Sep 8, 2016 - Senza categoria    Comments Off on OMAGGIO AL POETA DIALETTALE MISTRETTESE VINCENZO RAMPULLA

OMAGGIO AL POETA DIALETTALE MISTRETTESE VINCENZO RAMPULLA

L’Associazione Kermesse d’Arte,  in occasione del secondo incontro Trittico amastratino VIII edizione secondo incontro 2016, tenutosi il 3 settembre nell’aula magna dell’Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa” di Mistretta, ha ricordato la figura del signor Vincenzo Rampulla,  poeta popolare, organizzando un convegno al quale ha partecipato un congruo numero di persone.

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Vincenzo Rampulla, un arzillo giovane di 85 anni,  ha stimolato la sua vena poetica creando i versi lavorando in campagna, o accudendo i suoi animali, o nei momenti di riposo . Ama le sue poesie, che conserva ancora nella sua fervida memoria  e che recitata oralmente.

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Ha condotto l’evento il signor Dino Porrazzo, presidente dell’Associazione Kermesse d’Arte.

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Da sx: Dino Porrazzo- Vincenzo Rampulla- Sebastiano Lo Iacono

L’avv. Sebastiano Insinga ha magistralmente letto la poesia che Vincenzo Rampulla ha dedicato all’amico Enzo Romano:

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CERCAVA PAROLE ANTICHE
A Mistretta c’è nun puosto vacante,
picchì nni manca n’amico importante,
n’amico mistrittise, paisano,
ca ogn’aranno vinia ri luntano,
e u so nuomo era Enzo Romano.
Ora sta seggia cu l’av’accupare,
ca bravo cuomo a riddo nu cci nnere?
Sempre girava curtigghie e vanedde,
ca ia circanno tante vicchiariedde.
Era bravo e intelligente,
circava ddi parole anticamente,
facia tante dumanne a ddi mischine,
e gnuorno s’attruvao i libbra chine,
parole chi circava nte paise,
regalo chi lassao e mistrittisi.
Enzo, ora stu smascio a tia ti passao,
arripuose n Parariso assieme a Dio.
U Parariso è a metà ri via,
i mistrittisi sempre pinsamo a tia.
U Parariso è luntano assae,
i mistrittisi nu ti scurdamu mae.

Ha ampiamente relazionato il prof. Sebastiano Lo Iacono di cui  leggiamo piacevolmente e integralmente la sua relazione: “Guido Massino su Franz Kafka scrive così: «…nell’epoca contemporanea il luogo della poesia è soltanto “l’heimat-losig-keit”, l’“assenza di patria”»: l’essere senza casa, senza tetto, senza patria; il poeta è colui che non ha patria, perché la patria non lo riconosce come tale; è la stessa cosa del non essere profeta in patria, come si legge nel Vangelo diMatteo (13, 57), dove sta così scritto: «Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profetanon è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua».

Un poeta non ha patria, inoltre, perché la sua patria è la lingua.

Ecco: questo è il luogo, il topos, della poesia di Vincenzo Rampulla; questa è la sua casa, la sua lingua e la sua patria: questo incontro di oggi, voluto dalla volontà tenace di Dino Porrazzo, è una conferma: un poeta può e deve essere apprezzato nella sua patria.

La vera patria di Rampulla è la sua lingua, il nostro dialetto, come furono e sono stati patria e lingua il dialetto e la lingua-dialetto di e per Enzo Romano.

Vi devo parlare di questa lingua per parlare della poesia di Rampulla, poeta popolare per eccellenza.

Ma, ancora prima di parlare della poesia di Rampulla, occorre dire qualcosa sulla poesia popolare. Che cosa è la poesia popolare? Rimando a un mio saggio introduttivo, nel libro “Ideologia e realtà della letteratura popolare di Mistretta”, un libro del sottoscritto, rimasto ignorato e misconosciuto, scritto nel 1989. Rimasto, appunto, senza patria.

La poesia popolare è tale perché ha un luogo:

“…un luogo non è solo un luogo, ma le parole e gli eventi che lo abitano…”.

