Nov 26, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA BETULA AETNENSIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” E IL “GIARDINO DELLA COMPLESSITA'” A MISTRETTA

LA BETULA AETNENSIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” E IL “GIARDINO DELLA COMPLESSITA'” A MISTRETTA

Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta due piante gemelle di Betula etnensis creavano un piccolissimo ma suggestivo boschetto assieme al Gingko biloba posto di fronte ad esse.
La Betula aetnensis proviene dalle falde dell’Etna dove rappresenta una fra le più significative essenze dei boschi etnei e dove cresce ad una altitudine compresa tra i 1300 e i 2100 metri di quota. La Betulla non è soltanto un motivo coreografico dell’ambiente montano etneo, ma riveste, con il suo specifico adattamento al substrato lavico, un preciso ruolo ecologico nell’economia del paesaggio vegetale.
Purtroppo oggi queste due sorelle Betulle non ci sono più nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.
Sono morte! E mi dispiacere tanto!

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 Pertanto, con gioia ho accolto la notizia, riportata dall’amico Filippo Giordano sul Facebook, che  nel “giardino della complessità”, lo spazio verde limitrofo al presidio ospedaliero “SS. Salvatore” di Mistretta e annesso al reparto di salute mentale, diretto dal dottor Antonino Puzzolo, in onore di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano che ha rivoluzionato il sistema della cura delle malattie mentali in Italia, è stata messa a dimora una giovane betulla, alta circa tre metri, durante la “Giornata dell’arte in giardino, sezione autunnale” del 20 novembre u.s. alla quale hanno partecipato: i pazienti, ospiti della struttura sanitaria, che hanno partecipato all’iniziativa con entusiasmo, alcuni studenti del liceo artistico “Ciro Michele Esposito”  di Santo Stefano di Camastra, accompagnati dal professore Domenico Boscia, e le artiste Liria Ribaudo e Marianna Tita.
E’ stata scelta la Betulla perché è il simbolo della salute e dell’igiene mentale.

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foto di Filippo Giordano

La Betulla è un albero originario dell’Europa, dell’Asia settentrionale, del Canada e della Turchia.
E’ una pianta inconfondibile, pittoresca, soprannominata dai tedeschi “la signorina del bosco” per la sua chioma leggera ed elegante.
E’ un elemento caratteristico del paesaggio delle regioni boreali, dalla Svezia, alla Finlandia, alla Russia, alla Siberia dove vive spontanea in vaste aree boschive formando foreste pure e luminose nelle quali i raggi del sole, attraverso le lievissime chiome, filtrano e ravvivano il tappeto delle piante del sottobosco. Abita in pianura, in collina e in montagna, tra i 150 e i 2000 metri di altezza.
In Italia, presente dal periodo glaciale dell’ era Quaternaria, è un albero di secondaria importanza che si spinge fin sui monti della Sicilia, dove, a volte, anche là forma boschi puri e, per la sua regale bellezza, è chiamata “la Signora delle foreste”.
Come attesta Plinio, “Betulla” è una voce d’origine gallica che trova riscontro negli idiomi neo-celtici “beith, beth, betu” che significa appunto “albero”, oppure deriva dal latino “bitumen”, catrame di betulla”.
In dialetto siciliano la Betulla è chiamata “Bituddo, Salicuni, Vitudda, Vituddo”.
Nei paesi nordici è ritenuta simbolo di “luce” poiché la candida corteccia, in una notte di luna o in una giornata grigia, sembra mandare una luce che non si dimentica.
Il genere “betulla” comprende oltre 40 specie. Le tre specie di Betulla più comuni sono: la Betula alba,  la Betula pendula e la Betula pubescens, dalle foglie leggermente pelose. Appartengono tutte alla famiglia delle Betulaceae.
La Betulla è considerata dagli sciamani siberiani l’albero cosmico ed è la protagonista di diversi riti e leggende popolari. Si racconta che fino a pochissimo tempo fa gli sciamani siberiani, arrampicandosi sull’albero durante le trances, riuscivano ad entrare in contatto con gli dei.
Ancora sempre gli sciamani, durante le loro cerimonie, allo scopo di entrare in trance, legavano la Betulla all’ammannita muscaria, un fungo che instaura un rapporto micorrizale con le radici di determinati alberi, ma la specie preferita è proprio la Betulla ai piedi della quale si hanno maggiori probabilità di scoprire il fungo. Il consumo dell’ammannita, grazie alla muscarina, un allucinogeno concentrato nelle squame bianche sotto il cappello del fungo, provoca dapprima uno stato di sonnolenza, successivamente uno stato di eccitazione e di resistenza fisica.
I Galli, secondo Plinio, impiegavano la Betulla per confezionare fiaccole, come simbolo “tutelare”, ritenute di buon auspicio il giorno delle nozze poiché erano legate alla vita umana.
I Celti coprivano con rami di Betulla le spoglie mortali per preparare il defunto alla nuova vita.
Nella zona che comprende il basso Rodano e l’alto Danubio, dal popolo celtico la Betulla è considerata l’albero aurorale associato al solstizio d’inverno essendo la prima pianta della foresta ad emettere le foglie insieme al Sambuco. Per questo motivo era venerata come albero della rinascita primaverile e aderente ai culti religiosi popolari tipici della stagione.
Nella celebrazione del ritorno della luce, che corrisponde alla nostra Candelora, il 2 febbraio, la Betulla è il simbolo della “festa di Santa Brigida d’Irlanda” il cui nome nordico, “Birgit”, deriva dalla radice indoeuropea “Bhirg”, Betulla”. In quel giorno molte streghe festeggiano Brigida, “signora della luce”, consacrando le candele che serviranno per i riti magici durante l’anno.
Nella mitologia celtica, data la colorazione della sua corteccia, sempre per il motivo che nelle notti di luna piena assume riflessi argentei, la Betulla era la pianta della Grande Madre e, quindi, legata alla femminilità. La Dea collegata a quest’albero era Brighid, il cui nome significa, per l’appunto, “betulla”.
Brigida, dea della fertilità, delle scienze e delle arti, protettrice dei fabbri, dei poeti, dei guaritori e dei maghi, nei dipinti è raffigurata con una fiamma sopra la testa in ricordo dell’antico Fuoco di Brigit. Nell’antica Roma i fasci intorno all’ascia, che reggevano i littori davanti ai magistrati, erano formati dai rami di Betulla. I fasci rappresentavano le punizioni che potevano essere inflitte ai colpevoli ed avevano anche la funzione di purificare l’aria dinanzi ai magistrati.
Secondo R. Graves, in tutta Europa i rami di Betulla erano usati per frustare i delinquenti, per calmare i pazzi e per allontanare da loro gli spiriti maligni. In Francia, nel Medioevo, la Betulla era considerata simbolo di “saggezza” e spesso, con i suoi rami, venivano intrecciate le verghe degli insegnanti che impartivano la cultura e ottenevano dagli alunni la disciplina a suon di vergate.
Secondo i detti popolari russi, la Betulla è dotata di quattro poteri:

1) dona luce al mondo perché dalla corteccia arrotolata si ricavano le torce,

2) soffoca le grida perché il catrame, usato per oliare le ruote cigolanti dei carri, attutisce il rumore,

3) guarisce dalle malattie per le sue proprietà curative,

 4) funziona da detergente nelle saune e nei bagni russi per accentuare la sudorazione che elimina le sostanze di rifiuto.

La Betulla è un albero slanciato e raggiunge la massima altezza di 15 metri in circa 20 anni. E’ a crescita abbastanza rapida, ma, solitamente, poco longeva, non superando gli 80 anni d’età. Ha un sistema radicale debole con radici dapprima fittonanti, poi fascicolate. Il tronco è snello, diritto, cilindrico e, se non è molto vecchio, è rivestito dalla sottile corteccia bianca a strisce ricoperta da lunghe lenticelle orizzontali. La corteccia tende a staccarsi in liste sottili trasversali, arrotolate su se stesse.

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I rami sono sottili, rugosi, pendenti e di colore rosso bruno. Le foglie sono picciolate, lunghe da 4 a7 centimetri, decidue, di forma romboidale – triangolare, aguzze, con la punta ben distinta e con il margine crenato, con nervatura penninervia, di colore verde chiaro nella pagina superiore e di colore biancastro nella pagina inferiore ricca di ghiandole. Le foglie formano la chioma irregolare, rada e leggera, espansa in verticale e il suo colore, verde chiaro durante il periodo vegetativo, diviene, prima della caduta autunnale delle foglie, di un bellissimo e caratteristico giallo dorato.

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 La Betulla è una pianta monoica, cioè i fiori, unisessuali, maschili e femminili, sono portati dalla stessa pianta.
I fiori sono disposti in infiorescenze, dette amenti o gattini, che sono delle spighe pendule molto dense. Gli amenti maschili sono più lunghi di quelli femminili, fino a 10 centimetri, pendenti, sessili, giallo-brunastri, per lo più disposti appaiati in cima ai rami. Ogni fiore maschile possiede un piccolo calice e una corolla di due petali fusi per le loro basi e di due stami con antere molto distanziate e ricche di polline.

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Gli amenti femminili sono più corti, solitari e laterali, peduli, di colore verdastro-rossiccio. Ogni brattea degli amenti porta tre fiori che crescono insieme alle foglie. I fiori femminili sono nudi.

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La fioritura avviene nei mesi di aprile e di maggio.

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Le infiorescenze vengono preparate dalla pianta già in autunno e trascorrono l’inverno ben chiuse e compatte; all’arrivo della primavera si gonfiano e si aprono lasciando sporgere gli stami gonfi dei granuli pollinici giallastri.
Il polline della Betulla libera allergeni molto aggressivi. Dagli amenti femminili si sviluppano le infruttescenze cilindriche, pendule, a forma di pigna, lunghe circa 4 centimetri che, a maturità, liberano i frutti secchi indeiscenti, le samare, muniti di una larga ala membranosa che favorisce la disseminazione anemofila dell’unico seme.

