Nov 10, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL GINKGO BILOBA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL GINKGO BILOBA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Visitando la villa comunale “G. Garibaldi”, come è mia consuetudine ogni qual volta ritorno a Mistretta, la mia attenzione è stata attratta dalla pianta di Ginkgo biloba che, questo mese di Novembre, è abbondante di foglie.

 

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Il Ginkgo biloba, il cui nome scientifico è “Salisburya adiantifolia o Pterophyllus salisburiensis”, è una gimnosperma appartenente alla famiglia delle Ginkgoaceae.

Alle gimnosperme appartengono le conifere, che non hanno nulla in comune con il Ginkgo, che non ha foglie aghiformi, non è sempre verde e produce un frutto carnoso, non uno strobilo, e i semi sono nudi e non protetti dall’ovario.

La pianta è originaria probabilmente dalla parte interna della Cina dove sono stati rinvenuti fossili che risalgono all’era mesozoica e considerata per molto tempo estinta allo stato spontaneo. Recentemente sembra che siano state scoperte almeno due stazioni relitte di piante nella provincia dello Zhejiang, in una piccola zona nei pressi di Nanchino, una città della Repubblica popolare cinese. Non tutti i botanici concordano, però, sul fatto che queste stazioni siano davvero spontanee perché la Ginkgo è stata estesamente coltivata per millenni dai monaci cinesi. Il botanico e chirurgo tedesco Engelbert Kaempfer fu il primo uomo occidentale a vedere tre secoli fa, in Giappone, questa pianta così speciale.

Il nome “Ginkgo“, attribuito a lui, pare derivi da una parola cinese che significa “piedi di papera”, con riferimento alla forma delle foglie. Linneo, per le caratteristiche della foglia, completò poi la specie con il termine “biloba”. In realtà, il nome del genere “Ginkgo” deriva dalla traduzione del giapponese “Yin”, “argento” e “ kyo ” “albicocca”, cioè “albicocca d’argento” perché i semi, a maturazione, sembrano appunto delle albicocche argentate. Il nome della specie “biloba deriva dal latino “bis”, “due” e “obus“, “lobo” per la forma bilobata della foglia divisa, appunto, in due lobi.

Ginkgo” è, però, un nome inesatto causato da un errore di stampa riportato da Linneo in “Mantissa plantarum, 1767”, al posto di “Ginkyo“, che è la pronuncia originale del nome giapponese. Il nome “Ginkgo” è ormai fissato dalle regole della nomenclatura botanica. Esso è chiamato anche “albero della vita” per la sua straordinaria resistenza a condizioni ambientali estreme ed è uno dei più longevi dal momento che può raggiungere i 1000 anni d’età.

Il Ginkgo biloba è una splendida pianta, che Darwin definì “fossile vivente“, presente nell’era in cui sulla Terra si trovavano solo felci ed equiseti. La sua comparsa risale a circa 250 milioni di anni fa, alla fine del permiano, ultimo periodo del paleozoico superiore. Durante l’era mesozoica le piante di Ginkgo formavano la vegetazione dominante ed erano discretamente evolute. In questo periodo geologico il Ginkgo biloba ebbe un momento di grande espansione diffondendosi anche in Europa e in Italia. Nel triassico avvennero grandi mutazioni ed estinzioni. A causa dei cambiamenti climatici, la pianta si è estinta ovunque circa 2.000.000 di anni fa resistendo in Cina e in altre piccole zone dell’Asia, del Giappone e della Corea. Il più grande e forse il più vecchio albero si trova in Giappone, nel giardino del tempio buddista di Zempukuji. Una targa afferma che risale al 1232 ed ha la circonferenza del tronco di 9 metri e l’altezza di 20 metri. Un esemplare di Ginkgo ancora esistente sarebbe l’unico albero sopravvissuto alle catastrofiche radiazioni nucleari prodotte dalla bomba atomica esplosa sulla città di Hiroshima. A soli 800 metri di distanza dal luogo dello scoppio, nella primavera successiva, da un albero, apparentemente carbonizzato, sono spuntati nuovi germogli. Ancora oggi quell’albero è ammirato e amato.

Il Ginkgo è stato coltivato da sempre nei giardini dei templi e dei luoghi di culto in Cina. In Giappone è venerato come “albero sacro” perché si riteneva che proteggesse dai cattivi spiriti e perché rappresentava il simbolo “della coincidenza tra gli opposti e dell’immutabilità delle cose”. Per questo motivo si ritiene che la specie sia stata preservata dall’estinzione grazie alla coltivazione praticata dai monaci cinesi per abbellire i loro luoghi religiosi.

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La prima pianta di Ginkgo biloba in Europa fu introdotta nel giardino botanico di Utrecht attorno al 1750; in Italia comparve più tardi, nel 1791, nell’orto botanico di Padova ed è tuttora vivente. Il Ginkgo biloba si trova un po’ ovunque, soprattutto nelle ville antiche e negli orti botanici. Le sue caratteristiche di resistenza allo smog hanno fatto sì che anche in Sicilia gli enti comunali ne hanno favorito l’impianto in quelle zone ove nessun altro albero potrebbe resistere all’inquinamento. Per noi occidentali è una comune pianta ornamentale, presente in molti dei nostri giardini pubblici. C’è anche nella villa comunale di Mistretta.

Il Ginkgo biloba è un alberello molto longevo e di forte vigore anche in età matura, ma è lento a crescere nei primi anni di vita. Presenta un portamentoslanciato, piramidale nelle giovani piante, conico e, in seguito, espanso, negli esemplari più vecchi e può superare i 30 metri d’altezza. Il tronco è ricoperto dalla corteccia liscia e di colore grigio argenteo nelle piante giovani, che diventa marrone scuro negli esemplari maturi e presenta delle costolature suberose evidenti. Lungo il fusto, i rami sono radi nella pianta giovane, sono più fitti nella pianta adulta. I rami principali, i macroblasti, portano numerosi rametti più corti, i brachiblasti, sui quali s’inseriscono le foglie e le strutture fertili. Le foglie, caduche, bilobate, a forma di ventaglio, percorse da un numero elevato di nervature coriacee, di colore verde chiaro, con il margine superiore intero ondulato, sono portate da un lungo picciolo e crescono alterne sui rami vecchi e a mazzetti sui nuovi germogli. In autunno assumono una bellissima colorazione gialla molto decorativa.

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 La foglia del Ginkgo è molto caratteristica: sembra divisa ma, in realtà, resta unica perché i due lobi rimangono uniti dalla parte superiore del picciolo. Grazie a questa caratteristica delle foglie, che sembra tendano a dividersi, anche se legate in maniera indissolubile, l’antica filosofia cinese attribuì loro il principio dello Yin e dello Yang, la legge secondo la quale “la realtà è regolata dagli opposti”. Quest’a immagine di divisione ed unità della foglia del Ginkgo ha ispirato a Goethe la poesia:

GINKGO BILOBA

Dieses Baums Blatt, der von Osten
Meinem Garten anvertraut,
Gibt geheimen Sinn zu kosten,
Wie’s den Wissenden erbaut.

Ist es ein lebendig Wesen,
Das sich in sich selbst getrennt?
Sind es zwei, die sich erlesen,
Dasz man sie als Eines kennt?

Solche Frage zu erwidern,
Fand ich wohl den rechten Sinn:
Fühlst du nicht an meinen Liedern
,
Dasz ich Eins und doppelt bin?


                         GINKGO BILOBA


Le foglie di quest’albero dall’Oriente

venuto a ornare il mio giardino,
celano un senso arcano
che il saggio sa capire.

C’è in esso una creatura,
che da sola si spezza,
O son due che per scelta voglion,
essere una sola?

Per chiarire il mistero,
ho trovato la chiave:
non senti nel mio canto ch’io,
pur essendo uno anche duplice sono?

Johann Wolfgang Goethe(1749-1832). 

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 Goethe ammirò la pianta di Ginkgo nel parco del castello di Heidelberg, durante un suo soggiorno, ospite di Marianne von Willemer. Le aveva portato la foglia di Ginkgo e a lei f dedicò la poesia con le due foglie di Ginkgo incrociate e incollate da lui stesso sulla carta. Era il 15 settembre del 1815. In quelle sere si discuteva sulla particolarità della forma di questa foglia e sul tema della polarità e dell’unificazione esistente in Natura, concetto cardine negli interessi naturalistici e botanici del poeta.

Il Ginkgo è una pianta dioica, cioè a sessi separati, con fiori molti primitivi, maschili e femminili, portati su piante diverse, a maturità sessuale abbastanza differita dato che solo dopo una trentina di anni la pianta matura gli apparati riproduttivi. Le infiorescenze maschili, I microsporofilli, sono formate da amenti lunghi pochi centimetri, con stami con 3 – 7 sacche polliniche. Le infiorescenze femminili, i macrosporofilli,  sono portate all’ascella delle brattee. Sono costituite da due ovuli disposti uno per lato all’apice del lungo peduncolo comune.

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 La fioritura avviene in primavera, contemporaneamente alla comparsa delle foglie e, fino a quando, di solito verso il ventesimo anno d’età, non produce fiori non è possibile distinguere la pianta maschile da quella femminile. L’impollinazione anemofila avviene in primavera. La fecondazione, ritardata di 4-6 mesi, avviene a terra all’inizio dell’autunno quando gli ovuli sono già caduti dalla pianta madre e hanno quasi raggiunto le dimensioni definitive. Le cellule maschili, ciliate e mobili, raggiungono gli ovuli attraverso una pellicola d’acqua ma, mentre un ovulo abortisce, l’altro cade non ancora maturo. Le piante femminili, a differenza della maggior parte delle Gimnosperme, non producono coni propriamente detti, ma strutture a forma di grande albicocca.

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Il seme, lungo anche 2 centimetri, è un falso frutto simile ad una drupa. E’ formato da un involucro esterno liscio e carnoso, di colore giallo-verdastro, che emana un odore sgradevole per la produzione di acido butirrico, e da uno strato interno legnoso. La parte esterna, al contatto con la pelle, provoca delle dermatiti dovute all’acido ginkgolico e ad un principio cristallino, il bilobolo. L’embrione possiede due cotiledoni e un abbondante endosperma amilaceo. Germina nella primavera successiva.

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 La moltiplicazione avviene per seme in primavera, per talea in primavera e in autunno e anche per margotta. I rami laterali di vecchi esemplari possono accrescersi verso il basso e radicare venendo a contatto con il terreno. L’embrione del seme abbrustolito è commestibile e i cinesi, che ne sono ghiotti, li hanno inseriti nella loro tradizionale arte culinaria. E’ molto amaro, ma loro amano questo sapore. I semi, in Cina chiamati “pa-kwo”, sono venduti nei mercati orientali come antielmintici. Contengono un olio dolce, dal sapore gradevole, pectine, acido citrico, glucosio. In Cina anche i frutti, ricchi di amidi, chiamati “ginan”, sono consumati, sia cotti sia crudi, soprattutto durante i matrimoni.  In Giappone i semi di Ginkgo sono aggiunti a molti piatti come contorno perché molto nutrienti.

Anche se la pianta di Ginkgo è diffusa come albero ornamentale nei giardini pubblici, nei parchi e nei viali cittadini per il suo portamento elegante e per la sua straordinaria colorazione gialla-dorata autunnale, tuttavia, a causa della notevole produzione di frutti maleodoranti degli individui femminili preferibilmente è coltivata la pianta maschio.

Il Ginkgo biloba è una specie eliofila, che predilige una posizione soleggiata e un clima fresco, ma può adattarsi a molteplici condizioni crescendo sempre in maniera rigogliosa ed equilibrata. Non ha particolari esigenze pedologiche, vegeta meglio in terreni acidi e non asfittici. Sopporta le basse temperature ed è stato dimostrato che non subisce danni anche a temperatura di 35 °C sotto lo zero. Generalmente si accontenta dell’acqua del cielo. Questo albero è un grande mistero botanico: infatti non si ammala mai. E’ immune alle malattie parassitarie pericolose, è resistente ai virus, ai funghi e soprattutto all’inquinamento atmosferico. La pianta mal sopporta la potatura: i rami che si accorciano seccano.

La pianta di Ginkgo è coltivata industrialmente in Europa, in Giappone, in Corea e negli Stati Uniti perché impiegata abbondantemente per uso terapeutico.Nell’antichità il Ginkgo è stato inserito nel primo importante erbario cinese. Generalmente, le preparazioni a base di Ginkgo biloba contengono unicamente gli estratti delle foglie, spesso purificati dagli acidi ginkgolici, agenti potenzialmente allergenici e tossici, efficaci sulla circolazione sanguigna e soprattutto sull’attività cerebrale e polmonare. Esistono numerosi documenti riguardanti l’azione degli estratti di foglie di Ginkgo tramandati da un imperatore il quale 2800 anni prima di Cristo consigliava l’utilizzo della pianta di Ginkgo biloba nel trattamento delle vertigini e delle turbe di memoria delle persone anziane. Probabilmente, dalle foglie si può trovare utilità nel rallentare il morbo d’Alzhaimer, però aumenta il rischio d’ictus. Le foglie, lavate in acqua e conservate in alcool, sono utili per produrre un medicamento efficace contro le ecchimosi e le bruciature poichè hanno funzione cicatrizzante. Dalle foglie si ricavano anche flavonoidi utili per le flebiti e le emorroidi. Gli stessi flavonoidi sono molto usati nell’industria cosmetica per ripristinare il giusto equilibrio lipidico nelle pelli secche e screpolate. Oltre a queste sostanze “buone” contenute nelle foglie e nei frutti della pianta, si trovano anche sostanze “cattive”, gli acidi ginkolici, responsabili di effetti collaterali e di reazioni allergiche, pertanto l’autoprescrizione medica è assolutamente da evitare. L’ingestione dei frutti e dei semi provoca reazioni allergiche e disturbi degli apparati: digerente, respiratorio e circolatorio. I semi, in modo particolare, possono provocare gravi intossicazioni alimentari con comparsa di convulsioni, di perdita di coscienza fino ad essere addirittura mortali. I monaci buddisti piantavano il Ginkgo biloba accanto al tè, gli antichi cinesi e giapponesi consumavano i semi tostati come rimedio alla cattiva digestione, i guaritori indiani lo associavano alla longevità usandolo come ingrediente del “soma“, “l’elisir di lunga vita”. In Cina i saggi assicurano che camminare sotto il Ginkgo allunghi la vita.Le foglie del Ginkgo, nascoste fra le pagine dei libri, pare siano utili per tenere lontani i parassiti della carta. Il legno di Ginkgo, di colore giallastro, molto fragile e di bassa qualità, è usato per la costruzione di mobili e per lavori di tornio e d’intaglio.

 

Nov 5, 2015 - Senza categoria    Comments Off on TEMPO D’ AUTUNNO

TEMPO D’ AUTUNNO

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Foto di Filippo Giordano

La poesia “Tempo d’autunno

È tratta dal libro “Sintiti Sintiti” , del prof. Carmelo De Caro, pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara

TEMPO D’ AUTUNNO

Tempo d’autunno,

Tempo di foglie gialle

Che, come ballerine,

volteggiano nell’aria,

animate dal fremito dolce

del vento della sera.

Vento d’autunno,

che corri per le vie

con ali di velluto,

baciando la sua pazza chioma bruna,

col tuo alito fresco di verde muschio

e di terra bagnata.

Pioggia d’autunno,

che cadi lentamente

nell’arsa terra brulla,

che canti correndo giù, giù

per la grondaia, empiendo di suoni

il pacato silenzio della notte.

Amore d’autunno,

che come viva fiamma

riscaldi i nostri cuori,

riaccendendo l’essenza della vita,

tu, te ne andrai così,

come l’autunno.

            Settembre 1962 

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Il momento della sua laurea in Scienze Naturali.

Relatore il prof. Riverberi, Accademico dei Lincei.

