Jun 3, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Sant’Antonio di Padova è il santo più popolare nel mondo anche fuori del cristianesimo. La sua popolarità è così grande che tutta la sua storia potrebbe correre il pericolo di sconfinare nella leggenda. Statue e quadri di Sant’Antonio di Padova sono esposti moltissime chiese.
Auguro a tutti i fortunati che portano il nome di Antonio/a di vivere una vita in santità secondo i suoi insegnamenti.
Antonio di Padova nacque a Lisbona, primogenito di una virtuosa e aristocratica famiglia. Fernando fu il suo nome di battesimo.
Sua madre si chiamava Maria Tarasia Taveira e suo padre Martinho Afonso de Bulhões, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo di Buglione.
Già sulla data di nascita discutono gli storici, anche se la maggior parte di loro concorda che il lieto evento avvenne il 15 agosto del 1195. L’anno di nascita è stato calcolato sottraendo dalla data della morte, avvenuta 13 giugno del 1231, gli anni citati dal Liber miraculorum scritto verso la metà del XIV secolo.
La biografia più antica, sulla base di informazioni concesse da mons. Soeiro II Viegas, vescovo di Lisbona dal 1210 al 1232, fu compilata nel 1232 da un frate Anonimo nell’opera nota come “Vita prima o Assidua” . Essa riporta le poche notizie avute sui primi anni di vita del fanciullo.
“ I fortunati genitori di Antonio possedevano, dirimpetto al fianco ovest di questo tempio, un’abitazione degna del loro stato, la cui soglia era situata proprio vicino all’ingresso della chiesa. Erano essi nel primo fiore della giovinezza allorché misero al mondo questo felice figlio; e al fonte battesimale gli posero nome Fernando. E fu ancora a questa chiesa, dedicata alla santa Madre di Dio, che lo affidarono affinché apprendesse le lettere sacre e, come guidati da un presagio, incaricarono i ministri di Cristo dell’educazione del futuro araldo di Cristo”.
La residenza della nobile famiglia era, infatti, vicina alla cattedrale di Lisbona, dove egli ricevette il sacramento del battesimo e dove fu avviato all’educazione spirituale dai canonici della cattedrale. Si racconta che suo padre, probabilmente, lo voleva indirizzare alla tecnica delle armi.
Fernando crebbe in un ambiente sereno e sano, dove il timor di Dio regnava sovrano. La preghiera quotidiana alimentava e fortificava la sua fanciullezza. Amava il silenzio in modo particolare per poter ascoltare la parola di Dio.
Nel 1210 Fernando, all’età di quindici anni, decise di entrare come novizio nel monastero di San Vincenzo dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino dell’Abbazia di San Vincenzo di Lisbona.
In seguito, nei suoi Sermoni scriverà: ”Chi si ascrive a un ordine religioso per farvi penitenza, è simile alle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recarono al sepolcro di Cristo. Considerando la mole della pietra che ne chiudeva l’imboccatura, dicevano: chi ci rotolerà la pietra? Grande è la pietra, cioè l’asprezza della vita di convento: il difficile ingresso, le lunghe veglie, la frequenza dei digiuni, la parsimonia dei cibi, la rozzezza delle vesti, la disciplina dura, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta… Chi ci rotolerà questa pietra dall’entrata del sepolcro? Un angelo sceso dal cielo, narra l’evangelista, ha fatto rotolare la pietra e vi si è seduto sopra. Ecco: l’angelo è la grazia dello Spirito Santo, che irrobustisce la fragilità, ogni asperità ammorbidisce, ogni amarezza rende dolce con il suo amore”.
Rimase nell’abbazia di San Vincenzo per circa due anni. Temendo che le visite dei parenti e degli amici, che lo andavano ad incontrare di proposito per distrarlo dalla sua vocazione, dallo studio e dalla preghiera, per una più concentrata meditazione chiese di essere trasferito dal monastero di Lisbona al convento di Santa Croce a Coimbra, allora città capitale del Portogallo e distante da Lisbona circa 230 km.
Fernando giunse a Coimbra nel 1212 e rimase nel convento per circa sette anni. S’impegnò nello studio delle scienze e della teologia guidato da ottimi maestri, ampliando la sua vasta cultura con l’ausilio dell’enorme quantità di materiale bibliografico custodito nella biblioteca del convento e preparandosi all’ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, all’età di 24 anni. Il convento, molto esteso, ospitava circa settanta monaci.
Essendo votato alle Sacre Scritture e alla predicazione, gli fu chiesto di esercitare la sua vocazione all’interno dell’Ordine, ma due avvenimenti contribuirono a scrivere diversamente gli eventi.
La storia racconta che sul trono del Portogallo al re Alfonso I succedette il figlio Sancho I e, alla morte di questi, avvenuta nel 1211, il nipote Alfonso II. Alfonso II era un re devoto e rispettoso delle virtù dei religiosi al contrario dei suoi successori che si dimostrarono intolleranti nei confronti del clero. Alfonso II nominò come priore del convento agostiniano di Santa Croce in Lisbona una persona a lui fidata, anche a scapito della sua modesta vita ascetica e spirituale e della sua scarsa capacità di gestire il monastero.
In breve tempo costui dilapidò le ingenti risorse del convento conducendo uno stile di vita mondano e non conforme alle regole di un convento. I frati si divisero in due fazioni: i sostenitori e i contrari. Intanto le cattive voci sulle sue azioni si diffusero rapidamente giungendo a Roma dove il papa Onorio III promulgò la scomunica nel 1220.
Nel 1219, nel fervore delle Crociate, in mezzo ad eccidi ed efferatezze da entrambe le parti, il sultano Elkamil fa all’Occidente un’inaspettata proposta di pace: cedere Gerusalemme ed i luoghi santi ai cristiani a patto che non ne facciano uno stato antagonista dell’Islam, ma un’oasi di pace sacra ad entrambe le religioni  che garantisca la cessazione del fuoco e la libera ripresa dei pellegrinaggi da entrambe le parti.
I confratelli furono entusiasti e ritennero Francesco artefice della pace.
Francesco d’Assisi, infatti, organizzò una spedizione missionaria e giunse in Africa con la precisa intenzione di convertire i musulmani al cristianesimo o di morire martire proponendo al sultano di sottoporlo alla prova del fuoco. Elkamil, al contrario, aveva apprezzato le qualità del santo intelligente ed aveva iniziato quella via d’intesa con l’occidente che culminerà poi nell’alleanza con Federico I. Non pensava di convertirsi al cristianesimo. Francesco, profondamente deluso per la mancata volontà del sultano di convertirsi al cristianesimo, decise di lasciare la direzione dell’ordine ed il suo posto in seno alla comunità francescana e di ritirarsi sul monte Verna dove rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.