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I semi compaiono in autunno. Sono gialli, contornati da una membrana marrone che permette al vento di trasportarli anche per molti metri distanti dalla pianta madre. La moltiplicazione, oltre che per seme, può avvenire per margotta in primavera e per talea dei polloni, anche se questi due metodi non riscuotono sempre sicuro successo.
La Betulla è una pianta rustica, che non necessita di particolari cure e che sopravvive anche in condizioni meteorologiche avverse. E’ resistente alle alte temperature e ai grandi freddi, alla siccità, alle gelate, ai venti con forza moderata, all’aria inquinata.
E’ adatta a vivere in boschi di latifoglie, di aghifoglie o misti associandosi al faggio e alle conifere, ma forma anche boschi puri. L’aspetto leggero ed elegante, il portamento dei rami, il colore bianco della corteccia, le piacevoli colorazioni primaverili del fogliame, il giallo oro autunnale la rendono una pianta pregevole per essere coltivata anche nei giardini a scopo ornamentale.
Preferisce posizioni soleggiate, molto luminose e isolata dalle altre piante. Non ha particolari esigenze di terreno, cresce bene ovunque. Vegeta su suoli aridi, umidi, moderatamente ricchi di sali nutritivi, piuttosto acidi, sabbiosi e pietrosi, ben drenati. Solitamente si accontenta dell’acqua piovana ed è bene annaffiarla solo in periodi di prolungata siccità. E’ consigliabile depositare ogni anno ai piedi dell’albero in autunno del fertilizzante per favorire una sana crescita.
Nonostante sia aggredita da innumerevoli parassiti animali e vegetali, solo in condizioni particolari la Betulla subisce attacchi di una certa gravità. E’ attaccata da due funghi: il Fomes fumentarius e il Polyporus betulinus che fanno marcire il legno. Sono comuni su piante di Betulle vecchie riuscendo ad entrare nell’albero attraverso le ferite. Spesso sui rami si osservano cospicue formazioni di germogli affastellati.
Sono le “scope di strega” che rassomigliano a grandi nidi di uccelli. Sono causate dal fungo Taphrina betulina che intacca l’equilibrio ormonale della pianta.
La Betulla possiede un legno di colore bianco, omogeneo, elastico, resistente, che trova impiego nella fabbricazione di oggetti di uso domestico. E’ utilizzato per fabbricare mobili, sci, timoni, scale a pioli, tavoli, sedie, giocattoli, mollette da bucato.
Nell’industria cartacea è idoneo per la produzione della cellulosa. Prima dell’avvento della plastica, quest’albero, essendo molto richiesto dagli artigiani calzaturieri proprio per la compattezza e la leggerezza, era diffusamente coltivato in tutta l’Italia settentrionale.
Nel film “L’albero degli zoccoli” Ermanno Olmi racconta la tragica storia di un padre che, avendo tagliato una piccola Betulla abbandonata per creare gli zoccoli a suo figlio, è picchiato e licenziato dal suo padrone. Inizia così per lui una vita piena di stenti e di sacrifici, frequentissima nella miseria degli anni Venti.
Il legno costituisce anche un buon combustibile ad alto potere calorico.
Si ottiene il nero fumo utile per produrre inchiostri per stampanti.
Dalla corteccia, usata anticamente dai pellirossa per rivestire le canoe, perché impermeabile all’acqua, e dai lapponi per coprire le capanne e i tetti delle case, si ricava il catrame di Betulla, buon disinfettante e antiparassitario, dal cui distillato si produce un ottimo olio usato per le conce speciali delle pelli.
Gli indiani del Nord America costruiscono ancora oggi le loro canoe.
La Betulla possiede anche notevoli proprietà medicinali. In fitoterapia è una pianta regina: non c’è tisana depurativa o diuretica che non contenga una percentuale di Betulla!
Della pianta di Betulla si usano: la linfa, le foglie, i rami giovani, le gemme, la corteccia.
La linfa, raccolta in primavera, detta “acqua o sangue di Betulla”, era usata come rimedio per l’artrite e per le malattie delle vie urinarie poiché favoriva l’eliminazione dell’acido urico.
Le foglie giovani di Betulla, dal sapore amarognolo e dall’odore aromatico, contengono flavonoidi, sostanze che esercitano un’efficace azione diuretica e depurativa. Agiscono in maniera diretta sul “lavaggio” del rene. Attivando la diuresi, si ottengono risultati soddisfacenti nella cura degli edemi di origine cardiaca, nei casi di ritenzione idrica, di litiasi renale e della cellulite.
L’estratto fluido, acquoso e secco ottenuto dalle foglie, ha attività antibiotica.
La corteccia trova impiego come febbrifugo.
Le gemme hanno una notevole attività coleretica.
Il carbone vegetale, ottenuto dalla combustione del legno di Betulla e finemente polverizzato, per l’elevato potere assorbente è usato nella cura delle affezioni intestinali accompagnate da meteorismo.
Per uso cosmetico, l’acqua distillata della corteccia e delle foglie di Betulla è un buon tonico cutaneo.
La tintura delle foglie è usata per l’igiene e per l’irrobustimento dei capelli.
L’infuso di foglie è utile per pelli grasse e affette da foruncoli.
Con la corteccia si preparano pediluvi utili contro il sudore profuso dei piedi. La corteccia ed il legno di Betulla danno, per distillazione, un catrame utilizzato nella cura delle affezioni cutanee. L’olio essenziale, ottenuto dal catrame di Betulla, si usa in pomata contro i reumatismi e può essere impiegato in prodotti per il massaggio sportivo.
Anche la magia ha rivolto alla Betulla la sua attenzione attribuendole grandi poteri di “protezione e di esorcismo”.
La Betulla è simbolo di “bellezza”, ma anche “di vita, di giovinezza e di fecondità” per i popoli nordici.
Rappresenta, inoltre, l’emblema del “rinnovarsi della Natura e del suo rivivere” dopo la lunga stasi invernale.
La Betulla è associata a Giove. Nel settimo giorno della luna crescente, se si pone sotto il cuscino una foglia di Betulla, si sogna il futuro sposo.
Se si lavano gli occhi con la rugiada raccolta sulle foglie della Betulla ogni settimo giorno del mese si evitano le malattie della vista.
Piantare una pianta di Betulla vicino alla propria abitazione nella notte del solstizio d’inverno significa formulare magicamente “auspici di protezione e di fertilità” per tutti gli abitanti della casa.
Le tradizioni popolari raccomandano di piantare sul lato destro della casa due Betulle. Una prima giustificazione è perché il lato destro è il lato solare e simboleggia la “vita futura”, una seconda spiegazione è perché questa pianta soffre di solitudine.
Bruciare ceppi di Betulla sul focolare domestico nella notte del solstizio d’inverno significa “favorire la fortuna e scacciare la negatività”.
Antichi scritti di magia raccontano che gli amori più belli e poetici sono sbocciati proprio sotto questo gentile albero.
La Betulla, oltre a possedere poteri purificatori, protettivi e propiziatori, è anche connessa “all’amore e alla protezione dei legami di un amore sincero”.
In Svezia, il tradizionale Palo di Maggio era costituito da un tronco di Betulla.
Fra i Celti numerosi erano i poemi amorosi che contenevano riferimenti alle Betulle. Le ragazze e i ragazzi usavano donarsi ghirlande di rami e di foglie di Betulla, come promessa d’amore, e numerosi erano i giacigli amorosi fatti con le fronde di Betulla.
Piantare una Betulla accanto alla casa di una ragazza le assicurava una vita serena e un matrimonio felice.
Per una fanciulla regalare un rametto di Betulla ad un suo spasimante significava “accettare la sua corte”. Un rametto di foglie, a forma di scopina, appeso sulle testate dei lettini dei bambini o sulle porte delle loro camerette, allontana le energie cattive.
Infine, i rami di questa elegante pianta erano regalati per alleviare “la depressione e per addolcire i caratteri rigidi e freddi”.
Angelo De Gubernatis ne “La mythologie des plantes” narra una leggenda popolare dell’Estonia.
Un contadino, avendo visto uno straniero addormentato sotto un albero di Betulla mentre stava per arrivare un temporale, lo destò dal suo sonno perché si mettesse al riparo. Riconoscente, lo straniero gli disse: “Allorquando, essendo lontano dal tuo paese e provando un’acuta nostalgia, vedrai una Betulla tutta contorta, bussa sul suo tronco e chiedi <Il contorto è in casa>?
Un giorno il contadino, partecipando alla guerra in Finlandia, pensava con tristezza ai suoi bambini lontani e alla sua casa.
All’improvviso vide una Betulla contorta. Ricordandosi delle parole dello straniero, si avvicinò al tronco, bussò e chiese: “Il contorto è in casa”? Apparve subito il signore della Betulla che, evocato lo spirito più veloce, gli ordinò di trasportare il soldato nel suo paese con la sacca piena di monete.
Tra i popoli slavi la Betulla era associata alla leggenda delle Rusolski, le bellissime ninfe degli stagni e dei laghi. A tarda primavera, nei giorni del disgelo, uscivano dalle acque, vestite di lunghi abiti candidi, per tentare i viandanti che si trovavano a passare tra i boschi. Chi non era capace di resistere alle loro tentazioni veniva catturato ed ucciso.
Per scongiurare questo pericolo e per accattivarsi la benevolenza delle ninfe, il popolo era solito tagliare annualmente una enorme pianta di Betulla che sistemavano in posizione eretta in mezzo alla piazza del paese e vi danzavano attorno in segno propiziatorio. Quando sopraggiungeva la sera, della stessa pianta si faceva un gran falò e se ne disperdevano le ceneri nei campi.
Nell’immaginario popolare che circonda quest’albero non ci sono solo paura e superstizione. Esiste anche una certa sacralità, ben radicata soprattutto nella tradizione contadina, per via dei molteplici usi che si potevano fare di ogni parte della pianta.
In magia, le foglie polverizzate e gettate nel fuoco sono simboli “magici purificanti”. E’ difficile polverizzare le foglie secche poiché la cellulosa le rende piuttosto robuste. E’ utilizzata anche la parte bianca della corteccia che tende a staccarsi in modo abbondante dal tronco specialmente durante l’inverno a causa degli sbalzi termici.
Le popolazioni rurali del nord Europa attribuiscono agli scricchiolii, particolarmente a quelli provenienti dalle cortecce, un significato soprannaturale. La corteccia, messa in acqua a bollire per 30 minuti, diventa morbida e perde la forma arrotolata. Lasciandola asciugare in posizione orizzontale, costituisce un valido supporto per la scrittura di invocazioni votive o da bruciare durante un rito sacro.
Il giorno tradizionale della Betulla, l’albero delle rinascite e dei nuovi inizi, è lo Yule che cade il 21 Dicembre. Yule è un periodo carico di valenze simboliche e magiche dominato da miti e simboli provenienti da un passato lontanissimo.
Il 24 Dicembre, detto il “Giorno della Betulla”, era legato al dio Thor. Particolari onori le erano attribuiti il 28 luglio poichè ricorre la festa di questa Divinità.
Thor era il dio del tuono, della pioggia e della nebbia, figlio primogenito di Wothan, padre di tutte le divinità e dio maggiore della guerra.
La religione dei popoli scandinavi era ricchissima di mitologia e di simbolismo. Si fondava su una concezione panteista e naturistica del sacro.