Nov 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL MONUMENTO AI CADUTI – LA FESTA DELL’UNITA NAZIONALE E DELLE FORZE ARMATE IL QUATTRO NOVEMBRE A MISTRETTA

IL MONUMENTO AI CADUTI – LA FESTA DELL’UNITA NAZIONALE E DELLE FORZE ARMATE IL QUATTRO NOVEMBRE A MISTRETTA

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Nel 1919 l’Amministrazione Comunale di Mistretta, su suggerimento della Società Operaia, deliberò la realizzazione di un monumento per onorare i mistrettesi caduti durante la prima guerra mondiale.
La sua costruzione ebbe inizio nel 1922 ma l’importo stanziato di 3000 lire fu sufficiente per la creazione solo della base e non per completare tutta l’opera. I lavori, pertanto, furono interrotti e ripresi dopo un lungo periodo di cinque anni. Per completare l’opera non fu sufficiente neanche la somma di 14.000 mila lire inviata dagli emigrati amastratini in America spinti dal forte senso dell’amor patrio.
Il commendatore e ingegner Vincenzo Vinci intanto si adoperò per realizzare il bozzetto del gruppo statuario che si sarebbe dovuto collocare sopra il basamento. Mancava la moneta!
Nel 1930 il podestà Gaetano Paternò, sollecitato dai cittadini per completare la memorabile opera, promosse la raccolta di altri fondi e affidò l’incarico al cav. Antonino Ugo considerato uno dei migliori scultori italiani di allora. Il cav. Antonino Ugo terminò il monumento con la realizzazione del gruppo statuario in bronzo che fu collocato sopra il basamento di pietra arenaria sul quale fu impressa la dedica: MISTRETTA AI SUOI EROI.

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La scultura bronzea simboleggia forse la Patria togata che ammonisce l’armato suo figlio.  Però non può essere la Patria togata, che non può avere la barba,  ma sicuramente simboleggia Dio che indica il cielo al figlio morente.

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 Sulle lapidi sono scritti i nomi dei caduti in guerra.

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Il monumento, inaugurato il 27 agosto del 1934, è stato collocato nella Piazza Vittorio Veneto.

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Il monumento è circondato, per essere protetto, da una recinzione in ferro battuto e abbellito da alcuni esemplari di Cupressocyparis leylandii.

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 Il 4 novembre di ogni anno il corteo delle autorità civili e militari dal Palazzo di Città si avvia al monumento per commemorare la festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate.

https://www.youtube.com/watch?v=P4QYx8figzY&t=104s

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Alcuni soci dell’Associazione Nazionale Reduci di Guerra depongono la corona di alloro, simbolo di vittoria e di libertà, ai piedi del monumento ai caduti.

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Quindi, il prof. Francesco Cuva, già presente dell’Associazione Nazionale Reduci di Guerra, legge il suo discorso richiamando alla memoria il significato della guerra e il sacrificio dei tanti figli, fratelli, mariti caduti per mano nemica. Era il 4 novembre del 2012.

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La folla ascolta attenta, commossa, in silenzio.

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Il complesso bandistico locale intona l’inno di Mameli.

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Le fotografie sono state estratte dal mio archivio storico e documentano l’anniversario  del 4 novembre del 2012. Oggi sono cambiati i componenti dell’Amministrazione Comunale di Mistretta e l’aspetto della Piazza Vittorio Veneto.
Ogni anno il 2 giugno, data del referendum istituzionale del 1946, ricorre la festa della Repubblica Italiana, uno dei simboli patri. E’ una giornata celebrativa nazionale italiana istituita per ricordare la nascita della Repubblica Italiana.
La celebrazione principale avviene a Roma.
Anche a Mistretta il sindaco, avv. Liborio Porracciolo, i componenti dell’Amministrazione Comunale, l’Arciprete, mons. Michele Placido Giordano, altre autorità civili, militari e religiose e tanta gente comune si sono recati in piazza Vittorio Veneto per depositare la corona d’alloro davanti al monumento dei Caduti in guerra.
La bellissima Phoenix canariensis, che adornava il terrazzino dell’archivio parrocchiale della parrocchia di Santa Lucia, è stata aggredita dal Rhynchophorus ferrugineus, il temibile Punteruolo rosso, per cui è stato necessario abbatterla.

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Oct 25, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL CIMITERO MONUMENTALE DI MISTRETTA

IL CIMITERO MONUMENTALE DI MISTRETTA

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Ugo Foscolo, nel verso de “I Sepolcri” “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro”?, canta il dolore provocato dalla morte delle persone care. Non continuerà a vivere l’Uomo, idealmente sottoterra, quando non esisterà più per lui la bellezza armoniosa dell’universo, se potrà risvegliare nei suoi cari l’illusione che egli vive ancora? Una lapide ricorda il nome e un albero di Cipresso consola le ceneri con le sue confortevoli ombre.
I cipressi sono i compagni dei defunti dentro i cimiteri. Il cipresso è la pianta “del silenzio, del raccoglimento, della tensione spirituale”.
Non è l’albero che rattrista, anzi è l’albero che conforta.

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Il culto dei morti è molto seguito dal popolo dei credenti cristiani. Andare al cimitero il 2 di Novembre, giorno della commemorazione dei defunti, è un dovere morale e affettivo molto sentito dai parenti e dagli amici che vanno a trovare i loro cari estinti. E’ come ritrovare persone che si sono allontanate per un lunghissimo tempo.
A Mistretta per otto giorni di seguito, definita “l’Ottava ri muorti”, la gente comune, le associazioni, le confraternite si recano al cimitero per la visita ai defunti e per partecipare alle Sante Messe celebrate dai sacerdoti nelle varie cappelle dei sodalizi.
Per la commemorazione dei defunti, giorno 2 Novembre 2018, Mons. Michele Placido Giordano, Padre Giovanni Lapin, Padre Massimiliano Rondinella e il ministrante Paolo Trincavelli hanno celebrato la Santa Messa all’interno del cimitero monumentale di Mistretta.

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La prima cappella gentilizia che si nota varcando la soglia del cimitero è quella della famiglia Pasquale Salamone.
E’ grande, maestosa.
Sembra il palazzo della residenza estiva dei suoi occupanti.

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 Il Cimitero monumentale di Mistretta nel suo insieme è un’opera di grande pregio architettonico e artistico dove si possono ammirare cappelle tombali e monumenti in pietra locale, in marmo, in bronzo. Fu costruito, adiacente al Santuario della Madonna della Luce, su progetto dell’architetto Giambattista Basile, collaborato dal figlio Ernesto, su delibera del Comune del 24 ottobre del 1874.
Tra la fine del’ 800 e gli inizi del’ 900 i due artisti lasciarono i segni della loro presenza anche a Mistretta importando nuove idee di carattere architettonico. Ne è un esempio il fastoso monumento sepolcrale della famiglia Lipari-Tasca dalla struttura di una moschea araba.

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 La famiglia Lipari-Tasca, nel costruire la moschea, probabilmente si è ispirata al detto di Maometto secondo il quale “se uno costruisce una moschea, sia pure piccola come la buca che un uccello scava nel terreno per la cova, Allah lo ricompensa poi con una dimora in Paradiso”.
Motivi floreali in pietra e in ferro, segni distintivi dello stile liberty portato a Mistretta proprio dai Basile padre e figlio e che caratterizzarono l’800 palermitano, sono rappresentati nelle aperture di questo monumento. Gli intrecciati motivi geometrici, i decori, secondo i canoni dell’arte musulmana, simboleggiano il dissolversi della materia terrena e l’elevarsi all’eterno e all’infinito.
In bella vista c’è lo stemma di famiglia.

5 LIPARI tasca okTuttavia, all’interno del cimitero le opere funerarie rievocano stili di diverse epoche perché costruite in tempi diversi.
Le pregevoli cappelle gentilizie, l’una adiacente all’altra lungo il viale principale,

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 appartengono alle famiglie dell’antica all’aristocrazia di Mistretta: alla famiglia Baiardi,

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  alla famiglia Giuseppe Salamone,

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alle famiglie Salamone-Tita, dove sporgono nel prospetto lo stemma e la corona regale,

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alla famiglia Placido Salamone. Carico di significato è l’angelo con le ali aperte, come se volesse volare per abbracciare il Creatore, stringendo col braccio sinistro la croce, simbolo delle terrene umane sofferenze,

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alla famiglia Ortoleva,

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 alla famiglia Allegra,

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 alla famiglia Bettino Salamone,

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 alla famiglia Gioacchino Salamone.

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 Oltre alle cappelle gentilizie il cimitero monumentale di Mistretta ospita molti altri monumenti, colonne sepolcrale e lapidi di uomini illustri della società amastratina. Appartengono ai signori:
a Bartolotta,

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 a Giuseppe Di Salvo Salamone,

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 a Marianna Parlato, vedova Nigrelli,

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 a Giuseppe Giordano Longo,

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a Liboria Di Salvo nata Lo Iacono, la mamma che esce dal mondo terreno lasciando due angioletti che, non volendosi staccare dal suo affetto,  si aggrappano alle sue vesti, ma impotenti tutti contro la volontà divina.

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al cav. Antonio Cialente

Cav. Antonio Cialente

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alla famiglia Musco

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a Giovanni Santangelo,

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a Giovanni Giaconia.

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Nella tomba di Giovanni Giaconia, l’Angelo di bronzo, attribuito ad Ernesto Basile, dalle forme del corpo proporzionate, armoniose e pure, denota un distacco assoluto dal mondo terreno e una composta serenità.
Ci sono molti altri monumenti di cui non si legge il nome dell’ospitato perché scolorito dal tempo:

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Il monumento al “Milite Ignoto”.
Il  Milite Ignoto era il signor Pace Orlando, caporale del X° reggimento bersaglieri, trombettiere, morto il 28/04/ 1914. Era di Cittaducale in provincia di Rieti.

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I resti mortali della scrittrice Maria Messina riposano qui.

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A Mistretta la scrittrice verista del primo Novecento visse per tanti anni e ambientò alcune novelle, racconti e romanzi.
Nei suoi lavori la Messina ha evidenziato l’oppressa condizione femminile, l’isolamento e la percezione di un destino avverso, a cui non ci si può ribellare, che non dà ai “vinti” la possibilità di evasione e di liberazione in una società dove le regole sono stabilite da sempre.
Grazie all’interessamento dell’Associazione “Progetto Mistretta”, al giornale “Il Centro Storico”, e al certosino lavoro di ricerca del pistoiese “mistrettese” Giorgio Giorgetti, che ora riposa accanto a Maria Messina, i resti mortali di Maria Messina, dal cimitero della Misericordia di Pistoia, sono stati trasferiti al cimitero di Mistretta dove la scrittrice riposa accanto alla sua amata madre Gaetana Traina.
Il merito di questo “ritorno” in patria si deve attribuire soprattutto al prof. Nino Testagrossa, presidente dell’associazione “Progetto Mistretta”, che ha messo in risalto il legame della Messina con quelli che lei stessa definì “i miei buoni mistrettesi”.
La cerimonia di accoglienza e di tumulazione dei resti mortali della scrittrice è avvenuta il 24 aprile del 2009.

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 Le due piccole casse, di Maria e della madre, sono state collocate nella zona alta del Cimitero monumentale di Mistretta, dietro ad un’antica colonna di marmo, a destra, subito dopo l’ingresso dal cancello principale.
Ada Negri, poiché relazionavano in forma epistolare, scrisse a Maria Messina: “Non ti conosco fisicamente, ma mi sembra di conoscere bene la tua grande anima”.
Anche molti di noi mistrettesi non l’abbiamo conosciuta personalmente, ma possiamo dire di conoscere bene la sua anima, i suoi messaggi, la sua arte narrativa.
Mons. Michele Giordano, durante una sua omelia, ha affermato che “ciò che resta di ognuno di noi è il messaggio delle nostre opere”.
Voglio mostrare anche la tomba di Maria Natalia, la mia maestra delle Scuole Elementari, soprannominata “a pizzulunina” perché soleva punire elargendo pizzicotti agli alunni indisciplinati, che ricordo con grande riconoscenza per avermi avviato alla conoscenza degli elementi basilari del sapere e per avermi trasmesso l’amore per lo studio.

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 Nel Cimitero monumentale di Mistretta sono presenti, inoltre, grandi edifici a più piani che accolgono i resti mortali dei soci dei sodalizi amastratini.
Possiedono la cripta: la Società Operaia di Mutuo Soccorso, la Società fra i Militari in Congedo, la Società Agricola di Mutuo Soccorso, la Società la Cerere, la Confraternita della Madonna del Carmine, la Confraternita della SS. Trinità, la cripta dei Sacerdoti.
Un ricordo particolare va a padre Giuseppe Sciacca, già preside del liceo “Alessandro Manzoni”  di Mistretta, scuola che ho frequentato, e a padre Antonino Saitta, persona molto vicina alla mia famiglia.

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L’artista amastratino Noè Marullo ha imposto la sua impronta anche nel cimitero monumentale. Rifacendosi al concetto del lavoro, nel tondo sopra la porta della cripta della Società Operaia di Mutuo Soccorso ha scolpito San Giuseppe con il Bambino in braccio. I lineamenti del volto di San Giuseppe sono morbidi, tranquilli e dimostrano una matura giovinezza.

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La cripta della Società fra i Militari in Congedo

Qui sono custoditi i resti mortali di mio padre Seminara Giovanni

e di mia madre Lorello Maria Grazia

la Cappella della Società Agricola di Mutuo Soccorso

Cappella della società La Cerere

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Cappella della confraternita di San Vincenzo

cappella confraternita di San Vincenao

cappella della confraternita della Madonna del Monte Carmelo

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RIPOSINO IN PACE!

 

 

Oct 19, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERELLO DEL PUNICA GRANATUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

L’ALBERELLO DEL PUNICA GRANATUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Nella mia campagna dl Licata l’alberello di Melograno ha maturato i suoi gustosi frutti.

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Le melagrane mature richiamano alla mia memoria dolci ricordi di una persona cara e indelebile: sono quelli di mia nonna Sebastiana Isabella, la mamma di mio padre Giovanni.
Era una donna poco alta, magra, religiosissima, silenziosa e quasi sempre con lo sguardo lontano, con la speranza di poter riabbracciare il figlio Peppino, purtroppo disperso in Russia durante la seconda guerra mondiale.
Mi raccontava che i gendarmi lo chiamarono fuori di casa e da allora non lo ha più rivisto.
Donava a tutti i suoi nipoti un amore grande, immenso.
Per la ricorrenza dei “morti” la melagrana era il frutto che, con la sua corona regale, troneggiava al centro del cestino di vimini, che lei, la nonna Sebastiana, preparava, uno per ciascun nipote, colmandolo di frutta secca: di noci, di nocciole, di mandorle, di fichi secchi, di castagne, di semi di pistacchio. Oggi lo stesso cestino è riempito dalla frutta martorana.
Nella tradizione mistrettese e siciliana in genere, l’usanza di regalare ai bambini, proprio il giorno dei morti, il cestino traboccante di frutta secca o di frutta martorana simboleggia il “ciclo biologico della Vita”.
La Natura la dona, la toglie, la ridà.
La scelta di tutti questi frutti raggruppati insieme testimonia lo stretto rapporto tra l’Uomo e la Natura, il bisogno di attribuire agli elementi vegetali, che la Madre Terra mette a disposizione, i valori fondamentali per la vita di ciascuno.

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L’albero di Melograno è una pianta antichissima, risalente al Pliocene inferiore, che produce un frutto oggi quasi dimenticato ma che, nel passato, ha goduto di grande notorietà perché considerato il frutto della “fertilità”.
Ogni popolo che ha conosciuto la melagrana, le ha attribuito un particolare significato simbolico.
Nell’Antico Testamento è citata come uno dei frutti della Terra Promessa.
I Fenici e i Cristiani attribuivano ad essa un valore religioso: il rosso della melagrana simboleggiava il “sangue dei martiri e la carità”.
Nell’arte copta l’albero del Melograno è simbolo di “resurrezione”.
Anche per i Romani, dove il Melograno giunse dopo la sconfitta di Cartagine, era il simbolo di “fecondità e di abbondanza” e le spose usavano ornare i loro capelli con i rami della pianta come segno di “buon augurio”.
Nella tradizione asiatica ancora oggi il frutto aperto simboleggia “abbondanza e buon auspicio”.