Il luogo della poesia di Rampulla è Mistretta, come è Mistretta il luogo della narrativa di Mariangela Biffarella, e come lo è stato per i racconti di Enzo Romano o come è per le poesie di Lucio Vranca, e come lo fu per Vito Siribuono, Carmelo La Porta, Basilio Filetto, Vincenzo Seminara, Lillo Di Salvo, Francesco (Ciccio) Ribaudo; va citata anche Graziella Di Salvo Barbera proprio per la sua raccolta intitolata “I paroli râ me casciaforti”, come altresì vanno ricordati Gaetano Spinnato, Salvatore Insinga e altri poeti popolari di Mistretta, citati, commentati e analizzati in quel mio libro del 1989, nonché menzionati da Giuseppe Cocchiara, nel suo libro “Popolo e canti nella Sicilia di oggi”. Girando Valdemone, suo primo studio del 1923, a cominciare proprio da Siribuono.

 “…[nel] luogo natale: nella relazione che con esso il poeta intrattiene -relazione di memoria, di ritmo, di angoscia – si può scorgere come di fatto sia messo in scena un altro legame, che è essenza e definizione e sapere della poesia: il legame con il “parlar materno…”

La poesia di Rampulla mette in scena il nostro parlare materno: il suo luogo natale.

“La poesia è forse l’ininterrotto esercizio, e conflitto, per non oscurare questa lingua materna, e reinventarla, ogni volta, persino nella disseminazione e nella babele del senso e del suono. Poiché alla terra materna il poeta può tornare soltanto con la lingua…”

“…per uno scrittore, per un poeta, è la lingua la sola patria”.

“La lingua è il familiare nello straniero, il proprio nell’esperienza di espropriazione e di perdita”.

Senza lingua-dialetto siamo tutti perduti.

“Questo nostro povero paese”, scriveva Leonardo SCIASCIA, ne “Il contesto”, è tale perché è senza lingua.

Rileggiamo brevemente LINGUA E DIALETTU, di Ignazio Buttitt:a

“Un populu mittitilu a catina spughiatilu attuppatici a vucca è ancora libiru. Livatici u travagghiu u passaportu a tavula unnu mancia u lettu unnu dormi, è ancora riccu. Un populo diventa poviru e servu quannu ci arrubbano a lingua addutata di patri: è persu pi sempri. Diventa poviru e servu quannu i paroli non figghianu paroli e si mancianu tra d’iddi. Mi n’addugnu ora, mentri accordu la chitarra du dialetto ca perdi na corda lu jornu. Mentre arripezzu a tila camuluta ca tissiru i nostri avi cu lana di pecuri siciliani. E sugnu poviru: haiu i dinari e non li pozzu spènniri; i giuielli e non li pozzu rigalari; u cantu nta gaggia cu l’ali tagghiati. Un poviru c’addatta nte minni strippi da matri putativa chi u chiama figghiu pi nciuria. Nuatri l’avevamu a matri, nni l’arrubbaru; aveva i minni a funtana di latti e ci vìppiru tutti, ora ci sputanu. Nni ristò a vuci d’idda, a cadenza, a nota vascia du sonu e du lamentu: chissi no nni ponnu rubari. Non nni ponnu rubari, ma ristamu poveri e orfani u stissu”.

La verità è che siamo tutti dentro una lingua, cioè “in una lingua che non so (sappiamo) più dire”, scriveva Stefano D’ARRIGO, in Codice siciliano.

In effetti, la lingua di Rampulla non è più la nostra. Abbiamo perduto il dialetto perché parliamo il politichese, l’inglese, il mass-medio-linguese, il giornalese, scriviamo gli SMS e tentiamo di comunicare con il face-bookkese sgrammaticato, con l’inautentico dialetto siciliano dei film di Cinecittà o con il falso dialetto di Andrea Camilleri, la cui lingua-ccia -lasciatemelo dire: la penso così, nonostante il milionario successo dei libri di codesto scrittore siciliano- ha ucciso il dialetto: lo ha sacrificato sull’altare del successo editoriale e del denaro.

Sicché si può dire con Nazim HIKMET, poeta turco della diaspora e vittima di un governo non-democratico:

“…forse morirò (moriremo) lontano (lontani) dalla mia (dalla nostra) lingua…”.