 

 

Nov 17, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN NICOLA DI BARI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN NICOLA DI BARI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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San Nicola di Bari, noto anche come San Nicola di Myra,  San Nicola dei Lorenesi,  San Nicola Magno,  San Niccolò, San Nicolò, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da diverse altre confessioni cristiane. La sua vita, in parte avvolta nella leggenda, è nota soprattutto per alcuni miracoli che lo caratterizzano come una persona attenta alle necessità degli altri tanto da essere identificato come il “santo del dono”.
Nicola nacque intorno al 250 e 270 d.C. a Pàtara, una fiorente città marittima e commerciale nella costa sud-ovest della Licia, antica regione dell’Asia Minore sud-occidentale, attuale Turchia, affacciata sul mare   Mediterraneo. Pàtara prende il nome da Patàros, figlio di Apollo.
Pàtara era allora provincia romana sotto la giurisdizione di Cesare Augusto tra il 261 ed il 280 d.C. Prima di essere occupata dai Turchi questa terra, sia pure all’interno dell’Impero Romano, era di cultura e di lingua greca. Questo fece sì che Nicola fosse considerato “greco”.
Nicola nacque in un’agiata famiglia cristiana, unico figlio di Epifanio e di Giovanna, genitori pii e onesti che gli imposero il nome Nicola e lo educarono alla lettura delle Sacre Scritture sin dalla tenera età. Etimologicamente il termine “Nicola” deriva dal greco “Νκάω”, “riportare vittoria”. In quel periodo cominciava a diffondersi il messaggio di Gesù, anche se spesso i Cristiani, per la proclamazione della loro fede, erano perseguitati dagli Imperatori Romani che comandavano anche in quelle regioni.
Della sua infanzia si conosce poco. Il primo a riferire su Nicola fu Michele Archimandrita, un monaco greco vissuto nell’VIII secolo. Cresciuto in un ambiente ricco di fede cristiana e di benessere economico, prematuramente rimase orfano di entrambi i suoi genitori deceduti per essere stati contagiati di peste dagli ammalati che amorevolmente curavano.  Nicola ereditò grandi ricchezze, ma soprattutto ricevette il dono della carità verso il prossimo.
Rinunciò a vivere nell’agiatezza e preferì distribuire le sue ricchezze agli ultimi per onorare Dio. In seguito, lasciò la sua città natale per trasferirsi a Myra. Myra, l’attuale Demre, era la capitale della provincia di Licia e la sede episcopale fondata da San Nicandro dove Nicola fu eletto vescovo.
La sua elezione a Vescovo è circondata dalla leggenda. Intorno all’anno 300 dopo Cristo, anche se il cristianesimo non era stato legalizzato nell’Impero Romano e non esistevano templi cristiani, le comunità attratte dall’insegnamento evangelico erano già notevolmente organizzate.
I cristiani si riunivano nelle case di aristocratici, che avevano abbracciato la nuova fede, chiamate “domus ecclesiae”, “casa della comunità”.  Essendo morto il vescovo di Myra, i vescovi dei dintorni si riunirono in una di queste domus ecclesiae per indicare ed eleggere il nuovo vescovo della città.
Si narra che durante la notte Dio parlò in sogno al più anziano e autorevole membro del clero suggerendogli che doveva essere eletto Vescovo colui il quale all’alba sarebbe entrato per primo in Chiesa. Il saggio sacerdote, recatosi in chiesa alle prime luci del mattino, vide un giovane che si apprestava a varcare la soglia. Allora gli si avvicinò e, chiestogli il suo nome, lo spinse al centro dell’assemblea per presentarlo agli astanti. La prima persona ad entrare in chiesa era il giovane Nicola. Stupito della sua elezione, Nicola cercò di sottrarsi alla responsabilità vescovile ritenendosi incapace di assumere tale pesante incarico. Il clero e il popolo di Myra lo acclamarono Vescovo di Myra. L’elezione di Nicola a vescovo è stata voluta dalla volontà di Dio.