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Gli americani pensavano che bere il succo del frutto combattesse la sterilità.
Nel “linguaggio dei fiori“, comunque, prevale il significato di “abbondanza e di amore” per il colore acceso delle fioriture. Nell’Antico Egitto si utilizzavano i frutti nelle cerimonie funebri.
All’interno delle tombe egizie, nelle pitture, sono state rilevate testimonianze risalenti al 2500 a.C.
Nella necropoli di Tebe, nella Valle dei Re, il sarcofago del faraone Ramsete IV conteneva appunto i suoi frutti essiccati.
Le sue origini greche sono molto antiche.
In Grecia questa pianta era sacra a Giunone e a Venere.
Si racconta che la melagrana era il frutto che Paride offrì a Venere e che lei coltivò a Cipro.
Secondo il mito greco il Melograno nacque dal sangue di Dioniso che, catturato dai Titani, fu ridotto a brandelli.
Amore, fedeltà, prolificità, concordia, ricchezza” sono i numerosi e sorprendenti termini attribuiti all’albero di Melograno e soprattutto alla melagrana, il suo frutto, per il notevole numero di grani contenuti al suo interno e per il loro colore rosso vermiglio.
E’ citato nell’Odissea, nel giardino del re dei Feaci.
Il Melograno e la melagrana hanno notevolmente ispirato anche l’arte.
Giotto dipinse Cristo Crocefisso su un albero di Melograno.
La melagrana nel XV e nel XVI secolo è stata rappresentata frequentemente in sculture e in dipinti da bravissimi e famosissimi artisti.
Nel dipinto laMadonna della melagrana”, di Sandro Botticelli, la Madonna sorregge nella sua mano sinistra una melagrana come simbolo di “fecondità”. Anche il Bambinello appoggia sulla melagrana la sua paffuta manina.
Nell’iconografia medioevale e rinascimentale è proprio Gesù Bambino a reggere la melagrana alludendo alla nuova vita.
Nel Cantico dei Cantici, (4,1-3), nelle lodi alla bellezza della sposa, attraverso la metafora della melagrana, eletta a simbolo “dell’amore, della fecondità della Terra Promessa, della “fedeltà e della femminilità”, lo sposo, in rapimento poetico, canta le bellezze dell’amata sposa: “[…] Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna. Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo […]”, e nel (4,13): “ […] I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti […]”.
In Deuteronomio (7-9), nelle prove del deserto è scritto: “ […] Perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato […] ”.
L’albero di Melograno, sotto la sua chioma, ha ospitato Saul come si legge nel primo libro di Samuele cap.14: “ […] Un giorno Giònata, figlio di Saul, disse al suo scudiero: <Su vieni, portiamoci fino all’appostamento dei Filistei che sta qui di fronte>. Ma non disse nulla a suo padre. Saul se ne stava al limitare di Gàbaa sotto il melograno che si trova in Migròn; la sua gente era di circa seicento uomini […]”.
Le Melagrane sono anche il simbolo della “benedizione divina”; sono ricamate sulla veste per le funzioni sacre di Aronne e sono scolpite sui capitelli di bronzo che sormontavano le colonne all’entrata del Tempio di Salomone.
Nella Bibbia, nella reggia di Salomone, (1Re 7,40-42) è scritto: ” […] Chiram preparò inoltre caldaie, palette e vassoi.
E terminò tutte le commissioni del re Salomone per il Tempio del Signore, cioè le due colonne, i globi dei capitelli che erano sopra le colonne, i due reticolati per coprire i due globi dei capitelli che erano sopra le colonne, le quattrocento melagrane sui due reticolati, due file di melagrane per ciascun reticolato
[…] “.
Nel Cristianesimo medievale la melagrana ha assunto un significato ancora più importante: ha rappresentato la Chiesa, simbolo di “concordia della società e di conservazione dell’unione dei popoli” che, paragonati ai grani, stretti sotto la membrana, pur essendo profondamente diversi per cultura e per tradizione, erano armonicamente riuniti sotto la stessa fede.
La melagrana aperta è invece emblema “dell’amore misericordioso di Cristo”.
Per gli ebrei era simbolo di “amicizia, di fratellanza, di abbondanza, di prosperità”.
In ebraico “rimonim” vuol dire Melograno perché i puntali del tempio di Gerusalemme hanno la forma di Melograno.
In senso più laico, la melagrana fu anche considerata simbolo di “desiderio, di passione, di prolificità”.
In Turchia, la giovane sposa, gettando a terra una melagrana matura, dal numero di semi che fuoriescono dal frutto che si apre urtando contro il suolo, conoscerebbe in anticipo quanti figli potrebbe partorire.
In Dalmazia lo sposo trasferisce la pianta di Melograno dal giardino del papà della sposa al suo podere come simbolo di “fecondità, di successo in amore e di prole numerosa”.
Il nome scientifico del Melograno è “Punica granatum“.
Il nome del genere “Punica” dal latino “punicum”, “persiano”, è stato attribuito al Melograno dal botanico Linneo convinto della sua origine africana.
Il nome della specie “granatum” per i tanti “semi, grani” che possiede il suo frutto, la melagrana.
Dai Romani l’albero di Melograno era chiamato “Mela punica”, dal latino “malus”, “mela” per la sua forma, e “punicum” perché pensavano che provenisse da Cartagine e lo ritenevano il frutto più gustoso del Mediterraneo.
Plinio lo chiamava “
malum punicum”, ovvero mela cartaginese.
Il frutto, la melagrana, o mela granata, o balausta, deriva pure dal latino “malus granatum”.
Apprezzato dagli Egizi per le sue proprietà vermifughe, lo onoravano come sacro.
In realtà l’albero era originario dalle regioni del sud-ovest asiatico da dove ebbe una larga diffusione in tutta l’Africa settentrionale e, in particolare, nei paesi mediterranei, dalla Turchia alla Penisola Iberica.
Dal Marocco, i mercanti lo portarono in Europa, in Italia e in Spagna diffondendone la coltivazione.
La città di Granada, dominata dai Mori dal ’700, ha questo nome perché, eretta su tre colli, somiglia ad una melagrana aperta che è divenuta l’emblema del suo stemma.
In Italia è presente nelle regioni meridionali e insulari sia spontaneo sia coltivato, soprattutto a scopo ornamentale.
Un vecchio esemplare di Melograno già dal 1867 abita nel Piazzale Sud dei Giardini Hanbury a Ventimiglia.

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Appartenente alla famiglia delle Punicaceae, il Melograno è una pianta rustica, piccola, ma, da adulta, raggiunge circa i tre metri d’altezza, perenne, molto longeva, anche se la sua crescita è piuttosto lenta e modesta.
Si presenta con portamento arbustivo, cespuglioso, molto ramificato, con una chioma irregolare ed espansa, con i rami rigidi, esili e un poco spinosi.
Nei rami più giovani la corteccia è rossiccia, liscia e molto rugosa, mentre nei rami vecchi e nel tronco è grigio-cinerea e screpolata.
Il fusto diventa sinuoso e attorcigliato negli alberelli annosi.
Le foglie sono semplici, piccole, caduche, alterne od opposte, di forma ovale, di colore verde lucente sulla pagina superiore, ma che muta con le stagioni: sono rosse nei giovani germogli e, successivamente, diventano di colore verde chiaro.
Cominciano a spuntare in primavera inoltrata e, prima di cadere, nel tardo autunno, assumono una colorazione giallo-dorata.
I fiori, ermafroditi, solitari, splendidi, hanno la corolla tubulosa, a campanella, formata da 5-8 petali, di colore rosso vermiglio, che racchiude le antere gialle portatrici di polline, goloso premio per gli insetti impollinatori.
La fioritura si estende dalla primavera fino all’inizio dell’estate e i fiori sbocciano all’estremità dei rami di un anno o sui dardi, isolati o riuniti in gruppi di tre.

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La pianta di Melograno comincia a fruttificare dopo 4 anni di età e raggiunge il massimo della sua produzione dopo circa trenta anni.
I frutti sono bacche commestibili, tondeggianti, grosse quanto una mela.
Sono rivestiti da una buccia coriacea dapprima verdognola, poi di colore giallo-arancio e, a completa maturazione, di colore rosso-corallo con sfumature soffuse di rosso. All’interno, i diversi loculi, separati da una membrana sottile, contengono un numero imprecisato di semi di forma prismatica, sfaccettati, avvolti da una polpa rossa gradevolmente dolce-acidula, molto succosa, trasparente.
I frutti maturano tra settembre e ottobre, vanno raccolti in autunno e mangiati in inverno.
Per evitare che le piogge provochino la spaccatura dei frutti, è consigliabile raccoglierli con un leggero anticipo; infatti maturano completamente anche dopo essere stati staccati dalla pianta.

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La moltiplicazione avviene per seme, in primavera, ma non è molto usata poiché le nuove piantine difficilmente mantengono le caratteristiche genetiche della pianta madre. I metodi più diffusi per la propagazione del Melograno sono: la talea, che può essere ottenuta da parti di ramo o di radice, e anche attraverso i polloni radicati che crescono alla base del ceppo della pianta adulta, la margotta e la propaggine.
La pianta di Melograno è molto pollonifera quindi, se lasciata crescere in modo naturale, assume un portamento cespuglioso, mentre, adottando particolari potature, può essere modellata in maniera tale da assumere svariate forme.
Il fiore rosso vermiglio del Melograno in primavera sorride festosamente a Persefone che ritorna dalle viscere della terra.
Persefone, a Zeus, che le domandò insidiosamente se le fosse stata usata violenza, se durante la sua permanenza negli inferi avesse mangiato o bevuto qualcosa confessò che un giorno, tormentata dalla sete, ha ceduto alla tentazione di accettare da Ade un chicco di melograna.
Non sapeva che questo inganno le avrebbe impedito di rimanere per sempre sulla terra, nel regno della luce.
Avendo mangiato un chicco di una melograna nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno ed a trascorrere sei mesi di ogni anno con lo sposo Ade e gli altri sei mesi con la madre sulla terra.
Demetra, sua madre, decise che, nei mesi in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo ci sarebbe stato freddo, la Natura si sarebbe addormentata, erano le stagioni dell’autunno e dell’inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, erano le stagioni della primavera e dell’estate.
Ecco perché, in primavera, la terra si ricopre di fiori: perché Demetra festeggia il ritorno di Persefone sulla terra.
In autunno, quando si reca nel regno dei morti, spoglia la Natura di ogni colore e la riveste di uno squallido manto.
Demetra, grata, da allora regala agli uomini un prodotto particolare: il grano.
Attualmente il Melograno è coltivato nei giardini solo come pianta decorativa perchè di grande effetto ornamentale specialmente per il portamento di quegli esemplari con tronchi contorti, per il bel colore del fogliame e per la decoratività dei frutti maturi.
L’albero, ben inserito nella macchia mediterranea, predilige i luoghi caldi, con molto sole, ben ventilati.
E’ coltivato anche in zone relativamente fredde, ma mal sopporta temperature molto basse, anche se si è adattato a vivere in montagna dove è bene piantarlo in posizioni riparate.
Preferisce i terreni argillosi, sabbiosi, tendenzialmente calcarei e drenati per favorire il rapido assorbimento dell’acqua.
Teme le piogge frequenti e l’elevata umidità del terreno e dell’aria durante l’autunno perché danneggiano i frutti in corso di maturazione e fanno sì che la pianta si spogli piuttosto precocemente.
Le piante che vivono all’aperto sono poco esigenti e si accontentano dell’acqua piovana e di un po’ di fertilizzante.
Una buona luminosità è indispensabile per garantire una considerevole fruttificazione.
La pianta non richiede molte cure e difficilmente si ammala; raramente è colpita da parassiti animali quali gli Afidi e il Ragnetto rosso, un piccolissimo aracnide che vive a spese della pianta succhiandone la linfa, e da agenti patogeni di origine fungina quale il mal bianco.
La pianta colpita deperisce visibilmente fino a morire se non è aiutata a liberarsi dal parassita.
L’albero, prevalentemente, è esposto agli attacchi di parassiti durante la fioritura, pertanto, nella somministrazione dei prodotti insetticidi, occorre avere prudenza per non impedire l’impollinazione naturale.
Gli usi tradizionali del Melograno in farmacologia sono molto antichi: le prime indicazioni si trovano in un papiro del 1550
a. C. Già Ippocrate consigliava l’uso dell’involucro del frutto per combattere la dissenteria.
Sono adoperate quasi tutte le parti della pianta. I fiori e i frutti contengono tannini e mucillagini.
I tannini sono indicati in farmacopea per trattare casi di emorragie avendo proprietà astringenti. I fiori si usano in infuso contro la dissenteria.
Il tegumento dei semi è astringente e diuretico.
Il frutto possiede proprietà rinfrescanti, diuretiche e toniche, la membrana e le radici sono astringenti ed antidiarroiche.
Anche i popoli dell’antica Grecia ne apprezzavano le proprietà medicamentose di antielmintico, di antinfiammatorio, di antibatterico nelle infezioni della pelle e di astringente nei casi di diarrea cronica.
In Europa, nel secolo scorso, la corteccia della radice era molto usata per curare la tenia solium grazie ad una miscela di alcaloidi presenti ma, essendo velenosa, se ne consigliava l’uso con molta cautela.
Le sostanze antiossidanti ad alta concentrazione rendono gli estratti di Melograno adatti a contrastare lo stress dell’organismo, a vincere le malattie del sistema nervoso, a regolare le pulsazioni cardiache, a rallentare l’invecchiamento dei tessuti e della pelle, a combattere l’ipercolesterolemia e l’aterosclerosi.
La corteccia delle radici, inoltre, è utilizzata anche per preservare gli indumenti dalle tarme.
Recentemente il Melograno è stato apprezzato per il suo potenziale uso cosmetico, per preparati ad effetto idratante della pelle.
Con i fiori e con le bucce dei frutti si ottengono dei coloranti rossi utilizzati in conceria per ornare il cuoio marocchino.
L’uso alimentare della melagrana è antichissimo e nasce già con i Romani.
Il frutto, considerato anticamente il re dell’orto per la presenza della corona, è stato apprezzato maggiormente nel Medioevo.
Per essere ricco di vitamine e di diversi sali minerali è entrato nella lista degli ingredienti delle cucine orientali e in tutti quei territori la cui l’aridità non offre una grande varietà di prodotti ad alto valore nutritivo.
Attualmente, nella cucina italiana è scarsamente utilizzato.
Gli chef più creativi impiegano i semi nei dessert, nelle gelatine, nelle granite, nelle marmellate e il succo nella preparazione di sciroppi, di bibite e di prodotti di pasticceria.
Il succo era utilizzato per aromatizzare il vino, detto “vinum granatus“, offerto sporadicamente ai commensali in occasioni particolari soprattutto della vita di corte. Con i grani si prepara la deliziosa e dissetante granatina, tipica bevanda spagnola.
E’ un liquore ricco di virtù medicinali, ottimo da bere in qualsiasi momento della giornata, soprattutto dopo un buon pranzo, per le sue qualità digestive, ideale per chi vuole offrire ai graditi ospiti un liquore unico e per chi vuole ritrovare gli antichi sapori di un tempo.
I suoi ingredienti sono: alcool, acqua, zucchero, vino bianco, melagrane e buongusto.
Maometto, trecento anni dopo la distruzione dei templi pagani, raccomandava di consumare il succo di melagrane per cancellare l’invidia conservando la ferma tradizione legata all’utilizzo del Melograno come pianta sacra.
Il Melograno è l’albero a cui tendeva la mano Dante, il figlioletto di Giosuè Carducci morto all’età di tre anni nel 1870.
Così recita il poeta nella sua breve ma accorata poesia “Pianto antico”:

L’albero a cui tendevi

la pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,

 

nel muto orto solingo

rinverdì tutto or ora

e giugno lo ristora

di luce e di calor.

 

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,

 

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor”.


Non ci sono parole per esprimere il dolore di un padre per la perdita prematura del proprio figlio.
C’è solo il pianto, la manifestazione, individuale ed intima, di un’immensa sofferenza interna.