Altri membri che parteciparono della spedizione furono: Berardo, Ottone, Pietro, tutti e tre sacerdoti, e i due fratelli laici Accursio e Adiuto. Giunti in Africa, poco dopo l’inizio della loro missione di evangelizzazione, furono decapitati. I loro corpi furono riportati a Coimbra. Fernando, in seguito, riferì che il martirio di questi cinque fratelli francescani suscitò in lui la vocazione per la vita francescana e lo stimolo all’ingresso nell’ordine Francescano del santo d’Assisi nel settembre del 1220. Vinte le opposizioni dei confratelli agostiniani ed ottenuto il permesso dal priore, si unì al romitorio dei francescani e poco tempo dopo chiese a Giovanni Parenti, il suo nuovo superiore, il permesso di partire come missionario per predicare tra i musulmani. Nell’autunno del 1220 Fernando, assieme al confratello Filippino di Castiglia, s’imbarcò alla volta del Marocco. In Africa contrasse la febbre malarica che lo costrinse a ritornare a Coimbra dopo solo alcuni mesi di permanenza. Sono stati i suoi compagni di viaggio a convincerlo a rientrare in patria per curarsi.  Secondo altre versioni Fernado non si fermò mai in Marocco.
I due frati s’imbarcarono diretti verso la Spagna. La nave, durante il viaggio di ritorno, spinta da una violenta tempesta, fu costretta ad approdare sulle coste della Sicilia occidentale e a trovare rifugio nel mare di Messina. Soccorsi dai pescatori, i due frati furono condotti nel vicino convento francescano di Messina. Curato dai francescani della città, Fernando in due mesi riacquistò la salute.
Quindi la missione e la totale disponibilità fino alla morte furono, probabilmente, le forze interiori che lo portarono al francescanesimo.
Tutti i suoi ideali s’infransero sul nascere. Le prediche, preparate con molto fervore per condurre a Dio tante anime, il desiderio sempre vivo del martirio si seppellirono nell’oblio della memoria.
Volendo sottolineare maggiormente questo netto mutamento di vita, Fernando decise di cambiare il suo nome di battesimo: Fernando divenne Antonio d’Olivares.
Etimologicamente  il termine “Antonio” deriva dal latino “anti” “prima” e “natus” “nato” vuol dire “nato prima”.
Scelse questo nome in onore dell’Abate, il monaco orientale a cui era dedicata la residenza francescana di Sant’Antonio degli Olivi di Coimbra che aveva ospitato i primi francescani portoghesi e che Fernando aveva da poco tempo conosciuto.
Qui i due frati, Antonio e Filippino, furono informati che nel mese di maggio, per la Pentecoste, Francesco d’Assisi aveva radunato tutti i frati per partecipare al Capitolo Generale dei Frati Francescani. Nella primavera del 1221 Antonio e tutti gli altri frati si incamminarono a piedi verso l’Italia con l’intenzione di parteciparvi. Arrivarono ad Assisi.
Grazie alla partecipazione al Capitolo Generale, Antonio ebbe l’occasione di incontrare personalmente Francesco d’Assisi di cui aveva conosciuto il suo insegnamento attraverso testimonianze indirette.
Il Capitolo durò per tutta l’Ottava di Pentecoste: dal 30 maggio all’8 giugno 1221. Si analizzarono molti problemi: lo stato dell’Ordine, la richiesta di novanta missionari per la Germania, la discussione sulla nuova Regola.
Le richieste di modifica della Regola primitiva dell’Ordine furono, per Francesco, un rilevante problema. Lassisti e Spiritualisti rischiavano di spaccare l’Ordine in due tronconi. L’Ordine si era troppo esteso.
Ai giovani, accorsi con entusiasmo, mancava una uguale adesione alla disciplina; i dotti contestavano le disposizioni sulla povertà assoluta.
Con la mediazione del cardinale Rainiero Capocci si giunse ad un compromesso che cercava di salvaguardare sia l’autorità morale di Francesco sia l’integrità dell’Ordine. La nuova Regola sarà poi approvata da Papa Onorio III il 29 novembre del 1223. L’ Assidua riporta che: “ Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là l’impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso”.
Il Capitolo Generale ebbe luogo nella valle attorno alla Porziuncola dove si raccolsero oltre tremila frati.
Poiché erano tantissimi, non potendoli ospitare tutti, si disposero alcune stuoie all’aperto per farli riposare. Per questo motivo fu ricordato come il “Capitolo delle Stuoie”. Il fra Giordano da Giano descrisse l’avvenimento: “ Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate”.
Quando quasi tutti i frati partirono per tornare ai loro luoghi di provenienza, Antonio fu notato da fra Graziano, provinciale di Montepaolo in Romagna, che, apprezzando soprattutto la sua umiltà e la sua profonda spiritualità, decise di trattenerlo  e lo assegnò all’eremo di Montepaolo, vicino a Forlì, dove già vivevano altri sei frati. Antonio arrivò nel giugno del 1221 e vi rimase un anno dedito alla preghiera, alla penitenza, al servizio degli altri frati, ad una vita semplice, ai lavori umili. Non è chiaro se fosse già prete, ma sembra che nessuno conoscesse i suoi titoli di studio e il suo dono per la predicazione. Nella seconda metà del 1222 la comunità francescana scese a valle per assistere alle ordinazioni sacerdotali nella cattedrale di Forlì. Alla cerimonia erano presenti sia francescani sia domenicani.
A nessuno di loro era stato affidato l‘incarico di tenere il convenzionale discorso di saluto. L’Assidua racconta che “venuta l’ora della conferenza spirituale il Vescovo ebbe bisogno di un buon predicatore che rivolgesse un discorso di esortazione e di augurio ai nuovi sacerdoti.
Tutti i presenti però si schermirono dicendo che non era loro possibile né lecito improvvisare. Il superiore si spazientì e rivoltosi ad Antonio gli impose di mettere da parte ogni timidezza o modestia e di annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito. Questi dovette obbedire suo malgrado e La sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa
”.
Per risolvere l’imbarazzo, fu chiesto ad Antonio di fare un breve sermone. Egli protestò dicendo che non era capace. Iniziò a parlare, in  modo semplice e con un linguaggio non molto elevato, davanti al vescovo e ai sempre più critici domenicani. Fu la sua prima predica!
La Vita Anonima riferisce: “Come se al suo posto ci fosse un diluvio di eloquenza divina, scaturirono parole brillanti e piene d’ardore”.
La notizia del sermone di Antonio giunse ad Assisi, alle orecchie dei suoi superiori che lo spinsero alla predicazione. Antonio, conosciuto col nome di Antonio da Forlì, cominciò a viaggiare e a predicare.
Scendendo da Montepaolo, Antonio cominciò a predicare nei villaggi e nelle città della Romagna allora funestata da continue guerriglie civili. Predicò anche in Emilia, nella MarcaTrevigiana, in Lombardia e in Liguria. Antonio possedeva una voce bella e affascinante e una particolare abilità nel far sì che i problemi teologici si calassero nella realtà della gente comune.
Nei suoi discorsi rivelò sorprendenti tesori di sapienza. Viaggiava senza sosta esortando alla pace, alla mitezza, debellando le eresie anticattoliche, pacificando le fazioni, riformando i costumi. Il territorio era molto vasto, ma non si scoraggiò.