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 Nicola divenne subito famoso per la sua grande misericordia e per il suo zelo religioso. Nel 303 d.C. l’imperatore Diocleziano mise fine alla sua politica di tolleranza verso i cristiani e scatenò una violenta persecuzione che si prolungò per un decennio, anche se momenti di empietà si alternarono a momenti di pausa. Nel 313 gli imperatori Costantino e Licinio si accordarono sulle sfere di competenza prendendosi, il primo, l’Occidente, il secondo l’Oriente. Emanarono l’editto che dava libertà di culto ai cristiani. Nel 319, sei anni dopo, in contrasto con la politica costantiniana filocristiana, Licinio riprese la persecuzione contro i cristiani. Sembra probabile che anche Nicola abbia dovuto patire il carcere ed altre sofferenze, anche quella di vedere il suo gregge subire tanti tormenti.
Metafraste attorno al 980 d.C. riferì che Nicola soffrì la persecuzione di Diocleziano. Alcuni testi tradizionali greci hanno scritto: “il divino Nicola fu arrestato dai magistrati, torturato, incatenato e gettato in carcere insieme ad altri cristiani. Quando Costantino, scelto da Dio, successe a Diocleziano, i prigionieri vennero rilasciati, e con essi l’ illustre Nicola“. Invece di scoraggiarsi, Nicola spronò i fedeli a persistere nella fede e a non glorificare gli dèi. Secondo altri autori Nicola subì la persecuzione sotto la dominazione di Licinio piuttosto che sotto quella di Diocleziano. Ciò per spiegare il fatto che durante la persecuzione Nicola era già vescovo e, secondo loro,  sarebbe stato consacrato vescovo fra il 308 ed il 314.
Lo storico bizantino Niceforo Callisto, per rendere più viva l’impressione di Nicola vicino al martirio e con i segni delle torture ancora nelle carni, scriveva: “Al concilio di Nicea molti splendevano di doni apostolici. Non pochi, per essersi mantenuti costanti nel confessare la fede, portavano ancora nelle carni le cicatrici e i segni, e specialmente fra i vescovi. Fra questi anche Nicola, vescovo dei Miresi”.
Nel 313, liberato con l’editto di Costantino, il vescovo Nicola riprese la sua attività apostolica. In questo periodo un avvenimento importante lo coinvolse: quello delle navi frumentarie.
Probabilmente il riferimento è alla carestia del 311-313 o a quella del 333-334. Durante tale carestia, che aveva colpito la Licia ma anche gran parte delle province dell’Impero, nel porto di Myra approdarono diverse navi provenienti da Alessandria d’Egitto. Il Vescovo Nicola salì a bordo di una di queste navi esortando il capitano a scaricare parte del grano da distribuire al popolo affamato.
Ciò era impossibile essendo il grano destinato all’imperatore ed essendo stato registrato nel peso. Non ci poteva essere nessun disavanzo! Nicola, promettendo di assumersi la responsabilità nei confronti degli esattori della capitale e di versare una cospicua cauzione, riuscì a convincere il capitano della nave a distribure alla popolazione il grano dopo averlo pesato. Il grano diede pane sufficiente per due anni di tempo e, poiché era stata conservata una certa quantità di cariossidi, esse furono seminate nelle terre, germinarono, donarono molto frutto anche per gli anni successivi. Quando le navi “alessandrine” giunsero a Costantinopoli, così come il capitano aveva previsto, il peso del grano è stato ricontrollato. Non era affatto diminuito!
Questo miracolo è all’origine non solo di tanti quadri iconografici che lo raffigurano, ma anche di tante tradizioni popolari legate al “pane” di San Nicola. Ai pellegrini, che giungono nel mese di maggio a Bari, sono distribuite “serte” di taralli tenuti insieme da una funicella.
L’imperatore Costantino, con la sua politica a favore dei cristiani, il 23 giugno dell’anno 318 emanava un editto col quale concedeva a coloro che erano stati condannati dalle normali magistrature di presentare appello al vescovo. Mentre la Chiesa, con simili provvedimenti, si rafforzava nella società pagana, l’opinione intorno alla natura di Gesù Cristo come Figlio di Dio suscitò una polemica tale da dividere l’impero in due partiti contrapposti.
A scatenare lo scisma fu il prete alessandrino Ario (256-336), coetaneo di Nicola. Per risolvere la questione e riportare la pace, l’imperatore, nel 325, convocò in concilio a Nicea la grande assemblea. Data l’ubicazione in Asia Minore, pochi furono i vescovi occidentali che vi presero parte, mentre quelli orientali furono quasi tutti presenti. Non è certo che Nicola sia stato uno dei 318 partecipanti a questo primo ed importantissimo concilio ecumenico. La tradizione racconta che durante il concilio ha condannato duramente l’Arianesimo difendendo la fede cattolica. Secondo la leggenda Nicola, acceso di santo zelo, udendo bestemmiare Ario, che si ostinava a negare la divinità di Cristo, alzò la mano destra e lo schiaffeggiò. Essendo stata riferita a Costantino tale reazione, l’imperatore ordinò la carcerazione di Nicola mentre gli altri vescovi lo privarono dei paramenti episcopali. Le guardie carcerarie lo insultarono  e lo beffeggiarono.
Un carceriere gli bruciò anche la barba. Durante la notte Nicola ebbe la visita di Cristo e della Madonna che gli diedero il Vangelo, segno del magistero episcopale, e la stola, segno del ministero sacramentale. Nicola evitò di indossare i paramenti vescovili quando si recò in chiesa per celebrare la messa. Appena cominciò la funzione religiosa vide scendere dal cielo la Vergine con la stola e gli angeli con la mitra. Anche la barba, che i carcerieri gli avevano bruciato, crebbe fitta e abbondante.
Gli scritti di Andrea di Creta e di Giovanni Damasceno confermarono il suo grande amore per la retta fede e per l’armonia nella Chiesa.
Il suo senso della giustizia lo spinse ad intervenire con molti governanti, anche con l’imperatore Costantino, per la salvezza degli uomini condannati ingiustamente, per ottenere alcuni rifornimenti per il popolo e per ottenere la riduzione delle imposte. Sant’ Andrea di Creta scrive: Come raccontano, passando in rassegna i tralci della vera vite, incontrasti quel Teognide di santa memoria, allora vescovo della Chiesa dei Marcianisti. La disputa procedette in forma scritta fino a che non lo convertisti e riportasti all’ortodossia. Ma poiché fra voi due era forse intervenuta una sia pur minima asprezza, con la tua voce sublime citasti quel detto dell’Apostolo  dicendo: <<Vieni, riconciliamoci, o fratello, prima che il sole tramonti sulla nostra ira>>.
Costantino aveva lasciato libertà di culto ai pagani tuttavia, almeno a partire dal 318, con i poteri giurisdizionali ai vescovi i cristiani ebbero uno spazio privilegiato all’interno dell’impero. Molti vescovi, e fra loro anche Nicola, si impegnarono a cancellare dalle loro città i segni della religione pagana fino ad abbattere alcuni templi. Andrea di Creta, nel suo celebre “Encomio di San Nicola”, rivolgendosi a San Nicola esclama: <<Hai dissodato, infatti, i campi spirituali di tutta la provincia della Licia, estirpando le spine dell’incredulità. Con i tuoi insegnamenti hai abbattuto altari di idoli e luoghi di culto di dèmoni abominevoli e al loro posto hai eretto chiese a Cristo>>.
Pur rimanendo molto vicino al testo di Andrea di Creta, Michele Archimandrita “concretizzava” l’opera di Nicola che faceva riferimento non alle armi della parola e dell’insegnamento, ma alle spranghe di ferro usate per abbattere il tempio di Diana che si ergeva imponente. Era il maggiore di tutti i templi sia per l’altezza, sia per la varietà di decorazioni, sia per la presenza di demoni.
Nicola morì a Myra il 6dicembre, presumibilmente negli anni tra il 345 e il 352 dopo Cristo, a circa 80 anni di età. Le sue spoglie furono conservate nella cattedrale di Myra fino al 1087.Nel 1034, quando Myra fu occupata dai saraceni, Bari e Venezia, due città rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il possesso delle reliquie del santo, che erano ancora custodite dai greci cristiani sotto il dominio musulmano, e per il trasferimento delle stesse in Occidente.
Inoltre, Mira si trovava su una rotta frequentemente seguita dalle navi baresi dirette in Siria e, pertanto, non era necessario organizzare un’apposita spedizione, ma poteva essere inserita in un’operazione commerciale. Una spedizione barese, formata da 62 marinai, tra i quali i sacerdoti Lupo e Grimoldo, partita con tre navi, di proprietà degli armatori Dottula, raggiunse Myra. Giunti al sepolcro di Nicola, gli uomini, di nascosto dei custodi greci e dei loro padroni musulmani, sottrassero una buona parte dello scheletro. Il sacro carico con le reliquie di Nicola, custodite in una cassa di legno rivestita di preziose stoffe, arrivò nel porto di Bari la domenica del 9 maggio del 1087. Una grandissima folla assistette allo straordinario evento.
Secondo la leggenda, le reliquie furono depositate là dove i buoi, che trainavano il carico dalla nave, si fermarono. Temporaneamente furono ospitate presso il monastero di San Benedetto,  retto dall’abate Elia, che sarebbe diventato vescovo di Bari, il quale avanzò la proposta di edificare una nuova grande chiesa per ospitarle.
Fu scelta l’area dove fino a poco tempo prima sorgeva il palazzo del  governatore bizantino distrutto durante la ribellione per le libertà comunali e che Roberto il Guiscardo aveva donato all’arcivescovo Ursone. I lavori furono avviati nel mese di luglio dello stesso anno. Il 1º ottobre del 1089 le reliquie di San Nicola furono trasferite nella cripta della basilica da papa Urbano II  arrivato a Bari per assistere alla definitiva collocazione delle reliquie sotto l’altare della cripta. Nicola di Myra è diventato “Nicola di Bari”.
La presenza a Bari delle reliquie di un santo così importante non era solo una benedizione spirituale, ma anche mèta di numerosi pellegrinaggi e fonte di benessere economico. Nel mese di ottobre del 1098  nella cripta della basilica ancora in costruzione si tenne il II Concilio di Bari, convocato dallo stesso Urbano II, al quale presero parte circa 185 arcivescovi, vescovi, abati, ed ecclesiastici di grado inferiore. La costruzione della basilica fu terminata nel 1103 quando in una pergamena si legge della Basilica già “constructa”. La lapide di consacrazione, del 1197, che alcuni interpretano come la fine dei lavori, era un atto devozionale dell’imperatore Enrico VI che partiva per la Crociata chiedendo la benedizione di San Nicola. San Nicola fu eletto copatrono di Bari assieme a San Sabino.
Non è certo accettare se Venezia dividesse con Bari la custodia delle reliquie di San Nicola. I Veneziani non si erano rassegnati all’incursione dei baresi e nel 1099-1100, durante la prima crociata, approdarono a Myra dove fu loro indicata la tomba dalla quale i baresi avevano prelevato le ossa di San Nicola. Qualcuno dei presenti affermò di aver visto celebrare le funzioni più importanti in un altare secondario invece che in quello principale. Là i veneziani trovarono una gran quantità di piccoli frammenti ossei lasciati dai baresi che, recuperati, furono traslati nell’abbazia di San Nicolò del Lido. La chiesa era collocata sul Porto del Lido dove finiva la laguna e cominciava il mare aperto. San Nicola, quindi, fu proclamato protettore della flotta della Serenissima. L’autenticità delle spoglie custodite a Venezia è stata accertata solo in tempi recenti ponendo fine ad una lunga contesa fra le due città.
Le reliquie di San Nicola sono conservate, oltre che a Bari e a Venezia,  nella basilica gotica a Saint-Nicolas-de-Port,  a Bucarested in Bulgaria, nella chiesa della città di Cernomoretz. Nel 1429, prima di lasciare il suo paese per salvare la Francia,  Giovanna d’Arco andò a visitare la tomba di San Nicola a Saint-Nicolas-de-Port per chiedere il suo miracoloso aiuto.
Alla fine del XV secolo, per ringraziare San Nicola per avere salvato il Ducato di Lorena contro il duca di Borgogna Carlo il Temerario (morto durante la battaglia di Nancy il 5 gennaio 1477), Renato II, il duca di Lorena, fece ricostruire la chiesa della città di Saint-Nicolas-de-Port. Terminati i lavori, nel 1481 essa diventerà una maestosa basilica di stile gotico. Nel 1622 il duca Enrico II di Lorena ottenne dal Papa Gregorio XV (153-1623) il permesso di costruire una chiesa per i suoi sudditi che vivevano a Roma.
Questa bella chiesa barocca si trova vicino a Piazza Navona. E’ dedicata al santo patrono della nazione lorenese e si chiama Chiesa di San Nicola dei Lorenesi. Più generalmente, in ogni città o villaggio in Lorena il 5 o 6 dicembre si tiene una parata in onore di San Nicola. Nel mese di gennaio del 2003 la Chiesa cattolica di Rimini, d’intesa con il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, donò alla Diocesi Greco-Ortodossa di Dimitriade un frammento dell’omero sinistro di San Nicola. Secondo la tradizione, l’omero di San Nicola era giunto a Rimini nella seconda metà del XII secolo. Artefice dell’evento sarebbe stato un Vescovo tedesco che aveva rubato la reliquia a Bari. Si narra che nel 1177 papa Alessandro III, di ritorno  da Venezia si fermò a Rimini. Per accertarsi della veridicità dell’osso lo fece sottoporre alla prova del fuoco: “le fiamme non la bruciarono, anzi, emanarono un profumo intenso“.
Il primo indizio sull’autenticità della tradizione è l’assenza, fra le reliquie baresi, proprio dell’omero sinistro. La prova definitiva, che si trattava dell’osso che mancava dallo scheletro venerato a Bari, è stata fornita dallo studio antropometrico del prof. Luigi Martino e dalla ricognizione antropologica del prof. Fiorenzo Facchini. La reliquia riminese è custodita nella chiesa di San Nicolò al Porto, nella cappella detta “celestina“, dai Padri Celestini ai quali appartenne l’edificio dal XIV al XVIII secolo. San Nicola fu proclamato co-patrono di Rimini nel 1633.
San Nicola, già dal Medioevo, è stato uno dei santi più venerati ed è certamente una delle figure più grandi nel campo dell’agiografia. Il suo culto si diffuse dapprima in Asia Minore, con pellegrinaggi alla sua tomba posta fuori dell’abitato di Myra, poi, attraverso gli scritti latini e greci, progressivamente cominciò a diffondersi nel mondo bizantino-slavo, in Occidente e in tutta l’Europa,  in particolare nei Paesi Bassi. In Italia il culto di San Nicola si estese in tutte le regioni. San Nicola è il santo patrono della Russia, della Grecia, della Puglia, della Sicilia, della Lorena, della città di Amsterdam,  dove fu portato dai coloni olandesi sotto il nome di Sinterklaas. È patrono di Lungro, capitale degli Arbereshe continentali, sede dell’Eparchia, cioè l’equivalente della diocesi nell’Occidente cristiano, di rito greco-bizantino.
E’ festeggiato il 6 dicembre,  giorno della sua morte, e il 9 maggio, giorno dell’arrivo delle reliquie a Bari.
San Nicola, considerato santo già da vivo, operò diversi prodigi. Si raccontano molte leggende riguardanti i suoi miracoli.Le prime notizie riguardano la sua primissima infanzia. Si narra che Nicola, ancora neonato, immerso in una bacinella per essere lavato, si sollevò in piedi con le mani giunte suscitando la meraviglia dei presenti. Amante del digiuno e della penitenza, quando era ancora in fasce, Nicola era già osservante delle regole relative al digiuno settimanale che la Chiesa aveva stabilito di rispettare nei giorni del mercoledì e del venerdì. Michele Archimandrita, il monaco greco, narra che il bimbo succhiava normalmente il latte dal seno materno, ma si limitava ad una sola poppata nella giornata del mercoledì e del venerdì in corrispondenza dei giorni di digiuno praticati dai cristiani del tempo.
Un’altra leggenda racconta che Nicola liberò dalla prigione tre generali ingiustamente condannati. Tre generali via mare raggiunsero la Frigia ove riuscirono a sottomettere le forze ribelli all’impero di Costantino. Un po’ per il successo dell’impresa, un po’ perché Nepoziano era parente dell’imperatore, il loro ritorno a Costantinopoli avvenne in un’atmosfera di vero e proprio trionfo. Tuttavia la gloria e gli onori durarono poco perché gelosie e invidie furono da sempre azioni ricorrenti.
Ben presto si formò un partito ostile a Nepoziano. I membri di questo partito riuscirono a coinvolgere il potente prefetto Ablavio che informò l’imperatore che i tre generali stavano tramando contro di lui. Costantino li fece imprigionare. Dopo alcuni mesi, i seguaci di Nepoziano si stavano organizzando nel tentativo di liberare i generali. Il prefetto Ablavio suggerì all’imperatore di usare un provvedimento ancora più rigido della prigionia. Costantino ordinò di sopprimerli durante la notte. Informati dal carceriere Ilarione dell’imminente pericolo per la loro vita, i tre generali erano molto preoccupati. Nepoziano pregò con fervore San Nicola.
Quella notte San Nicola apparve in sogno all’imperatore minacciandolo: “Costantino, alzati e libera i tre generali che tieni in prigione, poiché vi furono rinchiusi ingiustamente. Se non fai come ti ho detto, conferirò con Cristo, il Re  dei Re, provocherò una guerra e darò i tuoi resti in pasto a fiere ed avvoltoi”. Spaventato, Costantino chiese chi fosse: “Sono Nicola, vescovo peccatore, e risiedo a Myra, metropoli della Licia”. Nicola apparve minaccioso anche ad Ablavio. Quando Costantino chiese a Nepoziano se conoscesse un uomo di nome Nicola raccontò che aveva pregato San Nicola per la liberazione dei generali. Costantino ordinò subito la loro liberazione, anzi, volle che si recassero a Myra per ringraziare il vescovo e per portargli i preziosi doni: il Vangelo decorato in oro e i candelieri d’oro massiccio.
Un altro miracolo racconta che un giorno il Vescovo Nicola, passando vicino ad una locanda e avendo saputo che l’oste aveva immerso tre bambini dentro una tinozza piena di una soluzione salina concentrata per conservare la loro carne da vendere nel suo negozio, salvò i piccoli da quell’orrenda morte e aiutò l’uomo malvagio a cambiare il suo modo di vivere.

