.
Successivamente le potature possono essere interrotte, tranne che non si vuole stimolare l’albero a produrre nuovi getti.
Nel giardino di Mistretta è presente anche l’Acacia retinoides.
L’Acacia semperflorens o retinoides è la cosiddetta “Mimosa 4 stagioni” perchè la fioritura si prolunga per quasi tutto l’anno nei paesi caldi e con intermittenze irregolari nei paesi freddi. Si usa, in genere, come porta – innesto della “dealbata” per quelle specie di Acacie che non tollerano il suolo calcareo.
L’Acacia retinoides è una pianta sempreverde d’origine australiana e importata in Italia nel 1700. Col suo portamento eretto può raggiungere anche i dieci metri d’altezza.
Il fusto è rivestito dalla corteccia chiara e liscia nella pianta giovane, marrone e squamosa nella pianta adulta. Le foglie, lanceolate, appuntite, coriacee, a margine intero, di colore verde chiaro da giovani e verde scuro da adulte, formano la chioma di forma irregolare e disordinata.
Molto caratteristici sono i fiori bianchi e le foglie dell’Acacia retinoides perché dall’apice fogliare si diramano due foglie dell’Acacia dealbata.

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Importanti sono i legni di Acacia per l’erboristeria e per i lavori di intaglio artistico.
Il legno d’Acacia nella Bibbia è menzionato tantissime volte per i suoi multipli usi. In Esodo (30,1-2), nell’altare per l’incenso si legge: “Farai un altare sul quale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia. Avrà un cubito di lunghezza e un cubito di larghezza, sarà cioè quadrato; avrà due cubiti di altezza e i suoi corni saranno tutti di un pezzo”.
In Esodo (37,1-2), nella costruzione degli arredi del santuario nell’Arca dell’Alleanza, realizzata in legno di Acacia rivestito d’oro si legge: “Bezaleel fece l’arca di legno di acacia: aveva due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestì d’oro puro, dentro e fuori. Le fece intorno un bordo d’oro“. In Esodo ( 37,15-16), “Fece le stanghe in legno di acacia e le rivestì d’oro. Fece anche gli accessori della tavola: piatti, coppe, anfore e tazze per le libagioni; li fece di oro puro“. In Esodo (38,1-2), nella costruzione dell’altare dei sacrifici e della conca: “Fece l’altare in legno di acacia: aveva cinque cubiti di larghezza e cinque cubiti di larghezza, era cioè un quadrato, e aveva l’altezza di tre cubiti.  Fece i corni ai suoi quattro angoli: i corni erano tutti di un pezzo; lo rivestì di rame”.
Nel linguaggio dei fiori l’Acacia simboleggia “sicurezza”.

 

 

 

 

Feb 22, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IRIS PSEUDOPUMILA

IRIS PSEUDOPUMILA

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Per me è sempre una gioia grandissima ritornare a Mistretta, al mio paese natio. Ricorrenze particolari mi sollecitanomaggiormente ad intraprendere il lungo viaggio che, da Licata, mi conduce a Mistretta. Una di esse è la festa dell’Immacolata Concezione alla quale mio padre, io e tutta la mia famiglia siamo stati sempre particolarmente devoti.

 I ricordi mi portano lontano nel tempo quando la chiesa di San Nicolò di Bari era guidata dai sacerdoti Antonino Saitta e Filadelfio Longo collaborati da mio padre Giovanni e, ancora prima, da mio nonno paterno Vincenzo. Erano loro ad organizzare la festa e la processione del fercolo dell’Immacolata Concezione.

Oggi questo pregevole incarico è affidato a mio cugino, il signor Antonino Lorello, che lo effettua con grande religiosità e sacra venerazione dell’Immacolata.

Ricordo che anche a me, quando ero giovanetta, era stato affidato un importantissimo incarico che tanto mi onorava: quello di portare il gonfalone che segnalava l’inizio del cammino processionale. Mia madre ogni anno mi comprava un cappellino, una sciarpa e un paio di guanti nuovi, dal colore giallo canarino, per proteggere dal freddo, che a dicembre è sempre molto pungente, la testa, il collo e le mani.

Quest’anno, durante il viaggio di ritorno a Mistretta proprio per partecipare alla festività dell’Immacolata Concezione, lungo la statale 117 che collega Nicosia a Mistretta e, in particolare, nei pressi della Sella del Contrasto, una piccola piantina, appena sollevata dal terreno, dal colore violetto, mossa da un alito di vento di tramontana, ha attirato la mia attenzione. Era l’unica nota di colore perché la vegetazione a 1120 metri di altitudine nel mese di dicembre è dormiente. Avvicinandomi ancora di più al paese, in un campo incolto c’erano talmente tante piantine di colore viole come se fossero state seminate di proposito. La mia macchina fotografica, sempre pronta a compiere il suo dovere, le ha fotografate.

