May 1, 2022 - Senza categoria    Comments Off on “GOCCE DI PERLE” E “COME FETTA” DUE POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE

“GOCCE DI PERLE” E “COME FETTA” DUE POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE

“GOCCE DI PERLE” E “COME FETTA” sono le più recenti poesie inedite scritte dalla poetessa Rosaria Ines Riccobene, di Licata (Ag).

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La poetessa Rosaria Ines Riccobene è autrice di due libri: “LE ALI DEL CUORE”, edito da “La Vedetta” Ass. Cult. “I. Spina” nell’anno 2010, che contiene 176 poesie, alcune scritte anche in vernacolo licatese per dare meglio l’impronta della sua sicilianità.

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e “LUCI OMBRE VOCI E SILENZI”. La sua dedica: “A tutti coloro che vivono le emozioni intensamente e che riescono sempre a sognare”.
Il volume, che contiene 98 liriche, è stato pubblicato dall’editore “IL CONVIVIO” nel mese di Aprile del 2017 nella collana di poesie “Calliope”.

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 Rosaria Ines Riccobene è nata a Licata, dove risiede, l’11 maggio 1939, in una famiglia numerosa. Sesta di 6 figli, ha compiuto i suoi studi a Licata, conseguendo il diploma magistrale a Caltanissetta. Ha insegnato per tanti anni, oggi in quiescenza, negli Istituti scolastici di Licata e di Gela in qualità di docente di Scuola Primaria, dove è stata molto apprezzata per la sua preparazione culturale, per la sua disponibilità al dialogo, per la collaborazione e soprattutto per la sua grande umanità.
Donna di squisita sensibilità, d’immediata spontaneità, di vivacissima immaginazione, d’intensa ispirazione, Rosaria Ines Riccobene ha scritto da sempre piccole e grandi liriche che conservava gelosamente nello scrigno del suo cuore. Aveva scritto le poesie per se stessa, tenendole legate intimamente al suo animo, come modo di salvaguardia della sua vita privata.
Dopo la morte del marito, all’età di 60 anni, ha dato inizio alla partecipazione a vari concorsi letterari che, veramente, hanno riempito in parte la sua vita sconfiggendo la solitudine.

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Ha partecipato al concorso letterario di poesia e di narrativa, edita ed inedita, in dialetto siciliano “Enzo Romano” promosso dall’Ass.ne Kermesse d’Arte. La cerimonia di premiazione si è svolta nell’aula delle conferenze del palazzo Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta.

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 https://youtu.be/NMYCk2q6Om8

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Per la sua intensa attività poetica e per il valore delle sue liriche, Rosaria Ines ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti locali, regionali, nazionali e internazionali.

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 Molte delle sue poesie sono state pubblicate in molte antologie, in giornali, in riviste, in cataloghi, in calendari, in agende.
I temi trattati dall’autrice nelle sue poesie sono svariati e abbracciano tanti campi: dai sentimenti personali, ai silenzi, alle sofferenze, alla cattiveria umana, alla guerra, ai paesaggi, all’ambiente, alla sua Terra, alla Natura che l’Uomo sta distruggendo, ma nella quale potrebbe trovare soluzioni a tutte le sue necessità. L’Amore è il tema molto ricorrente.
Amore è tendere la manoper intrecciare girotondi, là dove solitudine, violenze e odio ergono muri insormontabili”. Molto belli sono i versi dedicati alla Madre: “La Mamma accende la luce dentro le case / è come il sole che con i suoi raggi riscalda tutte le cose”.
Anche in questo suo secondo libro la poetessa Rosaria Ines Riccobene inneggia all’Amore visto come innamoramento dell’interiorità. Nella poesia “Questo è amore”: “Si, questo è amore. Amore che sublima./ Amore che prende il possesso del cuore./ Amore che apre un varco alla speranza / e che illumina ancora il mio cammino” si nota nell’autrice attesa, luce, speranza. “ Ti ho cercato nella quotidianità della vita / nella solitudine del mio essere”. Amore sembra essere la guida di questa silloge, che avvolge il mondo e le persone, ma è anche il sentimento attraverso cui ritrovare se stessi. Inoltre, alcuni altri suoi lavori: monologhi, dialoghi, racconti, sono stati messi in scena dalle scuole e da un Laboratorio teatrale amatoriale di Licata. Fa parte delle associazioni locali, CUSCA e FIDAPA, e di altre associazioni nazionali e internazionali. E’ stata inserita nel DIZIONARIO BIOBIBLIOGRAFICO DEGLI AUTORI SICILIANI tra Ottocento e Novecento, diretto dai signori Angelo e Giuseppe Manitta.

Complimenti alla mia carissima Amica Rosaria Ines Riccobene, Rina, per l’intensa attività letteraria. Le manifesto il mio affetto soprattutto per la sua grande nobiltà d’animo.

Grazie Rina!

Apr 16, 2022 - Senza categoria    Comments Off on “SCENARIO DI GUERRA” E “SONO IL SOLDATO INVANO IMMOLATO” , POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE.

“SCENARIO DI GUERRA” E “SONO IL SOLDATO INVANO IMMOLATO” , POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE.

Ho deciso di pubblicare nel mio blog le poesie  dal titolo :”SCENARIO DI GUERRA” E “SONO IL SOLDATO INVANO IMMOLATO”, tratte dal libro “LUCI OMBRE VOCI E SILENZI”, pubblicato dalla poetessa Rosaria Ines Riccobene, di Licata, perché descrive chiaramente la guerra e le emozioni del soldato durante ogni guerra.
Il mondo intero sta assistendo alla guerra fra l’Ucraina e la Russia, attualmente in atto, e di cui ancora non si nota nessun accenno di pace.

SCENARIO DI GUERRA

Scoppi boati e rimbombi assordano l’aria.
Gemiti pianti lamenti echeggiano attorno.
Macerie e cadaveri si accasciano al suolo
come carta e fantocci in un film di orrore.
Feriti impotenti chiedono invano soccorso. Sperano.
Terrore e sgomento serpeggiano e assaltano.
Sentore di morte si avverte si sente si respira.
Gente smarrita, impazzita che vaga che fugge.
Urla strazianti di mamme di mogli di figli.
Distruzione vede lo sguardo. Distruzione assoluta.
Paesaggio apocalittico, infernale. Tutto crolla.
Tutto si frantuma: l’operato dell’uomo – il progresso –
Scenario di abbrutimento dell’animo, della mente.
Scenario di guerre assurde inutili – illogiche –
Dove si calpestano diritti umani e dignità
dove giustizia fraternità uguaglianza
sono solo chimere, vessilli che sventolano invano.
Scenari dove impera l’odio verso il fratello
dove sono protagonisti imbattibili il potere e l’avere
dove l’uomo diventa animale, bestia feroce
dove la sua umanità è soltanto follia.
Scenario dove l’uomo distrugge se stesso, il futuro.
Giardino senza fiori, senza farfalle né odori né colori
giardino dove non cresce la gioia e la felicità
dove si semina panico e si ascolta il silenzio
dove non c’è più vita. Dove non c’è più Amore.
Dove l’uomo rinnega se stesso, il suo essere uomo
dove l’uomo rinnega l’esistenza di un Dio. 

 

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“LUCI OMBRE VOCI E SILENZI” è il secondo libro di poesie scritte dalla stessa autrice Rosaria Ines Riccobene.
La sua dedica: “A tutti coloro che vivono le emozioni intensamente e che riescono sempre a sognare”.
Il volume, che contiene 98 liriche, è stato pubblicato dall’editore “IL CONVIVIO” nel mese di Aprile del 2017 nella collana di poesie “Calliope”.

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In alcuni versi di questa poesia l’autrice scrive:” Cessate il fuoco dove c’è la morte /. Accendete il cielo con fuochi d’artificio / dove il suolo è intriso di sangue innocente / dove fratelli stroncati dall’odio non vedranno / stelle cadenti nè soavi albe nè tramonti struggenti / dove fratelli – entità di penombra-storditi / dal fracasso delle bombe e dagli orrori della guerra / vagheranno senza meta in cupe tenebre“.
Anche in questo suo secondo libro la poetessa Rosaria Ines Riccobene inneggia all’Amore visto come innamoramento dell’interiorità.
Nella poesia “Questo è amore
”: “Si, questo è amore. Amore che sublima./ Amore che prende il possesso del cuore./ Amore che apre un varco alla speranza / e che illumina ancora il mio cammino” si nota nell’autrice attesa, luce, speranza. “ Ti ho cercato nella quotidianità della vita / nella solitudine del mio essere”. Amore è anche quello della Patria che vede morire i propri figli a causa della guerra.
Amore sembra essere la guida di questa silloge, che avvolge il mondo e le persone, ma è anche il sentimento attraverso cui ritrovare se stessi.
Il primo libro pubblicato dalla poetessa Rosaria Ines Riccobene è intitolato “LE ALI DEL CUORE”, edito da “La Vedetta” Ass. Cult. “I. Spina” nell’anno 2010, contiene 176 poesie, alcune scritte anche in vernacolo licatese per dare meglio l’impronta della sua sicilianità.

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Rosaria Ines Riccobene è nata a Licata, dove risiede, l’11 maggio 1939, in una famiglia numerosa. Sesta di 6 figli, ha compiuto i suoi studi a Licata, conseguendo il diploma magistrale a Caltanissetta. Ha insegnato per tanti anni, oggi in quiescenza, negli Istituti scolastici di Licata e di Gela in qualità di docente di Scuola Primaria, dove è stata molto apprezzata per la sua preparazione culturale, per la sua disponibilità al dialogo, per la collaborazione e soprattutto per la sua grande umanità.