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 Carità e castità sono le due virtù che hanno fatto da sfondo ad uno egli episodi più famosi della sua vita. Esempio di povertà e di liberalità, fu proprio la miseria il nucleo del seguente racconto. Nicola fu generoso verso tre ragazze per mantenerle sulla retta via.

Dante, nel Purgatorio (XX, 31-33), fa elogiare Nicola ad Ugo Capeto:

Esso parlava ancor della larghezza

Che fece Niccolao alle pulcelle,

per condurre ad onor lor giovinezza

Si narra, infatti, che Nicola venne a sapere che un padre, cittadino di Patara, ricco ma decaduto in miseria, si tormentava perché la povertà in cui versava non gli consentiva di dare alle tre figlie una dote sufficiente per il loro matrimonio. Decise allora di avviarle ad una vita disonorevole allo scopo di raccogliere il denaro sufficiente al loro matrimonio. Avendo riempito tre borse di monete d’oro, Nicola, ogni notte e per tre notti consecutive, in via del tutto anonima, secondo il consiglio evangelico “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, le gettò nella casa dell’uomo attraverso una finestra aperta. Decise di agire di notte perché la sua virtù caritativa doveva essere nota solo a Dio perché, se fosse emersa e avesse avuto gli onori degli uomini, avrebbe perduto il merito della sua azione. Le tre figlie, con l’oro contenuto nelle borse, avevano la dote necessaria per un onesto e dignitoso matrimonio salvando la loro purezza.
In qualche iconografia San Nicola è raffigurato con tre sfere d’oro ai suoi piedi o tra le mani o con tre sacchetti di monete in relazione a questa leggenda.
A Bari, dove il Santo è venerato come Patrono della città, il suo culto ha portato all’istituzione del “maritaggio”, tradizione mantenuta in vita sino al 1984 grazie alla quale ogni anno si estraevano a sorte alcune ragazze povere e orfane alle quali era assegnata una dote per il loro matrimonio. Anche questa pratica aveva un chiaro riferimento alla storia delle tre sorelle aiutate da San Nicola di Bari. San Nicola era impegnato non soltanto nell’andare incontro alle necessità dei poveri e dei bisognosi, ma anche nella diffusione della verità evangelica. Fede e carità erano le sue parole.
Un altro miracolo di San Nicola racconta il salvataggio dei marinai durante una tempesta.
Intorno all’anno 300 d.C. una ciurma di marinai, abituati a ruberie e a violenze, navigava verso Mira,  al largo del Mar Egeo. Un’improvvisa tempesta sorprese l’equipaggio con così tanta violenza che gli uomini, avvertendo l’immeniente pericolo di morte, invocarono il Vescovo Nicola affinché intercedesse presso Dio.
I marinai, nella loro preghiera, invocarono con tanto fervore il vescovo Nicola che, proprio nel momento più difficile, apparve loro aiutandoli a governare l’imbarcazione. Giunti sani e salvi nel porto di Myra, i marinai desiderarono ringraziare Dio. Entrati nella chiesa dove Nicola svolgeva la sua funzione di Vescovo, non lo riconobbero perchè sembrava un semplice sacerdote. Lo riconobbero appena si avvicinò e lo ringraziarono con grandissimo slancio. Nicola li incoraggiò a seguire la via della virtù e del bene.
Il vescovo Nicola ha sostenuto tantissime iniziative a favore della popolazione, ma la più nota è la proposta rivolta a Costantino per la riduzione delle tasse ai Miresi.
Costantino usava gravare le popolazioni del suo impero con l’imposizione di tasse sproporzionate. Anche se cristiani si rifiutavano di pagare contributi così costosi, i pagani li costringevano con la giustificazione che Costantino era costretto ad adottare questa pesante politica tributaria a causa della sua eccessiva generosità. L’anonimo scrittore, che compose l’Epitome de Caesaribus, descriveva così la sua politica tributaria: “Per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone, negli ultimi dieci fu chiamato pupillo per le eccessive prodigalità”.
Quando anche i Miresi dovettero pagare queste tasse imposte, i rappresentanti del popolo si rivolsero a Nicola affinché facesse da mediatore presso l’imperatore. Nicola partì alla volta di Costantinopoli col preciso proposito di incontrarlo. Prima che cominciasse il colloquio, al suo arrivo Costantino gettò il mantello che, incrociando un raggio di sole, vi si aggrappò. Il prodigio rese timoroso e benevolo l’imperatore Costantino. Quando Nicola lo informò che i Miresi erano contrari a pagare tasse così salate e volevano una consistente riduzione, l’imperatore chiamò il notaio Teodosio ordinandogli di operare una sensibile riduzione stabilita a soli cento denari.
Nicola, afferrata la carta su cui era registrata questa concessione e legatala ad una canna, la gettò in mare. Per volere di Dio la canna, giunta nel porto di Myra, arrivò nelle mani dei funzionari del fisco che, pur molto meravigliati, si adeguarono. Intanto a Costantinopoli i consiglieri fecero notare all’imperatore Costantino che la concessione era stata esagerata. L’imperatore chiamò Nicola per concordare la nuova tariffa che i Miresi avrebbero dovuto pagare. Nicola gli rispose che da tre giorni la carta era pervenuta a Myra. Costantino promise che avrebbe confermato la precedente concessione. I messaggeri, inviati da Costantino per la verifica, riferirono che Nicola aveva detto la verità. Mantenendo la promessa, l’imperatore confermò la concessione.
Questi descritti sono solo alcuni dei prodigi operati da San Nicola.
San Nicola è venerato come protettore dei bambini, delle vergini, dei pellegrini, dei viaggiatori, dei commercianti, degli avvocati, dei giudici, dei farmacisti, dei notai, dei mugnai, dei panettieri, dei macellai, dei mastri birrai, dei contadini, dei tessitori, degli scalpellini, dei pompieri, dei prigionieri, dei pescatori e dei marinai. I marinai del mare Egeo e del mare Ionio hanno la loro “Stella di San Nicola” e, vicendevolmente, si augurano buon viaggio con la frase: <<Possa San Nicola guidare il timone>>. Ad Ostia, nel Borghetto dei Pescatori, c’è una deliziosa chiesetta in muratura, dedicata a San Nicola di Bari, che merita di essere visitata.
San Nicola s’invoca per la buona navigazione, contro il pericolo dell’acqua sia sulla terraferma sia sul mare, contro i ladri, affinché aiuti a riavere gli oggetti persi o smarriti.
San Nicola è noto anche al di fuori del mondo cristiano perché la sua figura ha dato origine al mito di Santa Claus (Sanctus Nicolaus) del folklore dei paesi anglosassoni, il NiKolaus della Germania. In Europa, in tempi recenti, divenne Babbo Natale, il vecchio barbuto dall’aspetto simpatico, sorridente e instancabile che la notte tra il 5 e il 6 dicembre distribuisce dolci, caramelle, giocattoli ai bambini che Gli scrivono la letterina esprimendo i loro desideri.