Sono i fiori di Iris pseudopumila.

L’Iris è un fiore meraviglioso appartenente alla famiglia delle Iridacee.

Il genere Iris raccoglie circa 200 specie di piante il cui fiore in Italia è comunemente conosciuto col nome di “Giaggiolo”.

Il nome del genere “Iris” deriva da greco “ίρις” “iride, arcobaleno” per i colori iridescenti dei suoi fiori.Secondo la mitologia greca l’arcobaleno, che congiunge il cielo alla terra, era personificato da Iris,  la dea velocissima messaggera degli ordini celesti. Quando nel cielo appariva l’arcobaleno significava che Iride, con le vesti svolazzanti, dalle evanescenti sfumature luminose dell’arcobaleno, era scesa sulla terra per annunciare agli uomini i messaggi da parte degli Dei che abitavano sul monte Olimpo. Secondo alcune interpretazioni l’arcobaleno era tracciato dal cammino di Iris. Il fiore, che per la varietà dei suoi colori ricorda l’arcobaleno, è chiamato appunto Iris.

Poiché Iris accompagnava le anime delle donne defunte ai Campi Elisi, i greci deponevano il fiore di Irisdal colore viola  sulle tombe delle loro famigliari.

Il nome “pseudopumila” della specie deriva dal latino “pseudo” “falso” e “pumilus” “nano” per la sua piccola altezza.

Sinonimi sono: Iris pupila, Iris panormitana, Iris lutescens.

L’Iris pseudopumila è una piccola pianta erbacea alta 12-20 cm, perenne, rizomatosa. Dal rizoma sotterraneo emergono le foglie disposte a V, sempreverdi, lunghe fino a 20 cm.  Sono numerose, larghe, piatte, lanceolate, glauche, glabre, a lamina con margine intero e con venature parallele. I fiori, singoli, dal profumo dolce e delicato, sono di colore violetto, ma possono essere di diversi colori. Talvolta sono interamente violetti, oppure gialli, più raramente gialli con lacinie bordate di violetto o, viceversa, violetti con lacinie bordate di giallo, bianchi o crema. Esemplari di differenti fenotipi si trovano assieme in popolazioni naturali. Il fiore di Iris è formato da tre segmenti esterni larghi, vistosi detti “cascate”, perché si curvano verso l’esterno, e tre segmenti interni, più piccoli ed eretti, chiamati “stendardi”. La fioritura avviene da dicembre ad aprile. I fiori conferiscono all’ambiente in cui prosperano l’aspetto di un giardino naturale d’impareggiabile bellezza. L’ovario è infero. Gli stami sono tre. L’impollinazione avviene mediante l’aiuto degli insetti. Dopo la fecondazione, i tepali avvizziscono e cadono mentre l’ovario si sviluppa in una cilindrica capsula di frutti contenente molti semi neri e rugosi che si liberano quando la capsula si rompe. La moltiplicazione avviene, oltre che per seme, anche per suddivisione dei rizomi che contengono le scorte nutritive per la nuova pianta.

Iris pseudopumila

L’Iris pseudopumila è una specie molto resistente ed endemica della Sicilia e della Puglia. A Malta è presente la varietà di Iris pseudopumila a fiore giallo ed è una specie protetta per il pericolo di estinzione. In Sicilia si trova sui monti Nebrodi, sui monti attorno a Palermo e in alcuni tratti della costa trapanese. La sua presenza è più rara nella Sicilia sud-orientale e sull’Etna. In Puglia si trova sulle Murge e sul Gargano. I suoi habitat preferiti sono: i boschi, i pascoli,  le garighe, le zone aperte della macchia mediterranea comprese da 100 a 1400 metri di altitudine.

 Gli Iris, a causa della straordinaria bellezza dei fiori, per il loro aspetto leggero ed elegante, sono comunemente utilizzati per abbellire giardini, aiuole e anche terrazze visto che possono essere facilmente coltivati nel vaso. Distribuiti in piccoli gruppi sparsi, donano al verde del giardino uno speciale effetto esotico a macchia di colore. Oppure possono interessare ampi spazi come sono rappresentati nei bei paesaggi dei quadri di Monet e di Van Gogh.