Sempre a Rimini si colloca il famoso “miracolo” della predica ai pesci. Antonio si era recato a diffondere la parola di Dio quando alcuni eretici tentarono di dissuadere i fedeli che erano accorsi per ascoltarlo. Allora Antonio si portò sulla riva del fiume che scorreva a breve distanza e disse agli eretici in modo tale che la folla presente udisse: “Dal momento che voi dimostrate di essere indegni della parola di Dio, ecco, mi rivolgo ai pesci, per confondere la vostra incredulità”. Incominciò a parlare ai pesci della grandezza e della magnificenza di Dio.
Man mano che Antonio parlava, un numero sempre maggiore di pesci accorreva verso la riva per ascoltarlo, elevando sopra la superficie dell’acqua la parte superiore del corpo e guardando attentamente, aprendo la bocca e chinando il capo in segno di riverenza. Gli abitanti del villaggio accorsero per vedere il prodigio e, con loro, anche gli eretici che si inginocchiarono ascoltando le parole di Antonio. Una volta ottenuta la conversione degli eretici, Antonio benedisse i pesci e li lasciò andare.
Il Fioretti narra:” trascurato dalla gente, Antonio si mette a predicare sulla riva del mare ed i pesci accorrono in gran numero e mettono la testa fuori dall’acqua per ascoltare… inutile dire che tutti quelli che schifavano l’ennesima predica itinerante furono invece attratti dallo strano fenomeno e furono pronti a convertirsi”.
Trattava con particolare rigore quelli che chiamava “cani muti“: i potenti e i notabili che avrebbero dovuto guidare e proteggere le popolazioni, ma di cui si disinteressavano per inseguire gli interessi personali. Nei Sermoni scrisse: “La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti.
Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo”.
 Antonio predicò anche contro i cristiani eterodossi e gli eretici.
Ebbe modo di evidenziare come la riflessione teologica e antieretica era impossibile senza solide basi dottrinali. Per questo motivo, nel 1223,  insistette per ottenere la fondazione del primo studentato teologico francescano a Bologna presso il convento di Santa Maria della Pugliola. Francesco, secondo il quale la preghiera e la dedizione erano sufficienti, approvò la richiesta di Antonio. In una sua lettera scrisse: “Frati Antonio episcopo meo, fr. Franciscus salutem. Placet mihi, quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huiusmodi studium sanctae orationis spiritum non extinguas, sicut in Regula continetur. Vale”.Al mio carissimo fratello Antonio,il fratello Francesco. Approvo che tu insegni sacra teologia ai frati, purché, a motivo di questo studio, essi non spengano lo spirito di preghiera e di devozione, come sta scritto nella Regola. Stammi bene”. Francesco gli scriverà questa breve lettera perché Antonio era indeciso nell’insegnare teologia.
.Tra la fine del 1223 e l’inizio del 1224 Antonio si recò a Bologna, dove si trovava l’Università. L’università era, soprattutto, sinonimo di concentrazione di giovani. Antonio era un esperto “pescatore di giovani“.
Alla fine del 1224, quando papa Onorio III chiese a Francesco d’Assisi di inviare come missionario qualcuno dei suoi fratelli nella Francia meridionale per convertire i catari e gli albigesi, Francesco inviò, appunto, Antonio. Allora i movimenti considerati ereticali più importanti erano i “Catari”  “i puri”, detti anche Albigesi, dal nome dalla città di Albi nella Francia meridionale, e i “Patarini” diffusi in Lombardia.
Per due anni, all’età di 28-30 anni, come teologo insegnò le basilari verità di fede al clero e ai laici attraverso un metodo semplice ma efficace. Partiva dalla lettura del testo sacro per giungere ad una interpretazione che parlasse alla fede e alla vita dell’uditorio. Per questa sua intensa attività di predicatore antieretico ricevette il famoso appellativo di “martello degli eretici” “malleus hereticorum“.
Antonio rimase nella Francia meridionale alcuni anni, esattamente dal 1225 al 1227. La Provenza, la Linguadoca, la Guascogna furono le regioni dove maggiormente predicò. In Francia sembra che inizialmente si recò a Montpellier, città universitaria baluardo dell’ortodossia cattolica e dove la leggenda narra che Antonio ebbe il miracolo della bilocazione poiché predicò contemporaneamente in due luoghi  distanti dalla città.
In seguito andò ad Arles dove partecipò al capitolo provinciale della Provenza. La leggenda narra che ad Arles, mentre Antonio predicava, ebbe l’apparizione di Francesco d’Assisi ancora vivo, stigmatizzato e benedicente la folla. A Tolosa,  poco tempo dopo affrontò direttamente gli albigesi con la profonda dialettica basata su argomenti chiari e semplici. Alcune fonti riportano che a Tolosa si manifestò il miracolo del giumento.
A Rimini, nel 1223, Antonio cercava di convertire un eretico e la disputa si era incentrata intorno al sacramento dell’Eucarestia, ossia sulla reale presenza di Gesù. L’eretico, di nome Bonvillo, lanciò la sfida ad Antonio affermando: “Se tu, Antonio, riuscirai a provare con un miracolo che nella Comunione dei credenti c’è, per quanto velato, il vero corpo di Cristo, io abiurata ogni eresia, sottometterò senza indugio la mia testa alla fede cattolica”.
Antonio accettò la sfida perché convinto di ottenere dal Signore il miracolo della conversione dell’eretico. Allora Bonfillo, invitando a fare silenzio disse: “Io terrò chiuso il mio giumento per tre giorni privandolo del cibo. Passati i tre giorni, lo tirerò fuori alla presenza del popolo, gli mostrerò la biada pronta. Tu intanto gli starai di contro con quello che affermi essere il corpo di Cristo. Se l’animale, pur affamato, rifiuterà la biada e adorerà il tuo Dio io crederò alla fede della Chiesa”.
Antonio pregò e digiunò per tutti i tre giorni. Nel giorno stabilito la piazza si riempì di tanta gente. Antonio celebrò la messa davanti alla folla numerosa e poi, con somma riverenza, portò il corpo del Signore davanti al giumento affamato che era stato condotto nella piazza. Contemporaneamente Bonfillo gli mostrò la biada.
Antonio impose il silenzio e comandò all’animale: “In virtù e in nome del Creatore che io, per quanto ne sia indegno, tengo tra le mani, o animale, ti ordino di avvicinarti prontamente con umiltà a prestarGli la dovuta venerazione affinché i malvagi eretici apprendano chiaramente da tale gesto che ogni creatura è soggetta al suo Creatore”.
Il giumento rifiutò il foraggio e, abbassando la testa fino ai garretti, si accostò genuflettendosi davanti al sacramento del corpo di Cristo in segno di adorazione.
Tutti i presenti, compresi Bonvillo e gli eretici, si inginocchiarono.