 

Oct 10, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’URGINEA MARITIMA CON LA SPIGA FIORALE BIANCA

L’URGINEA MARITIMA CON LA SPIGA FIORALE BIANCA

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A Mistretta, al mio paese, le feste religiose di San Sebastiano, della Madonna della Luce e dei Giganti, del SS. mo Ecce Homo, il concorso letterario di poesia dialettale “Enzo Romano”, il trittico amastratino dedicato a “Mario De Caro”, la mostra fotografica collettiva di: Giuseppe Ciccia, Ugo Maccà, Giusy Sirni, Emanuele Coronato, Francesca Scarcina, sul tema “San Vastianu, vui siti lu gran santu”, la mostra di pittura dell’artista Sebastiano Caracozzo, la presentazione del libro di poesie “Le sequenze del cuore” di Antonio Oieni, del libro di poesie “Ad un soffio da te” di Donatello Scieuzo, del libro di poesie “Versi Diversi” di Rino Scurria,  dei libri di Filippo Giordano “Riepitu” e “Valle delle cascate, il volto sconosciuto di Mistretta”, la Cover musicale al largo Cavour della cantante folk Cinzia Sciuto, che ha l’interpretato alcuni canti tratti dal repertorio di Rosa Balistreri, il concerto di Deborah Iurato, la cantante siciliana pop vincitrice della tredicesima edizione del talent di Maria De Filippi “Amici”, la sfilata di moda con l’elezione della “Miss sotto il castello” organizzata da Dino Porrazzo, il concerto in piazza San Felice della banda musicale di Mistretta, diretta dal maestro Girolamo Di Maria, il concerto degli allievi dell’Accademia fisarmonicistica, curato dal maestro Salvo La Ferrera, l’esibizione della Corale Monteverdi, diretta dal dott. Sebastiano Zingone, i molti complessi di musica, molto eterogenei, che si sono esibiti sul palco in piazza San Felice e lungo i marciapiedi della via Libertà, la passeggiata sotto le stelle nei quartieri della città di pietra, organizzata dall’Associazione Sicilia Antica con Santina Rondine, la passeggiata alla valle delle cascate dei Nebrodi, con Filippo Giordano, Daniela Dainotti, Nello Turco, Luigi Marinaro, le escursioni a cavallo, la sfilata dei carretti siciliani, le sagre del “cudduruni, della salsiccia, dei prodotti caseari”, la mostra cinofila, le gare sportive, il torneo di Calcio-Tennis, i giochi di abilità per bambini, lo Slide and Fly “Il mare a Mistretta”, il “XXI raduno internazionale del Folklore”, le commedie,  la gimkana,  gara organizzata dal comitato pro festa del SS.mo Ecce Homo, durante la quale i concorrenti hanno dovuto percorrere nel più breve tempo e con il minor numero di penalità un tracciato tortuoso e reso impegnativo da ostacoli, la visita quotidiana alla villa comunale “Giuseppe Garibaldi” e alla villa “Chalet”, la serata di premiazione dei vincitori partecipanti alla XII edizione del Concorso Letterario “Maria Messina”, promosso dall’Associazione culturale “Progetto Mistretta”, in collaborazione con l’ Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa”, e presentata, come ogni anno, nel Salone delle Feste del Circolo Unione, sono state tutte manifestazioni, insieme a tante altre ancora, inserite nel programma dell’estate mistrettese 2015 programmato dall’Amministrazione comunale, dalla Pro Loco, dalla Kermesse d’arte,  dai Comitati delle feste religiose, dalle varie Associazioni, che hanno vivacizzato il paese.
La movida, formata dalla gioventù amastratina, ha animato la vita notturna dalla mezzanotte fino alle prime luci dell’alba.
Inoltre hanno reso piacevole il mio lungo soggiorno a Mistretta la gradevole frescura del luogo, che mi ha evitato di patire l’afosa e insopportabile calura licatese, la tranquillità della vita del paese, la piacevole compagnia degli amici.
Due carissime persone hanno concluso la loro vita terrena durante l’estate appena trascorsa. Ciao Nellina! Ciao Maruzza! Vi ricorderò sempre.
La mia villeggiatura a Mistretta è terminata.
Sono ritornata a Licata, a casa mia! Festosamente sono stata accolta dalle mie vicine: Letizia, Cettina e Raffaella.
Lungo il viaggio di ritorno che da Mistretta conduce a Licata, percorrendo la statale 125, esattamente nelle vicinanze di Enna, ho notato alcune piante che ergevano verso l’alto la loro spiga fiorale.
Mi sono subito innamorata della loro bellezza ed eleganza!
Qual è il nome scientifico?
Ha soddisfatto la mia curiosità il mio amico, il prof. Giuseppe Bazan, docente di botanica all’Università di Palermo.
Carissimo Giuseppe ti ringrazio sempre per la tua grande disponibilità ad istruirmi soprattutto sulle piante spontanee e rare che amo immensamente.

E’ L’URGINEA MARITIMA.

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Urginea è un genere di piante ricco di 120 specie distribuite nel bacino del Mediterraneo.
Sono diffuse in Europa, in Asia, in Africa. In Italia vegetano in Liguria, in Toscana, nel Lazio, nel meridione e nelle isole.
 In Italia delle tre specie esistenti la più comune è l’Urginea maritima.
La pianta di Urginea maritima appartiene alla famiglia delle Gigliaceae secondo la “Guida Botanica d’Italia”.
Il nome del genere “Urginea” ricorda la tribù algerina Beni Urgin, dalla quale ha ereditato il nome, e dove fu raccolta e studiata per la prima volta nel 1834. Gli algerini la chiamano “Âsquyl”.
Il nome “maritima” della specie è stato attribuito perché allo stato spontaneo la pianta vegeta bene nella macchia mediterranea costiera.
Si allontana poco dal mare dove s’interra nella sabbia delle spiagge o fra le rocce. Molto raramente vegeta nelle zone interne.
Infatti, è stato un fenomeno inconsueto aver notato un insieme di piante di Urginea maritima nella zona interna della Sicilia, esattamente nei pressi di Enna.

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L’Urginea maritima volgarmente è chiamata “Squilla”, ma .possiede molti altri sinonimi: “Charybdis pancration, Charybdis maritima, Speta, Urginea scilla, Drimia maritima,  Cipolla marina, Scilla marittima”.
Etimologicamente il nome ”Scilla” deriva dal sostantivo greco “Σκύλλα”  “Scilla”, il feroce mitico mostro marino che abitava in una caverna rocciosa di rimpetto a Cariddi, più tardi localizzata nello stretto di Messina. Potrebbe derivare dal verbo “σκύλλω” “dilaniare, stracciare, tormentare” nome che Ippocrate utilizzò per segnalare la forte tossicità della pianta.
Secondo la classificazione botanica più recente il nome Urginea maritima è il sinonimo del corretto nome Drimia maritima (L.) Stearn (1978). Il Pignatti, nella Flora d’Italia, la riporta come Urginea maritima.
L’Urginea maritima è una pianta che si fa apprezzare per il portamento e per la bellezza dei suoi fiori. Si notano dei pennacchi bianchi che ondeggiano nel vento: è l’infiorescenza che spesso, nella cultura popolare, segna la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno.

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 L’Urginea maritima è una pianta erbacea perenne dotata di un grosso e pesante bulbo, rivestito da una tunica, dal diametro fra i 10 e i 20 cm e dal peso anche di 4 chilogrammi. Alla fine dell’estate emette uno scapo fiorifero eretto, alto anche due metri, di colore verde biancastro, che termina con un’infiorescenza a racemo denso formato da numerosi fiori, anche oltre 100, a forma stellare, peduncolati e formati da sei tepali ovali bianchi con una costola mediana marrone e con filamenti giallo-verdastri.
I fiori sono inodori. L’apertura dei fiori è graduale, inizia dal basso e prosegue verso l’alto. E’ molto decorativa. La punta dell’infiorescenza tende frequentemente ad incurvarsi a causa del peso dei fiori.

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 Le foglie, di colore verde scuro, molli e carnose, lanceolate, larghe circa 10 cm e lunghe fino a 50 cm, riunite in una rosetta basale, appaiono contemporaneamente o prima della fioritura creando una sorta di “culla” da cui emerge lo scapo fiorifero.
I fiori sbocciano alla fine dell’estate. Il frutto è una capsula membranosa ellittica triloculare contenente molti semi.
La moltiplicazione avviene per seme in primavera. Ancora più indicata è, in estate, la moltiplicazione per divisione dei bulbi.
La coltivazione dell’Urginea maritima è abbastanza facile sia in vaso, di dimensione sufficiente, sia in piena terra.
Il bulbo deve essere collocato a pochi centimetri dalla superficie e con la sua punta ricoperta solo da un sottile stato di terra. Il substrato deve essere sciolto, ricco di humus e molto permeabile, preferibilmente sabbioso, sia acido sia calcareo.
Gradisce una esposizione dove può ricevere la luce diretta del sole della mattina.
Durante il periodo del ciclo vegetativo, in cui sono presenti le foglie, è necessario somministrare un debole concime liquido per piante da fiore. Durante l’estate i bulbi non devono essere mai annaffiati.
L’Urginea maritima teme le basse temperature. Nelle zone fredde non riesce a sopravvivere, quindi è bene coltivare la pianta in grandi vasi che potranno essere trasportati in luoghi più caldi durante la stagione invernale. Essendo molto irritante per la pelle si consiglia di maneggiare la pianto usando i guanti.
La pianta era nota già nell’antichità con il nome di “Scilla”.
Questo nome è tuttora frequentemente usato in erboristeria.
Per le sue proprietà cardiotoniche e diuretiche la pianta era già usata come droga dagli egizi, dai greci e dagli arabi.
E’ stata descritta da Dioscoride, da Teofrasto, da Galeno che conoscevano già le stesse proprietà cardiotoniche, diuretiche ed espettoranti dell’Urginea.
Lo scienziato Plinio il Vecchio, I° secolo d. C., così scrisse:“In verità nobilissima è la scilla, sebbene nata per i medicamenti e per rinforzare l’aceto. Non c’è bulbo più grande e che abbia maggior forza. Due sono le varietà della medicinale, il maschio dalle foglie bianche, la femmina dalle foglie nere. Ma la terza varietà è un cibo gradevole, si chiama Epimedio, dalle foglie piccole e meno aspro. Hanno tutte molto seme; tuttavia crescono abbastanza celermente con i bulbilli nati attorno e, perché crescano, le foglie, che hanno ampie, si sotterrano; così i bulbilli ne assumono le sostanze nutritive. Nascono spontaneamente numerosissime nelle isole Baleari e ad Ibiza e per tutta la Spagna”.
Secondo Plinio esistono due varietà di Scilla. La varietà “alba”,chiamata anche “Scilla maschio”, di dimensioni minori; la varietà “rubra”, chiamata “Scilla femmina” il cui bulbo può arrivare a 3–4 kg. La differenziazione delle due varietà si riferisce al colore delle squame del bulbo.
Plinio ancora scrisse: “ Tra le scille con proprietà medicinali la bianca è il maschio, la nera la femmina; la più bianca è la migliore. Tolta a questa la scorza secca, fatta a fette la parte verde restante, si pongono queste su un panno a piccola distanza l’una dall’altra. Poi i pezzi seccati vengono sospesi in un orcio pieno di aceto quanto più forte possibile in modo che non tocchino nessuna parte del vaso. Si fa questo quarantotto giorni prima del solstizio. Poi il vaso otturato con gesso viene posto sotto le tegole perché ricevano il sole dell’intera giornata. Dopo quel numero di giorni si tira fuori il vaso, si estrae la scilla e si cola l’aceto. Questo rischiara molto la vista, è salutare per lo stomaco, per i dolori al fianco assunto a digiuno ogni due giorni. Ma è tanto forte che assumendolo con troppa avidità per un momento sembra che uno sia morto. Giova pure alle gengive e ai denti anche solo masticandola. Assunta con aceto e miele elimina le tenie e gli altri parassiti del corpo. Messa fresca sotto la lingua fa che gli idropici non sentano sete. Si cucina in diversi modi: in una pentola che si mette nel forno spalmata di grasso o di fango o a pezzi in tegame. E cruda viene seccata, poi si taglia a pezzi e si cuoce nell’aceto, quando serve contro i morsi dei serpenti. Quando è arrostita si netta e la sua parte centrale viene cotta di nuovo in acqua. Così cotta viene somministrata agli idropici, per stimolare la diuresi bevuta nella dose di tre oboli con miele ed aceto, allo stesso modo ai sofferenti di milza e ai sofferenti di stomaco, se non avvertono i sintomi dell’ulcera, che abbiano problemi di digestione, per le coliche, per i sofferenti di bile, per la tosse cronica che toglie il respiro. In soluzione con le foglie per quattro giorni combatte la scrofolosi, cotta in olio ad empiastro la forfora e le ulcere che emettono liquido. Si cuoce pure nel miele per cibo, soprattutto per favorire la digestione. Così purifica anche l’intestino. Cotta in olio e mista ad acquaragia sana le screpolature dei piedi. Il suo seme viene applicato con miele nel caso di dolore dei fianchi. Pitagora tramanda che la scilla sospesa anche sulla porta è efficace a tenere lontani i malefici”.
“L’aceto di Scilla quanto più è invecchiato tanto più è utile. Giova, oltre a quanto abbiamo detto, ai cibi inaciditi perché li rende più gradevoli al gusto; parimenti a quelli che vomitano a digiuno perché dà insensibilità alla gola e allo stomaco. Elimina l’alitosi, cicatrizza le gengive, rende saldi i denti, dà un colorito migliore. Gargarizzandolo elimina la durezza di orecchi e apre le vie dell’udito. In pari tempo acuisce la vista. È straordinariamente utile agli epilettici, ai biliosi, contro le vertigini, i restringimenti della matrice, gli urti, le cadute e gli ematomi che ne conseguono, i nervi ammalati, le malattie dei reni, da evitare in caso di ulcera”.
Nel XVIII secolo sono state scoperte le sue proprietà cardiotoniche simili a quelle della Digitalis purpurea, differendo da questa per l’azione più rapida, ma di più breve durata.
Oggi le sue attività principali sono: la cura delle forme lievi di insufficienza cardiaca e della ridotta funzionalità renale. L’uso come espettorante è ormai sorpassato.
Possono verificarsi casi di tossicità, di interazioni e di effetti secondari. I sintomi di intossicazione, anche alle dosi terapeutiche, si possono manifestare con nausea, vomito, disturbi gastrici, diarrea, polso irregolare.
E’ consigliabile attenersi rigorosamente alle indicazioni del medico e alle preparazioni standardizzate perché la concentrazione della droga può variare fortemente.
Storicamente, dunque, l’interesse per questa pianta si è maggiormente indirizzato verso le virtù medicinali più che per le sue caratteristiche ornamentali. La parte della pianta che interessa è il bulbo. Esso è raccolto in agosto, prima della fioritura, tagliato a fette e posto ad essiccare in un ambiente asciutto e ventilato.
Esso dimostra una notevole tossicità per l’uomo, specie se consumato fresco. I principi attivi contenuti nel bulbo sono: afoscillina, scillipicirina, scillitossina, scillina, poliosi, mucillagine, ossalato di calcio.
Curiosità: il bulbo è talvolta utilizzato come  topicida perché i topi, attirati dal suo odore aromatico, affondano i denti nella polpa e, rapidamente, muoiono.
E’ noto che i capi Bantù si procurano delle cicatrici con una pasta preparata da queste piante e usano le foglie come medicinali. Anche le foglie, come i bulbi, contengono sostanze tossiche per l’uomo e per gli animali.
In Sardegna l’Urginea maritima è considerata una pianta magica e spesso è coltivata come talismano come protezione dalle stregonerie.