Coltivare il fiore di Iris non è difficile. Bastano alcuni semplici accorgimenti per avere degli Iris lussureggianti. Molto importanti sono: l’umidità, la capacità drenante del terreno, per permettere al bulbo di crescere, e una buona esposizione al sole. I rizomi vanno messi a dimora a partire dal mese di luglio e ricoperti da un sottilissimo velo di terra. Se troppo interrati, infatti, rischiano di marcire e impediscono la fioritura. Bisogna evitare i pericolosi ristagni d’acqua che sono la prima causa della comparsa della muffa. Purtroppo gli Iris non sanno difendersi dall’attacco di diversi nemici. Le femmine del dittero Eumerus strigatus depongono le uova alla base delle piante. Le larve, penetrando all’interno dei rizomi, li divorano danneggiandoli gravemente. Il nematode Ditylenchus dipsaci causa alterazioni dello sviluppo per cui la pianta rimane nana, lo stelo si contorce, la pagina fogliare si raggrinzisce e va in necrosi. La presenza del fungo Sclerotinia gladioli provoca macchie scure sulle foglie con alterazioni più o meno gravi sulla parte ipogea di tutta la pianta. L’attacco dei funghi del genere Penicillium provoca il marciume dei rizomi. Le foglie colpite dalla ruggine Puccinia iridis mostrano macchie giallastre che, nel tempo, assumono una colorazione rosso-brunastra e si polverizzano. Le foglie, attaccate dopo la fioritura dall’Heterosporium gracile, mostrano macchie bruno-giallastre che, disseccando, provocano dei fori sul lembo fogliare. Le foglie e i rizomi attaccati dal Bacterium carotovorum vengono rapidamente ridotti ad una poltiglia maleodorante.

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Molti racconti e leggende sono legati al fiore di Iris divenuto anche un nome femminile piuttosto diffuso. Si narra che l’Iris sia originario della Siria e che il faraone Thutmosis, particolarmente colpito dalla bellezza di questo fiore,   ne portò molte specie in Egitto.

Un’altra leggenda racconta che Luigi VII di Francia (1120-1180), mentre tornava vittorioso da una battaglia, passò accanto ad un campo di Iris che ammirò molto. Scelse questo fiore come simbolo del Regno di Francia e per lungo tempo è stato considerato l’orchidea dei poveri per la sua notevole bellezza.

Sullo stemma della città di Firenze c’è il Giglio Fiorentino che è una varietà di Iris. Per i giapponesi l’Iris, insieme alla Peonia e al Crisantemo,  è un fiore che rappresenta la nazione.

In Giappone l’Iris é rimasto uno degli emblemi nazionali e rappresenta le gesta eroiche della nobiltà.

 L’iris è anche il fiore dei poeti e dei pittori. Una leggenda toscana narra che Iride era una bellissima donna fiorentina di cui si era perdutamente innamorato un pittore. Lei promise che lo avrebbe sposato se lui avesse dipinto un fiore così naturale da essere capace di attrarre una farfalla sopra il suo dipinto. Il pittore dipinse un fiore così bello che, non solo la farfalla si posò sopra di esso, ma il dipinto divenne vero e il fiore fu chiamato Iris.

L’iris è entrato a far parte delle piante officinali come efficace rimedio contro alcune patologie. Nell’antichità, gli Egiziani, i Greci, i Romani gli si attribuirono proprietà misteriose quali: alleviare e calmare la collera e l’isteria, ridurre l’agonia della gente spinta al suicidio, annullare gli effetti delle punture degli animali velenosi. Nella fitoterapia cinese, l’Iris era impiegato come antinfiammatorio, antibatterico, antivirale e antifungino. Il popolo Navajo, nativo dell’ America settentrionale, preparava il decotto di Iris ad uso emetico. I rizomi secchi erano utilizzati in infusione come antidolorifico contro il mal di denti e, ridotti in polvere, come antisettico in caso di ferite. Il popolo hawaiano dalle foglie e dai fiori ricavava il colorante blu per i tatuaggi; la poltiglia delle foglie macerate con sale, zucchero e spezie serviva per pulire e curare la pelle. In India l’Iris era assunto come diuretico, antielmintico, e rientrava in un preparato vegetale per il trattamento delle malattie veneree. I rizomi essiccati, masticati aiutavano i bambini nel periodo della dentizione. Il rizoma è ricco di tannino e la sua polvere provoca lo starnuto. Assunta in piccole dosi la sua radice fresca è stimolante, espettorante e diuretica, in forti dosi è causa di diarrea. Come rimedio naturale l’Iris può essere utile contro l’emicrania. Blocca il dolore alle tempie e dona una sensazione di sollievo attorno agli occhi dove generalmente il dolore si concentra. L’estratto di Iris è efficace anche per i problemi di digestione spegnendo i bruciori di stomaco e rilassando le pareti addominali colpite dall’infiammazione. Durante il Rinascimento le radici di Iris, introdotte in una corda, profumavano l’acqua bollente per lavare la biancheria. Con il rizoma essiccato e polverizzato si trattavano le parrucche indossate dall’aristocrazia francese e inglese. In Italia, nell’800, si stimolò la produzione della radice perché essiccata poteva soddisfare la richiesta di profumo proveniente dal settore nazionale e straniero. Infatti, per le proprietà aromatiche, officinali, coloranti i fiori e i rizomi di alcune varietà di Iris trovano impiego in profumeria, in cosmetica in farmacia sotto forma di ciprie, creme e lozioni. Dai rizomi essiccati, chiamati ireos, siottiene una polvere che contiene l’irone, una sostanza chimica dal caratteristico profumo di viola mammola con la quale si fabbricano profumi, deodoranti, dentifrici. In cucina il rizoma è usato come correttore del sapore di bevande, per profumare il vino Chianti, che acquista una gradevole fragranza di viola, per mantenere l’aroma della birra nei barili in Germania e il bouquet del vino nelle botti in Francia. Alla polvere dei rizomi sono state attribuite anche proprietà afrodisiache.