Donna di squisita sensibilità, d’immediata spontaneità, di vivacissima immaginazione, d’intensa ispirazione, Rosaria Ines Riccobene ha scritto da sempre piccole e grandi liriche che conservava gelosamente nello scrigno del suo cuore. Aveva scritto le poesie per se stessa, tenendole legate intimamente al suo animo, come modo di salvaguardia della sua vita privata.
Dopo la morte del marito, all’età di 60 anni, ha dato inizio alla partecipazione a vari concorsi letterari che, veramente, hanno riempito in parte la sua vita sconfiggendo la solitudine.
Ha partecipato al concorso letterario di poesia e narrativa, edita ed inedita, in dialetto siciliano “Enzo Romano” promosso dall’Ass.ne Kermesse d’Arte. La cerimonia di premiazione si è svolta nella sala delle conferenze del palazzo Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta.

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https://youtu.be/NMYCk2q6Om8

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Per la sua intensa attività poetica e per il valore delle sue liriche, Rosaria Ines ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti locali, regionali, nazionali e internazionali. Molte delle sue poesie sono state pubblicate in molte antologie, in giornali, in riviste, in cataloghi, in calendari, in agende.

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I temi trattati dall’autrice nelle sue poesie sono svariati e abbracciano tanti campi: dai sentimenti personali, ai silenzi, alle sofferenze, alla cattiveria umana, alla guerra, ai paesaggi, all’ambiente, alla sua Terra, alla Natura che l’Uomo sta distruggendo, ma nella quale potrebbe trovare soluzioni a tutte le sue necessità. L’Amore è il tema molto ricorrente. Amore è tendere la manoper intrecciare girotondi, là dove solitudine, violenze e odio ergono muri insormontabili”. Molto belli sono i versi dedicati alla Madre: “La Mamma accende la luce dentro le case / è come il sole che con i suoi raggi riscalda tutte le cose”.
Inoltre, alcuni altri suoi lavori: monologhi, dialoghi, racconti, sono stati messi in scena dalle scuole e da un Laboratorio teatrale amatoriale di Licata. Fa parte delle associazioni locali, CUSCA e FIDAPA, e di altre associazioni nazionali e internazionali.
E’ stata inserita nel DIZIONARIO BIOBIBLIOGRAFICO DEGLI AUTORI SICILIANI tra Ottocento e Novecento, diretto dai signori Angelo e Giuseppe Manitta.
Complimenti alla mia carissima Amica Rosaria Ines Riccobene, Rina, per l’intensa attività letteraria. Le manifesto il mio affetto soprattutto per la sua grande nobiltà d’animo.
Grazie Rina!

Apr 1, 2022 - Senza categoria    Comments Off on “A GUERRA”, “GUERRA”, “CESSATE IL FUOCO” TRE POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE.

“A GUERRA”, “GUERRA”, “CESSATE IL FUOCO” TRE POESIE SCRITTE DALLA POETESSA LICATESE ROSARIA INES RICCOBENE.

Ho scelto di pubblicare nel mio blog le poesie dal titolo “A GUERRA”, “GUERRA”, “CESSATE IL FUOCO“, tratte dal libro “LE ALI DEL CUORE”, pubblicato dalla poetessa Rosaria Ines Riccobene, di Licata, perché descrive chiaramente la guerra fra l’Ucraina e la Russia, attualmente in atto, e di cui ancora non si nota nessun accenno di pace.

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Il libro, “LE ALI DEL CUORE”, edito da “La Vedetta” Ass. Cult. “I. Spina” nell’anno 2010, contiene 176 poesie, alcune scritte anche in vernacolo licatese per dare meglio l’impronta della sua sicilianità.

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LUCI OMBRE VOCI E SILENZI” è il secondo libro di poesie scritte dalla stessa autrice Rosaria Ines Riccobene.
La sua dedica: “
A tutti coloro che vivono le emozioni intensamente e che riescono sempre a sognare”.
Il volume, che contiene 98 liriche, è stato pubblicato dall’editore “IL CONVIVIO” nel mese di Aprile del 2017 nella collana di poesie “Calliope”.

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 Rosaria Ines Riccobene è nata a Licata, dove risiede, l’11 maggio 1939, in una famiglia numerosa. Sesta di 6 figli, ha compiuto i suoi studi a Licata, conseguendo il diploma magistrale a Caltanissetta. Ha insegnato per tanti anni, oggi in quiescenza, negli Istituti scolastici di Licata e di Gela in qualità di docente di Scuola Primaria, dove è stata molto apprezzata per la sua preparazione culturale, per la sua disponibilità al dialogo, per la collaborazione e soprattutto per la sua grande umanità.
Donna di squisita sensibilità, d’immediata spontaneità, di vivacissima immaginazione, d’intensa ispirazione, Rosaria Ines Riccobene ha scritto da sempre piccole e grandi liriche che conservava gelosamente nello scrigno del suo cuore. Aveva scritto le poesie per se stessa, tenendole legate intimamente al suo animo, come modo di salvaguardia della sua vita privata.
Dopo la morte del marito, all’età di 60 anni, ha dato inizio alla partecipazione a vari concorsi letterari che, veramente, hanno riempito in parte la sua vita sconfiggendo la solitudine.

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Ha partecipato al concorso letterario di poesia e di narrativa, edita ed inedita, in dialetto siciliano “Enzo Romano” promosso dall’Ass.ne Kermesse d’Arte.
La cerimonia di premiazione si è svolta nella sala delle conferenze del palazzo Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta.

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Per la sua intensa attività poetica e per il valore delle sue liriche, Rosaria Ines ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti locali, regionali, nazionali e internazionali.

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 Molte delle sue poesie sono state pubblicate in molte antologie, in giornali, in riviste, in cataloghi, in calendari, in agende. I temi trattati dall’autrice nelle sue poesie sono svariati e abbracciano tanti campi: dai sentimenti personali, ai silenzi, alle sofferenze, alla cattiveria umana, alla guerra, ai paesaggi, all’ambiente, alla sua Terra, alla Natura che l’Uomo sta distruggendo, ma nella quale potrebbe trovare soluzioni a tutte le sue necessità.
L’Amore è il tema molto ricorrente. Amore è tendere la manoper intrecciare girotondi, là dove solitudine, violenze e odio ergono muri insormontabili”. Molto belli sono i versi dedicati alla Madre: “La Mamma accende la luce dentro le case / è come il sole che con i suoi raggi riscalda tutte le cose”.
Anche nel suo secondo libro la poetessa Rosaria Ines Riccobene inneggia all’Amore visto come innamoramento dell’interiorità.
Nella poesia “Questo è amore”: “Si, questo è amore. Amore che sublima./ Amore che prende il possesso del cuore./ Amore che apre un varco alla speranza / e che illumina ancora il mio cammino” si nota nell’autrice attesa, luce, speranza. “ Ti ho cercato nella quotidianità della vita / nella solitudine del mio essere”. Amore sembra essere la guida di questa silloge, che avvolge il mondo e le persone, ma è anche il sentimento attraverso cui ritrovare se stessi.
Inoltre, alcuni altri suoi lavori: monologhi, dialoghi, racconti, sono stati messi in scena dalle scuole e da un Laboratorio teatrale amatoriale di Licata. Fa parte delle associazioni locali, CUSCA e FIDAPA, e di altre associazioni nazionali e internazionali. E’ stata inserita nel DIZIONARIO BIOBIBLIOGRAFICO DEGLI AUTORI SICILIANI tra Ottocento e Novecento, diretto dai signori Angelo e Giuseppe Manitta.
Complimenti alla mia carissima Amica Rosaria Ines Riccobene, Rina, per l’intensa attività letteraria. Le manifesto il mio affetto soprattutto per la sua grande nobiltà d’animo.
Grazie Rina!

Mar 14, 2022 - Senza categoria    Comments Off on L’UPUPA EPOPS NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

L’UPUPA EPOPS NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

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Stamattina, aggrappata alla rete metallica del recinto che circonda il mio podere a Licata, in contrada Montesole-Giannotta, mi aspettava la mia piccola amica. Sapeva che sarei andata in campagna approfittando della giornata bella e soleggiata.
Il 21 di marzo, l’equinozio di primavera, è vicino e il mite sole di oggi ha riscaldato l’aria allontanando il rigido freddo dell’inverno che sta per andare via. Finalmente!
Mi aspettava tranquilla perché sapeva che sarei venuta in campagna per provvedere alle piante.
Non ha chiesto niente, non ha avuto bisogno di nulla, solo del mio saluto. Si è dissetata con la buona acqua fresca della grande vasca che mi preoccupo di tenere sempre piena e pulita.
Nella mia vasta pineta ha trovato abbondante cibo per nutrirsi.
Mi sono avvicinata ad essa pian piano, senza impaurirla. Ci siamo guardate. Mi ha salutato sbattendo le sue bellissime ali.
Anche quest’anno è ritornata a Licata da chissà quale Paese lontano.
Questa mia piccola amica è un singolare uccello con la cresta.
E’ l’Upupa.
Più frequente è la presenza del Cuculo nostrano, della Civetta, del Barbagianni, dell’Assiolo, del Rampichino, del Martin pescatore, del Merlo, del Pettirosso, della Gazza, della Cornacchia, della Taccola, del Piccione.
Tra le specie stagionali s’incontra: L’Upupa, il singolare uccello con la cresta, lo spettacolo meraviglioso che si può ammirare, osservando il suo volo lento e tranquillo, percorrendo la strada della montagna di Montesole a Licata !
Il suo nome scientifico: UPUPA EPOPS .
Originaria della regione etiopica, l’Upupa comparve nel Pleistocene medio.
Notturno solo per i poeti, è invece un uccello diurno. Il suo canto monotono gli ha fatto attribuire erroneamente abitudini notturne che invece non possiede.
L’Upupa è uno dei più colorati e straordinari uccelli dell’avifauna europea.
In generale, le livree variopinte appartengono a specie che abitano nei paesi caldi e tropicali, mentre nei paesi temperati come il nostro, presentano un piumaggio più uniforme e smorto.
É quindi facile ipotizzare che quest’uccello sia di origine tropicale.
L’Upupa è facilmente riconoscibile per il ciuffo erettile di penne lunghe di colore rosa carico sul capo. Ciascuna penna termina con una macchia nera separata dal rosso mediante una stria bianca.
Per questo motivo il suo aspetto è molto caratteristico e inconfondibile.
Nessun altro uccello ha un ciuffo paragonabile al suo!