“Un linguaggio -dunque, aggiungeva Vincenzo CONSOLO-

si abita, nostro malgrado”.

“Qui, in questa lingua-dialetto, dove m’assomiglio, in patria…”. Qui, ci assomigliamo.

Stefano D’ARRIGO, Codice siciliano

Qui, abita la poesia di Rampulla: in questo luogo-lingua natale.

Per questo motivo il libro che avevo promesso al signor Rampulla, con tutte le sue poesie, non è ancora pronto: perché ci sono ardui problemi di scrittura e di trascrizione della sua lingua, da affrontare e risolvere. Perché la poesia di Rampulla, prima di essere scrittura, è oralità pura.

La mia promessa la manterrò, così come ho fatto con il libro sulle poesie di Pietro Di Salvo.

Ad ogni modo, penso che delle poesie di Rampulla se ne potrebbe fare ancora prima un CD audio, sulla base delle mie registrazioni audio, effettuate qualche anno fa.

Il dialetto, in passato, era un codice linguistico di cui avere vergogna; lo si parlava a casa, nella sfera del privato, in famiglia ed era codice linguistico di origine demotica; l’italiano era la lingua della cultura e di uso e fruizione pubblica; sulla base di questa dialettica/conflitto pubblico/privato e vergogna del dialetto/onorabilità dell’italiano, ricordo che ci fu un insegnante di scuola media che imponeva ai suoi allievi una tassa-multa di 100 lire per ogni parola in dialetto proferita, come un delitto, in classe: nella stessa epoca la Regione Sicilia approvava una leggina, mai realizzata, di promuovere il dialetto nelle scuole.

«La poesia popolare -ha scritto il linguista Antonino Pagliaro- è essenzialmente anonima. Quando ha un nome è solo un caso raro”.

Nel caso, appunto, di Vincenzo Rampulla la poesia popolare più autentica, sia nella forma metrica sia nel ritmo, ha un nome e cognome.

Rampulla scrive poesie da sempre. In quanto autentico poeta popolare di Mistretta lo hanno apprezzato in pochi e soprattutto il poeta e scrittore Enzo Romano.

Le poesie di Rampulla sono prima di tutto rima, ritmo e oralità; solo in un secondo momento diventano scrittura, la quale, comunque e sempre non è da attribuire allo stesso autore-compositore. Lodevole il tentativo di Piero Consolato e di alcuni parenti di Rampulla di trascriverne alcune, quelle a cui farò riferimento, ma, in entrambi i casi, la trascrizione è una cattiva traduzione di una oralità che va scritta in un certo modo, modo con cui solo Enzo Romano fu maestro.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura è operazione difficile: per questo, il libro su Rampulla non è ancora compiuto. Solo in un certo modo, con rigore filologico, si deve conservare un patrimonio poetico che ritengo appartenga alla cultura di Mistretta e di tutta la Sicilia, nonché all’area linguistica del dialetto siciliano.

Le poesie di Rampulla sono anche memoria e storia: nascono nella sua memoria, dove le ha conservate, come in un archivio non digitale di segni, dove risiede la nostra identità, e poi diventano storia individuale e collettiva.

La memoria prodigiosa di Rampulla, anche alla venerabile età di ottantacinque anni, non basta però a salvare dall’oblio la sua oralità poetica, la quale, in quanto tale, appartiene ai cosiddetti beni immateriali della nostra cultura siciliana e di Mistretta: sicché, con il supporto dei figli di Rampulla, bisognerà farsi carico di scrivere ovvero ri-trascrivere in grafia fonetica e con l’ausilio dei segni diacritici, le poesie di un autentico poetico della nostra cultura siciliana e dei Nebrodi. In quanto bene immateriale, dovrebbe attivarsi il nostro museo regionale delle tradizioni silvo-pastorali, intitolato a Cocchiara, ma mi pare che non si facciano grandi cose in tal senso.

Rampulla è stato ed è autore prolifico: il suo poetare in lingua-dialetto è quasi un dono divino, una specie di estro che rapisce e coinvolge quasi fosse uno stato di follia creativa.