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In Sicilia, fino ad alcuni anni fa, era rispettata la tradizione della caduta di un dente di latte ad un bambino.  Il dentino veniva nascosto in un foro. Il bambino recitava l’orazione invocando San Nicola affinché gli facesse trovare un dono che, generalmente, era un soldino:

Santu Nicola,


Santi Nicola


vi dugnu la zappa vecchia


vui mi dati la zappa nuova.

Nel senso buoni denti per mangiare.

Nell’eparchia di Piana degli Albanesi, dove il culto di San Nicola è molto sentito, è ritenuto il padre della provvidenza. A Palazzo Adriano nei due giorni della Sua festa, il 5 e 6 dicembre, le ragazze indossano il costume tradizionale, portano alla vita la fibbia d’argento con l’effige del Santo e cantano per conquistare il  marito:

Io ti preu Niculò Santu
Pri la carità chi avisti
tri donzelli maritasti
e di grazii l’arrichisti
tu cu mia accussi a fari
e di mia nun t’ha scurdari.

Secondo la leggenda San Nicola è anche il patrono della famiglia e della fecondità. E’ invocato dalle coppie che desiderano avere figli. Nei cantoni svizzeri raccontare che una donna ha pregato San Nicola significa che è in dolce attesa. Raccontare che una famiglia ha ricevuto la visita di Sant Klos significa che in quella famiglia è nato un bambino.
Nell’iconografia San Nicola è facilmente riconoscibile perché tiene in mano tre sacchetti di monete d’oro, spesso resi più visibili sotto forma di tre palle d’oro.

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 Il suo emblema è, soprattutto, il bastone pastorale, simbolo del vescovato. Tradizionalmente è quindi rappresentato vestito da vescovo con mitra e pastorale.

PREGHIERA A SAN NICOLA

O glorioso San Nicola, mio protettore e padre buono, eccomi alla tua presenza per supplicarti umilmente di volgere su di me lo sguardo benevolo e misericordioso. Quante generazioni di fedeli si sono rivolte a te, quante lacrime sono state versate al tuo cospetto, quante intime gioie ti sono state confessate e quante invocazioni ti sono state rivolte! Ad esse unisco in questo momento le mie preghiere per invocare la tua potente intercessione. Tu conosci i segreti del mio cuore, i miei affanni, i miei desideri. Presentali al cospetto di Dio e chiedi per me la grazia di essere esaudito. Il Signore, nella sua infinita misericordia, nonostante le mie infedeltà di ogni giorno, mi conceda di avere il cuore sempre aperto alla speranza. E tu. Potente intercessore, non abbandonarmi nell’ora dell’amarezza e delle difficoltà; vieni in mio soccorso, come soccorresti le tre fanciulle povere, i marinai nella tempesta, il piccolo Basilio Adeodato che restituisti ai genitori afflitti; alza la tua mano e benedicimi col segno della santa croce; vieni a visitare la mia casa perché vi regni la pace, tranquillità e salute e i miei cari sentano la tua santa presenza. Ti prego allo stesso modo per tutti coloro che hanno bisogno della tua potente intercessione. La mia povertà non osa chiederti tanto; ma io mi pongo perciò sotto il tuo compassionevole patrocinio, o San Nicola, sicuro della tua valevole intercessione presso la misericordia di Dio. Parto da te con l’animo sereno e pieno di riconoscenza verso Dio per tanti suoi benefici. O San Nicola benedetto, aiutami a vivere santamente nella pace di Cristo nostro Signore. Amen.
Auguro Buon Onomastico a tutti  quelli che portano il nome di  Nicola.
San Nicola si festeggia il 6 dicembre do ogno anno.

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI BARI A MISTRETTA

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 Il culto di San Nicola fu introdotto in Sicilia probabilmente dagli Erbitani verso la fine del IV secolo, al tempo dell’imperatore bizantino Arcodio. San Nicola si venera anche nella città di  Mistretta dove la chiesa del glorioso San Nicola di Bari esisteva prima dell’anno 1501. Essa sostituisce l’antica omonima chiesa posta nella contrada “Orto di Cuticchio” di cui si intravedevano fino a qualche anno fa i ruderi.
La chiesa di San Nicola, già chiesa Madre, è stata edificata nella seconda metà del XVI secolo e, completamente distrutta da un notevole incendio nel 1816, è stata interamente ricostruita dai lavori iniziati nel 1818 e completati nel 1835 . Gia due anni dopo dall’incendio, nel 1818 fu riaperta al culto.
L’epigrafe, posta sotto l’organo,  racconta che da una piccola scintilla è nato l’ incendio che distrusse la chiesa. A causa dell’incendio sono stati perduti anche gli arredi più antichi.
Fu restaurata ed ampliata nel 1572 per opera del borgomastro Achille Albamonte.
Nel 1945 la chiesa fu eretta a parrocchia.
La chiesa si trova nell’omonimo quartiere di periferia situata davanti ad un largo spiazzo. E’ dotata di tre portali con mostre in arenaria. Il più piccolo, quello di destra, permette l’accesso all’interno della chiesa durante tutto l’anno. Quello di sinistra si apre raramente. Quello principale si apre solo durante la festa dell’Immacolata Concezione o durante particolari eventi.

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Il portale principale, del 1670, in aneraria locale e di ignoto scalpellino siciliano, dal profilo semplice ed austero, molto alto, dagli elementi in tardo stile gotico-catalano, è sormontato da una lunetta alle cui estremità si aprono due luminose finestre.
Si legge l’iscrizione S(anctus) N(icolaaus) MDC.

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 Un’altissima torre campanaria, a forma di parallelepipedo, s’innalza nel cielo e termina con delle finestre bifore e una costruziine a bulbo.

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Foto di Mario Salamone

La chiesa, a pianta basilicale,  divisa in tre navate divide da colonne, possiede il presbiterio rialzato, 10 colonne, con piedistalli, capitelli ed archi in arenaria locale scolpiti secondo i dettami dello stile romanico siciliano.

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Vi sono due cappelle: la cappella di San Nicola da Tolentino dove il gruppo ligneo raffigura il Crocifisso che abbraccia SN Nicola da Tolentino. opera del XIX secolo

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 e la cappella dedicata alla Signora Immacolata Concezione.

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La chiesa è dotata di molte opere d’arte che ornano gli altari.
Nel presbiterio, la tela dell’altare marmoreo, sovrastato da una monumentale edicola in stucco, che raffigura San Nicola che distribuisce il pane, è stata molto apprezzata dal critico d’arte Vittorio Sgarbi durante un suo breve soggiorno a Mistretta.
L’autore, Giuseppe Scaglione, pittore amastratino nato nel 1775, morto nel 1853, raffigura San  Nicola che accoglie le comunità.
In  prima fila c’è la famiglia.
Il padre accompagna con la su mano il figlio più grande che protegge il fratello più piccolo mettendogli la mano sulla spalla.
Il vescovo offe il pane, simbolo dell’Eucaristia, quindi della protezione divina.

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Foto di Peppe Cuva. Particolare della tela

E’ di notevole pregio come pure la tela di Antonino Manno che raffigura la Sacra Famiglia, del 1773, posta nella parete laterale del presbiterio.

