Jan 27, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL MARE NEGLI OCCHI

IL MARE NEGLI OCCHI

Gentile prof. Calogero Carità, ho apprezzato moltissimo il Suo post pubblicato su facebook “PER NON DIMENTICARE” dove mette in evidenza uno spaccato di vita cittadina licatese di molti anni fa e che anch’io ho vissuto.

https://www.youtube.com/watch?v=S7VTPimU4JU&t=8s

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In nome della nostra grande amicizia, e per ricordare i nostri comuni amici, vorrei condividere con te, che sei stata una delle prime persone che ho conosciuto quando sono arrivata a Licata alla fine degli anni ’60, i miei ricordi attraverso il mio racconto:

IL MARE NEGLI OCCHI”.

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Quella sera di fine ottobre Lilia era appena ritornata a casa, da Palermo, dopo aver superato brillantemente gli esami di Botanica e di Zoologia all’università, per commemorare i suoi cari defunti.

 La terra tremò all’improvviso.

 Un forte boato risuonò nell’aria, l’eco si diffuse nelle strade, fra le case, rimbombò nel campanile della chiesa di San Sebastiano che crollò. Furono momenti terribili. Dopo qualche minuto, il paese fu avvolto da un silenzio tombale. Pioveva a dirotto e imperversava un vento impetuoso. La gente, atterrita, correva, correva, ancora vestita o in abbigliamento notturno e in ciabatte, portando in braccio i piccoli addormentati e ignari.

Lilia, entrata nella stanza per avvertire la sorella Anna che stava cullando la figlioletta Lucia, vide le stelle. La parete, dove era appoggiato il letto, era crollata, la culla colma di calcinacci, la bimba miracolosamente illesa.

Con cappotti e coperte, afferrati in fretta, gli scampati al terremoto cercavano di difendersi dal freddo intenso della notte in montagna. I bagliori dei falò erano visibili anche da lontano. Le fiamme alte, rosse e bordate di giallo, liberavano tanta energia termica e luminosa che rischiarava la notte buia senza luna e riscaldava i corpi intirizziti delle persone che, negli ampi spazi lontani dal paese, dove minore era il pericolo di crolli e di frane, si erano riunite per trascorrere insieme la notte all’addiaccio. Disposte a cerchio intorno al fuoco, raccontavano con emotività la traumatica esperienza appena vissuta.

Per alimentare la pira, ciascuno collaborava portando sacchi di carbone, pile di vecchi giornali, sedie e tavoli sbilenchi, raccogliendo rami secchi degli alberi nel boschetto della Neviera, smontando ponteggi lignei dei muratori.

 Ogni materiale era utile per produrre calore che riscaldava il corpo e incoraggiava il cuore. C’era tanta solidarietà anche nel portare acqua da bere, viveri e, soprattutto, la radiolina che trasmetteva le ultime, aggiornate notizie.

Il papà di Lilia era andato a visitare la sua mamma novantenne che non aveva capito niente dell’accaduto.

Gran parte della popolazione mistrettese, fiduciosa e devota, si era rifugiata all’interno della chiesa Madre, davanti all’altare della Madonna dei Miracoli, per pregarLa, con ardente fede cristiana, di ripararla sotto il Suo manto. I fedeli, dopo, Le hanno offerto un medaglione d’oro in segno di ringraziamento.

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Il terremoto, che aveva devastato la Valle del Belice e anche parte di Mistretta, “regina dei Nebrodi”, splendida cittadina costruita su uno sperone di roccia, non aveva procurato nessun ferito, nessun morto, solo un mulo, dentro una stalla, vide finire i suoi giorni coperto dai detriti del tetto crollato.

Sotto le macerie della sua casa Lilia aveva perso gli oggetti più cari e, in particolare, tutti i suoi libri, che gelosamente custodiva.

Lilia, in seguito, arrivò a Licata di notte, col treno proveniente da Palermo e diretto a Siracusa. Era la prima volta. Fu ospite di Salvatore e di Dorotea, gli splendidi genitori di Carmelo a cui Lilia era legata dal sentimento dell’amore e dalla passione per lo studio delle Scienze Naturali che li aveva fatti incontrare nell’ateneo di Palermo.

Ad aspettare l’arrivo del treno, per la venuta del figlio e della sua ragazza, c’era il papà Salvatore che, durante il tragitto, dalla stazione ferroviaria di Licata fino a casa, in Via San Francesco di Paola, nel quartiere della Marina, dove le case si abbracciano, si era sostituito alla più preparata guida nell’illustrare le bellezze della città: i corsi principali, i palazzi signorili, le chiese, la villetta “Giuseppe Garibaldi”, il Palazzo di città.

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Mamma Dora aspettava paziente a casa l’arrivo dei due giovani.

I larghi corsi della città impressionarono favorevolmente Lilia abituata a percorrere le strette e contorte stradine del suo paese.