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Foto di Salvatore Russotto

L’Upupa è un uccello dal corpo lungo circa 25 cm, snello, elegantissimo, dal piumaggio di colore rosa cannella, delicato, uniforme sul dorso, più chiaro sull’addome e striato di bruno sui fianchi. Ha il capo piccolo, provvisto di un becco scuro, sottile, arcuato verso il basso, terminante a punta e le ali e la coda nere e fasciate di bianco.
Distribuita su un areale vastissimo dell’Eurasia e dell’Africa dove è comunissima, compare in Italia isolatamente alla fine di marzo.
Fermandosi in estate come specie assai abbondante, riparte alla fine di ottobre.
L’Upupa, come l’Assiolo, preferisce gli ambienti caldi e asciutti, aperti e intervallati da boschetti e filari di alberi, ma vive bene anche vicino alle abitazioni.
Il nome Upupa deriva dal richiamo “up-up-up” emesso dal maschio con un suono basso, udibile però a notevole distanza, quale invito alla nidificazione.
Durante il corteggiamento o presso il nido, questo suono è più rauco e gutturale e si ode solo a breve distanza.
L’Upupa è un uccello molto riservato e timido; se è spaventato, tende ad alzare ritmicamente la cresta di piume poste sul capo.
L’appariscente Upupa ha gli arti poco sviluppati che le permettono di camminare velocemente sul terreno nei luoghi aperti, incolti e soleggiati alla ricerca di vermi, di formiche, di larve, di grossi insetti servendosi del lungo becco inarcato, spalancato, pronto ad ingoiare. Sbatte ripetutamente la preda a terra per liberarla dalla testa, dalle ali, dalle zampe e poi se ne ciba.

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Foto di Salvatore Russotto

Nelle zone poco alberate, frequenta gli insediamenti umani. Durante il volo, la cresta si abbassa facendole assumere una forma aerodinamica.
L’apertura delle ali ampie, arrotondate, bianche e nere, la fanno assomigliare ad una grande ed elegantissima farfalla che descrive una traiettoria ondeggiante.
Il maschio, all’inizio del periodo riproduttivo, esegue una semplicissima parata nuziale spiegando a ventaglio la cresta.
Emette il suo richiamo territoriale da una posizione elevata dal suolo e il suono profondo può arrivare anche molto lontano; mentre lo emette, l’Upupa abbassa il capo e gonfia il collo e può ripetere il verso anche parecchie volte di seguito ad intervalli di qualche secondo l’uno dall’altro.
La femmina dell’Upupa non costruisce un nido vero e proprio, ma un giaciglio grossolano realizzato con muschio, con erbe, con paglia all’interno delle cavità degli alberi, tra le rocce e, più raramente, tra mucchi di pietre, in zone aperte e soleggiate.
É importante la presenza di vecchi alberi con cavità sufficientemente ampie per accogliere la nidiata non numerosa.
Una sola volta l’anno, a cominciare dalla fine di aprile e fino a giugno, depone da 4 a 7 uova di colore bianco – verdastre e sporche di giallo, di forma allungata, che la femmina cova per una quindicina di giorni, mentre il maschio le procura il cibo.
I piccoli sono nutriti nel nido per circa un mese da entrambi i genitori.
L’Upupa è conosciuta come l’uccello che non ripulisce mai il nido dalle deiezioni e dagli avanzi di cibo, per questo, dopo poco tempo, si sprigiona un forte e ripugnante odore. In realtà lo sgradevole effluvio è dovuto ad una particolare secrezione nauseabonda prodotta da una ghiandola e spruzzata dai nidiacei al di fuori del nido per scoraggiare eventuali predatori.

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Foto dal Web

Per questo cattivo odore l’Upupa, dal fiorentino naturalista e numismatico Sestini (1750 – 1832), è stata definita immonda nella
“Pia dei Tolomei”:
“… chiama un estinto
L’Upupa immonda in luttuoso metro”.
L’Upupa adulta ha un mezzo efficace per sfuggire ai nemici: il mimetismo.
Proprio per la tinta rosata del piumaggio non è facile notarla quando se ne sta ferma su un ramo o su un muro a riposare, o quando sul terreno allarga le ali sotto i raggi del sole. Si mimetizza con l’ambiente diventando difficilmente individuabile.
Bisogna avere un occhio allenato per poterla scoprirefra i tanti nascondigli naturali e protettivi.
Al sopraggiungere della cattiva stagione l’Upupa, come l’Assiolo, abbandonando
l’Italia, migra verso le zone meridionali del suo areale di distribuzione, svernando nell’Africa sud -sahariana, nel sudest della Spagna, ma permanendo anche in Sicilia e in Sardegna, dove la temperatura, anche in gennaio, si aggira intorno ai 12 -13 gradi.
Purtroppo anche l’Upupa, negli ultimi decenni, ha subìto un grave calo nel numero degli esemplari essendo molto sensibile alle modificazioni ambientali. L’uso massiccio di pesticidi usati in agricoltura per la lotta agli insetti e ai parassiti delle piante hanno enormemente ridotto le prede di quest’uccello che, di conseguenza, per mancanza di cibo, si sta gradualmente rarefacendo in tutto il suo areale: insetti come il grillotalpa, tanto odiato dagli agricoltori, o come la dannosa processionaria del pino, rientrano nella sua dieta, ma scarseggiano.
L’Upupa non è neanche l’uccello che, con luttuoso singulto, svolazza sulle obliate sepolture di foscoliana memoria come leggiamo ne
“Dei Sepolcri”:
Senti raspare tra le macerie e bronchi
la derelitta cagna ramingando
sulle fosse, e famelica ululando;
e uscir dal teschio, ove fuggia la luna
L’Upupa e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l’immonda accusa col luttuoso
Singulto i rai, di che son pie le stelle
Alle obliate sepolture.
Nel carme alle “Grazie” Foscolo maltratta l’Upupa che, invece, è molto graziosa e si fa addomesticare facilmente dall’uomo.
Eugenio Montale la definì, invece, “l’uccello caro ai poeti”:
Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l’aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;…
(E. Montale, Upupa, ilare uccello calunniato, 1-4).
Maria Luisa d’Austria, nel 1809, scriveva che sua sorella Leopoldina si divertiva ad allevare una superba e dolcissima Upupa che portava in giardino rischiando di farla afferrare da un gatto.
La magia popolare fa largo uso di questo animale. Chi porta addosso, come amuleto, gli occhi dell’Upupa si arricchisce.
Chi mette gli occhi dell’Upupa sullo stomaco si riconcilia con i nemici. Chi porta appesa al collo una borsetta contenente la testa dell’Upupa non potrà mai essere ingannato negli affari.
Come sempre, provare per credere!

Mar 1, 2022 - Senza categoria    Comments Off on LA MONTAGNA E I RILIEVI CHE CIRCONDANO LA CITTA’ DI LICATA

LA MONTAGNA E I RILIEVI CHE CIRCONDANO LA CITTA’ DI LICATA

Durante le mie tante escursioni ho conosciuto la “Montagna” di Licata e per me è stato un piacevole fenomeno naturale.
Ho incontrato moltissimi esseri viventi appartenenti al regno animale e al regno vegetale che, in parte, ho descritto nel mio blog.

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 https://youtu.be/YSUmikUi-dQ

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 La “Montagna” di Licata, con i suoi terreni calcarei, con l’orientamento Est – Ovest dell’asse maggiore, con la vicinanza del mare, presenta numerosissime specie vegetali spontanee, quasi tutte termofile e adatte a vivere in ambiente a bassa piovosità.
La montagna è stata ricoperta in epoca preistorica dalla caratteristica macchia mediterranea, ma nel corso dei millenni è stata sistematicamente spogliata dei suoi elementi più vistosi.
Osservando più specificatamente le piante presenti nella Montagna di Licata, ho rilevato che oggi la vegetazione spontanea d’alto fusto, residua dell’originaria macchia, è limitata ai generi Sorbus e Crataegus, il Sorbo e l’Azzeruolo, spesso addomesticati per i frutti eduli e al Pinus halepensis,

2  pinus alopensis

importato nell’antichità e naturalizzato che, con Mandorli e Ulivi, creano le uniche contrastanti tinte verdi nel periodo siccitoso estivo.

3 mandorlo

 Sul versante Nord prevalgono due specie del genere pistacea: Pistacia terebintus e Pistacia lentiscus, residue della primitiva macchia,

4 lentisco ok

 e a Sud -Ovest grandi cespugli di Rosmarinus officinalis.