Sep 26, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Francesco nacque ad Assisi il 26 settembre del 1182. Questa data è incerta. Probabilmente è nato a Dicembre del 1181 o a Settembre del 1182 da Pietro Bernardone dei Moriconi e da Giovanna Bourlemont, nobil donna d’origine provenzale, detta “Pica”, da “picca”, per il suo anormale desiderio di voler partorire il suo bambino, come Gesù Bambino, nella stalla allestita al piano terra della casa paterna ubicata nella piazza principale della città. Questa stalla, in seguito, fu detta “la stalletta” o “Oratorio di San Francesco piccolino”.
Francesco, che etimologicamente significa “libero”, nacque in una famiglia appartenente alla borghesia emergente della città di Assisi che, grazie all’attività del genitore, commerciante di stoffe, aveva conquistato ricchezza e benessere.
La madre, durante il battesimo, celebrato nella chiesa costruita in onore del patrono della città, il vescovo e martire Rufino, gli impose il nome Giovanni in ricordo di Giovanni Battista. Il padre, di ritorno da un lungo viaggio in Francia, aggiunse il nome Francesco, che prevarrà poi sul primo, per esaltare la Francia dove, avendo espletato là la sua attività di commercio, lo aveva fatto arricchire.
Francesco, quindi, è cresciuto tra gli agi della sua famiglia che, come tutti i ricchi assisani, godeva dei tanti privilegi imperiali concessi dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Nella sua casa, sita al centro della città, il papà Pietro di proposito aveva adattato a deposito e a negozio un magazzino  per lo stoccaggio e l’esposizione della pregiata merce che portava con i suoi frequenti viaggi in Provenza e che vendeva in tutto il territorio del Ducato di Spoleto a cui allora apparteneva anche la città di Assisi. Aveva pensato, infatti, di avviare il figlio alla sua stessa attività di commercio. Lo considerava un valido collaboratore e l’erede della famiglia.
Francesco, già alla giovane età di 14 anni, si dedicò all’attività di commercio. Dopo aver condotto una vita dissoluta tra le liete brigate degli aristocratici assisani e la cura degli affari paterni, ricevette in sogno la chiamata del Signore.
Frequentò la scuola parrocchiale dei canonici della cattedrale che insegnavano nella chiesa di San Giorgio dove, dal 1257, fu costruita l’attuale basilica di Santa Chiara. Le sue cognizioni letterarie erano limitate, però conosceva bene il provenzale. Nel 1154 un conflitto contrappose le città di Assisi e di Perugia tra le quali esisteva un’accanita rivalità che si prolungò nel tempo. L’odio fra le due città aumentò a causa dell’alleanza di Perugia con i guelfi, mentre Assisi si alleò con i ghibellini. Nel 1202 gli assisani subirono una clamorosa sconfitta e una numerosa perdita di uomini a Collestrada, località nei pressi di Perugia.
Il giovane Francesco, appartenente alla cerchia degli aristocratici della piccola nobiltà di Assisi, espresse la volontà di diventare cavaliere, di partecipare alle guerre tra Assisi e Perugia e di partire per la crociata. Nel 1203-1204 Francesco, giovane ventenne, partecipò alla Crociata,  andò a Puglia, convinto di raggiungere la corte di Gualtieri III di Brienne a Lecce il quale combatteva per conto del papa in tutela dell’ancora minore Federico II e di continuare il suo viaggio, assieme ad altri arditi giovani cavalieri, alla volta di Gerusalemme. Allora la partecipazione ad una crociata era considerata uno dei massimi onori per i cristiani d’Occidente. A Spoleto sognò un castello pieno di armi e di insegne cavalleresche mentre una voce lo invitava a seguire piuttosto “il padrone che il servo”.
Francesco fu catturato e fu fatto prigioniero dai perugini. Dopo un anno trascorso in prigione, gravemente malato, ottenne la libertà dietro il pagamento di un congruo riscatto pagato dal padre. Ritornato a casa, trascorrendo molto tempo tra i possedimenti di famiglia, a poco a poco recuperò la salute.
Tommaso da Celano racconta che in questi luoghi familiari e solitari si risvegliò in Francesco un incondizionato amore per la Natura, che vedeva come opera mirabile di Dio: << Alto e Glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio>>.
L’ esperienza della guerra, l’angoscia della prigionia lo sconvolsero al punto tale da indurlo a cambiare il suo stile di vita. Iniziò, quindi, un cammino di conversione che, in seguito, lo portò «a vivere nella gioia di poter custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore».
Francesco, ritornato ad Assisi, si ritirò in luoghi solitari, in totale povertà, conducendo per alcuni anni una vita di penitenza e di preghiera. Iniziò quella meravigliosa avventura che l’avrebbe portato a diventare uno dei più grandi santi del Cristianesimo. Si racconta che un giorno suo padre mandò Francesco a Roma a vendere la sua preziosa mercanzia. Egli, non solo distribuì ai poveri il denaro ricavato dalla vendita della merce, ma cambiò le sue vesti con quelle di un mendicante chiedendo l’elemosina davanti alla porta di San Pietro.
Un giorno Francesco incontrò un lebbroso, lo abbracciò e lo baciò. Egli stesso racconterà che prima di quell’incontro non poteva sopportare neppure la vista di un lebbroso. Dopo questo episodio scrisse che  « ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d’anima e di corpo».
Nel 1205  avvenne l’episodio più importante della sua conversione: mentre pregava nella chiesa di San Damiano Francesco sentì la voce del Crocefisso che per tre volte gli disse: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina».
Egli portò via alcune stoffe dal negozio del padre e andò a venderle a Foligno. Vendette anche il cavallo e tornò a casa a piedi. Donò il denaro, ricavato dalla vendita delle stoffe, al sacerdote della chiesa di San Damiano affinché riparasse la chiesa.
Il padre Pietro si arrabbiò assai.
Francesco, per questa sua eccessiva generosità, fu considerato pazzo dai paesani e dal padre che, impotente all’irremovibile “testardaggine” del figlio, e visto che il suo patrimonio si assottigliava, decise di denunciarlo ai consoli con la speranza che Francesco, per paura della punizione, cambiasse atteggiamento.
Anche Francesco presentò ricorso al vescovo. Al processo, che si svolse nel mese di gennaio del 1206, partecipò tutto il popolo di Assisi per conoscere il giudizio del vescovo.
Francesco non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né proferì parola. Senza indugio depose tutti i vestiti e li restituì al padre. Si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in Lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza“.

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Con quel gesto, spogliandosi di tutto, Francesco rinunciò ai beni terreni. Il vescovo Guido lo coprì pudicamente agli occhi della folla accogliendo Francesco nella Chiesa.
Francesco diede inizio ad un nuovo percorso di vita. Scelse di vivere non solo in preghiera, in povertà, ma dedicandosi anche al servizio degli ammalati, al lavoro manuale ed elargendo l’elemosina. Molto sviluppato era in lui il senso di pietà verso i deboli e verso gli emarginati. Questa pietà poi si sarebbe trasformata in una vera e propria “febbre d’amore” verso il “prossimo”.
Da uomo nuovo, Francesco cominciò il suo viaggio. Nell’inverno del 1206 partì per Gubbio. Fu ospite di Federico Spadalonga, che aveva condiviso con lui la prigionia nelle carceri di Perugia. Federico lo sfamò e lo rivestì. Dopo pochi mesi, Francesco si trasferì presso i lebbrosari restando con i lebbrosi servendoli con la massima cura. Era il lebbrosario di Gubbio  intitolato a San Lazzaro di Betania.
Francesco non ebbe mai una fissa dimora.
Nell’estate successiva Francesco ritornò ad Assisi. Per un certo periodo se ne stette da solo, impegnato a riparare alcune chiese in rovina, come quella di San Pietro, al tempo fuori le mura, la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano.
Il 24 febbraio del 1208 Francesco si trovava nella chiesetta della Porziuncola. Dopo aver ascoltato un passo del Vangelo secondo Matteo,  sentì la necessità di divulgare la Parola di Dio. Iniziò così a predicare partendo dalla sua città.
Ben presto si unirono a lui: Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani, Filippo Longo di Atri, frate Egidio, frate Leone, frate Basso, frate Elia da Cortona, frate Ginepro. Nacque il primo nucleo della comunità di frati. Le prediche di Francesco uscirono fuori dell’Umbria.
Solo nel 1209 Papa Innocenzo III, dopo la predica ai porci, approva la Regola dell’Ordine ed autorizza Francesco a predicare alla gente.
Le sue prediche erano semplici, ma di grande significato umano e religioso tanto da conquistare i molti ascoltatori e a suscitare una sorta di conversione di massa. Ecco che allora Francesco pensò di creare il Terz’Ordine, oggi denominato “Ordine Francescano Secolare”.
Nel 1210 Francesco, avendo riunito intorno a sé dodici compagni, si recò a Roma per chiedere al papa Innocenzo III l’autorizzazione della Regola di vita per sé e per i suoi frati. Dopo alcune iniziali perplessità, il papa concesse a Francesco la propria approvazione orale per il suo «Ordo fratum minorum». Secondo un’interpretazione, che associa la nascita del Terz’Ordine Francescano al miracolo del “silenzio delle rondini“, dagli scritti di frate Tommaso da Celano, il primo biografo francescano, si può desumere che la promessa di Francesco di fondare il Terz’Ordine Francescano è stata fatta nel 1212 ad Alviano, un borgo tra Orte ed Orvieto, poco distante da Todi. La stessa interpretazione è possibile farla nella “Legenda Maior” di San Bonaventura.
Non è rimasta nessuna traccia del testo presentato da Francesco al papa. Gli studiosi pensano che consistesse principalmente in alcuni brani tratti dal Vangelo che, insieme ad alcune aggiunte, abbozzarono la “Regola non bollata”, che Francesco scrisse nel 1221 alla Porziuncola : “Se vuoi essere perfetto va e vendi tutto quello che possiedi e donalo ai poveri, così avrai un tesoro in cielo. Non portare alcuna cosa per via, nè bastone, nè bisaccia, nè calzari, nè argento. Chi vuol venire dietro di me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Inoltre Francesco scrisse:

– La “Regola bollata”, del 1223, presentata al papa Onorio III, che l’approvò il 29 settembre del 1223 con la bolla Solet annuere.

– La “Regola di vita negli eremi” scritta tra il 1217 e il 1221.

– Gli scritti alle “povere signore” sono i testi di queste due lettere: Forma di vita e Ultima volontà e sono state ricavate dalla regola di Santa Chiara.

–  Le “Ammonizioni”, che raccolgono 28 pensieri di Francesco. Secondo gli storici potrebbero essere delle conclusioni di alcune conversazioni dei capitoli celebrati dai frati. Esse trattano vari argomenti fra cui spiccano i commenti alle Beatitudini.

Di ritorno da Roma, Francesco, assieme ad altri frati, si ritirò a Rivotorto, sulla strada verso Foligno, in una baracca malsana e angusta. Nel tugurio di Rivotorto arrivarono Egidio, Sabatino, Morico, Filippo Longo e prete Silvestro.
Seguirono poi: Giovanni, Barbaro, Bernardo, Vigilante ed infine Angelo Tancredi. Francesco e gli altri compagni vestivano un rozzo saio cinto da una corda.
Abbandonata la baracca, i frati si stabilirono presso la piccola badia di Santa Maria degli Angeli, in località Porziuncola concessa dall’Abate di San Benedetto del Subasio.
I seguaci di Francesco diventavano sempre più numerosi.
E’ stato avviato il primo convento dei frati francescani!
Nel 1213 il beato Villano, Vescovo di Gubbio, già abate benedettino dell’abbazia di San Pietro, concesse ai frati di fissare una loro sede nell’antica Santa Maria della Vittoria, detta della Vittorina, che la tradizione indica come il luogo in cui Francesco ammansì il famoso Lupo.
Un grosso lupo da tempo terrorizzava gli abitanti di Gubbio. Selvaggio, affamato, il lupo da diversi anni vagava nei boschi alle porte del paese avvicinandosi a ridosso delle mura della città per procurarsi il cibo. Gli abitanti, impauriti, si rivolsero a Francesco che si trovava a Gubbio. Il frate s’inoltrò nel bosco alla ricerca del lupo, lo incontrò, gli parlò. Attraverso la sua mediazione, il lupo promise di non spaventare più gli abitanti di Gubbio a condizione che loro si impegnassero a sfamarlo quotidianamente. La leggenda narra che, quando il lupo morì di vecchiaia, gli abitanti del paese ne furono molto dispiaciuti.
Ne “I fioretti di San Francesco” si legge: « …nel contado d’Agobio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziando gli uomini; intantoché tutti i cittadini stavano in gran paura, perocché spesse volte s’appressava alla cittade. E andavano armati quando uscivano della cittade, come se eglino andassono a combattere……”.
” E poi il detto lupo vivette due anni in Agobio; ed entrava dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare male a persona e senza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente: e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava dietro. Finalmente, dopo due anni, frate lupo si morì di vecchiaia; di che li cittadini molto si dolevano, imperrocché, veggendolo andare così mansueto per la cittade
”.
Francesco realizzò tre ordini riconosciuti dalla Chiesa cattolica esistenti ancora oggi e aventi costituzioni proprie. Il primo ordine è quello dei Frati Minori. La loro vita è ancora oggi ispirata dalla Regola bollata approvata dal papa Onorio III nel 1223.
Il secondo ordine è quello delle Monache Clarisse fondato da Chiara d’Assisi, la quale ha redatto una Regola propria. È costituito da suore di clausura e, attualmente, è presente in tutto il mondo. La nuova “forma di vita” di Francesco e dei suoi frati conquistò anche alcune donne. La prima fu Chiara Scifi, figlia del nobile Favarone di Offreduccio. Fuggita dalla casa paterna la notte della Domenica delle Palme del 28 marzo del 1211,  giunse il 29 marzo del 1211 a Santa Maria degli Angeli dove chiese a Francesco di poter entrare a far parte del suo ordine e dove ricevette l’abito religioso dal santo. Francesco la ospitò prima presso il monastero benedettino di Bastia Umbra, poi in quello di Assisi. In seguito, quando altre ragazze, fra le quali anche Agnese, la sorella di Chiara, seguirono il suo esempio, presero dimora nella chiesetta di San Damiano. Nacque la fondazione dell’Ordine femminile delle Clarisse.
Il terzo ordine nacque per i laici, per i secolari, per coloro che, pur non entrando in convento, vivono nelle loro famiglie la spiritualità francescana.
Negli stessi anni Francesco realizzò il convento di Montecasale, dove insediò una piccola comunità di seguaci, e dove ripetutamente sosterà durante i suoi viaggi.
Francesco sarebbe potuto essere scambiato per un cataro per la sua povertà e per la predicazione ai ceti subalterni. Ben viva era allora la vicenda dei catari, eretici che predicavano un dualismo Bene/Male portato alle estreme conseguenze. Francesco e i suoi seguaci si distinguevano in molteplici aspetti: non mettevano in dubbio la gerarchia della Chiesa, non contestavano l’autorità della Chiesa, che consideravano “madre“, e le promettevano obbedienza.
Francesco stesso, infatti, insisteva sulla necessità di amare e rispettare i sacerdoti. Dimostrò grande amore per la Natura, per gli animali e per gli uomini.  << La sua carità si estendeva, con cuore di fratello, non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al mansueto agnello. Per lo stesso motivo, il suo amore e la sua simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l’immagine di Dio >>.
Col passare del tempo la fama di Francesco si diffuse enormemente e aumentò anche il numero dei frati francescani. Nel 1217 Francesco, alla Porziuncola, partecipò al primo dei capitoli generali dell’Ordine.
Nei capitoli generali, che si tenevano ogni due anni, si stabilivano le regole di vita comunitaria, si organizzava l’attività di preghiera, si rinsaldava l’unità interna ed esterna, si decideva sulle nuove missioni. Con il primo capitolo fu organizzata la grande espansione dell’Ordine Francescano in Italia e furono inviate missioni in Germania, in Francia e in Spagna.
Nel 1219 Francesco si recò ad Ancona diretto in Egitto e in Palestina dove era in corso la quinta Crociata. Durante questo viaggio, in occasione dell’assedio crociato alla città egiziana di Damietta, insieme a frate Illuminato,  dal benedettino portoghese Pelagio Galvani, vescovo di Albano, ottenne il permesso di entrare nel campo saraceno per incontrare il sultano Ayyubide al-Malik al-Kāmil, nipote di Saladino. Lo scopo dell’incontro era quello di predicare il Vangelo nel tentativo di convertire il sultano e i suoi soldati a porre fine alle ostilità.
Tommaso da Celano racconta che Francesco suscitò profonda ammirazione nel sultano che lo trattò con rispetto e gli offrì numerose ricchezze. La pacifica rivoluzione che il nuovo Ordine Francescano stava compiendo cominciò ad essere palese a tutti. Iniziarono però anche i primi problemi: Francesco temeva che, ingrandendosi senza controllo, la fraternità dei Minori deviasse dai propositi iniziali. Per potersi dedicare completamente alla sua missione Francesco, nel 1220, rinunciò al governo dell’Ordine in favore del seguace Pietro Cattani, che morì l’anno seguente.
Al successivo Capitolo Generale, detto “Delle Stuoie”, riunitosi nel mese di giugno del 1221, fu scelto come vicario frate Elia. Nel 1223, con la bolla «Solet annuere», papa Onorio III approvò definitivamente la “Regola seconda” redatta con l’aiuto del cardinale Ugolino d’Ostia, il futuro papa Gregorio IX.
Francesco, pur non condannando né la ricchezza, né la sapienza, né il potere, si rendeva conto che i frati, che liberamente avevano deciso di seguirlo e di accettare la sua regola di vita, stavano diventando colti e accettavano doni e ricchezze che erano incassati dalla Santa Sede.
” Sorella Povertà”, “obbedienza”, “castità”, “umiltà”, “ascetismo” sono gli aspetti fondamentali della vita di Francesco e dei suoi seguaci. Per queste virtù a Francesco fu dato l’appellativo di “Imitator Christi , “Imitatore di Cristo“: Per il segno della “fraternità” ciascun discepolo è “imitator Francisci” “Imitatore di Francesco” e, dunque, “imitator Christi”.
Pur conducendo una vita attiva, Francesco spesso sentiva la necessità di ritirarsi in luoghi solitari. L’Eremo delle Carceri di Assisi, l’Isola Maggiore sul lago Trasimeno, l’Eremo delle Celle a Cortona offrivano a Francesco riposo, silenzio e pace per una più intima preghiera.
Tra il 1224 e il 1226, Francesco d’Assisi, malato, affetto da tracoma agli occhi, compose il “Canticus o Laudes Creaturarum”, “Il Cantico delle Creature”, il “Cantico di Frate Sole”.
E’ la lode a Dio per il Creato che si snoda con intensità e con vigore attraverso le sue opere. E’ una preghiera permeata da una visione corretta della Natura, poiché nel Creato è riflessa l’immagine del Creatore. Da questo deriva il senso di fratellanza che deve unire l’Uomo all’universo, per sempre.
La più antica stesura del Cantico delle Creature che si conosca, riportata nel Codice 338, è custodito nella Biblioteca del Sacro Convento di San Francesco ad Assisi.