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Le altre tele raffigurano: Sant’Ambrogio, opera di Salvatore De Caro da Palermo, del 1840

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Sant’Antonio di Padova.
Il quadro, realizzato da  Giuseppe Scaglione nel primo quarto del XIX secolo, raffigura Sant’Antonio in estasi e i due angeli di cui uno porta il giglio della purezza e l’altro il Vangelo.

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 La Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, di ignoto pittore locale, del 1839

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 Santa Maria del Soccorso, posta al lato del presbiterio

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 La Madonna liberatrice col Bambino tra gli angeli, che porta in cielo un’anima del Purgatorio, opera di ignoto pittore siciliano, del 1838

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 San Benedetto e i suoi seguaci benedettini, tela proveniente dal monastero delle benedettine di S. Maria del Soccorso, posta sulla parete laterale destra nella  cappella di S. Nicolò da Tolentinodi. E’ opera di Giuseppe Scaglione, della fine del XVIII-inizi XIX secolo.

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la Madonna della Scala, di ignoto pittore locale, del 1840

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San Michele Arcangelo, olio su tela di ignoto pittore locale, del 1843

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Nell’altare di sinistra c’è la tela di Sant’Andrea Avellino mentre celebra la santa Messa. La tela è di ignoto pittore locale del primo quarto del XIX secolo.

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(ringrazio la guida turistica Nino Dolcemaschio per le informazioni raccontatemi su Sant’Andrea Avellino che mori mentre celebrava la santa messa).
Tre dipinti sono stati restaurati e sono ritornati agli antichi splendori, mentre altri aspettano di essere ripristinati da una mano esperta.
La statua di gesso di San Nicola con i tre puttini, che ricorda il miracolo del salvataggio dei tre bambini immersi nell’acqua salata dal macellaio che voleva vendere le loro carni, è custodita dentro una teca di vetro.

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  Le statue raffigurano:
il Crocefisso fra le donne dolenti,

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  Sant’Agnese, statua in gesso, del XX secolo

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il Cuore di Gesù ,statua in gesso del XX secolo.

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L’altare di destra ospita la celestiale statua dell’Immacolata Concezione, espressione dell’umano e del divino, e alla quale i mistrettesi sono molto devoti.

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Foto di Lorenzo Cocilovo

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La stata lignea è stata scolpita nel 1898 dallo scultore amastratino Noè Marullo che scelse come modelle, per le sembianze del viso, probabilmente  la signora Stella Cuva,  la bella e giovane moglie, e una ragazza, abitante nel quartiere, per riprodurre le mani giunte.  L’Immacolata è nell’atteggiamento non solo di preghiera ma anche di estasi,  come si vede dall’espressione dei  occhi.
L’artista ha vestito l’Immacolata con una veste  ricoperta da un drappo celeste, il colore del cielo. Ha messo sotto il piede il drago, come trionfo su Satana,  riferendosi ai versetti tratti dal libro della Genesi (3, 1-14-15): “Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. […] Allora il Signore Dio disse al serpente […] ‘Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe;  questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
La falce di luna si riferisce all’Apocalisse di Giovanni in Primo segno: la Donna e il dragone (12, 1-2): “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”.
La raffigurazione della Madonna sulla falce di luna potrebbe essere una manifestazione dell’archetipo della Dea madre, rintracciabile fin nella preistoria. Sia il serpente sia la luna sono “domati” dalla purezza della Vergine.
La corona di dodici stelle, quanti sono i mesi dell’anno, ha il significato di  inglobare il senso compiuto del mondo.
La statua è stata ripresa nel 1921.
Nella sagrestia è conservata la vecchia statua dell’Immacolata che, pur essendo stata restaurata, è mal ridotta.

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Nella parete sinistra della cappella dell’Immacolata Concezione una piccola tela raffigura la Madonna della Catena invocata dal popolo per essere protetto dall’invasione dei corsari.
Quando i corsari, che dominavano sul mar Mediterraneo, sbarcavano, effettuavano latrocini lungo le rotte. Uno di loro, il famoso corsaro Barbarossa, pirata ed ammiraglio della flotta ottomana dal 1533 al 1546, sbarcato sulle nostre coste, arrecò molti danni rapinando e uccidendo persone di ogni età, catturando navi, galee,denari.
I popoli,  impauriti e disperati,  chiesero protezione alla Madonna che li ha protetti liberandoli dalla schiavitù e facendo riacquistare la libertà. Nel quadro sono dipinti alcuni uomini che hanno i polsi legati da lunghe catene.

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Foto di Santino Cristaudo

L’interno della chiesa è rivestito da stucchi neoclassici dove il colore celeste si mescola al bianco. I lavori sono stati eseguiti da Antonio Scaglione, autore anche di diverse tele. La chiesa accoglie il gruppo statuario di Gesù nell’orto con Giuda.

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Il gruppo è di modesta fattura, ma di grande effetto scenico. Partecipa alla processione dei Misteri del Venerdì Santo. Alcune delle tele e dei parati, custoditi nella chiesa, provengono dal monastero delle Benedettine e dimostrano la bravura di quelle suore che avevano come regola della loro vita il detto di San Benedetto “ora et labora”.
Importante è il fonte battesimale, realizzato in  marmo rosso di San Marco,  opera di ignoto scultore siciliano della seconda metà del XVII sec.

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Caratteristiche sono anche le due acquasantiere scolpite.

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La chiesa custodisce anche un prezioso organo a molti registri, opera di Salvatore La Rosa, della metà del XIX secolo

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 L’epigrafe ellittica, posta sotto l’organo,  racconta che da una piccola scintilla è nato l’ incendio che distrusse la chiesa.

LA CONFRATERNITA DI SAN NICOLA DI BARI

La confraternita di San Nicola di Bari, la più antica in ordine di tempo, fu istituita, probabilmente, contemporaneamente alla costruzione della Chiesa nel secolo XIV. Organizzata secondo la stesura di uno statuto molto rudimentale, i suoi fini erano: l’elevazione religiosa dei confrati, il culto, la cura, la manutenzione, il decoro della Chiesa, il controllo del comportamento degli adepti, il rispetto delle leggi dell’organizzazione interna, abbastanza democratica per quei tempi, l’amministrazione dei suoi possedimenti.
Anticamente la chiesa possedeva diversi terreni adibiti a pascolo degli animali e, per questo motivo, concessi in affitto ai pastori che pagavano una modesta somma annuale. Possiede ancora questi terreni. Notevole era l’elargizione di elemosine a persone o a famiglie in stato di indigenza. La confraternita era gestita da un “governatore”, uno di loro era mio nonno Vincenzo Seminara e, successivamente, da mio padre Giovanni, che lo è stato per diversi anni, ai tempi di padre Antonino Saitta e di don Filadelfio Longo,

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collaborato da due congiunti di man destra e di man sinistra, dal procuratore, che fungeva anche da cassiere, e dal segretario. Purtroppo la confraternita non esiste più; rimane, come testimonianza della sua realtà, solo il quadro con l’elenco dei confrati esposto nella sacrestia della chiesa.

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Nov 10, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL GINKGO BILOBA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL GINKGO BILOBA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Visitando la villa comunale “G. Garibaldi”, come è mia consuetudine ogni qual volta ritorno a Mistretta, la mia attenzione è stata attratta dalla pianta di Ginkgo biloba che, questo mese di Novembre, è abbondante di foglie.

 

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Il Ginkgo biloba, il cui nome scientifico è “Salisburya adiantifolia o Pterophyllus salisburiensis”, è una gimnosperma appartenente alla famiglia delle Ginkgoaceae.

Alle gimnosperme appartengono le conifere, che non hanno nulla in comune con il Ginkgo, che non ha foglie aghiformi, non è sempre verde e produce un frutto carnoso, non uno strobilo, e i semi sono nudi e non protetti dall’ovario.

La pianta è originaria probabilmente dalla parte interna della Cina dove sono stati rinvenuti fossili che risalgono all’era mesozoica e considerata per molto tempo estinta allo stato spontaneo. Recentemente sembra che siano state scoperte almeno due stazioni relitte di piante nella provincia dello Zhejiang, in una piccola zona nei pressi di Nanchino, una città della Repubblica popolare cinese. Non tutti i botanici concordano, però, sul fatto che queste stazioni siano davvero spontanee perché la Ginkgo è stata estesamente coltivata per millenni dai monaci cinesi. Il botanico e chirurgo tedesco Engelbert Kaempfer fu il primo uomo occidentale a vedere tre secoli fa, in Giappone, questa pianta così speciale.

Il nome “Ginkgo“, attribuito a lui, pare derivi da una parola cinese che significa “piedi di papera”, con riferimento alla forma delle foglie. Linneo, per le caratteristiche della foglia, completò poi la specie con il termine “biloba”. In realtà, il nome del genere “Ginkgo” deriva dalla traduzione del giapponese “Yin”, “argento” e “ kyo ” “albicocca”, cioè “albicocca d’argento” perché i semi, a maturazione, sembrano appunto delle albicocche argentate. Il nome della specie “biloba deriva dal latino “bis”, “due” e “obus“, “lobo” per la forma bilobata della foglia divisa, appunto, in due lobi.

Ginkgo” è, però, un nome inesatto causato da un errore di stampa riportato da Linneo in “Mantissa plantarum, 1767”, al posto di “Ginkyo“, che è la pronuncia originale del nome giapponese. Il nome “Ginkgo” è ormai fissato dalle regole della nomenclatura botanica. Esso è chiamato anche “albero della vita” per la sua straordinaria resistenza a condizioni ambientali estreme ed è uno dei più longevi dal momento che può raggiungere i 1000 anni d’età.