Nel mese di novembre del 1225 Antonio partecipò al Sinodo di Bourges convocato dal primate d’Aquitania per valutare la situazione della Chiesa francese e per pacificare le regioni meridionali. All’arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, Antonio, invitato quel giorno a predicare, disse: “Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale… L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna…”.
Lo stesso arcivescovo Simone de Sully chiese ad Antonio il sacramento della confessione per trovare la forza di mettere in pratica ciò che gli aveva ricordato. Giovanni Bonelli da Firenze, il Provinciale della Provenza, lo nominò prima guardiano del convento di Le Puy-en-Velay e poi superiore di un gruppo di conventi attorno a Limoges. Nei pressi di Brive-la-Gaillarde Antonio scoprì una grotta simile a quella del romitorio di Montepaolo, dove egli aveva trascorso alcuni anni, e lì “amava ritirarsi, da solo, in una grande austerità di vita, applicandosi alla contemplazione e alla preghiera”. L’esperienza francese di Antonio terminò nell’arco di un biennio. Antonio rimase in Francia fino alla morte di Francesco d’Assisi.
Il 3 ottobre del 1226, in una cella della Porziuncola morì, all’età di 44 anni, Francesco d’Assisi. Il vicario generale dell’Ordine, frate Elia, per la Pentecoste dell’anno seguente fissò il Capitolo Generale per la nomina del successore. Fu convocato anche Antonio, allora superiore dei conventi di Limoges.
Antonio, di ritorno dalla Francia, arrivò ad Assisi il 30 maggio del 1227, per la Pentecoste e nel giorno d’apertura del Capitolo Generale durante il quale si doveva eleggere il successore di Francesco. Si prevedeva l’elezione di frate Elia, vicario generale di Francesco e suo compagno di missione in Oriente.  Invece di frate Elia che, pur essendo un valido organizzatore, aveva un temperamento piuttosto impulsivo, i superiori dell’Ordine preferirono il più prudente frate Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna.
Egli, che aveva accolto Antonio nell’Ordine francescano, lo nominò ministro provinciale per l’Italia settentrionale. Antonio aveva 32 anni. Antonio cominciò la visita dei numerosi conventi dell’Italia settentrionale. Si recò a Milano, a Venezia, a Vicenza, a Verona, a Trento, a Brescia, a Cremona, a Varese. Come sua residenza stabile scelse, però, il convento di Padova quando non era in viaggio. Alternò la predicazione al governo dei frati e scrisse i “Sermones dominicales”, la sua importante opera dottrinaria di profonda teologia rimasta, però, incompleta, che gli farà acquisire il titolo di “Dottore della Chiesa” nel 1946.
Una folla numerosa lo seguiva nelle sue prediche. Tra predicazioni instancabili e lunghe ore dedicate alle confessioni spesso Antonio saltava i pasti. Di sermone in sermone aumentava la fama di Antonio a Padova provocando un continuo accrescersi dell’uditorio. Una folla incessante si assiepava intorno al suo confessionale.
Era impossibile farvi fronte sebbene alcuni confratelli sacerdoti e una schiera di presbiteri della città cercassero di alleggerirgli la fatica. Non gli restava che aspettare il deflusso dei penitenti al calar della sera. L’Assidua informa che digiunava fino al tramonto. Molti accorrevano al sacramento della penitenza dichiarando che un’apparizione li aveva spinti alla confessione.
Testimonia l’Assidua: “Riconduceva a pace fraterna i discordi; ridava libertà ai detenuti; faceva restituire ciò ch’era stato rapinato con l’usura e la violenza“.
Antonio intervenne anche a modificare la legislazione comunale di Padova. Si trattava di uno statuto relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, lunedì santo.
A richiesta del venerabile fratello Antonio, dell’Ordine dei frati Minori, fu stabilito e ordinato che nessuno sia detenuto in carcere, quando non sia reo che di uno o più debiti in denaro, del passato o del presente o del futuro, purché egli voglia cedere i suoi beni. E ciò vale sia per i debitori che per gli avallatori. Se però una rinuncia o cessione o un’alienazione sia fatta frodolentemente, sia da parte dei debitori, sia degli avallatori, essa non abbia alcun valore e non porti danno ai creditori. Quando poi la frode non possa venir dimostrata in modo evidente, della questione sia giudice il podestà. Questo statuto non possa subire modificazioni di sorta, ma resti immutato in perpetuo”.
Antonio conduceva un esemplare stile di vita. Nei sermoni scrisse: “La vita del prelato deve splendere d’intima purezza, dev’essere pacifica con i sudditi, che il superiore ha da riconciliare con Dio e tra loro; modesta, cioè di costumi irreprensibili; colma di bontà verso i bisognosi. Invero, i beni di cui egli dispone, fatta eccezione del necessario, appartengono ai poveri, e se non li dona generosamente è un rapinatore, e come rapinatore sarà giudicato. Deve governare senza doppiezza, cioè senza parzialità, e caricare sé stesso della penitenza che toccherebbe agli altri… Inargèntino i prelati le loro parole con l’umiltà di Cristo, comandando con benignità e affabilità, con previdenza e comprensione. Ché non nel vento gagliardo, non nel sussulto del terremoto, non nell’incendio è il Signore, ma nel sussurro di una brezza soave ivi è il Signore”.
In un altro sermone scrisse: “Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi”.
In compagnia del giovane padovano Luca Belludi visitò tutti i conventi fondati nella provincia di Padova che, allora, ricopriva un ampio territorio. Da lì si spostò a Conegliano,  a Treviso,  a Venezia per poi tornare a Padova, prima di proseguire per i conventi dell’Emilia, della Lombardia e della Liguria.
Nella quaresima del 1228 Antonio rientrò a Padova dove instaurò buoni rapporti con gli esponenti di altri ordini. Divenne amico dell’abate Giordano Forzatè, superiore dei benedettini, e del conte Tiso VI da Camposampiero, uomo facoltoso e generoso verso i francescani.
La tradizione colloca la pietra sulla quale Antonio saliva per predicare nel giardino dei conti Papafava e dei Carraresi.
Tra le persone conosciute e più fidate Antonio fondò una sorta di confraternita. Dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba, dove i confrati solevano riunirsi, presero il nome di “Colombini“. Avevano per divisa un saio grigio e si dedicavano ad opere caritative. Antonio soggiornò a Padova pochi mesi, ma decise, una volta scaduto il mandato di Ministro Provinciale nel 1230, di tornarvi definitivamente.
Nel mese di marzo del 1228 fra Giovanni Parenti, il Ministro Generale, lo mandò a chiamare “per un’urgente necessità della sua famiglia religiosa”.
Si era nuovamente infiammata la disputa tra l’ala conservatrice e l’ala riformatrice dell’Ordine. Era indispensabile trovare un accordo che salvaguardasse sia l’unità dell’ordine sia l’integrità del messaggio di Francesco. Fu scelto Antonio. La vertenza gravava attorno a punti diversi: c’era chi spingeva ad un maggior impegno negli studi privilegiando il frate sacerdote a discapito del frate laico; c’era chi voleva mitigare la rigida povertà di Francesco con una regolamentazione più consona ad una comunità che da “girovaga” stava trasformandosi in “residenziale“.