 “Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se confano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubi lo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infirmitate et tribulatione.

Beati quelli che ‘l sosterranno in pace,
ca da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ scappare:
guai a quelli che morrano ne le peccata mortali;
beati quelli che trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ca la morte secunda no ‘l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate”.

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Secondo quanto riportato dalle agiografie il 14 settembre del 1224, mentre pregava sul monte della Verna  e dopo 40 giorni di digiuno, Francesco avrebbe visto un Serafino crocefisso. Al termine della visione gli sarebbero comparse le stigmate «sulle mani e sui piedi presenta delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai quali sanguina spesso».
Le agiografie raccontano che sul fianco destro Francesco aveva anche una ferita come quella inferta da una lancia. Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite fino alla morte. Per questa caratteristica Francesco è stato definito «alter Christus». Fu frate Elia, suo successore a capo dell’Ordine, ad annunciare al mondo la presenza sul corpo di Francesco delle stigmate. Questa rivelazione provocò nella chiesa gravi lacerazioni e scetticismi che dureranno anche nei secoli successivi.
Negli ultimi anni di vita la salute di Francesco si era molto aggravata. Soffriva di disturbi al fegato oltre che alla vista. Nel giugno del 1226, mentre si trovava alle Celle di Cortona, dettò il “Testamento” dove rievocò tutte le tappe della sua vita vissute come un dono del Signore. Infatti è frequente l’espressione: “Il Signore mi diede…”. Nel Testamento Francesco esorta i frati a vivere la Regola esortando l’Ordine a non allontanarsi dallo spirito originario. Francesco scrisse: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il SantoVangelo”.
Nel 1226 Francesco si trovava alle sorgenti del Topino, presso Nocera Umbra. Poiché capiva che le forze lo stavano abbandonando, chiese di tornare alla Porziuncola. Qui la morte lo colse nella notte fra il 3 e il 4 ottobre del 1226 su un giaciglio nella nuda terra.
Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi ed essere stato portato perfino in San Damiano per essere mostrato a Chiara ed alle sue consorelle, fu sepolto nella chiesa di San Giorgio. Da qui, nel 1230 la sua salma fu trasferita nell’attuale basilica.
Il Papa Gregorio IX lo canonizzò il 19 luglio del 1228. La canonizzazione di Francesco è riportata in modo molto dettagliato nella “Vita Prima” di Tommaso da Celano.
Il 25 maggio del 1230 la sua salma, trasferita dalla chiesa di San Giorgio, fu tumulata nell’attuale Basilica di San Francesco fatta costruire celermente da frate Elia su incarico di Gregorio IX negli anni tra il 1228 e il 1230.
San Francesco è stato ed è uno dei santi più amati dal popolo credente per il suo spirito di umiltà e di povertà. Nei luoghi dove ha trascorso la sua vita sono sorti santuari a lui dedicati. Il principale santuario è la famosa Basilica di San Francesco, ad Assisi, Il suo sepolcro è meta di pellegrinaggio continuo per le moltissime migliaia di devoti che ogni anno visitano il santuario.
La città di Assisi, per aver dato i natali a San Francesco, è elevata a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i tre grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002 e da papa Benedetto XVI nel 2011. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto papa nel conclave del 2013, ha scelto il nome pontificale di Francesco in onore del santo di Assisi, primo nella storia della chiesa.
San Francesco, conosciuto come il “poverello d’Assisi“, è venerato e festeggiato dalla Chiesa cattolica il 4 ottobre.  Il 3 ottobre di ogni anno è celebrato il “transito“, cioè un momento di preghiera teso a ricordare la morte del Serafico Padre attraverso letture tratte dalle Fonti francescane e dalla Bibbia.
San Francesco, assieme a Santa Caterina da Siena,  è stato proclamato da papa Pio XII patrono principale d’Italia il 18 giugno del 1939. E’ patrono degli animali, dei poeti, dei commercianti, dei lupetti, delle coccinelle, degli ecologisti. I suoi emblemi sono: il lupo e gli uccelli.
San Francesco è descritto nella pittura, nella scultura, nella musica, nel cinema, nella televisione, nella letteratura.

Dante Alighieri ricorda la figura di Francesco nel XI canto del Paradiso e descrive le sue

nozze mistiche” con Madonna Povertà, che

“ …privata del primo marito

millecent’anni e più dispetta e scura

fino a costui si stette senza invito “ (vv.64-66)

e che prima di morire affida ai suoi discepoli:

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede

raccomandò la donna sua più cara

e comandò che l’amassero a fede “ (vv.112-114)

 

LA CHIESA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI A MISTRETTA

 

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La chiesa di San Francesco d’Assisi, costruita nel XVI secolo, sorge nel cuore della città di Mistretta, in via Libertà, ed ha annessi l’ex convento dei Padri Cappuccini, già adibito a casa di detenzione fino a poco tempo fa, e la villa comunale “G.Garibaldi”, allora orto botanico dei frati. La chiesa era inglobata nel convento delle Benedettine, che vi dimorarono fino al 1569, quando lo cedettero ai Padri Cappuccini trasferendosi nel nuovo convento di S. Maria del Soccorso.

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 Nel 1604 i frati Cappuccini ampliarono l’attuale chiesa che è costituita da un’unica navata ricca di sculture lignee e di dipinti. Tra le opere più interessanti, conservate in questa chiesa, si deve ammirare l’artistico altare, uno dei maggiori capolavori in legno esistenti in Sicilia, realizzato dallo scultore intagliatore sacerdote Giovanni Biffarella, del 1742, e da frate Bernardino da Mistretta.

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La custodia sacramentale e le nicchie dalle colonne tortili, che si alternano alle statue miniaturizzate degli Apostoli, formano una pregevole opera d’intaglio e di scultura in cui l’artista evidenzia un senso di sorprendente plasticità di forme e una sicura conoscenza dell’anatomia umana.

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Il dipinto della Madonna degli Angeli, con i Santi Francesco e Chiara, quest’ultima nell’atto di mettere in fuga gli eretici con l’ostensorio ecucaristico, opera di Scipione Pulzone da Gaeta, del 1588, è una bellissima pala dove nella parte superiore è dipinta una zona celeste, molto luminosa, che esalta i simboli della divinità, la gloria della Madonna e degli Angeli, mentre nella parte inferiore, molto scura, è rappresentato il mondo terrestre, l’umano operare con i Santi umili che devono essere esempio di imitazione secondo le sollecitazioni promosse dalla Chiesa nel periodo della Controriforma.

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8 Madonna degli angeli Scipione Pulzone 1588 ok

Le icone nascondono questi preziosi dipinti.

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L’Immacolata perché ha la luna sotto i piedi e lo stellario,

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Il Cristo Re che sorregge  il mondo  con la mano sinistra e con la mano destra la Croce simbolo di salvezza.

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Tutto il complesso rappresenta l’Annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria.

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L’interno delle edicole contenevano reliquie dei santi fra i fiori.

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I frati francescani aprivano queste edicole, singolarmente,  in momenti particolari della storia della chiesa: l’8 dicembre per la festività dell’Immacolata Concezione, il 25 marzo per la celebrazione dell’Annunciazione. Le edicole erano aperte entrambe contemporaneamente il primo novembre per la festa di tutti i Santi perché contenevano le reliquie dei santi.

L’urna sotto l’altare contiene frammenti di mandibola e di qualche osso di un frate cappuccino morto in odore di santità.

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Nella tela della Sacra Famiglia, con Sant’Anna e con gli Angeli musici, opera del messinese Antonio Catalano detto l’Antico, del 1599, l’artista ha saputo fare risaltare una pacata atmosfera evidenziata da luminosi effetti cromatici.

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Altre opere sono: la Madonna col Bambino, opera di Domenico Guargena, meglio conosciuto col nome di Fra Feliciano da Messina,

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la Deposizione della Croce, del XVI secolo, attribuita ad Antonello de Saliba,

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la pregevole statua lignea del Beato Felice, al secolo Giacomo Amoroso, realizzata da Noè Marullo che ha saputo imprimere al fraticello laico una sublime, palpitante, viva espressione mistica,

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Il Crocefisso ligneo, di Giovanni Pintorno, meglio conosciuto come Fra Umile da Petralia, dove l’artista ha saputo cogliere l’istante del trapasso del Christus Patiens raffigurato con una espressione pensosa e malinconica, è circondato da 68 formelle ognuna delle quali è un reliquario dei monaci Santi martiri.

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 Le altre tele raffigurano Santa Caterina, Sant’Agnese, Sant’Agata, Santa Barbara e la Madonna con San Felice di Cantalice,

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 Sant’Antonio, quest’ultima opera del 1600.

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Prima di entrare all’interno della chiesa sono da ammirare i due affreschi murali seicenteschi che raffigurano San Bernardus, San Joseph e San Seraphinus da un lato e Cristo in Croce con le pie donne dall’altro.

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L’Ordine francescano ha avuto origine per merito di San Francesco d’Assisi che nel 1209/1210 ottenne dal papa Innocenzo III la possibilità di vivere in modo radicale la povertà evangelica. L’ordine da lui fondato, infatti, a differenza degli altri ordini religiosi esistenti, in particolare agostiniani e benedettini, ebbe il carisma di praticare non solo una vita povera, ma di non possedere beni conducendo una vita mendicante.

 Il 24 giugno del 2017 il Corpus Domini giunge alla chiesa di Francesco.

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Sep 18, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I SANTI COSMA E DAMIANO E LA LORO CHIESA A MISTRETTA

I SANTI COSMA E DAMIANO E LA LORO CHIESA A MISTRETTA

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Cosma e Damiano, secondo fonti non ritenute storicamente attendibili, erano due fratelli gemelli nati in Arabia nella seconda metà del III secolo in una ricca famiglia. Il padre, Niceforo, si convertì al Cristianesimo dopo la loro nascita, ma morì durante una persecuzione in Cilicia.
La madre, Teodota, o Teodora, da più tempo cristiana, si occupò della loro educazione indirizzandoli al cristianesimo. I due fratelli vissero in un tempo in cui la fede cristiana stava attraversando momenti molto difficili. Dichiararsi cristiano allora comportava rischi molto seri per la carriera, per il lavoro, per la propria vita.
La condanna a morte era una frequente punizione. Loro vissero in questo clima!
Cosma e Damiano furono definiti “Illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri dal vescovo Teodoreto, il principale biografo dei santi, che guidò la città episcopale di Ciro dal 440 al 458.
Cresciuti, i due fratelli prima si recarono in Siria per apprendere le scienze e per specializzarsi nella medicina, poi si stabilirono ad Egea, in Cilicia, per praticare la professione medica nella città portuale dedicandosi alla cura dei malati, in particolare alle persone più povere e abbandonate.
Alcuni testi parlano di un farmaco di loro invenzione chiamato “Epopira”.
Durante la loro attività medica non solo curavano le malattie del corpo, sapevano operare prodigiose “guarigioni”, ma miravano al bene delle anime con il loro buon esempio e con la parola divina riuscendo a convertire molti pagani al cristianesimo.
Operavano in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date“.
In Matteo (10,8-10) si legge: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia di viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento”.
Offrivano a tutti la loro opera completamente in forma gratuita.
Per questo sono stati designati con l’appellativo di “anàrgiri“, dal greco  “αν-άργυρος” “senza argento,senza denaro”, cioè medici senza compenso.
Questa disponibilità verso i malati era uno strumento efficacissimo di apostolato. Secondo la “Passio”, tuttavia, in una sola occasione era stata loro elargita una ricompensa. Il libro del “Sinassario” della chiesa di Costantinopoli riferisce un episodio molto curioso: la contadina Palladia, miracolosamente guarita, in segno di gratitudine, mise nelle mani di Damiano tre uova.
Al suo netto rifiuto la donna reagì rimproverandolo perchè tale rifiuto era una mancanza di galateo verso di lei. Damiano, di nascosto del fratello, accettò il dono.  Cosma, talmente tradito nel suo ideale, espresse la volontà di fare seppellire le sue spoglie, dopo la morte, lontane da quelle del fratello. Molti sono i prodigi a loro attribuiti.
Al guardiano di una chiesa romana fu sostituta la gamba ulcerata con quella di un etiope morto qualche giorno prima. Un serpente, che si era introdotto nella bocca di un contadino, fu da loro miracolosamente estratto. A quel tempo imperava il paganesimo e i fratelli Cosma e Damiano, come già detto, erano cristiani.
Nell’Impero Romano, soprattutto nelle regioni orientali dove il cristianesimo si era propagato con più successo, tra il 286 e il 305 d.C. sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano scoppiarono le persecuzioni.
In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303, i fratelli Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di scompigliare l’ordine pubblico e di professare una fede religiosa vietata. Il loro processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano pratico per il territorio nella Cilicia. Minacciati di torture e di condanna alla pena capitale, tutti i tentativi adottati per farli apostatare sono risultati vani.
Cosma e Damiano così risposero ai loro persecutori: “Noi adoriamo il solo vero Dio e seguiamo il nostro unico Maestro, Gesù Cristo”. Cosma e Damiano furono arrestati, processati, sottoposti a disumane torture. Le torture subite dai fratelli differiscono secondo le fonti.
Secondo alcune furono dapprima lapidati, ma le pietre rimbalzarono contro i soldati.
Secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male. Secondo altre furono gettati in mare da un alto dirupo legati ad un macigno appeso al collo per facilitare lo sprofondamento in mare, ma le legature si sciolsero e loro riaffiorarono in superficie.
E ancora incatenati e messi davanti ad una fornace ardente, immerse nel fuoco, le membra non si sono bruciate.  Il libro del “Martirologio”, che si ispira a Teodoreto, riporta che “i fratelli Cosma e Damiano furono martiri cinque volte” perché superarono la prova dell’annegamento, della fornace ardente, della lapidazione, della flagellazione, del martirio nell’anno 303.
Infine i fratelli Cosma e Damianofurono decapitati assieme ai loro fratelli più giovani, o ai discepoli,  Antimo,  Leonzio ed Euprepio.
Una narrazione racconta che la decapitazione avvenne a Ciro, città vicina ad Antiochia di Siria dove i martiri furono sepolti.
Un’altra narrazione attesta, invece, che furono uccisi a Egea di Cilicia, in Asia Minore, per ordine del governatore Lisia, e poi traslati a Ciro in Cilicia.
Le persone presenti al loro martirio vollero dare degna sepoltura ai due fratelli volendo rispettare la volontà di Cosma di deporre le sue spoglie mortali lontano da quelle del fratello Damiano.
Una leggenda racconta che un cammello si mise a parlare ad alta voce affermando che Damiano aveva accettato quella ricompensa solo perché mosso da spirito di carità verso la contadina Palladia per evitare che si potesse sentire umiliata dal rifiuto del semplice ma amorevole dono.
I corpi dei fratelli furono sepolti l’uno accanto all’altro. Il culto dei santi Cosma e Damiano, invocati come potenti taumaturghi, iniziò subito dopo la loro morte e fu molto diffuso in tutta la Chiesa fin dal sec. IV.
Sulla loro tomba è stata edificata una chiesa, meta di ininterrotti pellegrinaggi, per venerarvi le reliquie e per invocare la loro intercessione. Uno dei più illustri pellegrini fu l’Imperatore Giustiniano, il restauratore dell’Impero Romano d’Oriente (+ 565).
Guarito da una perniciosa malattia grazie alla loro intercessione, andò in preghiera presso la tomba dei santi taumaturghi.
In segno di riconoscenza fece erigere a Basilica la loro chiesa e dispose la fortificazione della città di Ciro.