L’affettuosa accoglienza dei licatesi, socievoli e cordiali, facilitò il suo inserimento e consentì il confronto di idee. Poi, con la sua permanenza stabile a Licata, Lilia riuscì ad unire la sua vita alla loro integrandosi nel contesto sociale e culturale della città.

Era affascinata dalla conoscenza del nuovo mondo etnografico e paesaggistico.

Le ragazze licatesi avevano la pelle abbronzata e nera, Lilia invece aveva la carnagione bianchissima e trasparente.

La gente dl Licata l’accolse offrendole semplici ma espressivi doni: tre dalie violacee raccolte nel vaso del balcone, un centrino lavorato all’uncinetto, un piatto di pesci appena pescati, un segnalibro, una cartolina antica, un variopinto cardellino domestico dal gradevole canto. Lilia avrebbe voluto regalargli la libertà aprendo la gabbia ma, incapace di procurarsi il cibo e maldestro nel volare, sarebbe stato sicuramente un boccone prelibato per qualche gatto affamato. Lilia gli si era subito affezionata.

Lo aveva chiamato Fragolino per una macchia rossa sull’ala sinistra.

 Al ritorno dal lavoro lo chiamava: Fragolinooooo! Fragolino un giorno non rispose. Non saltellò.

Lilia, dopo tanto tempo, lo ricorda ancora con nostalgia e con affetto.

Lilia era un’attenta osservatrice dei comportamenti di un popolo diverso dal suo.

Ammirava la generosità di quella famiglia che, imbandendo la tavola nella via San Francesco di Paola, fuori della porta del basso dove abitava, la invitava a condividere la cena e a bere un bicchiere di vino rosso locale.

La penuria d’acqua fu, per Lilia, la vera esperienza negativa a Licata: non era abituata a risparmiare quel liquido prezioso che vedeva scorrere dai rubinetti in media una volta ogni venti giorni.

U zza’Saru”, un furbo vecchietto, passava per le vie della marina a vendere l’acqua, a caro prezzo, prelevandola da qualche pozzo. Il suo carretto, sormontato dalla botte e trainato dallo stanco e acciaccato cavallo, con il rumore delle ruote e con lo scalpitio degli zoccoli dell’animale, rivelava la sua presenza in strada.

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Olio su tela di Salvatore De Caro

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Le donne gridavano: “a vutti c’è, a vutti c’è”. Le massaie, dal balcone, fermavano U zza’Saru con la botte. L’acqua, misurata con le “lancedde”, era trasportata nei piani alti delle case attraverso le scale. Che fatica anche per me!

Per Lilia, nata e vissuta in montagna, trapiantarsi a Licata fu un’emozione meravigliosa: il cielo, dal colore del lapislazzuli, di solito limpido e trasparente, era un elemento di diversità rispetto al suo paese dove la nebbia spesso avvolge, nasconde e rende tutto invisibile, anche se non è inverno.

Il mare fu la sua principale attrazione. Il mare, con le sfumature dell’azzurro e del verde. Il mare che, in un amplesso di tenerezza, lambisce le larghe spiagge dalla sabbia fine e chiara, dove s’insinua con dolcezza regalando emozioni degne di un paesaggio caraibico.

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 Dopo la mareggiata, Lilia, appassionata di malacologia, andava a raccogliere le conchiglie abbandonate sulla spiaggia.

Ama tuttora passeggiare sulla banchina del porto di levante, che profuma di sale e puzza di alghe putride; osserva, preoccupata per l’inquinamento, il gasolio che nuota a ventaglio fra le barche, miraggio dell’uccello negli abissi.

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Cominciò a praticare il mare, a partecipare alle battute di pesca subacquea con Carmelo e con gli altri amici del “Centro Attività Subacquee”,

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Da sx in I° piano: Pino Russo, Angelo Malfitano, Carmelo De Caro. 2° piano: Agostino Profumo, Matteo Re

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Da sx: Carmelo De Caro, Matteo Re, Roberto Alaimo

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Da sx: Roberto Alaimo, Carmelo De Caro

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ad organizzare gare di pesca subacquea e di pesca con canna con altri centri sportivi,

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a frequentare il porto, a parlare con i pescatori, a conoscere il mondo di chi il mare lo affronta ogni giorno e che del mare vive da sempre.

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Negli occhi, nel cuore, nell’anima d’ogni marinaio ha visto sempre il mare, una realtà difficilmente condivisa con gli altri, fatta di fatica, di ansia, di speranza. Il mare vive in ogni cellula del loro corpo mentre, tra i capelli, il vento attorciglia storie che sembrano fantasie come quelle che le raccontavano quando le avverse condizioni meteorologiche costringevano le barche a rimanere inattive dentro il porto e i marinai sul molo intenti a riparare gli strappi delle reti.

 

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Salvatore De Caro Olio su tela (82×126)cm

I pescherecci, le barche, i pescatori, con i pantaloni arrotolati alle ginocchia, con il torso nudo, levigato e bruciato dal sole, i pesci esposti nei piatti, le urla dei venditori, la gente che contrattava sul prezzo, la vendita all’asta del pescato, prove d’autentica vita marinara, i ragazzi, esperti nuotatori, che si tuffavano dalla banchina del Cuore di Gesù, usando la forza delle loro gambe e delle loro braccia, suscitavano la sua curiosità e il suo stupore.