 Nel linguaggio dei fiori Iris significa “buona novella” in riferimento ad Iris, la messaggera degli dei. In generale è simbolo di buon augurio e di fedeltá. Disponibile in tantissime varietà, come i colori dell’arcobaleno, l’Iris assume diversi significati. Il colore giallo indica lamore appassionato, il colore bianco rappresenta la purezza. L’Iris blu rimanda alla fede e alla speranza, l’
 viola é l’emblema della saggezza e della sapienza, qualità acquisite durante gli anni di studio. Proprio per questo significato un bouquet di fiori di Iris è donato al neolaureato. Anche nell’Asia orientale l’Iris era considerato il fiore dal significato importante: era utilizzato come talismano efficace contro le forze oscure del male. Fu dipinto sulle armature degli eserciti in guerra per proteggere i militari dai nemici e dalla morte. L’iris trasmette più eloquentemente sentimenti profondi e positivi: l’assoluta fiducia, l’affetto dell’amicizia, il trionfo della verità, la promessa della speranza, l’ultima a fuoriuscire dal vaso scoperchiato da Pandora dopo che tutti i mali si riversarono nel mondo come narra la mitologia greca.

Secondo alcune interpretazioni, il numero tre ricorrente nell’Iris, i petali in posizione verticale e i petali rivoltati verso il basso, rimanda a quello della Trinità. Per questo motivo l’iconografia cristiana ha assunto questo fiore come simbolo di fede, di coraggio e di saggezza. Il fiore di Iris, ritto e proteso verso il cielo, era ritenuto anche simbolo di longevità. Dai cinesi l’Iris è denominato “farfalla porpora” per i vistosi petali posti a ventaglio e svolazzanti sotto il soffio della brezza.

 Nel linguaggio floreale regalare un mazzo di fiori di Iris significa esprimere simpatia, ammirazione, conforto, incoraggiamento nell’affrontare la vita e il futuro.

L’osservazione di questo splendido fiore provoca, comunque, rilassamento e benessere.

Feb 14, 2015 - Senza categoria    Comments Off on RESEDA ALBA

RESEDA ALBA

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A Licata la primavera giunge molto presto e non aspetta l’arrivo del mese di marzo. Le belle giornate nei mesi di gennaio e di febbraio incoraggiano ad uscite fuori porta. Durante la mia consueta passeggiata, nel tratto di strada che conduce alla baia di Mollarella, comunemente chiamato “La panoramica” per la meravigliosa osservazione del paesaggio collinare e marino, illuminata da uno splendente raggio di sole, ho notato una piccola pianta chiara, quasi trasparente. Se ne stava abbracciata al muro di cinta del bed and breakfast “VILLA SORRISO” in C.da Montesole. Grandi sono: la curiosità nel conoscere meglio la pianta e l’aspirazione di farla conoscere agli amici lettori.

E’ la Reseda alba.

Etimologicamente il nome del genere Reseda deriva dal latino “resedare” “calmare” per le proprietà medicinali attribuite a questa pianta. Il nome della specie “alba” vuol dire “bianca“,  per il colore dei fiori. Altri sinonimi sono: Reseda bianca, Reseda suffruticosa, Erba ruchetta, White mignonette. In Inghilterra è chiamata White Upright Mignonette e negli USA White Upright Mignonette.

La Reseda alba appartiene ad un genere di piante della famiglia delle Resedaceae originarie dell’Africa Settentrionale, dell’Europa e dell’Asia occidentale. Come elemento corologico specificatamente la Reseda alba è un’entità stenomediterranea in senso stretto con areale limitato alle coste mediterranee. E’ presente in tutte le regioni dell’Italia, isole comprese.