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 Sui terreni più poveri delle alture calcaree esposte a mezzogiorno, la gariga assume un aspetto steppico; qui non è raro riscontrare la Stipa o “Lino delle fate”, un’elegante graminacea tipica dei pre – deserti nordafricani.
Sui costoni calcarei predominano specie vegetali adatte a sopportare l’estrema secchezza e le elevate temperature estive come il Timo, la Bocca di leone, la Palma nana, il Cappero, il Semprevivo.I lunghi periodi di penuria d’acqua hanno condizionato l’evoluzione di queste piante orientandole verso una straordinaria resistenza alla siccità e all’alta temperatura.
Una fessura nel calcare e un pugno di terra sono più che sufficienti per farle vivere.Sempre tra le rocce, ma su sacche di terreno più estese e profonde, crescono: l’Erica, il Lentisco, l’Asfodelo

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 e diverse splendide orchidacee.
Sui pendii più assolati, uniche macchie verdi estive, si esibiscono gli eleganti cespi dell’Ampelodesmos mauritanicus, una graminacea dalle spighe alte e piumose e da un consistente insieme di foglie nastriformi dai margini taglienti come rasoi.
Questa specie è capace di vivere benissimo anche in terreni molto poveri e dilavati, dando cromatismo e movimento a superfici altrimenti brulle e immote.Su alcuni pendii erbosi e rocciosi le vere e proprie distese di Asfodelo, predominante nell’associazione con gli altri vegetali, indicano il grado di impoverimento di un pascolo eccessivamente sfruttato.
La numerosità delle piante d’Asfodelo è, infatti, direttamente proporzionale alla povertà del terreno.In associazione costante alle macchie arboree e cespugliose si accompagnano costantemente: l’ Asparago,

7 asparago 2 ok

il Caprifoglio e l’Acanto

8 acantus mollis

Molti vegetali a radici carnose riescono a sopravvivere alla lunga stagione asciutta perdendo completamente la parte aerea.
Essi sono: il Gladiolo, l’Anemone, il Croco, la Mandragora. 

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 Sempre nei luoghi rocciosi vivono molto ben distribuiti: il Capparo spinoso e il Thimo, già noto nell’antichità per il suo forte profumo.
Dei luoghi erbosi esposti a tramontana sono i generi: Iris, Croco, Colchico e Anemone

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 che, da febbraio a luglio, rallegrano di vivacissime macchie di colore pendii e terrazze.
Sempre dei luoghi erbosi e riparati, poco frequenti, sono due generi di orchidee mediterranee: Orchis e Ophrys dai coloratissimi, esotici fiori.
Particolare menzione merita la Palma nana spesso abituale nei luoghi rocciosi, ma non tanto da considerarsi comune perché di difficile adattamento a mutate condizioni ambientali.

11 palma nana

Sui terreni molto poveri e prossimi al mare vegetano: l’Ammofila arenaria (graminacea pioniera che sopporta temperature di 60°- 70°C) e il Mesembryanthemum,

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 che vincola dune e scarpate col fusto strisciante e con le foglie carnose fino a formare un fittissimo tappeto che in primavera si ricopre di fiori appariscenti vivacemente colorati.
Notevole è la pineta della mia campagna formata da 45 esemplari di pino domestico (Pinus pinea),

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 di pino d’Aleppo (Pinus halepensis), di pino marino, di alcune tuie, di pochi cipressi, tutte piante collocate e amorevolmente curate da me.
Per questo motivo la montagna, in contrada Montessole-Giannotta, è diventata un importante polmone verde per queste tantissime piante ad alto fusto piantate da qualche decennio e scampate agli incendi.
Spogliati della copertura arborea originaria, i terreni dei rilievi, dal profilo accidentato e dall’elevata aridità, scoraggiano qualsiasi forma di agricoltura moderna e razionale e diventano pascoli incolti quando il frenetico sviluppo delle erbe annuali li trasforma in verdissimi tappeti di graminacee con isole gialle di Oxalis acetosella

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 o rosseggianti di Sulla o ancora con grandi macchie dorate di Crisantemo.
Colori primaverili dalla breve vita, poiché già in maggio mutano nel giallo-bruno dell’erba secca.
Tra le rupi e i costoni calcarei di Monte Petrulla vegeta una pianta della famiglia delle Crucifere presente in un areale molto limitato della Sicilia centro-meridionale: è la Brassica tinei, un cavolo selvatico a fusto semilegnoso con fiorellini gialli alto circa 1,5 metri considerato un esemplare raro.
La gariga è caratterizzata dall’estrema rarefazione di piante d’alto fusto che sono limitate alle specie rappresentative della fascia mediterraneo-arida: il carrubo, l’olivastro, la palma nana e il lentisco.
Il fuoco percorre spesso queste terre, appiccato volontariamente per eliminare o limitare lo sviluppo di piante legnose e arbustive a tutto vantaggio delle erbacee foraggiere.
Solo su piccole superfici accidentate esposte a settentrione, dove né il fuoco né l’aratro possono giungere e vi si conserva un certo grado d’umidità anche in piena estate, è possibile incontrare limitate estensioni di macchia bassa aperta, ricostituitasi dalla gariga dopo l’abbandono colturale e per questo più resistente all’aridità estiva.
Sui terreni più esposti fioriscono precocemente verso la fine dell’inverno: l’elegante Salsola oppositifolia,

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 l’Aglio selvatico, l’Anemone e, subito dopo, i graziosi cespugli di Calendula arvensis,

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 di Convolvulus tricolor

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 di Ecballium elaterium

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e di Coronilla dai fiorellini giallo-dorati e leggermente profumati.
Tra i grandi cespi di Ampelodesma e di Timo, intercalati agli eleganti gruppi di Acanto, non è difficile incontrare alcune orchidee, come le rare Barlia robertiana e Orchis saccata, che prediligono terreni freschi, oltre alle più comuni Orchis italica e Anacamptis pyramidalis della gariga arida. Questa ultima è l’orchidea a più ampia diffusione nel territorio.
In queste oasi lo strato arboreo è costituito dal Carrubo,

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dal Terebinto, dal Sorbo, dall’Olivastro, dal Fico, dal Mandorlo con qualche raro esemplare di arbusto o albero poco comune come l’Anagyris foetida riscontrata sulle pendici di Monte Giannotta.
Inframmezzati vi crescono cespugli di Azzeruolo, di Lentisco e di Spino cervino cui si associano spesso l’Efedra e la Coronilla.
Qui la fioritura del mandorlo è molto precoce: in certi anni prende l’avvio già ai primi di gennaio.
Asparago, rosa, caprifoglio, rovo e salsapariglia (Smilax aspera, detto volgarmente“stracciabraghe” per le sue spine acuminate e ricurve su fusto e foglie),

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 creano un fitto intreccio impenetrabile di tralci, di spine, di foglie e di fiori che, in autunno, risplende di frutti policromi.
L’habitat è ideale per offrire rifugio a piccoli mammiferi: Coniglio, Volpe, Lepre, Donnola, Riccio, Mustiolo e alcune specie di topi granivori.
La presenza dell’Istrice, certa anche in contrada Montesole fino a qualche decennio fa, occupa un areale limitato alle colline interne meno frequentate dall’uomo e confinata nelle zone più impervie, considerata l’urbanizzazione delle colline costiere.
Il gatto selvatico non è presente, anche se molti gatti ferali (si chiamano così i gatti rinselvatichiti) sono simili al gatto selvatico che è un’altra specie.
Invece il gatto domestico ha popolato le nostre campagne per l’abitudine dei licatesi di passare la bella stagione in collina in sua compagnia e allevato per eliminare i topi campagnoli.
Questi gatti domestici sono regolarmente abbandonati dai loro padroni in autunno, alla fine della vacanza.
Si sono adattati all’ambiente, si sono riprodotti e si sono inselvatichiti.
Gli esemplari delle nuove generazioni presentano chiaramente le caratteristiche morfologiche e comportamentali del gatto selvatico facendo pensare ad incroci con questo ultimo che sarebbe perciò presente, ma di difficile avvistamento date le sue abitudini notturne e la sua fondata diffidenza per la specie umana.
É facile inoltre incontrare, dall’autunno alla primavera successiva, lungo le stradine della montagna, greggi di pecore portate al pascolo nei terreni incolti e pieni d’erba selvatica. Quando essa si popola di villeggianti residenti, allora le pecorelle vanno a brucare l’erba in altri luoghi più lontani.
Molti sono i cani randagi che vagano per la campagna.
Tra i Rettili si nota la presenza della Testuggine e  della Biscia.
La Vipera non è presente. Il rettile, che era chiamato Vipera, o in dialetto più precisamente Apita surdu o Spitu surdu (Aspide sordo), è il Boa delle sabbie (Eryx jaculus) scoperto dal Salvatore Russotto e da un’equipe di ricercatori coordinati da Gianni Insacco nel 2015.
Serpentello innocuo e molto schivo scambiato spesso per vipera ed ucciso inutilmente. E’ presente in Italia solo a Licata.
la Testuggine terrestre è ormai estinta. Gli ultimi esemplari risalgono alla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso.
Mentre è abbastanza comune la Testuggine palustre siciliana.
Per Biscia si intende la Natrice dal collare o Biscia d’acqua che è comune.
Il rettile nero, quello che si vede più spesso, è il Biacco (Hierophis viridiflavus carbonarius).
Degli insetti, dei ragni e degli scorpioni sono ben rappresentate quasi tutte le specie italiche e siciliane e alcune di provenienza nordafricana.
La Crocidura sicula, un piccolo mammifero di pochi centimetri simile al toporagno, vive bene sia sulle colline a colture estensive sia sulle garighe a pascolo. Si tratta di un endemismo tutto siciliano.
L’avifauna comprende numerose specie stanziali e alcune migratrici.
Trascurando quelli molto comuni, è di notevole interesse, tra gli uccelli stanziali, la presenza, pur fortemente ridotta nell’ultimo decennio, dello Sparviere, specie essenzialmente boschiva, mentre è molto comune il Gheppio (Falco tinnunculus).
La sua presenza si nota più facilmente durante il periodo di passaggio quando viaggia alla ricerca di un clima più favorevole.
Più frequente è la presenza del Cuculo nostrano, della Civetta, del Barbagianni, dell’Assiolo,  del Martin pescatore, del Merlo, del Pettirosso, della Gazza, della Cornacchia, della Taccola, del Piccione, il Rampichino non è affatto presente, mentre il Picchio muratore, una volta rarissimo, ora non vive più da noi.
Tra le specie stagionali s’incontrano: L’Upupa,