L’Ordine decise che era giunto il momento di informare il Papa.
Antonio fu incaricato di andare a Roma e riferire al papa Gregorio IX l’oggetto della questione.
Le cronache non riportano i metodi usati da Antonio per portare a termine questo suo delicato incarico.
Predicò alla presenza di Papa Gregorio IX il quale, ammirato dalla sua singolare conoscenza delle Sacre Scritture, anziché congedarlo, lo trattenne con sé perché predicasse a lui e ai cardinali le meditazioni quaresimali. Predicò ad una folla cosmopolita. Ognuno lo sentì parlare nella propria lingua.
Le prediche furono un tale successo che il Pontefice Gregorio IX, rompendo ogni protocollo, lo chiamò “Arca del Testamento”, “peritissimo esegeta”, “esimio teologo”. Quattro anni più tardi, canonizzandolo, ricorderà quei giorni di quaresima: “personalmente sperimentammo la santità e l’ammirevole vita di lui, quando ebbe a dimorare con grande lode presso di noi”. L’impressione fu molto forte anche tra i cardinali e i prelati della curia, i quali – scrisse ancora l’Assidua – “l’ascoltarono con devozione ardentissima” e qualcuno di loro lo invitò a predicare al popolo.
Erano i giorni della Settimana santa e a Roma confluivano molti pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Antonio, sebbene conoscesse alcune di quelle lingue, iniziò a predicare nella volgata del popolo di Roma.Da lì a pochi mesi Antonio ebbe modo di incontrarsi nuovamente con il Pontefice che giunse in Assisi per canonizzare Francesco, per dichiararlo santo e per benedire la prima pietra della Basilica dove avrebbe riposato il suo corpo.
La basilica fu completata in due anni. L’ordine scelse la Pentecoste per fissare il Capitolo Generale e per traslare il corpo di Francesco dalla chiesa di San Giorgio alla cripta del nuovo edificio. Ancora una volta i frati a migliaia erano accorsi da ogni parte d’Europa e insieme a loro sfilarono in processione autorità di ogni grado, prelati, vescovi e i tre Cardinali Legati inviati per l’occasione da papa Gregorio IX. La folla fu tale che travolse il servizio d’ordine e si temette per le spoglie di Francesco.
Frate Elia fu costretto a sbarrare le porte e a “mettere in salvo” il corpo sotto lastre di marmo. Lì rimase, nonostante le critiche di cui Elia fu incolpato per la decisione, sino al 1818, quando papa Pio VII ne autorizzò la rimozione.
La folla non gradì per niente la piega che gli avvenimenti avevano preso e la situazione degenerò tristemente in una rissa collettiva con grande scandalo e maggiori proteste che misero in imbarazzo l’Ordine Francescano giungendo sino alle orecchie del Papa.
Se nel periodo di costruzione della Basilica la disputa interna all’Ordine si era sopita, con l’apertura del nuovo Capitolo essa, però, si riacutizzò.
Il testamento di Francesco, infatti, affermava la necessità della povertà assoluta e una parte dei Francescani voleva inserirlo come parte integrante della Regola dell’Ordine.
Nell’impossibilità di dirimere la questione, si decise di nominare una commissione di sette frati per sottoporre la questione a papa Gregorio IX. Antonio, chiamato a farne parte, dovette partire nuovamente per Roma. Gregorio IX prese la sua decisione promulgando la bolla Quo elongati per il 28 settembre.
Tornato ad Assisi, Antonio accusò diversi disturbi. Chiese ed ottenne di essere sollevato dall’incarico di ministro provinciale nel Capitolo del 1230. Si ritirò a Padova.
A Padova, nell’inverno del 1231, terminò la stesura del secondo volume dei Sermoni che gli era stato commissionato dal cardinale Rinaldo Conti che diverrà Papa Alessandro IV. Preferì la predicazione e il confessionale. La quaresima del 1231 fu il suo testamento spirituale.
Antonio predicò in favore dei poveri e delle vittime dell’usura: “ Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L’usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove… E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole”. Il linguaggio della sua predicazione era semplice e diretto: “La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo, nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella trappola tesa dal demonio”.
Durante la Quaresima,  dal 6 febbraio al 23 marzo 1231, la sua predicazione fu una novità per quei tempi; secondo l’Assidua gli fu assegnato un gruppo di guardie del corpo, affinchè formassero un cordone di sicurezza tra lui e la folla.
Il 15 marzo del 1231 fu modificata la legge sui debiti. “Su istanza del venerabile fratello, il beato Antonio, confessore dell’ordine dei frati minori” il podestà di Padova Stefano Badoer stabilì che il debitore insolvente senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non fosse più imprigionato né esiliato.
La Quaresima e la predicazione avevano tanto fiaccato Antonio che, in diverse occasioni, aveva dovuto farsi portare a braccia sul pulpito.
Afflitto dall’idropisia e dall’asma,  forse anche da sintomi di cardiopatia, trovava a volte difficile anche il solo camminare. Acconsentì di ritirarsi per una convalescenza nel convento di Santa Maria Mater Domini. Questo suo breve riposo, tuttavia, si interruppe bruscamente. Spadroneggiava in quel tempo, tra Verona e Vicenza,  Ezzelino III da Romano, emissario dell’imperatore Federico II, contro i liberi Comuni.
Riuscito a farsi eleggere Podestà di Verona, città guidata dai conti di Sambonifacio, aveva intrecciato con loro un doppio matrimonio: lui con Zilia, sorella del conte Rizzardo, e questi con sua sorella Cunizza.
Una volta ottenuto il potere, passò sopra i legami di parentela e ruppe l’alleanza con i Sambonifacio mandando in carcere il cognato. Alcuni cavalieri del conte Rizzardo ripararono a Padova e da lì cercarono di organizzarne la liberazione.
Verso la fine di maggio Antonio partì alla volta di Verona per chiedere ad Ezzelino di concedere la grazia al conte Rizzardo.
Non riuscì ad ottenere nulla. Ezzelino fu veramente irremovibile. Anzi risparmiò ad Antonio la stessa sorte toccata al conte Rizzardo soltanto per rispetto dell’abito che indossava.
Dopo i lunghi ed apostolici viaggi in Italia e in Francia, ormai stanco e malato, per ritemprarsi nel corpo e nello spirito, nel giugno del 1231 Antonio si ritirò nel Veneto, in una località denominata Camposampiero, distante venti chilometri da Padova. Dal conte Tiso VI fu invitato a trascorrere un periodo di meditazione e di riposo nel piccolo romitorio nei pressi del castello.
Qui avvenne un mirabile miracolo visto e descritto dal Conte Tiso, suo amico. Dalla celletta occupata da frate Antonio, con la porta socchiusa, il Conte vide una gran luce; temendo un incendio, egli spinse la porta e, con grande stupore, vide il Bambino Gesù tra le braccia di Antonio.