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In onore dei Santi Cosma e Damiano sono state costruite numerose chiese a Gerusalemme, in Egitto, in Mesopotamia, dove Teodoreto, il vescovo di Cirro,   distribuì le loro reliquie.
La più famosa chiesa eretta in Oriente fu la Basilica di Costantinopoli, proclamata santuario nazionale e divenuta meta di numerosi pellegrinaggi. Ad essa accorrevano malati d’ogni ceto sociale per chiedere la guarigione.
Nella basilica di Costantinopoli si svolgeva il rito della “incubazione”: Secondo la tradizione, mentre gli altri fedeli trascorrevano la notte in preghiera, i malati presenti si addormentavano adagiati su poveri giacigli nelle navate della chiesa.
Durante il sonno miracolosamente apparivano i Santi Medici che venivano a curarli. Molto rapidamente il culto dei Santi Cosma e Damiano si estese a tutto l’Oriente bizantino. Gli scambi commerciali, che intercorrevano tra Roma e l’Oriente, facilitarono la diffusione del culto dei due martiri anche in Occidente.
Papa Felice IV (526 – 530) fece edificare a Roma, sul sito dell’antico Templum Romuli e della Bibliotheca Pacis, nel Foro della Pace, una basilica a loro intitolata e ne favorì il culto in opposizione a quello per i pagani Castore e Polluce. Nell’anno 528, sempre sotto il pontificato di papa Felice IV, furono trasportate a Roma le reliquie dei SS. Cosma e Damiano.
I teschi dei santi nel X secolo furono portati da Roma a Brema. Nel 1581 Maria, figlia di Carlo V, li donò alla chiesa del convento delle clarisse di Madrid.
Le stesse reliquie sono venerate anche nella chiesa di San Michele Arcangelo a Monaco di Baviera dove, in base all’iscrizione sul reliquiario, furono poste nel XV secolo. Il primo documento che attesta la presenza delle reliquie delle braccia dei Santi a Bitonto è del 1572.
In Oriente, a partire dal V secolo, sorsero numerose chiese dedicate ai SS. Cosma e Damiano: in Scozia, in Cappadocia, in Panfilia, a Salonicco, a Gerusalemme, a Edessa del Ponto.
In epoca posteriore (secoli X-XIII) il culto si diffuse in Bulgaria, in Romania, nelle regioni bizantine dell’Italia meridionale. In Italia sono molte le località dove sono state edificate cappelle votive, chiese, piccole o grandi, in onore dei santi Cosma e Damiano.
La festività liturgica dei Santi Cosma e Damiano è celebrata nella Chiesa greca in due date: il 1 luglio e il 1 novembre.
La tradizione cattolica stabilì invece la memoria liturgica il 27 settembre, (probabilmente il giorno della dedicazione della basilica romana secondo il calendario tradizionale utilizzato tuttora per la Messa Tridentina), tuttavia Paolo VI la spostò al 26 settembre.
I loro nomi furono inseriti nel canone della Messa Tridentina, e furono gli ultimi Santi ai quali cui fu concesso questo onore.
Per gli innumerevoli miracoli ottenuti dall’invocazione dei Santi Cosma e Damiano la chiesa li ha designati patroni dei medici, dei chirurghi, dei farmacisti, degli ospedali. Gli emblemi dei santi sono: la palma e gli strumenti chirurgici.

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 PREGHIERA AI SANTI COSMA E DAMIANO

O gloriosi Santi Medici, Cosma e Damiano, che faceste della vostra arte

strumento di carità e mezzo di apostolato e testimoniaste col sangue la fede

che aveste in Cristo, alla vostra potente intercessione con fiducia noi ricorriamo.

Otteneteci dal Signore fede ferma ed operosa, carità ardente, zelo per la gloria di Dio

 e per il bene dei nostri fratelli. Illuminate la mente e dirigete la mano di chi ha cura

della nostra anima e del nostro corpo.

Otteneteci ancora che – dopo una vita cristianamente vissuta – possiamo conseguire

il dono della perseveranza finale

che ci congiunga a voi e a tutti i Beati nell’eterna visione di Dio. Così sia.

A voi tutti Santi Martiri del Paradiso e in modo particolare a voi,

Santi Medici Cosma e Damiano, volgete pietoso lo sguardo su di noi

ancora peregrinanti in questa valle di dolore e di miserie.

 Voi godete ora la gloria che vi siete meritata seminando opere di bene in questa terra di esilio.

Dio è adesso il premio delle vostre fatiche, il principio, l’oggetto e il fine della vostra gloria.

 Anime beate, Martiri della Chiesa, potenti taumaturghi Cosma e Damiano, intercedete per noi!

Ottenete a noi tutti di seguire fedelmente le vostre orme,

di seguire i vostri esempi di zelo e di amore ardente a Gesù e alle anime, di ricopiare in noi le vostre virtù, affinché diveniamo un giorno partecipi della gloria immortale. Così sia.

Gloriosi Medici Cosma e Damiano, Martiri della chiesa di Dio,

decoro e vanto della città di Bitonto, all’inizio di questa giornata (ed in questo tempio in cui si venerano le vostre sacre e miracolose immagini,)

eleviamo a Dio l’umile ma ardente preghiera perché vengano esauditi i bisogni spirituali e temporali

 nostri e di tutti i devoti che fanno incessante ricorso al vostro potente patrocinio.

Voi constatate in quanti, sofferenti nel corpo e nell’anima, vi si rivolgono con fiducia da ogni parte affinché possiate intercedere con sollecitudine presso il Signore per la guarigione dalla malattia e per la piena salute dello spirito.
Come la vostra scienza medica ha guarito dal male fisico, così vi esortiamo con intensità di cuore affinchè la vostra carità lenisca oggi le piaghe dell’anima e restituisca ad ognuno il dono della grazia divina.
Insigni, Santi Fratelli, ottenete per tutti, in questa giornata, celesti e consolanti benedizioni. Ma in modo speciale fate che esse discendano sulla Chiesa, sul Papa, sul nostro Vescovo, sulle nostre famiglie, sui devoti tutti e su quanti generosamente concorrono, con la preghiera e col sostegno materiale, ad edificare il Santuario intitolato ai vostri nomi e a testimoniare, in forme sempre nuove e consone ai tempi, la carità verso i fratelli affinché possano così essere celebrati, nel tempo imperituri, la vostra memoria e il memoriale di Cristo cui avete voluto generosamente conformarvi a maggior gloria di Dio.
Questa preghiera è recitata ogni mattina nella Basilica dei Santi Medici a Bitonto

PREGHIERA DI RINGRAZIAMENTO

 Eccoci, o Santi Taumaturghi, prostrati dinanzi a Voi,con animo pieno di gratitudine e riconoscenza.
Il nostro cuore sanguinava sotto il peso della sventura, e voi ci avete consolati; eravamo nelle angustie, e ci avete ridonata la pace; vi abbiamo invocato con fede e ci avete esauditi.
Siate perciò ringraziati e benedetti. Il vostro nome risuoni glorioso in ogni angolo della terra, il vostro patrocinio accresca sempre più il numero dei vostri devoti. Gloria al Padre…
Chi potrà mai, o Santi gloriosi, lodare degnamente la vostra pietà e la vostra sollecitudine nel concedere il vostro aiuto agli infelici?
Nessuno mai si è rivolto con fiducia a Voi, senza ottenerne sollecito soccorso. Il vostro cuore, pieno di carità, ha sempre accolto benignamente le suppliche dei figli devoti, si è commosso ai gemiti degli afflitti, ha riasciugato le lacrime dei tribolati.
Noi, che siamo ora nel numero di questi fortunati, vi preghiamo di presentare a Dio la nostra profonda e sincera gratitudine, lieti di appartenere alla schiera dei vostri devoti. Gloria al Padre…
O celesti nostri Intercessori, sono senza numero le grazie e i benefici che, per i nostri meriti, il Signore riversa su di noi: sono consolati gli afflitti, guariti gli infermi, convertiti i peccatori, e i giusti fortificati nella grazia. Anche noi, per vostra bontà, siamo stati esauditi.
La grazia singolare, che ci avete impetrato dal Signore, rimarrà scolpita a caratteri indelebili nei nostri cuori, come attestato della vostra protezione. Sicuri ormai della somma efficacia del vostro patrocinio, a voi ricorreremo con fiducia in tutte le tribolazioni della vita.
Siano pur gravi i mali che ci affliggeranno, siamo sicuri che troveremo in voi quei Medici misericordiosi, come foste sempre nei secoli della storia. Gloria al Padre…

LA CHIESA DEI SANTI COSMA E DAMIANO A MISTRETTA

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano, che sorge nell’omonimo quartiere, è un piccolissimo fabbricato che si trova ai piedi del castello.
Non è una strada di passaggio che conduce alla chiesa, ma bisogna attraversare la Via Libertà, oltrepassare la chiesa della Santissima Trinità e scendere da sotto l’arco.
Si presenta come una modesta casa rurale per dimensioni e per aspetto perché costruita in pietra.

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L’architrave, dove è incisa la data 1863, è decorato da una scultura che raffigura una corona e due foglie di palma, simbolo dei Santi Cosma e Damiano.

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All’interno la chiesa ha un’unica navata irregolare e pochissime sono le statue.
Il Cristo sulla Croce, con i santi Cosma e Damiano, occupa l’altare maggiore.

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Gli Ex Voto in argento

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Durante la novena ai Santi Cosma e Damiano nella loro chiesa a Mistretta si recita il santo Rosario.

Nei grani del Gloria al Padre si recita:
San Cosma e Damianu
siti mierici suprani
guariti li malati e tutti l’infermitati,
siti mierici ru Signure
guariti ogni piaga e ogni dulure
”.

Nei grani dell’Ave Maria si recita:
10.000 voti loramo a San Cosma e Damianu.
E loramo tutti uguali cu nni scanza r’ogni mali
”.
20.000
30.000
40.000
50.000

Nella prima posta del Rosario si dice 10.000 voti.
nella seconda 20.000.
nella terza 30.000 etc

Il film è stato realizzato dall’amico Giuseppe Cuva che ringrazio.

 

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La Sacra Famiglia, riconducibile al sec. XVII, occupa un altare secondario.

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 Imponente è la statua di legno di San Calogero l’eremita.

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E’ difficilissimo visitare l’interno della chiesa perché è sempre chiusa.
Un signore del vicinato è stato disponibile ad aprirla per farmela visitare e fotografare.

La chiesetta, che necessitava di immediati interventi strutturali, è stata ripristinata grazie alla disponibilità di alcuni giovani volontari.

 

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Il servizio è stato realizzato dalla giornalista Rosalinda Sirni.

Il commento del giovane Sebastiano Zampino: Sono stati mesi difficili e complicati, con l’aiuto di molti amici abbiamo ridato vita ad una Chiesa, un vero e proprio gioiello in un quartiere suggestivo e antico della nostra città di Mistretta. Ieri, giorno 26 settembre 2020, per la ricorrenza della festa dei Santi Cosma e Damiano, abbiamo ricevuto tanti apprezzamenti da parte delle persone per le buone condizioni in cui attualmente si trova la Chiesa, che molti definivano irriconoscibile, e questo ci ha reso davvero felici. Le cose più belle sono state: il continuo pellegrinaggio da parte delle persone, la recita il Santo Rosario in siciliano dei Santi Cosma e Damiano, che ci hanno fatto capire veramente e in maniera inaspettata che nella nostra città ci sono: una devozione forte e antica, un grande attaccamento verso questi grandi Santi e verso le nostre tradizioni. Grazie a tutti per la partecipazione!

 

 

Sep 11, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL TAXUS BACCATA L’ALBERO DELLA MORTE NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL TAXUS BACCATA L’ALBERO DELLA MORTE NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

Amici miei,

venite a visitare la villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta.
E’ bellissima! Questa volta vi mostrerò il Taxus baccata.

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Sebbene classificato da molti botanici nell’ordine delle Coniferales, il Taxus baccata è un albero privo della tipica struttura che produce i semi, il cono, e non possiede canali resiniferi nel legno e nelle foglie. Per questo motivo è stato escluso dalle Coniferales e collocato in un ordine separato, quello delle Taxales e nella Famiglia delle Taxaceae.

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 E’ una pianta sempreverde, molto longeva, che può raggiungere i 1500 anni d’età, ma a crescita abbastanza lenta e, per questo motivo, in natura, spesso si presenta sotto forma di piccolo e attraente albero o di arbusto. E’ difficile stabilire l’età di una pianta perché gli anelli annuali di crescita del legno non sono sempre visibili a causa di particolari strutture che impediscono la corretta datazione e, inoltre, spesso, il duramen, con il trascorrere del tempo, si distrugge lasciando il centro del tronco cavo. Originario dell’Europa, il Tasso ha esteso il suo areale nell’Africa settentrionale e nel Caucaso. Attualmente in Sicilia si conserva solo sui monti Nebrodi che custodiscono le uniche stazioni della specie nell’area fitoclimatica di pertinenza del Cerro e del Faggio. Esattamente in Sicilia, un relitto delle glaciazioni si trova tra Alcara li Fusi, San Fratello e Cesarò. Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta sono presenti diversi  esemplari.

In passato il Tasso era presente anche sulle Madonie, come hanno confermato i dati di apposite ricerche palinologiche che hanno studiato i granuli di polline e le spore fossili, e sull’Etna in base alle segnalazioni di Scuderi e Beccarini risalenti rispettivamente al 1825 e al 1901. Nel Parco dei Nebrodi, all’interno del bosco della Tassita, esteso circa 50 ettari, in contrada Moglia, nel territorio del comune di Caronia, è localizzato un nucleo consistente di piante di Tasso dove si riscontra uno degli individui monumentali più vecchi che ha raggiunto i 25 metri d’altezza e i 4 metri di circonferenza. Altri insiemi significativi persistono alle falde di Monte Soro, in prossimità del Lago Biviere. In questo luogo, esemplari di vetusti Tassi, dai tozzi e ramosi tronchi rossastri, vivono in consorzio col Faggio e con i giganteschi Aceri. Piccoli nuclei si trovano sul versante settentrionale del monte Pomiere là dove la nebbia persiste per buona parte dell’anno. Altri lembi relittuari di foresta di Tasso sono stati segnalati nelle Gole del Catafurco nella zona di Galati Mamertina. La presenza di altre stazioni di Tasso, sparse discontinuamente tra 1.100 e 1.450 metri di quota, sempre dentro il Parco dei Nebrodi, testimonia la notevole frammentazione a cui è andata incontro, in passato, l’originaria vegetazione per via dell’intenso disturbo antropico dimostrabile, principalmente, nell’utilizzo del legno per le recinzioni, nell’eliminazione della specie in quanto velenosa e nell’irrazionale esercizio del pascolo.