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La Reseda alba è una pianta erbacea glauca, annuale o perennante per mezzo di gemme poste a livello del terreno, alta da 30 a 50 cm. Possiede la radice a fittone e il fusto, di colore verde glauco, eretto, semplice o ramoso, glabro nella parte superiore. Le foglie, glabre, picciolate, alterne, pennatosette ondulate e profondamente incise, lunghe fino a 15 cm, sono disposte a formare una rosetta alla base del fusto. In inverno le foglie scompaiono. L’infiorescenza a racemo denso e molto allungato, da 20 a30 cm,  porta fiori profumati e poco appariscenti. La corolla è formata da 5 petali di color bianco divisi nella metà apicale in tre lacinie lineari. Gli stami si contano da 10 a 14. Fiorisce all’inizio della primavera, da gennaio a marzo. Il frutto è una capsula tetragona, globosa, eretta, lunga circa 5 mm, ristretta all’apice, divisa in 3 o più lobi appuntiti, contenente numerosi semi reniformi scuri, lisci e opachi.

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Gli habitat preferiti della Reseda alba sono: i muri, i ghiaini, le pietraie, i bordi di strade, le zone ruderali, i terreni incolti, aridi e sabbiosi, ma anche i luoghi freschi. Cresce bene da 0 a1300 metri di altitudine.  Per la sua bellezza è una pianta che si può coltivare in qualsiasi giardino pubblico o privato e in qualunque periodo dell’anno osservando alcuni indispensabili accorgimenti. Non teme il freddo, gradisce l’esposizione al sole per alcune ore al giorno. In autunno, poiché la pianta perde il suo vigore, è necessario estirparla dal terreno.  Le annaffiature devono essere moderate e non eccessive lasciando sempre che tra un’annaffiatura e l’altra il terreno rimanga asciutto per almeno un paio di giorni. Prima di porre a dimora la pianta annuale è necessario arricchire il substrato con una piccola dose di concime organico o chimico. Se, durante la primavera, si somministra un concime specifico per piante da fiore mescolato all’acqua delle annaffiature la pianta regalerà una spettacolare e abbondante fioritura. Con l’innalzarsi delle temperature diurne, all’inizio della primavera è bene praticare un trattamento preventivo utilizzando un insetticida ad ampio spettro. Prima che le gemme ingrossino troppo è consigliabile praticare anche un trattamento fungicida ad ampio spettro per prevenire la comparsa di malattie fungine favorite dall’elevata umidità ambientale.

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 La farmacopea tradizionale attribuisce alla Reseda alba proprietà calmanti, sudorifere, diuretiche, antireumatiche e anticatarrali per la presenza di sostanze estratte dalle sommità fiorifere essiccate.

Curiosità: Nel mondo antico l’uso delle erbe era comunemente associato a riti magici e propiziatori. Plinio racconta che la Reseda alba anticamente curava le infiammazioni ma, affinché il malato potesse trarre giovamento dalla cura, doveva sputare a terra per tre volte recitando l’orazione: “Reseda, allevia questi mali. Tu sai, tu sai quale uccello ha strappato queste radici. Fa che non abbiano né testa né piedi”.

Feb 9, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA NEVE A MISTRETTA UNO SPETTACOLO!

LA NEVE A MISTRETTA UNO SPETTACOLO!


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A Mistretta, al mio paese, dove gli inverni sono lunghi e rigidi e le estati brevi e non molto calde, la neve è un fenomeno che si manifesta quasi ogni anno. Dico quasi perché la temperatura, a causa dei cambiamenti climatici, rispetto a cinquanta anni fa si è innalzata anche in alta montagna. La neve, a Mistretta e nelle montagne circostanti, in genere, fa la sua apparizione nel mese di febbraio.
Quest’anno 2017 si è presentata il giorno dell’Epifania.

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Durante la stagione invernale essa è attesa, anche se temuta per i disagi che arreca soprattutto alla circolazione stradale.

La neve cancella i confini, modifica l’aspetto delle case che sembra che si avvicinino l’una all’altra, copre le montagne, riveste come un manto gli alberi.

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Mistretta, sotto la neve, cambia la sua fisionomia assumendo l’aria di un tranquillo e silenzioso paese.

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E’ bella la neve, quando viene giù a fiocchi fitti e larghi, come i fiori di gelsomino.
Se si potesse osservare al microscopio un cristallo di neve, si ammirerebbero, in tutta la loro bellezza, le sue forme stellari, romboidali, prismatiche, aghiformi.
Le diverse forme dipendono dalla struttura molecolare con la quale le singole molecole d’acqua si legano fra loro al momento del congelamento con legami ad idrogeno.
Queste bellissime forme sono il risultato di complesse sequenze di evaporazione, di condensazione e di deposizione che avvengono nel microambiente attorno a ciascun cristallo. Di solito, la neve non cade in cristalli singoli, ma in fiocchi.
I fiocchi più grandi, composti da centinaia di cristalli singoli, si formano tra 0 e 2°C. Se la temperatura sale anche di qualche grado, i fiocchi di neve si sciolgono, lo spettacolo finisce, viene giù la pioggia.