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Un giorno, dall’isolotto della Rocca di San Nicola Lilia, in piedi sul canotto durante una escursione, perdeva lo sguardo tra cielo e mare nella linea dell’orizzonte quando si accorse che, in lontananza, la superficie del’acqua s’increspava stranamente. Erano due piccoli delfini che, con il loro movimento sinuoso, la ondulavano. Comparivano e scomparivano, si tuffavano e riemergevano.

Utilizzando un potente canotto a motore, Carmelo, Cesare e Lilia li seguirono fino a Punta Bianca, navigando sotto costa.
Poi i delfini presero il largo.

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I vecchi marinai licatesi chiamano ancora questi cetacei “A fera, u malu pisci” perché, seguendo la scia delle barche, con i loro denti strappano il sacco delle reti per rubare il pesce. I pescatori al porto parlano sempre dei loro incontri con i delfini.

Nelle sere d’inverno alcuni pescatori avevano l’abitudine di recarsi nella sede sociale del circolo sportivo “Centro Attività Subacquee”, vicino al porto, dove discutevano su fatti avvenuti in mare.

I delfini erano i principali protagonisti delle storie.

Lilia intratteneva i marinai, esponendo le sue conoscenze storiche, mitologiche, antropiche che si riferivano a questo splendido cetaceo. Tutti ascoltavano attenti, mentre raccontava, “ripescando” dai testi antichi le mitiche immagini del delfino, da sempre “signore dei mari”, animale particolarmente intelligente, dotato di un’elevata capacità d’apprendimento, sensibile alla musica, socievole, compagno dei marinai ai quali preannuncia acque calme e rotte sicure, “complice” dei pescatori, caro agli Dei, simpatico agli uomini, che lo hanno considerato amico anche per il notevole senso ludico. Con Aristotele conoscevano la credenza secondo la quale i delfini sorvegliavano i giovani bagnanti per evitare loro calamità; se accadevano, essi si prodigavano per riportare pietosamente le vittime a riva. Apprendevano che i delfini erano ben visti anche dai navigatori che interpretavano i loro fischi come presagi propizi.

Ogni sera Lilia aveva una storia da raccontare. Simili ai grani del rosario, le leggende scorrevano affascinando i marinai, che, come “bambini curiosi”, le commentavano animatamente.

Durante le sere d’estate i pescatori, seduti fuori del bar “di Vili” dove gli ultimi raggi di sole intiepidivano la sedia dove si riposavano, si incontravano con gli altri marinai per parlare di lavoro, di mare, di qualità del pescato, di povertà, di provvidenza, di tempeste, di naufragi, di venti dei quali sono esperti conoscitori. “Sciroccu chiaru e tramuntana scura mettiti a mari senza paura” dicevano. Raccontavano che il marinaio più anziano, appena avvistata la ddraunara, la terrificante tromba marina, cercava di esorcizzarla e di allontanarla tagliandola con un coltello appuntito, facendo con le braccia una grande croce e recitando in silenzio un’orazione. Nessun altro membro dell’equipaggio doveva ascoltarla.
L’esorcismo altrimenti sarebbe stato nullo.

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Ogni racconto, arricchito da molta fantasia, era ascoltato con superstizioso silenzio perché ricordava il terrore di un’esperienza vissuta o, nell’immaginario, creava l’incubo di un probabile  incontro.

Spesso, Carmelo e Lilia, insieme, aspettavano al porto il rientro dell’ultima barca accompagnata dal sole che moriva e dai gabbiani in volo.

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Si fermavano a guardare il mare con le barche illuminate dalle lampare che davano loro la sensazione di uno sciame di lucciole che si muovevano nel buio, mentre il faro spezzava l’oscurità con una sventagliata di luce sfiorando i pescatori che, a quel fascio di luce inafferrabile sicuramente affidavano un volto, una preghiera per coloro che dal mare sono stati inghiottiti.

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Sono lontani ricordi, nostalgie  per tutte le persone care e per tutto ciò che non c’è più che aiutano, però, il percorso della vita di Lilia, anche se essi hanno le ali e potrebbero volare!

Ogni ricordo è un tornare indietro nel paesaggio della labile memoria. Essa è lo strumento per l’agire nel presente e nel futuro e le pagine tratte dalla realtà diventano semplici barlumi e frammenti del vissuto.

Dopo tanto tempo, Lilia contempla ancora con occhi incantati il mare rilucente sotto il sole del mattino o sotto la scia luminosa della luna.

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Sulla sponda della costa licatese viene ad ascoltare il respiro del mare, a sentire l’odore, ad udire il mormorio delle onde che lo animano come una piacevole melodia, a scrutarlo quando è calmo e quando è arrabbiato e a lasciarsi sfiorare dagli spruzzi d’acqua salata.

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