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e la Quaglia, ormai rare, e la Tortora.
La Tortora dal collare orientale,  essendo più resistente della Tortora nostrana, ha occupato la nicchia ecologia divenendo più comune di questa, specie sui rilievi della Montagna.
La Tortora dal collare orientale non è stata portata dall’uomo. Si è espansa attraverso i Balcani, ha attraversato l’Istria ed è scesa nella penisola italiana fino alla Sicilia e, di nuovo, su fino alla Liguria da dove si sta spostando anche nella Francia meridionale.
Nelle zone più impervie e nei pressi di falesie calcaree poco accessibili dell’altopiano interno è possibile osservare, ma sempre meno frequentemente, il caratteristico volo di un rapace insettivoro: il Falco grillaio.
Sulle pendici più assolate e aride delle colline interne e lungo la vallata del Salso si può ascoltare il caratteristico richiamo flautato del Passero solitario.
Grossi rapaci sono occasionalmente avvistati durante le stagioni di passa.
Tra i Rettili sono ben rappresentati: il Geco e la Tarentula che ha un areale puntiforme e pertanto è da considerarsi rara.
Geco e Tarentula sono la medesima cosa. Tarentola mauritanica è il nome scientifico del Geco comune.
E’ presente un altro Geco, il Geco verrucoso o emidattilo (Hemidactylus turcicus), un po più piccolo del primo ma, in ogni caso, non sono affatto rari e neanche in pericolo. Grazie al continuo alzarsi delle temperature si sta espandendo sempre più a nord.
Non mancano: la Testuggine terrestre, la Lucertola sicula dalla lunghissima coda e, dove la vegetazione s’infittisce, la Vipera aspide e il Colubro di Esculapio oltre alla comunissima Biscia.
Colubro di Esculapio viene comunemente chiamato il Saettone che, in Sicilia,non esiste, ma esiste una specie affine: il Saettone occhi rossi (Zamenis lineatus).
Nelle antiche pietraie della gariga arida e molto assolata vive il Calcide ocellato di non facile osservazione dal momento che è molto timido e rapidissimo nella fuga.
Il nome del Calcide ocellato è Gongilo (Chalcides ocellatus) che, tra l’altro, è in Italia endemico di Sicilia e di Sardegna.
Tra gli Insetti Lepidotteri c’è da ricordare: Lycaena, Papilio podalirius, Papilio machaon, Gonopteryx ramni, Colias croceus, Vanessa cardui, Issoria lathonia, Sphinx ligustri.
Tra i Coleotteri è poco comune lo scarabeo Copris lunali, “scarabeo” coprofago, i cui maschi portano un caratteristico “corno” sulla fronte.
I più comuni scarabei sono il Phyllognathus escavatus e il Pentodon bidens.
Alcuni Imenotteri presenti sono: la Megascolia maculata flavifrons che, sebbene grandissima e temuta, non è affatto aggressiva, l’Eumenes pomiformis, una vespa che costruisce un minuscolo, caratteristico nido di fango a forma di vaso, la Xilocopa violacea dal volo rumoroso che costruisce il nido all’interno di canne, ma anche di tubi abbandonati, diversi esemplari del genere Polistes e del genere Vespa e insetti pronubi del genere Bombus e Bombylius.
La nota forbicina vive nel terreno umido ricco di sostanze organiche in disfacimento. L’insetto-stecco si mimetizza perfettamente con gli steli delle piante rinsecchite e può raggiungere facilmente una lunghezza di 20 cm.
Un’altra curiosità è il “grillo”, un tettigonide verdissimo e attero che predilige piante fortemente xerofile.
Un altro endemismo siculo è La Polyphylla ragusae.
La fauna, ricchissima e varia in tempi remoti, ha subìto un progressivo depauperamento direttamente proporzionale agli insediamenti umani nel territorio.

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Ringrazio l’amico Salvatore Russotto per la sua disponibilità al dialogo e di cui ho apprezzato: la sua preparazione culturale, i suoi preziosi consigli e la sua abbondante galleria fotografica.

Boa delle sabbie

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Testuggine palustre siciliana

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Biacco carbone, quello che tu chiami biscia

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Natrice dal collare o “biddrina”, questa è la vera biscia

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Saettone occhi rossi, il cugino più piccolo del colubro di Esculapio

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Gheppio

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Geco comune o Tarentula

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Emidattilo

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Phyllognathus escavatus

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Pentodon bidens

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Un gioiellino la Polyphylla ragusae

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Megascolia maculata flavifrons

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Feb 6, 2022 - Senza categoria    Comments Off on “UNA VITA SULLE STRADE” IL LIBRO DI GINO MONTAGNANA

“UNA VITA SULLE STRADE” IL LIBRO DI GINO MONTAGNANA

Carissimo Gino,
grazie per avermi dato l’opportunità di leggere questo tuo interessante libro.
E’ stato un gradito regalo che mi è pervenuto a casa mia, a Licata.
Grazie ancora!
Complimenti per questo ottimo lavoro autobiografico dove si notano: il racconto della tua vita sulle strade per 41 anni, la grande vivacità narrativa, la gioia del fare, il senso del dovere, la minuziosa descrizione dei luoghi, delle date riportate cronologicamente, degli eventi, delle persone.
Seguendo il tuo discorso, mi sembra di seguirti durante le tue fasi di attività lavorativa e di attraversare anch’io l’Italia da Nord a Sud assieme a te.
“UNA VITA SULLE STRADE” è il libro scritto dall’amico GINO MONTAGNANA e pubblicato dalla Casa Editrice CONSULENZE GIOVIALI.IT, alla quale l’autore ha concesso i diritti d’autore.
In copertina: l’Autore nel 1966 sulla “Moto Guzzi 500 Falcone” durante il corso di Specializzazione nel Centro di Addestramento della Polizia Stradale di Cesena.

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In seconda di copertina: il primo “scudetto” originale e ufficiale della Polizia Stradale, realizzato in tessuto ricamato blu e oro, che ogni allievo doveva cucirsi a mano sulla manica sinistra della divisa di Ordinanza al termine del Corso di Specializzazione.

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L’autore, nelle 138 pagine del libro, descrive la sua vita dall’infanzia fino al pensionamento dopo 41 anni di efficiente servizio, in ultimo come Comandante della stessa Caserma di San Donato Milanese, là dove aveva cominciato il servizio da ragazzo.
Il libro è stato scritto con tanto fervore soprattutto per far conoscere ai suoi nipotini parte della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua vita lavorativa.

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Gino Montagnana è nato il 2 settembre del 1946 a Grancona, un piccolo centro agricolo della provincia di Vicenza, posto a 400 metri sul livello del mare.