La tradizione narra che sopra un grande albero di Noce Antonio predicava alle folle. Nel bosco del conte Tiso VI, convertito dalla predicazione del Santo, sorgeva un noce poderoso. “L’uomo di Dio, avendone un giorno ammirata la bellezza, tosto, su indicazione dello Spirito, decise di farsi una cella sopra il noce, perché il luogo offriva impensata solitudine e quiete favorevole alla contemplazione. Il nobiluomo, appena venne a conoscere quel desiderio per mezzo dei frati, dopo aver riunito in quadrato e trasversalmente ai rami delle pertiche, preparò con le sue mani una cella di stuoie. […] Salendo lassù, egli mostrava di avvicinarsi al cielo”. Da qui il Santo scendeva solo per predicare e confessare.
Il 13 giugno del 1231,  avendo compreso che non gli restava molto da vivere, chiese di essere riportato nella chiesa di Santa Maria Mater Domini a Padova.
Durante il viaggio, le sue condizioni peggiorano ed i confratelli, vedendolo incosciente, decisero di tornare indietro. Nella nebbia della calura estiva Antonio vide una donna piangente che teneva in braccio un bambino completamente nudo, abbandonato, come se fosse morto. Interrogata prudentemente da Antonio, lei disse di essere fuggita perché uomini cattivi la inseguivano per uccidere il bimbo. Antonio, delicatamente, prese in braccio il bambino che si svegliò e sorrise.
Anche la donna alzò il capo e sorrise. Antonio riconobbe in lei la Vergine Maria. La tradizione vuole che Antonio a questo punto sia tornato giovane e sano e sia morto cantando un inno mariano.
La leggenda narra anche che Antonio fu trasportato sopra un carro agricolo trainato da buoi verso Padova, città dove aveva chiesto di morire.
Nel tragitto incontrò frate Vinotto che, notate le sue gravi condizioni di salute, gli consigliò di fermarsi all’Arcella, un borgo della periferia della città, nell’ospizio accanto al monastero delle Clarisse dove sarebbe stato al sicuro dalle “sante intemperanze” della folla quando si fosse sparsa la notizia della morte.
I confratelli temevano che la folla circondasse il carro per toccare il corpo di Antonio. Al convento di Arcella i confratelli adagiarono Antonio per terra. Ricevuta l’unzione degli infermi, ascoltò i confratelli cantare l’inno mariano “O gloriosa Domina” quindi, secondo quanto riferito dall’Assidua, pronunciate le parole “Video Dominum meum”  “Vedo il mio Signore”, spirò.
Era la sera del venerdì 13 giugno del 1231. Aveva 36 anni. La sua giovane vita, come un fiore profumato, fu trapiantata nei giardini celesti.
Al momento del suo trapasso, per le vie di Padova tanti giovani gridavano: “È morto il  padre Santo!”.
La notizia della morte di Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto si avverò. Le reliquie di un Santo erano viste come portatrici di vantaggi miracolosi, spirituali e di prosperità in tempi di pellegrinaggi e di fede diffusa. Per primi giunsero gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, che dissero: “Qui è morto e qui resta”.
Anche le Clarisse dissero: “Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto”. Giunsero all’Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare e seppellire “il prezioso tesoro” in quella chiesa, sede della comunità francescana alla quale Antonio apparteneva.
Con il concorso delle armi, furono affrontati dagli uomini più giovani di Capodiponte.
Intervenne il Vescovo che, avendo saputo che Antonio desiderava morire nel suo convento, diede ragione ai frati e incaricò il Podestà di sedare gli animi anche con la forza se fosse stato necessario. La cerimonia funebre si svolse all’Arcella il 17 giugno.
La stessa sera la salma di Antonio fu trasportata a Padova, nel convento di Santa Maria Mater Domini, e lì fu sepolto, nel suo rifugio spirituale nei periodi di intensa attività apostolica. Probabilmente non fu posto sotto terra, ma sollevato, in modo tale che i devoti, sempre più numerosi, potessero vedere e toccare la tomba. La tomba di Antonio divenne meta di pellegrinaggi. A causa della folla, le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova “nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi”, e anche di notte.
I devoti sfilavano davanti alla sua tomba toccando il sarcofago e chiedendo grazie e guarigioni. In quel periodo furono attribuiti, per sua intercessione, molti miracoli che il vescovo e il podestà  sottoposero al giudizio del Papa.
La fama dei tanti prodigi compiuti da Antonio convinse Gregorio IX ad accelerare l’iter del processo di canonizzazione. Nominò una commissione di periti, presieduta dal vescovo di Padova, per raccogliere le testimonianze e le prove documentarie utili al processo di canonizzazione.
Secondo l’Assidua la commissione fu sommersa “da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio”. Il Vescovo ascoltò “le deposizioni confermate con giuramento”, mise per iscritto i “miracoli” approvati e promosse le indagini necessarie. Completato l’esame diocesano, inviò al Papa una seconda delegazione.
A Roma l’istruttoria fu assegnata al cardinale Giovanni d’Abbeville, che esaurì il compito in pochi giorni.
Papa Gregorio IX, in considerazione della gran quantità di miracoli, fissò la cerimonia ufficiale di canonizzazione il 30 maggio del 1232, festa di Pentecoste, dopo solo circa un anno dalla sua morte, ed inviando la Bolla ai fedeli e al podestà di Padova.
Nel Duomo di Spoleto papa Gregorio IX, dopo avere ascoltato la lettura dei 76 prodigi approvati, raccolti nel Trattato dei miracoli  e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente santo frate Antonio. La sua festa liturgica ricorre il 13 giugno, giorno della sua ascesa in cielo.
Per contenere l’enorme numero di pellegrini che continuamente affluivano a Padova per vistare la tomba, fu iniziata la costruzione di una chiesa più capiente. I lavori furono ultimati nel 1240.
Nel 1263 Bonaventura da Bagnoregio, Ministro Generale dei francescani, fece trasportare la salma di Antonio di Padova nella nuova basilica.
Si narra che durante l’ispezione, prima del trasporto dei resti mortali, è stata rinvenuta la lingua “intatta e rosea come fosse viva”.
 Presa la lingua tra le sue dita, rimasta miracolosamente intatta, Bonaventura da Bagnoreggio esclamò: “Lingua Santa e Benedetta, che sempre benedicesti il Signore e Lo facesti benedire dagli altri, ora appare chiaro di quanto gran merito fosti davanti a Dio”. Nacque così la devozione alla lingua di Sant’Antonio in quanto strumento portentoso della Parola di Dio che Antonio annunciò sempre tra gli uomini.
Conservata in un prezioso reliquiario, è possibile ammirarla nella basilica di Padova.
Ogni anno, ancora oggi, i frati Antoniani ricordano il ritrovamento della lingua festeggiandolo il 15 febbraio.  Ancora oggi sono milioni le persone che, annualmente, visitano con grande devozione la tomba di Sant’Antonio nella grande Basilica di Padova.