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 La neve è bella perchè è bianca. E’ bianca perchè riflette la luce del sole grazie alle infinite sfaccettature di ghiaccio che si comportano come dei minuscoli specchi. Il colore bianco della neve dona una sensazione di pulizia e di candore a tutto l’ambiente.
In una giornata di sole e con il cielo azzurro essa assume tutti i colori, dal bianco al blu. Al tramonto si riveste di bellissime sfumature calde.
E’ un evento meraviglioso scoprire la neve quando la mattina si apre la finestra e si osserva il paesaggio imbiancato.
La neve non si fa sentire, viene giù silenziosa, non fa rumore!

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 E richiama alla mente lontani ricordi!

Feb 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on PENNISETUM SETACEUM

PENNISETUM SETACEUM

 

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La pianta di  Pennisetum setaceum è una delle tante cose belle che Madre Natura ci regala.

E’ bella per il suo aspetto sericeo, è bella per il suo movimento dolce e flessuoso sotto la debole forza del vento, è bella per il colore delle infiorescenze quando sono mature.

E’ facile incontrare la pianta di Pennisetum setaceum perché ama farsi ammirare lungo i bordi delle strade, in particolare quelle adiacenti ai centri urbani, e perché arricchisce i terreni incolti e gli spazi aperti.

La strada statale, quella che congiunge Gela ad Agrigento, dove io l’ho fotografata a circa un Km dopo il bivio per Licata, nel mese di novembre era popolata per tutta la sua lunghezza da questa meravigliosa pianta. Il Pennisetum setaceumpossiede altri sinonimi: Penniseto allungatoPennisetum ruppellii,  Verde Erba Fontana per l’aspetto del ciuffo che ricorda gli spruzzi d’acqua di una fontana.

Il nome del genere deriva dal latino “penna” “penna, piuma”  per l’aspetto piumoso delle infiorescenze.

Il nome della specie “setaceum” si riferisce all’aspetto setato.

Il Pennisetum setaceum  è una pianta erbacea perenne, semirustica, a portamento eretto, appartenente alla famiglia delle Poaceae. L’apparato vegetativo è costituito da culmi ascendenti, rigidi, sottili, alti 50 -100 cm. Una porzione meristematica, in corrispondenza del nodo, conferisce al culmo la capacità di raddrizzarsi nel caso in cui venga piegato. Fitti ciuffi di foglie, che si dipartono dal suolo, gli conferiscono un aspetto cespuglioso. Le foglie, verdi, strette, raccolte a ciuffi, ruvide e lineari, constano di una guaina che avvolge il culmo e di un lembo che si stacca nettamente dalla guaina in corrispondenza di una piccola struttura membranosa detta ligula. Fiorisce tra maggio e giugno. I fiori sono raccolti in infiorescenze a pannocchie compatte e piumose, sericee, di colore giallo-verde, spesso soffuse di porpora, che gradatamente schiariscono con la maturazione, lunghe fino a 30 cm.

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Nel fiore si osservano i resti del perianzio, rappresentati da 2 – 3 lodicule, di consistenza membranosa, cui segue l’androceo formato solitamente da 3 stami. Il gineceo, costituito da 2 – 3 carpelli, uniloculare, contiene un solo ovulo ed è sovrastato da 2- 3 stimmi piumosi. Il frutto è una cariosside contenente un seme con endosperma ricco di amido. Ciascuna spiga è in grado di produrre anche 100 semi che restano vitali nel suolo per un periodo di tempo superiore anche a 6 anni. Esperimenti di laboratorio hanno tuttavia evidenziato come dopo 18 mesi la loro germinabilità passi dall’80% al 44%. La produzione di seme è precoce e regolare. Ciascuna pianta è sessualmente matura entro i primi due anni di vita e produce semi ogni anno. Anche se la fioritura è prevalentemente estiva, in Sicilia la specie può riprodursi quasi di continuo durante tutto l’anno, prevalentemente tra marzo e settembre. Sfrutta rapidamente ogni condizione favorevole mostrando un’attività riproduttiva quasi continua producendo una gran quantità di semi con un’elevata germinabilità essendo in grado di germinare entro 3-5 giorni in condizioni di umidità e di temperatura ottimali. Studi approfonditi hanno dimostrato che la specie aumenta la propria attività fotosintetica, il proprio accrescimento e la produzione di seme in presenza delle piogge estive, cioè durante il periodo più caldo dell’anno. Condizioni climatiche sfavorevoli alla germinazione non riducono la quantità di seme presente nel terreno né la capacità della specie di affermarsi e diffondersi in seguito. Tuttavia, nelle zone più fredde in inverno i semi muoiono. L’impollinazione anemofila e la disseminazione anemocora in genere sono affidate al vento. La propagazione dei semi, dispersi a grande distanza, è affidata, inoltre, anche all’intervento antropico, all’acqua, al bestiame, agli uccelli e, soprattutto, ai veicoli, automezzi su gomma, cingolati, aerei, come è avvenuto certamente nella nostra regione.