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La sua famiglia, povera, era dedicata al lavoro del proprio terreno che comprendeva un boschetto, un’area adibita al pascolo e una zona, coltivata a braccia, per la raccolta del frumento, del granoturco, dell’erba medica e del trifoglio, foraggio necessario al nutrimento della mucca durante il periodo invernale.
La madre, analfabeta, lavorava nei campi. Il padre, ipovedente, riceveva dalla Stato una piccola pensione di invalidità.
Erano 7 fratelli.
Anche Gino collaborava nel lavoro dei campi e nell’allevamento degli animali.
Per lui andare a scuola era un ottimo modo per riposare e per mangiare gratis alla mensa scolastica.
Pertanto, nella sua giovane età Gino si dedicò a molti lavori manuali ma, a 18 anni, scelse di svolgere il vero lavoro che desiderava per la sua vita: quello di essere al servizio della Polizia Stradale!
Gino, fin da piccolo, amava le”Due Ruote” e questa sua passione aumentava ancor di più quando vedeva le Due Ruote attraversare le stradine sterrate di un paesino della bassa vicentina.
E’ durante l’adolescenza che scatta il vero e proprio desiderio di emulazione.
Infatti, l’autore racconta che incontra per caso due Agenti della Polizia Stradale in pattugliamento, che lo fermano per un controllo, in sella alle loro magnifiche e invidiatissime “Moto Guzzi 500”.
Da quel giorno un crescendo di esperienze e di chilometri “sulle strade” lo ha condotto in giro per l’Italia prima come giovane poliziotto e autista specializzato, poi come “stradalino” esperto, di stanza nella Sottosezione di San Donato Milanese, sede dove aveva cominciato a lavorare da giovane.
Dopo anni di duro lavoro e carico di responsabilità sempre crescenti, Gino diventò comandante della Caserma sandonatese riuscendo a raggiungere, insieme alla squadra, formata da 30 uomini e da alcune donne, da lui coordinata, risultati eccellenti nella prevenzione e nella repressione degli illeciti nella circolazione stradale.
Per un periodo non molto lungo, desiderando percepire uno stipendio mensile più redditizio, Gino cambiò lavoro e diventò autista di rappresentanza per la Presidenza dell’ENI.
Presto, però, ritornò alla vecchia passione come Agente di Polizia ripartendo da zero e avanzando nella carriera fino a diventare Comandante della stessa Caserma dove aveva cominciato il Servizio da ragazzo.
Durante la sua attività lavorativa Gino ha dovuto affrontare situazioni difficili, a volte anche drammatiche e indimenticabili come la perdita di un giovane ragazzo di 27 anni, suo collaboratore e considerato alla stregua di un figlio, strappato alla vita investito sull’asfalto autostradale in una fredda notte invernale.
Per Gino la Polizia Stradale è stata vissuta come impegno al servizio del cittadino per la sicurezza di tutti gli utenti della strada, dal pedone al camionista, dal ciclista all’automobilista .
Il 31 gennaio del 2005 fu il giorno più lungo della sua vita. Fu il suo ultimo giorno di servizio prima del pensionamento.
La figlia Fabiana, nella lettera indirizzata al padre scrisse: << La tua carriera è stata lunga e ricca di tante cose, di sicuro non ti sei annoiato, hai fatto tutto ciò che potevi, hai seguito sempre il tuo istinto e il tuo cuore, per tutti sei stato un segno e stasera tutto questo non finirà…Quello che hai dato, quello che sei stato, fanno l’uomo fantastico e generoso che sei oggi e nulla di quello che è successo si potrà cancellare, i tuoi ricordi saranno vivi in te e ti seguiranno in ogni tuo nuovo giorno>>.
Gino ha dedicato tutta la sua vita al lavoro affrontando molte difficoltà, ma oggi si sente fortunato per quello che ha raccolto.
Ha Continuato la sua attività di volontariato collaborando con alcune associazioni “onlus” occupando il tempo libero rendendosi utile ai più deboli.
Attualmente il suo lavoro più bello è quello di fare il “Nonno” aiutando i nipotini a crescere e a diventare buoni, onesti e corretti cittadini italiani.
Le affettuose carezze, gli abbracci, i baci dei nipotini lo ripagano del tempo a loro dedicato.
L’amico Gino è stato insignito da diverse onorificenze.
Nel 2007 gli è stata conferita l’Onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana con decreto firmato dall’on.le Giorgio Napolitano, allora Presidente della Repubblica, il 27 dicembre e controfirmato dall’on.le Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri.
Gino Montagnana è sposo fedele della signora Patrizia,

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è padre affettuoso dei figli Luca e Fabiana, è nonno amorevole dei nipoti: Emma, Paolo, Jacopo, che lo tengono giornalmente attivo e impegnato in tante attività.
Questo libro è stato scritto dal comandante Gino Montagnana non a scopo di lucro, ma solamente per far conoscere ai suoi nipotini buona parte della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua vita lavorativa perchè possa essere esempio di vita anche per loro.
La lettura del libro è lineare, scorrevole,coinvolgente, pertanto invito i lettori a leggerlo e ad apprezzare le qualità umane, morali, sociali dell’autore.

 

Feb 1, 2022 - Senza categoria    Comments Off on L’ARUNDO DONAX – LA CANNA DORATA CHE VEGETA LUNGO LE SPONDE DEL FIUME SALSO A LICATA

L’ARUNDO DONAX – LA CANNA DORATA CHE VEGETA LUNGO LE SPONDE DEL FIUME SALSO A LICATA

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La mia cultura Botanica mi spinge sempre a osservare le essenze vegetali, soprattutto quelle spontanee, presenti nei territori di Mistretta e di Licata. Il mio obiettivo è principalmente quello di fare conoscere questi esseri viventi a tutti gli umani sensibilizzandoli alla protezione e al rispetto della NATUARA, la nostra MADRE!
La mia curiosità è stata attratta dall’ARUNDO DONAX, la canna comune abbondantemente presente a Licata, soprattutto lungo le sponde del fiume Salso.

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https://youtu.be/7CwJz5wG4Ts

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Etimologicamente il nome del genere “Arundo” deriva dal latino “arundō o harundō”, che significa “canna in genere, bastone, freccia”.
ll nome della specie “donax”  deriva dal greco “δόναξe significa “canna“.L’Arundo donax ha altri sinonimi: “Canna domestica, Canna comune, Canna dorata”.
I Francesi la chiamano Canne de Provence; gli inglesi: Giant Cane; gli spagnoli: Caña común; i tedeschi: Pfahlrohr.
Poiché l’Arundo si può coltivare per i tanti risvolti anche economici, se ne conoscono diverse varietà.
Le principali sono: Arundo donax “Golden Chain”, meno vigorosa delle altre varietà e di dimensioni più contenute, presenta foglie verdi con i margini giallo-oro.
Arundo donax “Macrophylla”non supera i 3 metri di altezza e presenta foglie e steli di color grigio-verde.
Arundo donax “Variegata” riclassificata dai botanici come “Arundo donax var.versicolor”, dalla crescita molto rapida, presenta foglie variegate di bianco e fiori bianchi “piumosi” che compaiono su lunghi steli alla fine dell´estate.
L’Arundo donax, appartenente alla famiglia delle Poaceae, è una pianta erbacea pluriennale che cresce in acque dolci o moderatamente salate come quelle del fiume Salso a Licata.

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Ori­gi­na­ria delle regioni del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Caucaso e della Crimea, si è successivamente naturalizzata nelle regioni temperate e subtropicali di tutto il globo terrestre  dove è coltivata non solo per le sue proprietà omeopatiche, ma anche come fonte energetica (biomassa).

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In Ita­lia è pre­sen­te su tutto il ter­ri­to­rio nazionale, isole comprese, vegetando bene fino a una al­tez­za di circa 700 sul livello del mare gra­zie anche alla sua gran­de ca­pa­ci­tà di adat­tamento alle diverse ti­po­lo­gie di ter­re­no e alle sue scar­se esi­gen­ze idri­che in quan­to l’ap­pa­ra­to ra­di­ca­le pos­sie­de una no­te­vo­le ca­pa­ci­tà di esplo­ra­re il suolo alla ri­cer­ca di acqua.
Infatti, dal punto di vista ecologico macchie di Arundo donax vigorose indicano ricchezza di acqua nel sottosuolo e profondità del suolo stesso.
L’Arundo donaxè una tra le specie di piante terrestri a crescita molto rapida raggiungendo l´età adulta in un anno di tempo e crescendo in altezza 10 cm al giorno.
È stata inserita nell’elenco delle 100 specie esotiche invasive più dannose al mondo.
L’Arundo donax è una pianta caratterizzata da una parte ipogea, formata da un ricco sistema di grandi rizomi carnosi, e da una parte epigea, caratterizzata da fusti (culmi).

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I rizomi possono raggiungere dimensioni e peso variabili in funzione delle condizioni pedoclimatiche.
I rizomi, legnosi, fibrosi, formano estesi tappeti nodosi che penetrano nel terreno fino a un metro di profondità.
Dai rizomi dipartono numerose radici che si sviluppano tutto attorno e sono in grado di raggiungere nel terreno una profondità di 4-5 metri.
Il rizoma presenta inoltre gemme primarie e secondarie dalle quali si sviluppano i fusti e gemme di prolungamento dalle quali si accrescono, alla ripresa vegetativa, nuovi rizomi.
I fusti, i culmi, sono retti, flessibili, robusti, lignificati e alti anche oltre 6 metri. Sono divisi in nodi pieni e internodi cavi e  sono rivestiti in gran parte dalle guaine fogliari.
Le foglie sono alternate, di colore grigio-verde, lunghe 30–60 cm e larghe 2–6 cm. Sono di forma lanceolata, rastremata in punta, scabre solo sul margine, e con un ciuffo di peli lanosi alla base.

5 FOGLIE

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La fioritura avviene in autunno. Nei mesi di settembre-ottobre compaiono pannocchie di fiori piumosi, fusiformi, di colore oro o marrone chiaro, lunghe 40–60 cm e con portamento verticale.