In Italia si trova non molto frequentemente nelle zone montane di quasi tutte le regioni. Aspetti peculiari di questa vegetazione relitta e del paesaggio che ne determina si rinvengono specialmente sui freschi ed ombrosi versanti settentrionali interessati per quasi tutto l’anno da correnti umide provenienti dal Mar Tirreno. Nella foresta umbra del Gargano, nella zona di Palena, a Pescocostanzo, in provincia dell’Aquila, e nella Riserva naturale Zompo lo Schioppo, in provincia dell’Aquila, sono presenti diversi esemplari di Tasso molto imponenti.  Nel Giardino Dei Semplici, a Firenze, è presente una pianta di Tasso piantata da Pier Antonio Micheli nel 1720. Si sono ritrovati fossili di Tasso appartenenti all’era terziaria e ne esistono esemplari di 1500 – 2000 anni d’età. Normalmente, gli esemplari adulti, in condizioni ottimali, possono raggiungere anche i quindici metri d’altezza.

Il termine “Taxus” deriva dal greco “τάσσω“, “ordinare”, in riferimento alla particolare disposizione delle foglie disposte ordinate su due file. Il termine “baccata” significa fornito di “bacche” cioè del falso frutto, “l’arillo”.

 E’ detto anche “Albero della morte” per il suo impiego nella fabbricazione di dardi velenosi, per la sua tossicità e perchè, associato alla vita eterna per la sua longevità, era utilizzato nelle alberature dei cimiteri. Una denominazione siciliana è “arvulu vilinusu”. I Greci consideravano il Tasso sacro alle Furie forse perché dai suoi rami si ricavavano gli archi per scagliare le frecce.

Il Taxus baccata presenta il fusto tipicamente squamoso e contorto e rivestito da una corteccia di colore bruno rossastro nella pianta giovane, che diventa grigia nella pianta adulta. Inizialmente è liscia, ma, con l’età, si solleva arricciandosi e dividendosi in placche sottili. I giovani rami sono verdi, penduli, disposti verso il basso. Le foglie, piccole, aghiformi, strette, lineari, leggermente arcuate, lucide, sono di colore verde scuro sulla pagina superiore, di colore verde chiaro sulla pagina inferiore. Sono inserite sui rami con un andamento a spirale, in due file opposte, disposte a doppio pettine. L’insieme delle foglie forma una chioma irregolarmente globosa, tondeggiante, molto densa e ricca, che cresce anche nella parte interna della pianta.

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Il Taxus è molto usato nei giardini per formare siepi ornamentali. Nella villa di Mistretta le piante, isolate, sono modellate secondo i criteri dell’ars topiaria poiché sopportano potature anche notevoli.

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È una pianta dioica. I fiori maschili sono raggruppati in amenti inseriti lungo i rametti tra le foglie, quelli femminili, solitari, piccoli, ovali, verdi inseriti pure tra le foglie, in estate, mediante l’impollinazione anemofila, si trasformano in arilli rotondi, molto vistosi e decorativi. La fioritura avviene da gennaio ad aprile. Gli arilli sembrano dei frutti, ma sono delle escrescenze carnose che ricoprono il seme. Inizialmente gli arilli, polposi, dolciastri, di colore verde, diventano rossi a maturità e contengono un solo seme duro, nerastro e molto velenoso. La tossicità del Tasso ha interessato la letteratura.

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 Shakespeare riferisce che il fantasma del padre di Amleto racconta al figlio di essere stato ucciso dal fratello che gli ha versato nell’orecchio, mentre dormiva, alcune gocce di succo estratto dagli arilli di Tasso. Sempre Shakespeare, nel “Macbeth”, dice che, in occasione di un sabba notturno, le streghe rimestano  un pentolone contenente, fra gli altri ingredienti, rametti di Tasso recisi durante l’eclissi di luna.

La polpa, invece, innocua e commestibile, è mangiata dagli uccelli che favoriscono la disseminazione. Nei punti del giardino ove la terra è smossa e ricca di humus è facile scoprire delle giovani piantine di Tasso germogliate naturalmente, cioè nate da semi trasportati dagli uccelli. Essi non triturano e non digeriscono i semi perché capiscono che sono letali. I semi, espulsi ancora intatti, si depositano nel terreno germinando. Il Tasso è, quindi, una pianta zoofila, che si serve dell’aiuto degli animali per riprodursi. La moltiplicazione avviene più facilmente per propaggine, più difficilmente per seme in autunno. Si possono preparare anche delle talee da interrare in aprile, oppure utilizzare i polloni basali.

La pianta di Tasso preferisce vivere in luoghi umidi e freschi gradendo molto l’ombra e la mezz’ombra.  Non teme l’inquinamento e i venti forti. Non richiede particolari accorgimenti per quanto riguarda il terreno in cui deve essere posta a dimora, anche se preferisce quelli fertili e ben drenati. Non teme la siccità, quindi non esige annaffiature frequenti accontentandosi dell’acqua delle piogge.Essendo una pianta molto rustica, solitamente non è attaccata da parassiti o da altri agenti patogeni responsabili di varie malattie. Molto dannosa è lacocciniglia Parthenolecanium pomeranicum che secerne un’abbondante melata favorevole allo sviluppo della fumaggine. Il Taxomyia taxi è un insetto che colpisce le foglie provocando grosse galle esteticamente sgradevoli anche se poco dannose. La corteccia, le foglie e i semi del Tasso sono velenosi. I cavalli sono gli animali più sensibili alla tossicità della pianta: sono sufficienti da 100 a200 grammi di foglie per uccidere un esemplare in pochi minuti, mentre i bovini, pur nutrendosi spesso dei rami del Tasso, non risentono di nessuna conseguenza. L’avvelenamento da Tasso si manifesta con insufficienza respiratoria e cardiaca. Riscaldata, la sua resina emana un vapore tossico impiegato dagli sciamani per provare piacevoli emozioni e allucinazioni.

La tossicità del Tasso era nota fin dall’antichità richiamando sempre immagini tetre. I romani si cingevano di corone di Tasso nei giorni di lutto. Anticamente il popolo latino, per il colore scuro della sua chioma e perché spesso dai tronchi apparentemente morti spuntano nuovi alberelli, dedicava l’albero di Tasso ad Ecate, la dea degli inferi. La leggenda racconta che Ecate, regina delle streghe e della magia, ma anche divinità positiva, generosa, protettrice e legata alla rinascita, possedeva nelle sue dimore sotterranee un rigoglioso e bellissimo giardino notturno dove erano coltivate piante dai meravigliosi effetti. Tra di esse, anche una pianta di Tasso era custodita e curata delle sacerdotesse Medea e Circe. Ad Ecate si immolavano tori neri adornati con ghirlande di Tasso. Ovidio narra che la strada verso l’inferno era ombreggiata da alberi di Tasso.

Il principio attivo, responsabile della sua tossicità, è una molecola estremamente complessa chiamata taxolo. Ha effetto narcotico e paralizzante sull’uomo e su molti animali domestici. Le foglie vecchie sono gli organi della pianta che ne contengono la maggior quantità. Molte sostanze tossiche, adeguatamente dosate e mescolate insieme dalle industrie farmaceutiche, sono usate come principi attivi di prodotti chemioterapici per la cura di alcune forme tumorali. In Sicilia il Tasso era usato per stordire e pescare le anguille che popolavano i fiumi. Storicamente, il legno del Tasso era eccellente per la costruzione di archi e, sin dalla preistoria, il suo impiego era famoso per la fabbricazione di quest’arma. L’arco della mummia del Similaun è stato realizzato proprio col legno di Tasso. La fama del legno di Tasso si diffuse largamente durante il Medioevo, soprattutto in Inghilterra, proprio per la costruzione degli archi da guerra e di manici di pugnali per l’enorme resistenza alla compressione e alla trazione, e per l’incredibile elasticità. Di legno di Tasso erano gli archi degli invincibili arcieri inglesi.  ATTUALMENTE IL TASSO E’ UNA SPECIE PROTETTA. Nel linguaggio floreale il Tasso, forse per il verde cupo del fitto fogliame o perchè prospera all’ombra, è simbolo di “tristezza”.

Sep 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I MONUMENTI PRESENTI NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

I MONUMENTI PRESENTI NELLA VILLA COMUNALE “G. GARIBALDI” DI MISTRETTA

Il giardino botanico “G.Garibaldi” della città di Mistretta, oltre alle numerose e rare piante, ospita anche i monumenti  di personaggi importanti.
Per la presenza di questi monumenti, per la struttura del laghetto, disegnato secondo la forma della Sicilia, per la disposizione dei viali indicati dalle aiuole, per l’ampio piazzale centrale,  esso è un “giardino all’italiana”.
La piazza centrale è l’agorà delle statue!
I busti storici, impettiti, di Giuseppe Garibaldi, di Vincenzo Salamone e di Noè Marullo sono stati sistemati attorno al suo perimetro. Sembra che custodiscano la villa attenti a tutte le attività ludiche, ricreative, socializzanti.

https://www.youtube.com/watch?v=MiKCcfrkMMM

 

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La prima statua moderna che si incontra, scendendo dal viale di sinistra, è quella della dea Astarte. Isolata dagli altri monumenti, sembra accogliere e dare il benvenuto a tutti i visitatori della villa.

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la dea Astarte

La scultura, opera dell’artista Domenico Pappalardo, raffigura Astarte, la divinità femminile siro-palestinese.
Simboleggia mitologicamente la città di Mistretta, nome derivante dal fenicio Am-Ashtart, ossia città fondata da Astarte.
E’ la gran madre venuta dal mare, dea dell’amore e della vita strettamente legata al ciclo vegetativo, dea dei boschi, quindi anche dei Nebrodi. Il suo volto, asimmetrico, rappresenta il sole e la luna insieme.

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Le due facce della dea Astarte

Il più antico monumento dei personaggi illustri è quello di Giuseppe Garibaldi (Nizza 04/07/1807 – isola di Caprera 02/06/1882).
Il due giugno del 1889, con una solenne cerimonia alla quale partecipò quasi tutto il paese, la villa comunale di Mistretta fu intitolata a Giuseppe Garibaldi. Dietro il Quercus ilex fu collocato il monumento formato dalla stele e dal busto con la sua effigie.
Promotore dell’iniziativa fu il Municipio di Mistretta.

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Giuseppe Garibaldi

Lo scultore Noè Marullo, autore dell’opera realizzata nel 1884, raffigurò, con lo sguardo penetrante e con gli occhi rivolgenti lo sguardo lontano, sotto la fronte corrugata, il fascino del generale Garibaldi, condottiero e patriota italiano, denominato l’eroe dei due mondi per le imprese militari compiute in Europa e in America meridionale e che aveva suscitato nelle folle la fiducia nei moti insurrezionali.
Noè Marullo lo conobbe a Roma, tramite il professor Masini, quando Giuseppe Garibaldi era già vecchio, stanco e deluso. “Lo sguardo penetrante, gli occhi vispi, intelligenti, sognanti “ (35) Marullo, lettere dell’11-5-1879, A.C.M.
La giunta comunale mistrettese gli assegnò la somma di 1000 lire che Noè Ma rullo utilizzò per acquistare il marmo per realizzare il monumento a Garibaldi, a Vittorio Emanuele e a figure di Madonne e di altre donne.

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Vincenzo Salamone

I concittadini mistrettesi memori ricordano il benefattore Senatore. Vincenzo Salamone, ( Mistretta, 1851-1925), con un busto bronzeo realizzato dallo scultore Vincenzo Balistreri e fatto erigere il 25/11/ 1956.
Promotrice di questa iniziativa è stata la Società Operaia di M.S. di Mistretta collaborata da altri sodalizi presenti nel territorio e da alcuni cittadini che hanno risposto con sollecitudine alla sottoscrizione per la raccolta dei fondi destinati alla realizzazione del busto.
Sensibile ai problemi sociali, il sen. Vincenzo Salamone è ricordato per aver migliorato le condizioni di vita dei paesani.
Ricco proprietario terriero, durante i freddi inverni offriva il calore del fuoco del suo cuore e l’ospitalità del suo palazzo ai mistrettesi bisognosi.
Poichè la fame e la miseria erano allora molto diffuse, metteva a disposizione dei poveri una cucina economica che, giornalmente, in capienti pentoloni, preparava numerosi pasti caldi. Aiutava anche economicamente le classi sociali meno abbienti per affrontare le loro primarie necessità.
Ha fatto realizzare l’acquedotto urbano, ha istituito il servizio automobilistico Mistretta – Santo Stefano di Camastra, ha creato la centrale elettrica a carbone che forniva energia elettrica continua.
Cercò di sistemare il verde pubblico e fece piantare diversi alberi. I mistrettesi, riconoscenti, gli donarono una medaglia d’oro di benemerenza il giorno 08/12/1907. Alla sua morte fu proclamato un giorno di lutto cittadino.
Anche una via cittadina è stata intitolata al suo nome.

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Noè Marullo

Noè Marullo, nato a Mistretta il 13/11/1857 e morto il 05/05/1925, è stato un uomo generoso, dal carattere sensibile, pacato e, nello stesso tempo, irascibile, allegro e malinconico, cordiale e scontroso e, artisticamente, isolato nel suo mondo.
Fu un maestro raffinato, capace di pure, autentiche e geniali creazioni d’arte.
Fu costretto a lottare per l’intero corso della sua esistenza con le durezze della vita che lo oppressero, lo ostacolarono e, talvolta, soffocarono la sua capacità di esprimersi, di dare concretezza alle spinte creatici che in lui si sviluppavano.
Così, nella storia dell’arte, Noè Ma rullo è un valore sommerso.
Chiuso nei ristretti confini di un ambiente provinciale culturalmente limitato, non ha potuto rifulgere della luce che avrebbe meritato.
Il consiglio comunale di Mistretta lo ha aiutato, elargendogli pensioni mensili, assegni e sussidi, per il raggiungimento del diploma di scultore e per la frequenza in Accademia di un corso biennale di perfezionamento.
Studiò alla “Scuola tecnica serale per gli operai” a Palermo e, successivamente, all’istituto di belle arti “San Luca” a Roma.
Dopo i vani tentativi di inserirsi a Roma nel mondo dell’arte e del lavoro, impiantò la sua bottega a Mistretta, in vicolo Gullo N° 6, nel piano basso della casa dove era nato, e là iniziò ad ideare i suoi fantasmi artistici dandovi anima e corpo. In seguito ai buoni successi di mercato, per merito di committenti amastratini e di confraternite di paesi vicini, espleta i suoi filoni dell’arte: quello laico,  in cui in piena libertà ha la possibilità di comunicare i suoi stati d’animo, e quello sacro in cui, con senso oggettivo, raffigura ciò che il popolo sente e desidera.
E’ interessante sapere che l’inizio della grande attività di scultore in Marullo coincide con gli anni di dolore personale per la morte dei congiunti, in particolare dell’amata figlia Giustina, e per l’incomprensione con i rapporti sociali che gli hanno ostacolato la vita.
L’arte diventa per lui il rifugio dello spirito, la rivincita ideale sulle delusioni della realtà. Una via cittadina intitolata al suo nome lo ricorderà per sempre alle generazioni future.
Il busto di Noè Marullo  è stato eretto nell’agorà della villa “Giuseppe Garibaldi” il 12/11/2000 per volontà di signori: Mario Biffarella, che ha realizzato l’opera, Giovanni Mentesana, Francesco Liuzzo, Franco Scarito, che ha eseguito  e sostenuto la pratica presso l’ufficio competente del Comune di Mistretta, riuscendo ad ottenere il finanziamento di buona parte dell’opera.
Anche la Società Operaia di Mutuo Soccorso e il Banco di Sicilia di Mistretta hanno aderito all’iniziativa nel volere ricordare l’illustre artista amastratino. Il busto, con la tecnica cera persa, creato dal signor Mario Biffarella, è stato fuso  in una fonderia di Misterbianco.

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