La scrittura e la trascrizione delle poesie di Rampulla sono, purtroppo, un approccio limitato a uno status poetico che è fatto soprattutto di oralità pura, recitazione, memoria, ritmo e musicalità: sicché ho proceduto alla registrazione dei suoi testi con la sua voce, con la sua singolare cadenza e con l’intrinseca musicalità che essi contengono, la quale non può essere riprodotta mediante la scrittura, ma soltanto attraverso il documento sonoro.

Rampulla poeta ci appartiene e appartiene a quella lunga schiera di poeta popolari e contadini che ho citato. In quanto poeta, Rampulla appartiene non solo alla nostra cultura locale, bensì alla cultura siciliana e universale, in quanto uomo-poeta che interroga l’essere e si interroga sul mistero dell’esserci.

Una forte componente della poesia di Rampulla è quella religiosa e devozionale: in quanto tale la sua voce singolare è voce di tutti, voce collettiva e universale. La poesia di Rampulla è spesso poesia che prega, come il popolo di Mistretta ha pregato nei secoli e prega ancora i propri santi e la nostra Madonna dei Miracoli.

Molti suoi componimenti nascono da occasioni e da avvenimenti di vita quotidiana, familiari e sociali. Queste occasioni e avvenimenti sono gli stimoli a cui Rampulla risponde con un poetare ritmico e cadenzato che ricorda, richiama e riproduce quello dei cuntisti, contastorie e cantastorie di un tempo.

Rampulla è cuntista, contastorie e cantastorie; Rampulla è poeta popolare che sa cantare anche senza musica perché la sua poesia è intrinsecamente musicale, anche se non è musicata come i lied.

Le poesie di Rampulla, analizzate e raccolte dal sottoscritto tramite anche il figlio Felice, provengono da una serie di testi raccolti dall’autore stesso, di cui alcuni consegnati alla Biblioteca comunale in una silloge che porta la data del 14 luglio 2008, e da altre trascrizioni effettuate da parenti e da alcuni estimatori, come nel caso già detto dell’amico Piero Consolato.

Il criterio che bisognerà adottare nella redazione di questa raccolta sarà soprattutto quello cronologico e poi quello tematico, oltre al fatto che la trascrizione in grafia fonetica, secondo quanto prescritto dalla magistrale lezione di Enzo Romano e da altri studiosi del dialetto, senza modificare i testi nella loro forma e nel loro contenuto originario, va fatta rispettando la lezione orale dello stesso autore: quella che è la musica del dialetto.

Bisognerà fotografare l’oralità per conservarla come essa è, onde preservare intatto un patrimonio poetico che merita la lettura, la lode, il riconoscimento e l’attestazione di essere un valore poetico immateriale che va custodito e salvato dall’oblio.

Nelle poesie di Rampulla si parla delle cose di Dio, delle cose della vita e di quelle cose d’oro, che sono appunto le poesie in dialetto siciliano di Mistretta, le quali, come e meglio dell’oro, vanno tutelate essendo inscritte nel cuore di un uomo che porta il nome e cognome di Vincenzo Rampulla, autentico poeta popolare di Mistretta.

Alcuni cenni sul metodo di composizione: a me pare che Rampulla componga le sue poesie solo a memoria e oralmente, allorché c’è un testo scritto è perché ci sono stati uno o più trascrittori. Da qui ne consegue la difficoltà a risalire al dettato originale che gravita a livello di oralità e verbalità pure.