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 Il Pennisetum setaceum è una pianta capace di accrescimenti molto rapidi potendo vivere sino a 20 anni di età. E’ una pianta delicata, che supera l’inverno solo nelle regioni con clima più favorevole dove spesso si riproduce spontaneamente inselvatichendosi e diventando leggermente invasiva. Dalla sua area d’origine il Pennisetum setaceum  è stato introdotto dall’uomo in molte altre aree geografiche come pianta ornamentale. In seguito alla sua diffusione oggi è una specie termocosmopolita.

Il Pennisetum setaceum, originario delle zone dell’Africa del Nord, della penisola arabica, del Medio Oriente,  si è diffuso in Arizona, in California, in Florida, nelle Fiji, nel Sud dell’Africa, in Indonesia, in Australia, nelle Hawaii, dove la specie è stata introdotta intorno al 1917 e dove si è affermata rapidamente naturalizzandosi già dal 1926. Ha contribuito in modo decisivo all’alterazione e alla grave compromissione delle foreste tropicali asciutte con l’aumento del rischio e dell’intensità degli incendi. Oggi il Pennisetum setaceum occupa nelle isole Hawaii un ampio range altimetrico crescendo dal livello del mare sino a 2800 d’altitudine.

In Europa è presente nella Spagna meridionale e nelle isole Baleari, nella Francia meridionale e in Italia, soprattutto in Sicilia e in Sardegna dove il clima è più favorevoleprediligendo ilrange da 0 a500 metri di altitudine nelle esposizioni calde.

La prima stazione di Pennisetum setaceum  in Italia è stata segnalata nel 1954 nei dintorni di Bordighera, in provincia di Imperia, dove sembra definitivamente scomparso.

Il Pennisetum setaceum è stato accolto nell’Orto botanico dell’Università di Palermo per essere sperimentato come pianta da foraggio diffondendosi ben presto negli ambienti litoranei del palermitano ove ha trovato condizioni di vita ideali. Il primo riferimento bibliografico relativo alla presenza di Pennisetum setaceum in Sicilia è stato redatto nel 1939 dal prof. Bruno, uno dei promotori e dei fondatori della Facoltà di Agraria di Palermo, che così afferma: “Nella primavera del 1938 mi procurai dei semi di Pennisetum ruppellii Steud. che feci seminare il 2 aprile […] Nell’aprile del 1939 ne feci eseguire un’estesa piantagione nel R. Giardino Coloniale di Palermo…”.

Si può sostenere che questa data segna l’inizio della presenza del Pennisetum setaceum nel territorio della regione Sicilia. Il Giardino Coloniale di Palermo fu affiancato all’Orto Botanico nel 1913 e, successivamente, fu soppresso, ma la parcella di Pennisetum setaceum fu mantenuta almeno fino al 1965. La pianta fu introdotta dall’Abissinia, allora colonia italiana, per l’utilizzo come possibile erba da foraggio.

In seguito, avendo riscontrato un basso valore nutritivo e una scarsa appetibilità per il bestiame, fu invece ritenuta un’interessante pianta ornamentale per via della “splendida fioritura“, motivo per il quale se ne mantenne una parcella all’interno del Giardino Coloniale, che è da ritenersi il centro di diffusione della specie, almeno per quanto riguarda il territorio di Palermo e della sua provincia. Da lì è iniziato un rapido processo di naturalizzazione e di invasione che sembra interessare un territorio sempre più vasto della Sicilia. La sua presenza in aree molto distanti tra loro fa ipotizzare che il Pennisetum setaceum abbia manifestato il proprio carattere di specie invasiva negli anni ‘ 80 del secolo scorso. Da quel momento in poi sembra essere iniziato, e ancora non può dirsi certamente terminato, il rapido processo di espansione della specie sul territorio regionale, soprattutto lungo la costa tirrenica, dove maggiore è l’impatto antropico sulle coste, ed in ambienti marcatamente caldo-aridi.

La notevole diffusione del Pennisetum setaceum è da attribuirsi alla sua capacità di adattarsi, fisiologicamente e morfologicamente, a diversi ambienti. Dopo un breve periodo di sospensione, questa pianta paleotropicale ha cominciato a diffondersi sempre più rapidamente in Sicilia. A distanza di circa 50 anni dal suo primo insediamento si è talmente naturalizzata da costituire una grave minaccia per gli equilibri fitocenotici dell’area colonizzando habitat di solito occupati dall’Ampelodesmos mauritanicus con cui condivide le esigenze climatiche e nutritive. In alcuni casi è divenuto l’elemento dominante della composizione floristica della biocenosi nota come Penniseto setacei-Hyparrhenietum hirtae.