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 I fiori sono monoici. L’impollinazione è anemogama. Il frutto è una cariosside, frutto secco ed indeiscente caratteristico delle graminacee, come il frumento.
Tuttavia, l’Arundo donax nei nostri climi non porta a maturazione le cariossidi e i semi, raramente fertili, non germinano.
Per questo motivo la propagazione avviene esclusivamente per via vegetativa o agamica, mediante talee di fusto o propagazione dei rizomi.
Porzioni di fusto e di rizoma, che contengono almeno un nodo, germogliano facilmente.
La propagazione per via vegetativa sembra costituire un efficace adattamento al verificarsi delle inondazioni. Infatti, durante questi fenomeni piante di Arundo donax possono rompersi diffondendo frammenti di fusto e di rizoma che, germogliando, colonizzano nuove aree.
La canna domestica è una pianta che necessita di poche esigenze ambientali.
Il suo habitat è quello dei terreni freschi, umidi, con reazione alcalina, anche con la presenza di calcio.
Vegeta in ambienti ripariali, attorno  agli argini dei fiumi, ma anche lungo i margini di campi incolti e coltivati, sulle dune sabbiose, anche vicino al mare, dove tende a formare dense macchie. Luoghi, questi, che garantiscono una buona disponibilità idrica.
Pur non essendo una specie acquatica, sopporta bene situazioni di ristagno idrico, purché non sia prolungato, poichè favorirebbe lo sviluppo di marciumi radicali e malattie batteriche che potrebbero comprometterne la vitalità della pianta.
Specie eliofila, gradisce una buona esposizione alla luce del sole.
E’ sensibile alle temperature molto basse, che impediscono la vitalità dei rizomi.
Altamente infiammabile, non gradisce il passaggio del fuoco degli incendi che si diffondono e distruggono l’ambiente circostante.
Attualmente non si conoscono parassiti animali e vegetali che aggrediscono la pianta.
Nonostante l’Arundo donax possieda un’ampia varietà di sostanze chimiche all’interno del fusto e delle foglie, quali la silice e vari alcaloidi, che le assicurano resistenza e durabilità, che forniscono una protezione efficace contro la maggior parte degli insetti e dei vertebrati scoraggiandoli dal nutrirsene, non riesce a difendersi da altri organismi che le arrecano danni rilevanti.
Tra gli insetti nocivi ci sono: la vespa Tetramesa romana di Perpignan, il rincoto  Diaspididae Rhizaspidiotus donacis e il dittero Chloropidae, la mosca Cryptonevra.
Altri organismi nocivi sono i funghi: l’Armillaria mellea, il Leptostroma donacis, il Papularia sphaerosperma, il Puccinia coronata e il Selenophoma donacis.
La canna domestica presenta il vantaggio ecologico di non essere gradita al palato dagli animali.
Tuttavia alcuni erbivori quali mucche, pecore e capre riescono a limitare la diffusione della specie, ma difficilmente riescono a tenerla sotto controllo.
L’Arundo donax è una pianta interessantissima per gli usi industriali, per scopi ecologici e naturalistici, mentre non ha particolari applicazioni per scopi alimentari e farmaceutici.
L’Arundo donax è stata coltivata in tutta l’Asia, in Europa meridionale, in nord Africa e in Medio Oriente per migliaia di anni.
Gli antichi Egizi usavano le sue foglie per avvolgere le spoglie dei defunti.
I suoi culmi, flessibili e resistenti, si prestavano alla lavorazione di svariati oggetti di uso agricolo, pastorale, domestico, artigianale e ludico. Tutto ciò fin quando non è stata inventata la plastica!
In passato erano uti­liz­za­ti per la pro­du­zio­ne di bastoni da passeggio, come supporto di pian­te or­ti­co­le rampicanti, di canne da pesca, ma par­ti­co­lar­men­te in­te­res­san­te è stato l’uti­liz­zo in am­bi­to mu­si­ca­le per la crea­zio­ne di ance, di cla­ri­net­ti, di oboe, di fagotto, di sas­so­fo­ni, di cor­na­mu­se, di flau­ti, il flauto di Pan.

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Per il suo ritmo di crescita molto elevato, la specie Arundo donax è stata a lungo riconosciuta come importante fonte non legnosa di biomassa ad uso industriale utilizzata come combustibile, sotto forma di trucioli, di pellet, e anche come fonte di cellulosa per l’industria della carta.
Può essere coltivata su un grande numero di tipi diversi di suolo e nelle condizioni climatiche più varie.
Numerosi studi hanno recentemente messo in evidenza le capacità dell’Arundo donax  per il risanamento e per la decontaminazione ambientale di siti fortemente inquinati da sostanze organiche e da metalli pesanti mediante il loro assorbimento.
La coltivazione dell’Arun­do donax è utile  anche negli in­ter­ven­ti di sta­bi­liz­za­zio­ne dei ter­re­ni a elevato ri­schio idro­geo­lo­gi­co.

 

Jan 15, 2022 - Senza categoria    Comments Off on LE EDICOLE VOTIVE NELLE CASE E NELLE CAMPAGNE DI MISTRETTA

LE EDICOLE VOTIVE NELLE CASE E NELLE CAMPAGNE DI MISTRETTA

Le edicole votive sono delle piccole casette di pietra, di marmo, di legno, di metallo che si incontrano frequentemente percorrendo molte strade della città, anche quelle di periferia, e della campagna.
Il fervore religioso dei mistrettesi verso i Santi non si manifesta solo nella rappresentazione di quadri, di affreschi, di statue, di bassorilievi, che si trovano nel luogo più indicativo, cioè nelle chiese, ma anche attraverso l’esposizione delle icone votive. Si ammirano nei prospetti esterni delle case, nei balconi, davanti alle porte d’ingresso delle abitazioni.
E’ un fiorire dell’edilizia sacra.
Ogni icona è la manifestazione di devozione della famiglia che vi abita verso il suo Santo protettore, in particolare verso San Sebastiano, il patrono della città di Mistretta.

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Jan 2, 2022 - Senza categoria    Comments Off on LE EDICOLE VOTIVE PER IL SANTO NATALE 2021 NELLE STRADE DI LICATA

LE EDICOLE VOTIVE PER IL SANTO NATALE 2021 NELLE STRADE DI LICATA

Nel periodo natalizio a Licata, città in provincia di Agrigento, molte famiglie rispettano la tradizione, tramandata da una generazione alla successiva, di esporre sopra lo stipite del portone d’ingresso alle loro case o nei balconi le icone votive della natività di Gesù Bambino.
L’icona votiva, che contiene all’interno l’immagine della Sacra Famiglia o del Bambinello Gesù, è circondata da una corona ottenuta incrociando rametti di aghi di pino e di abete, di foglie di palma e di aranci. La Stella di Betlemme, impropriamente detta stella cometa, simbolo del Natale, sormonta la corona illuminata anche dalle luci variopinte.

https://youtu.be/2t2av6HL5Vc

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Essa è legata alla figura dei tre Magi, saggi astrologi che, seguendo la stella, giunsero da Oriente a Gerusalemme per adorare il Bambino Gesù, il «Re dei Giudei» che era nato in una capanna e per portare i loro doni.
Nel vangelo secondo Matteo, (Cap.2, 1-12) “Magi” si legge: <<Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode.  Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.
 Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà, infatti, un capo che pascerà il mio popolo, Israele” .
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del Bambino e, quando l’avrete trovato fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.
Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e Gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese>>.
Sulla stella di Betlemme, dopo duemila anni di studi e di interpretazioni, ancora  non si può affermare l’esistenza di prove e di fatti indiscutibili che permettano di dire che la stella dei Magi sia veramente esistita o, piuttosto, sia un racconto di valore simbolico.
Le edicole votive dal giorno 16 al giorno 24 di Dicembre sono visitate dagli zampognari licatesi che intonano le nenie natalizie.

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Un Felice Natale!

Dec 15, 2021 - Senza categoria    Comments Off on IL PINUS PINASTER NELLA MIA CAMPAGNA IN CONTRADA MONTESOLE A LICATA

IL PINUS PINASTER NELLA MIA CAMPAGNA IN CONTRADA MONTESOLE A LICATA

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Anche il “Pinus pinaster”, meglio conosciuto come “Pino marittimo“, è presente nella mia campagna in contrada Montesole a Licata.
E’ una varietà meno pregiata rispetto al Pino pinea, ma è, comunque, molto bello.

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Nella mia campagna vegetano bene esattamente 13 piante di Pino marittimo.
La loro altezza supera i 10 metri oltrepassando il tetto della casa col loro portamento slanciato.

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I miei pini, così grandi, così alti, sono ospitali nel dare accoglienza ai tanti nidi di tortorelle, di colombi, di passeri e di altri uccelli che proliferano in montagna perché trovano cibo abbondante, tranquillità, silenzio e pace. Io, nella mia pineta, respiro aria pulita, ossigenata, lontana da qualsiasi forma d’inquinamento atmosferico, annuso il delicato profumo e ascolto il silenzio.

https://www.youtube.com/watch?v=mXLjVnG1i1c

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Etimologicamente il nome del genere “Pinus” deriva dal latino del Pino, connesso con il sanscrito “pítu resinoso”.

Il nome della specie “pinaster” deriva da “pinus, pino” e dal suffisso dispregiativo “aster”, cioè “pinastro”.
Il Pinus pinaster, presente in tutto il bacino del Mediterraneo occidentale, forma boschi sulle coste sabbiose del Mediterraneo occidentale con una concentrazione maggiore nella Penisola Iberica e lungo la costa sud-occidentale della Francia.
In Italia è presente allo stato spontaneo nel versante tirrenico, dalla Liguria alla Toscana, in Sardegna e in Sicilia.
Sebbene in molti ambienti appaia come spontaneo, è stato introdotto in molti luoghi dall’uomo in età storica. Coltivato su tutta la penisola, costituisce folte pinete. Preferisce stazioni di collina o anche di bassa montagna rispetto alle pianure.
Resistente al freddo, si spinge maggiormente nell’entroterra ad altitudini più elevate rispetto al Pino domestico e al Pino d’Aleppo.

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Il Pinus pinaster è una conifera sempreverde appartenente della famiglia delle Pinaceae.
É un albero a crescita rapida, alto fino a 30 metri, longevo, vivendo 150-200 anni.

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Si lega al terreno mediante potenti radici dalle quali si solleva il tronco ad andamento abbastanza sinuoso rivestito da una corteccia chiara nei pini più giovani che diventa bruno-grigiastra nelle piante adulte, con fessure profonde e spesse placche che si distaccano lasciando macchie brune o rossicce. Il legno è molto resinoso.
La chioma è molto irregolare, rada, espansa nelle piante giovani, a forma piramidale da giovane, che, in seguito, diventa ombrelliforme, con i rami che salgono curvi verso l’alto.

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 I rami inferiori sono spogli di aghi e rimangono attaccati al tronco. I rametti sono di colore marrone e portano gli aghi.
Le foglie, aghiformi, lunghe 12-25 cm, di colore verde scuro, spesse, rigide, incurvate, pungenti sono disposte in gruppi di due o raramente di tre.
La quantità delle foglie dipende dall’età della pianta.