I temi di questi componimenti sono molteplici. Ne faccio un rapido riassunto: la Madonna dei Miracoli, San Sebastiano, la solitudine dei vecchi, la guerra in Iraq, i cani e la mamma, il cattivo governo e Mistretta “cimitero di spazzatura”, il 118, l’ospedale, Telemistretta, la Pasqua e le campane, un ricordo di padre Tano Farina, santa Rita e la parrocchia di santa Caterina, fatti di cronaca (come il dramma dei profughi, le epidemie di aviaria e brucellosi), l’inquinamento, la malavita, il mare e l’ironia sull’abbronzatura delle donne, l’emigrazione, la tempesta, il treno e l’automobile, figure professionali (come il medico, il notaio, il benzinaio, il tabaccaio, il fornaio), la guerra, il conflitto tra tempi moderni e tempi antichi, i costumi e malcostumi di oggi, i giovani e gli anziani, temi agricoli e contadini (la vigna, la vendemmia, l’ulivo), l’infanzia nel 1935 (quando a casa si cenava con la cosiddetta “fedda rassa” e a base di “pani e cipudda”), poesie per varie occasioni familiari e, infine, quelle toccanti dedicate a san Giovani Paolo II (“Giuvanni Paulu secunnu, ca purtava paci n-tutt’ô munnu”, ”unni mittia e pusava i pieri, er’accumpagnatu ru Signuri”), a Peppino Lo Presti e al mitico Enzo Romano.

In queste ultime composizioni, dove il metro e la ricerca della rima, come sempre, sono dominanti, Rampulla ricorda il papa Santo, Enzo e Peppino con versi struggenti: “[Vi] nni istu e mi lassatu sulu. Unni siti, ora? Unni state? Mpararisu stati, e faciti festi e stornellati”, come ai tempi delle belle serate d’agosto; “mPararisu” c’è un tempo senza tempo, dove ci si può dedicare, appunto, solo a “ricitari e fari poesie”; per “arricampare, arricogghijri, arrisittari e arraccamare paroli antichi”; “si corchi gghjuòrnu -dice Rampulla, rivolto a Enzo, che non c’è più, ma c’è ancora nei suoi libri- mi vò mannari, ti fazzu subbitu pubblicari”: (quasi una specie di dialogo tra poeti: quello che sta aldilà e quello che ancora lo ricorda nell’aldiquà); ma nell’aldiquà -aggiunge Rampulla, in un altro contesto- “c’è n sìnnicu ri Mistretta ca tene na cosa segreta: nun ddici c’a-Mmistretta c’è n pueta”.

Difatti, e ritorniamo a quello detto in apertura: a Mistretta, i poeti non hanno casa, patria e tetto.

C’è una casa unica per Rampulla e Romano: quella casa-heimat è il dialetto-lingua: questa è l’unica patria: qui continua ad abitare Enzo Romano e qui abita, dimora, vive e risiede la poesia di Vincenzo Rampulla, poeta di una cittade che ignora i poeti”.

Il poeta Vincenzo Rampulla ha recitato un’altra poesia per ricordare il suo grande amico Enzo Romano a cui era legato dal medesimo amore per la poesia dialettale in mistrettese arcaico.

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STAIO PARLANNO RI ENZO ROMANO

 Staio parlanno ri Enzo Romano,
ca era nu mistrittise e nun paisano,
ogni anno vinia ri luntano.
S’aspittava u iuorno chi vinia,
ca nta Mistretta purtava allegria,
pa so bravura a dire a poesia.
Nu facia telegramme e manco invite,
tutte l’amici sempri riuniti,
ca si vulievino bene cuomo i frate.
Enzo o 12 giugno t’arrivao n’avviso:
ti chiamao Gesù Cristo o Parariso;
dda truaste tutte i pariente tue,
e su contente ca tu nu suoffre chiue.
Enzo n Parariso stae cuntente,
amici e pariente ca nu ci manca nente;
amicu mio tu contente ha stare,
io corche ghiuorno ti viegno a truare,
e Gesù Cristo chi sò passe curte,
a uno a uno ni riunisce a tutte,
e quanno simo tutte riunite,
facimo sempre feste e stornellate.
Amico mio, tu n Parariso stae,
amici e pariente nu ti scordino mae,
ma quanno ti chiama Dio e ti nni vae,
u tò passato nu si cancella mae.
Sta poesia a fice Vicinzino,
ca quanno a legge si sente a tia vicino.

Ascoltiamo:

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 Il signor Dino Porrazzo ha consegnato al poeta dialettale mistrettese Vincenzo Rampulla la Targa premio

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con la seguente motivazione: “Per il prezioso contributo dato alla conoscenza della cultura popolare mistrettese”.Applausi, applausi, applausi!

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