Nei giorni nostri l’adozione di scelte d’intervento assume carattere d’urgenza per via del pesante impatto che la specie ha sulle comunità preforestali, macchie degradate e garighe, sulle praterie perenni e annue, sugli ecosistemi costieri, sulla macchia litoranea.

Il Pennisetum setaceum predilige, infatti, ambienti sinantropici e suburbani come cave dismesse, marciapiedi, linee ferroviarie, margini delle strade spingendosi in contesti seminaturali sub-rupestri, su substrati detritici o con roccia affiorante, sulle colate laviche dell’Etna, adattandosi a fattori di disturbo quali gli incendi intensi e frequenti, i pascoli abituali e la sempre più intensa antropizzazione. Proprio la notevole resistenza ai fattori di stress e di disturbo, come gli incendi, associata alla capacità di avvantaggiarsi rapidamente delle condizioni ottimali, è considerata una delle caratteristiche che contribuisce a rendere la specie altamente invasiva in diverse aree del mondo interferendo con la rigenerazione delle specie vegetali autoctone.

Il Pennisetum setaceum  è elencato tra le “diffuse piante infestanti più invasive“. Anche la lunga vitalità dei semi, che possono rimanere attivi nel terreno per molti anni, rende molto facile la sua diffusione e altrettanto molto difficile il controllo e l’estirpazione della specie con l’aiuto di erbicidi. Metodi meccanici, combinati a tecniche chimiche, possono essere più efficaci di ciascun sistema applicato singolarmente.

Erba Fontana è un’erba ornamentale decorativa e resistente. Non ha bisogno praticamente di nessuna cura una volta che ha scelto il suo habitat preferito su terreni alcalini e ben drenati. Ben tollera l’elevata umidità, il vento, la siccità, le alte temperature, teme le basse temperature che non devono scendere mai al di sotto di O°C. Gradisce una buona esposizione al  sole,  anche se tollera una parziale ombra. In genere è una specie libera da parassiti portatori di malattie e da nemici naturali. Se si riesce a controllare il fenomeno della sua invasività, la pianta può essere coltivata nei giardini pubblici e nelle ville private a scopo ornamentale.  Nel mese di aprile si dividono i cespi delle piante perenni e si ripiantano immediatamente. Le specie coltivate come piante annuali nei mesi di marzo-aprile si possono seminare in vasi o terrine riempiti con una composta per semi alla temperatura di 15-17°C. Le piantine si ripicchettano in cassette e si mettono a dimora in maggio. Sebbene il Pennisetum setaceum può essere coltivato da seme ogni anno, tuttavia nuove piantine possono essere acquistate nei vivai ogni primavera per piantarle nel giardino.

Durante la stagione invernale la pianta assume il colore marrone; comincia ad appassire diventando estremamente infiammabile. Presenze consistenti di cespugli di Pennisetum setaceum, costituiti da materiale facilmente infiammabile che aumenta l’intensità e la velocità di propagazione del fuoco, sono causa di pericolosi incendi che possono influenzare negativamente gli alberi resinosi ad alto fusto, gli uccelli che nidificano, gli animali selvatici terrestri in caso di propagazione del fuoco.

L’adattamento di questa graminacea al passaggio del fuoco è singolare. Per conto suo presenta una grande capacità di riaffermarsi dopo il passaggio del fuoco perché riprende la sua vitalità in pochissimo tempo.

Il signor Ciccio, il mio giardiniere, molto cocciutamente, brucia i cestini dei culmi dell’Ampelodesmos per liberare il terreno dalla sua presenza. Non sono riuscita a fargli capire che il suo lavoro è inutile. Poco tempo dopo la pianta è più vigorosa di prima. Gli dico che bisogna estirpare la pianta dalle radici! Occorrono: più fatica e più tempo.

Nel mio terreno spesso i pastori portano i loro greggi a pascolare. Tuttavia, le pecorelle al pascolo lasciano indisturbati i ciuffi di Ampelodesmos che si moltiplicano sempre di più nel mio giardino roccioso. In compenso hanno tranciato la cima dell’Araucaria. Il Pennisetum setaceum fortunatamente non è presente nel mio terreno. Essendo un foraggio poco nutritivo, gli animali da pascolo evitano di nutrirsi con l’Erba Fontana mangiandola solo quando non sono disponibili altre erbe più appetibili.

Un merito va riconosciuto al Pennisetum setaceum: le infiorescenze, tagliate e fatte seccare, capovolte in un ambiente aerato, asciutto e poco illuminato, diventano bellissime composizioni di fiori secchi.

 

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