Moltissimi sono coloro i quali partecipano all’imponente celebrazione liturgica e alla sentita processione del Santo per le vie della città di Padova.
Nel 1946 Pio XII inserì Sant’ Antonio tra i Dottori della Chiesa cattolica conferendogli il titolo di “Doctor evangelicus” “dottore della chiesa universale” perchè nei suoi scritti e nelle sue prediche era solito citare il Vangelo.
La denominazione “Sant’Antonio da Padova” non è esatta in quanto non indica la sua originaria provenienza essendo nato e cresciuto nel Portogallo. Il suo nome si riferisce alla città di Padova perché qui ha esercitato la sua attività più efficace.
E’ usanza che i frati prendono il nome del convento a cui appartengono. Quindi è corretto riferirsi a “Sant’Antonio di Padova” e non a “Sant’Antonio da Padova”. In Portogallo egli è chiamato comunemente “Santo António de Lisboa”, ovvero “Sant’Antonio da Lisbona“, la sua città natale.
Sant’Antonio di Padova è patrono del Portogallo, del Brasile e della città di Beaumont, in Texas. In Italia, oltre ad essere patrono della città di Padova, unitamente a San Prosdocimo, Santa Giustina martire e San Daniele, è santo patrono di moltissime altre località in tutte le regioni.
Il culto di Sant’Antonio di Padova si sviluppò per le testimonianze di grazie ottenute per l’intercessione di Sant’Antonio.
Sono evocate diverse situazioni della vita: «Se cerchi i miracoli, ecco messi in fuga la morte, l’errore, le calamità e il demonio; ecco gli ammalati divenir sani. Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono e ritrovano la sanità e le cose perdute. S’allontanano i pericoli, scompaiono le necessità: lo attesti chi ha sperimentato la protezione del Santo di Padova».
Tradizionalmente è invocato anche contro la sterilità coniugale e le malattie dei bambini e da chi cerca gli oggetti smarriti.
Moltissimi sono i miracoli attribuiti a Sant’Antonio di Padova compiuti durante la sua vita: dagli esorcismi alle profezie, alle guarigioni, alle resurrezioni. La fama del suo potere taumaturgico oltrepassò i confini naturali raggiungendo luoghi molto lontani. Per questo è conosciuto con l’appellativo del “Santo dei Miracoli”.
Per citarne alcuni: le apparizioni di Gesù Bambino, il piede riattaccato, il neonato che parla per testimoniare l’innocenza della madre accusata di adulterio, il peccatore pentito,
il riattacco dei capelli ad una donna che il marito geloso aveva tagliato, il giovane resuscitato, il rilevamento del cuore dell’avaro dentro uno scrigno pieno di gioielli, il cibo avvelenato reso innocuo, le ripetute bilocazioni, il ritorno alla vita un bambino che nel sonno si era soffocato avvinghiandosi le coperte al collo, la tempesta del temporale,
le passere rinchiuse dentro una stanza perchè mangiavano i chicchi di grano. Le leggende poi si sono focalizzate sulla sua devozione a Gesù Bambino e sul suo amore per la natura: per gli animali, per gli alberi, per i fiori.
Anche dopo la morte moltissimi prodigi furono attribuiti ad Antonio. Dopo varie ricerche, fatte dall’allora Papa Gregorio IX, si accertò la guarigione di 22 contratti: di 5 paralitici, di 7 ciechi, di 3 sordi, di 3 muti, di 2 epilettici, 2 resurrezioni. L’autore dell’Assidua trascrive che nel giorno della traslazione del Santo “moltissimi colpiti da diverse infermità vi furono portati e tosto ricuperarono la salute per i meriti del Beato Antonio”.
Il giorno della sua sepoltura una donna inferma e storpia pregò davanti all’urna e fu completamente risanata.
Un’altra donna aveva la gamba destra paralizzata. Il marito la condusse al sepolcro di Antonio e, mentre pregava, sentì come se qualcuno la sostenesse. Si stava compiendo il miracolo della sua guarigione. Lasciò le stampelle camminando perfettamente.
Una bimba piccola, con le membra atrofizzate, fu posta sulla tomba del Santo e guarì completamente.
Un singolare episodio accadde al cavaliere Aleardino da Salvaterra che da sempre aveva deriso i fedeli considerandoli ignoranti o ingenui.
In un’osteria iniziò a deridere pubblicamente alcuni che parlavano con entusiasmo dei miracoli di Antonio. Il cavaliere, schernendoli, disse: “E’ possibile che questo frate abbia compiuto dei miracoli quanto questo bicchiere di vetro non si rompa gettandolo con forza per terra. Faccia questo miracolo il vostro santo e io abbraccerò la vostra fede“.
Aleardino da Salvaterrà scagliò con forza il bicchiere a terra. Non si ruppe, anzi scalfì le pietre su cui cadde. Il cavaliere si convertì.
Verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, al rientro dal lavoro per la costruzione della strada in contrada San Giovanni, Romei-Scammari a Mistretta, un camion, carico di giovani lavoratori, si capovolse.
Non ci fu nessun morto, ma tanti feriti. Sant’Antonio li ha miracolati tutti. In segno di devozione e di ringraziamento, è stata edificata nel luogo dell’incidente, in contrada San Giovanni, un’edicola votiva in onore di Sant’Antonio.
Mia mamma, che si recava spesso nella nostra campagna a Scammari, ogni volta si fermava davanti all’edicola per recitare a Sant’Antonio una preghierina e per depositare un mazzo di calle appena raccolte. Giunta a casa, non riuscì trovare gli occhiali, pur cercandoli ansiosamente.
Donna pia e devotissima, la mia mamma Maria Grazia chiese a Sant’Antonio la grazia di farle ritrovare i suoi occhiali.
Ritornando di nuovo in campagna il giorno successivo e fermandosi davanti all’edicola di Sant’Antonio, vide gli occhiali deposti sul davanzale dell’edicola.
Questo miracolo accrebbe in lei maggiormente la sua fede.
La devozione di Antonio per la povertà e per i poveri è sottolineata dalla istituzione del “Pane di Sant’Antonio”. Questa benefica opera, nota dapprima come Pondus Pueri, ebbe notevole sviluppo alla fine del sec. XIX. Era un’istituzione d’assistenza di notevole rilevanza sociale, sotto forma di pia devozione in onore di Sant’Antonio, distribuire ai poveri elemosine sotto forma di pane.
Questa consuetudine ricorda il prodigio di una madre che ottenne dal Santo la rinascita del figlioletto annegato in una vasca piena d’acqua. Aveva promesso di dare ai poveri tanto pane quanto era il peso corporeo del suo bambino. Questa opera caritativa, che distribuisce cibo, è ancora attiva nei paesi del Terzo Mondo. Durante la celebrazione eucaristica per la festa di Sant’Antonio, anche a Mistretta e in tante altre località si ripete tuttora la tradizione del rito della benedizione del Pane di Sant’Antonio.
Per grazia ricevuta per intercessione di Sant’Antonio, le famiglie o le persone miracolate ringraziano il Santo mantenendo la promessa del voto. Esso consiste nel portare ceste colme di piccoli pani che, deposte ai piedi dell’altare, sono benedette dal celebrante durante la funzione religiosa. Alla fine della funzione il panino benedetto è distribuito ai presenti, ai parenti e alle persone care.