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I fiori, o meglio gli sporofilli, maturano nel periodo di aprile-maggio e si distinguono:
– Macrosporofilli (parti fertili femminili, strobili), di colore giallo dorato, sono riuniti in grossi grappoli, divisi sulla stessa pianta da quelli maschili.
– Microsporofilli (squame dei coni maschili), sono a grappoli, rossastri, divisi sulla stessa pianta da quelli femminili.

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OK 1 OKLe pigne, che si sviluppano dalla fecondazione delle infiorescenze femminili, sono coniche e affusolate, lunghe 15-20 cm, di colore nocciola,riuniti a gruppi di due o tre, e maturano nel 2° anno. Hanno una consistenza molto legnosa e persistono a lungo sui rami per alcuni anni.

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Contengono dei piccoli semi scuri, alati,  che possono conservare la loro germinabilità anche per cinque anni.

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La moltiplicazione avviene per seme. Gli strobili sono molto utilizzati per le decorazioni natalizie.
Il Pinus pinaster, utilizzato in zone litoranee per creare pinete o come pianta da ombra in giardini, non ha particolari esigenze di coltivazione. Predilige essere posto su terreni silicei o alcalini, sabbiosi e sciolti, anche poveri di humus, ma ben drenati, poichè i ristagni idrici potrebbero provocare problemi alla pianta compromettendone la sua crescita, e buona esposizione al sole.
E’ sensibile al gelo e vive bene dove la temperatura invernale non scende oltre i 6 °C. É resistente ai venti marini, non teme la salsedine e non ha bisogno di potature regolari.
Il Pinus pinaster è una essenza forestale di primaria importanza usata per consolidare soprattutto i litorali sabbiosi.
Nel passato era coltivato e utilizzato anche per la produzione della resina, che sgorga dalle incisioni praticate sul tronco.
Il legno, bruno – rossastro, molto resinoso, tenero, serve per costruzioni navali, per imballaggi, per travature, per falegnameria comune, per cassettame, per fornire cellulosa.
La pianta di Pinus pinaster, anche quando è verde, arde facilmente, ma fortunatamente ha una grande capacità di rinnovarsi sul terreno percorso dal fuoco.
Dal Pino marittimo si ricava un olio essenziale balsamico utilizzato per proprietà terapeutiche nella medicina popolare. In erboristeria, il decotto, preparato con 20 grammi di foglie di Pino marittimo immerse in un litro d’acqua e bevuto durante il giorno, è una cura efficace contro le tossi stizzose e i catarrali, nelle bronchiti e nelle laringo-tracheiti. Un vaso di vetro, dove è stata raccolta la resina, lasciato aperto nella stanza, ne accelera la guarigione.
Per tutti quelli che soffrono di infiammazioni alla gola o sottopongono a usura gli organi vocali come i professori, i cantanti, gli oratori, i predicatori, la cura indicata è quella così detta delle “ciorciole” che utilizza le pigne o il frutto del Pino. La tisana, utile per i gargarismi giornalieri, si prepara facendo bollire tre pigne frantumate in mezzo litro di acqua.
I risultati saranno sorprendenti se si ha l’accortezza di usare pigne fresche; quelle secche hanno perso l’azione terapeutica.
Incidendo il tronco del Pino si estrae la trementina da cui, per distillazione, deriva l’essenza che ha anch’essa azione diuretica ed è giovevole nelle cistiti.
Per la resina contenuta, la pioggia di aghi che cade nel terreno, impedisce qualsiasi altra forma di vita vegetale.
Il Pinus pinaster predilige essere coltivato in zone pianeggianti o collinari, fino a circa 1000 metri d’altezza.
Attraversando la statale 117 che collega Mistretta a Nicosia, si possono ammirare le moltissime specie di alberi di Pino, in particolare il Pinus sylvestris,  che, assieme agli Abeti, agli Olmi, ai Castagni, alle Querce, alle Robinie, formano immensi boschi sui monti Nebrodi dando all’ambiente un aspetto affascinante. Una vasta pineta “la Neviera” esiste anche fuori dell’abitato di Mistretta, lungo la strada provinciale per Castel di Lucio. É un richiamo per i turisti che giungono a Mistretta per ammirare la bellezza del paesaggio montano.
La pineta offre ospitalità a chiunque vuole passare dei rilassanti momenti a contatto diretto con piante e con animali, e vuole respirare l’aria pura della montagna.
D’inverno, gli alberi di Pinus pinaster, resistenti al freddo, coperti di neve, cingono la montagna, la rendendo diafana, uniformemente bianca, e cambiano la scenografia del paesaggio. Quanti rami si spezzano sotto il peso della neve!
Purtroppo è facile imbattersi in un albero morto, ancora eretto, ma con i rami spezzati, o già disteso a terra.
Nulla di preoccupante: la Natura ricicla tutto ciò che crea! Un albero morto o caduto, perché scrollato dal vento o appesantito dalla neve, subito comincia a essere demolito dall’attività famelica di una squadra di animali e di microrganismi.
Le formiche, del genere “Camponotus”, le più grandi formiche europee, sono specialiste nella distruzione del legno. Per il loro accanimento nell’attaccare i tronchi, sono meritatamente chiamate “sciupalegno”. Saggiamente attaccano i vecchi tronchi morti e difficilmente aggrediscono il legno vivo causando alla malcapitata pianta danni irreversibili.
Le formiche si stabilizzano in ceppi vecchi e in via di disfacimento scavando profonde gallerie che si diramano in tutte le direzioni del tronco. Lavorando assieme agli altri ospiti dei tronchi morti, le formiche accelerano i processi di decomposizione delle sostanze organiche nell’eterno ciclo di costruzione – distruzione che ha luogo in Natura senza produrre inquinamento.
Tutti i Pini temono l’attacco di parassiti quali: gli afidi, gli acari, il Matsucoccus feytaudi, volgarmente chiamato cocciniglia corticola, un insetto, della famiglia dei Margarodidi, parassita esclusivo del Pino marittimo.
Vive sul Pinus pinaster di cui colonizza la corteccia sia del tronco e dei rami, sia delle radici che spuntano dal terreno. Predilige piante già sviluppate con la corteccia spessa e con molte anfrattuosità nelle quali sono ospitate le larve, le neanidi. Queste sottraggono linfa alla pianta ed emettono sostanze tossiche che determinano alterazioni nei tessuti della stessa.
La presenza della cocciniglia si manifesta con arrossamenti a chiazze che spuntano sulla chioma e presto conduce a un parziale e completo disseccamento. La pianta reagisce con abbondanti emissioni resinose, con ingiallimenti e arrossamenti della chioma e con un’intensa caduta egli aghi. La progressiva colonizzazione da parte del parassita determina, nel volgere di pochi anni, il deperimento e la morte dei soggetti più colpiti. Spesso, inoltre, i Pini infestati dalla cocciniglia si indeboliscono e sono facilmente aggrediti da altri parassiti secondari che ne accelerano il deperimento e causano la morte. Questo tipo d’insetto è molto aggressivo ed è bene intervenire preventivamente con trattamenti mirati.
Spesso anche la Processionaria causa gravi danni agli alberi di Pini.
Pericolosissima è la Thaumetopoea pityocampa, un dannoso lepidottero endemico parassita con ciclo biologico annuale.
Esso svolge la sua azione tra la pianta e il terreno.
Le larve, nutrendosi voracemente degli aghi e degli apici vegetativi di diverse specie di Pino, causano la defogliazione della chioma dell’albero indebolendolo anche pesantemente. Di solito le larve sono attive solo la notte, mentre di giorno si trattengono al riparo nel nido. In primavera le larve sono molto voraci cibandosi degli aghi di Pino. Nelle stagioni più calde, quando la temperatura del nido supera i 9 °C, le larve escono a cibarsi anche in inverno.
Anche se la pianta reagisce, tuttavia riceve gravi danni alle foglie e ai germogli. Durante la loro vita larvale le larve si rifugiano dentro bianchi nidi sericei che costruiscono sulle chiome dei Pini. Se la presenza dei loro nidi non è massiccia, la pianta si difende dal debole attacco con l’emissione di nuove foglie. Giunte a maturità le larve abbandonano definitivamente il nido e, scendendo lungo il tronco, giungono al suolo.
I gruppi di larve di processionaria si spostano in fila indiana, lunga anche diversi metri, formando una sorta di “processione“, da cui il nome “Processionaria”, fino a che non trovano un luogo ideale dove interrarsi fino a una profondità di 10–15 cm. Le larve, provenienti dallo stesso nido, formano delle crisalidi tutte insieme nel terreno racchiuse in bozzoli singoli fittamente vicini l’uno accanto all’altro.
Una parte delle crisalidi può rimanere in pausa anche fino a 7 anni. Nei mesi di luglio-agosto compaiono gli adulti. Le femmine depongono sugli aghi dalle 100 alle 280 uova, in un’unica ovatura a forma di manicotto. Le larvette nascono alla fine dei mesi di agosto-settembre e iniziano ad alimentarsi subito sugli aghi causando solo danni modesti.

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La processionaria causa danni anche all’uomo e agli animali domestici per l’effetto urticante delle larve primaverili.
Esse sono provviste di peli urticanti il cui secreto può provocare forti irritazioni alla cute, agli occhi e alle mucose delle vie respiratorie.
Simbolo di speranza e di pietà, il Pino infonde allo stato d’animo “serenità, forza e rassegnazione”.

 

 

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