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L’iconografia rappresenta Sant’Antonio di Padova vestito con il saio dell’ordine francescano e con il volto giovanile. I simboli rappresentano momenti della sua vita: Gesù Bambino fra le braccia rievoca la visione avuta a Camposampiero, il giglio nella mano indica la sua purezza, il libro simboleggia la sua dottrina e la sua predicazione, il cuore, la fiamma e il pane ricordano il suo amore verso Dio e verso il prossimo, seduto su un noce, simboleggia la solitudine. Gli emblemi sono: il giglio e il pesce.

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Preghiera a Sant’ Antonio

Sant’Antuninu munachieddu finu,
‘n mirazza purtati lu santu Bamminu,
l’abbrazzati, lu strinciti,
la razzia chi v’addumannamu nni cunciriti.
Tririci razzi aviti ri cuntinuu,
facitimmilla a mia, Sant’Antuninu.

Sant’Antonio monachello fine,
in braccio portate il santo Bambino,
l’abbracciate, lo stringete,
la grazia che Vi domandiamo ci concedete.
Tredici grazie avete di continuo,
fatene una a me Sant’Antonio.

 

Oggi è il 13 giugno del 2017.
La comunità amastratina festeggia Sant’Antonio di Padova.

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Foto di Sebastiano Zampino

Dopo la celebrazione ecucaristica, la statua del Santo compie il cammino processionale lungo
le strade principali della città di Mistretta.
Per favorire l’uscita dalla Sua chiesa, gli organizzatori momentaneamente rimuovono una parte della ringhiera della cancellata.

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Foto di Luigi Marinaro

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Foto di Giuseppe Ciccia

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Foto di Paolo Trincavelli

Oggi, 13 giugno 2022, Sant’Antonio di Padova attraversa le vie di  Mistretta in cammino processionale.

https://youtu.be/MSuZwnTeOww

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LA CHIESA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA A MISTRETTA

La chiesa di S. Antonio di Padova, costruita nel  XVI secolo, è un piccolo tempio ad una navata che si può ammirare percorrendo la Via Anna Salamone. Una breve scala esterna e un modesto balconcino protetto da una ringhiera conducono all’interno della chiesa.

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 Importante è il portale che sostiene nella chiave di volta il volto scolpito in pietra di un bambino sormontato da un’altra figura a forma di cuore che protegge all’interno l’immagine del Santo.

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Nell’altare centrale la statua del Santo, opera dell’artista Noè Marullo del 1910, sorregge col braccio sinistro il Bambino che, con la sua manina, tenta di aggrapparsi al bavero di Sant’Antonio.

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La committente della statua di Sant’Antonio di Padova è stata la signora Filippa Marchese Varisano, la moglie del signor Antonino, la nonna della signora Maria Cecilia Marchese.

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Dalla viva voce della signora Maria Cecilia Marchese (nella foto) ascoltiamo il suo racconto:

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https://www.youtube.com/watch?v=yGKyAN33It0&t=14s

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 Importante è l’altare di marmi polIcromi

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Le altre statue sono quelle di San Ciro e di San Benedetto.

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Da ammirare è la cantoria dove, in diverse lunette, sono illustrati i miracoli del Santo e l’organo posto sopra di essa.

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Dono di una devota

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