Il Ginkgo biloba è una splendida pianta, che Darwin definì “fossile vivente“, presente nell’era in cui sulla Terra si trovavano solo felci ed equiseti. La sua comparsa risale a circa 250 milioni di anni fa, alla fine del permiano, ultimo periodo del paleozoico superiore. Durante l’era mesozoica le piante di Ginkgo formavano la vegetazione dominante ed erano discretamente evolute. In questo periodo geologico il Ginkgo biloba ebbe un momento di grande espansione diffondendosi anche in Europa e in Italia. Nel triassico avvennero grandi mutazioni ed estinzioni. A causa dei cambiamenti climatici, la pianta si è estinta ovunque circa 2.000.000 di anni fa resistendo in Cina e in altre piccole zone dell’Asia, del Giappone e della Corea. Il più grande e forse il più vecchio albero si trova in Giappone, nel giardino del tempio buddista di Zempukuji. Una targa afferma che risale al 1232 ed ha la circonferenza del tronco di 9 metri e l’altezza di 20 metri. Un esemplare di Ginkgo ancora esistente sarebbe l’unico albero sopravvissuto alle catastrofiche radiazioni nucleari prodotte dalla bomba atomica esplosa sulla città di Hiroshima. A soli 800 metri di distanza dal luogo dello scoppio, nella primavera successiva, da un albero, apparentemente carbonizzato, sono spuntati nuovi germogli. Ancora oggi quell’albero è ammirato e amato.

Il Ginkgo è stato coltivato da sempre nei giardini dei templi e dei luoghi di culto in Cina. In Giappone è venerato come “albero sacro” perché si riteneva che proteggesse dai cattivi spiriti e perché rappresentava il simbolo “della coincidenza tra gli opposti e dell’immutabilità delle cose”. Per questo motivo si ritiene che la specie sia stata preservata dall’estinzione grazie alla coltivazione praticata dai monaci cinesi per abbellire i loro luoghi religiosi.

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La prima pianta di Ginkgo biloba in Europa fu introdotta nel giardino botanico di Utrecht attorno al 1750; in Italia comparve più tardi, nel 1791, nell’orto botanico di Padova ed è tuttora vivente. Il Ginkgo biloba si trova un po’ ovunque, soprattutto nelle ville antiche e negli orti botanici. Le sue caratteristiche di resistenza allo smog hanno fatto sì che anche in Sicilia gli enti comunali ne hanno favorito l’impianto in quelle zone ove nessun altro albero potrebbe resistere all’inquinamento. Per noi occidentali è una comune pianta ornamentale, presente in molti dei nostri giardini pubblici. C’è anche nella villa comunale di Mistretta.

Il Ginkgo biloba è un alberello molto longevo e di forte vigore anche in età matura, ma è lento a crescere nei primi anni di vita. Presenta un portamentoslanciato, piramidale nelle giovani piante, conico e, in seguito, espanso, negli esemplari più vecchi e può superare i 30 metri d’altezza. Il tronco è ricoperto dalla corteccia liscia e di colore grigio argenteo nelle piante giovani, che diventa marrone scuro negli esemplari maturi e presenta delle costolature suberose evidenti. Lungo il fusto, i rami sono radi nella pianta giovane, sono più fitti nella pianta adulta. I rami principali, i macroblasti, portano numerosi rametti più corti, i brachiblasti, sui quali s’inseriscono le foglie e le strutture fertili. Le foglie, caduche, bilobate, a forma di ventaglio, percorse da un numero elevato di nervature coriacee, di colore verde chiaro, con il margine superiore intero ondulato, sono portate da un lungo picciolo e crescono alterne sui rami vecchi e a mazzetti sui nuovi germogli. In autunno assumono una bellissima colorazione gialla molto decorativa.

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 La foglia del Ginkgo è molto caratteristica: sembra divisa ma, in realtà, resta unica perché i due lobi rimangono uniti dalla parte superiore del picciolo. Grazie a questa caratteristica delle foglie, che sembra tendano a dividersi, anche se legate in maniera indissolubile, l’antica filosofia cinese attribuì loro il principio dello Yin e dello Yang, la legge secondo la quale “la realtà è regolata dagli opposti”. Quest’a immagine di divisione ed unità della foglia del Ginkgo ha ispirato a Goethe la poesia:

GINKGO BILOBA

Dieses Baums Blatt, der von Osten
Meinem Garten anvertraut,
Gibt geheimen Sinn zu kosten,
Wie’s den Wissenden erbaut.

Ist es ein lebendig Wesen,
Das sich in sich selbst getrennt?
Sind es zwei, die sich erlesen,
Dasz man sie als Eines kennt?

Solche Frage zu erwidern,
Fand ich wohl den rechten Sinn:
Fühlst du nicht an meinen Liedern
,
Dasz ich Eins und doppelt bin?


                         GINKGO BILOBA


Le foglie di quest’albero dall’Oriente

venuto a ornare il mio giardino,
celano un senso arcano
che il saggio sa capire.

C’è in esso una creatura,
che da sola si spezza,
O son due che per scelta voglion,
essere una sola?

Per chiarire il mistero,
ho trovato la chiave:
non senti nel mio canto ch’io,
pur essendo uno anche duplice sono?

Johann Wolfgang Goethe(1749-1832). 

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 Goethe ammirò la pianta di Ginkgo nel parco del castello di Heidelberg, durante un suo soggiorno, ospite di Marianne von Willemer. Le aveva portato la foglia di Ginkgo e a lei f dedicò la poesia con le due foglie di Ginkgo incrociate e incollate da lui stesso sulla carta. Era il 15 settembre del 1815. In quelle sere si discuteva sulla particolarità della forma di questa foglia e sul tema della polarità e dell’unificazione esistente in Natura, concetto cardine negli interessi naturalistici e botanici del poeta.

Il Ginkgo è una pianta dioica, cioè a sessi separati, con fiori molti primitivi, maschili e femminili, portati su piante diverse, a maturità sessuale abbastanza differita dato che solo dopo una trentina di anni la pianta matura gli apparati riproduttivi. Le infiorescenze maschili, I microsporofilli, sono formate da amenti lunghi pochi centimetri, con stami con 3 – 7 sacche polliniche. Le infiorescenze femminili, i macrosporofilli,  sono portate all’ascella delle brattee. Sono costituite da due ovuli disposti uno per lato all’apice del lungo peduncolo comune.

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 La fioritura avviene in primavera, contemporaneamente alla comparsa delle foglie e, fino a quando, di solito verso il ventesimo anno d’età, non produce fiori non è possibile distinguere la pianta maschile da quella femminile. L’impollinazione anemofila avviene in primavera. La fecondazione, ritardata di 4-6 mesi, avviene a terra all’inizio dell’autunno quando gli ovuli sono già caduti dalla pianta madre e hanno quasi raggiunto le dimensioni definitive. Le cellule maschili, ciliate e mobili, raggiungono gli ovuli attraverso una pellicola d’acqua ma, mentre un ovulo abortisce, l’altro cade non ancora maturo. Le piante femminili, a differenza della maggior parte delle Gimnosperme, non producono coni propriamente detti, ma strutture a forma di grande albicocca.

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Il seme, lungo anche 2 centimetri, è un falso frutto simile ad una drupa. E’ formato da un involucro esterno liscio e carnoso, di colore giallo-verdastro, che emana un odore sgradevole per la produzione di acido butirrico, e da uno strato interno legnoso. La parte esterna, al contatto con la pelle, provoca delle dermatiti dovute all’acido ginkgolico e ad un principio cristallino, il bilobolo. L’embrione possiede due cotiledoni e un abbondante endosperma amilaceo. Germina nella primavera successiva.

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 La moltiplicazione avviene per seme in primavera, per talea in primavera e in autunno e anche per margotta. I rami laterali di vecchi esemplari possono accrescersi verso il basso e radicare venendo a contatto con il terreno. L’embrione del seme abbrustolito è commestibile e i cinesi, che ne sono ghiotti, li hanno inseriti nella loro tradizionale arte culinaria. E’ molto amaro, ma loro amano questo sapore. I semi, in Cina chiamati “pa-kwo”, sono venduti nei mercati orientali come antielmintici. Contengono un olio dolce, dal sapore gradevole, pectine, acido citrico, glucosio. In Cina anche i frutti, ricchi di amidi, chiamati “ginan”, sono consumati, sia cotti sia crudi, soprattutto durante i matrimoni.  In Giappone i semi di Ginkgo sono aggiunti a molti piatti come contorno perché molto nutrienti.

Anche se la pianta di Ginkgo è diffusa come albero ornamentale nei giardini pubblici, nei parchi e nei viali cittadini per il suo portamento elegante e per la sua straordinaria colorazione gialla-dorata autunnale, tuttavia, a causa della notevole produzione di frutti maleodoranti degli individui femminili preferibilmente è coltivata la pianta maschio.

Il Ginkgo biloba è una specie eliofila, che predilige una posizione soleggiata e un clima fresco, ma può adattarsi a molteplici condizioni crescendo sempre in maniera rigogliosa ed equilibrata. Non ha particolari esigenze pedologiche, vegeta meglio in terreni acidi e non asfittici. Sopporta le basse temperature ed è stato dimostrato che non subisce danni anche a temperatura di 35 °C sotto lo zero. Generalmente si accontenta dell’acqua del cielo. Questo albero è un grande mistero botanico: infatti non si ammala mai. E’ immune alle malattie parassitarie pericolose, è resistente ai virus, ai funghi e soprattutto all’inquinamento atmosferico. La pianta mal sopporta la potatura: i rami che si accorciano seccano.

La pianta di Ginkgo è coltivata industrialmente in Europa, in Giappone, in Corea e negli Stati Uniti perché impiegata abbondantemente per uso terapeutico.Nell’antichità il Ginkgo è stato inserito nel primo importante erbario cinese. Generalmente, le preparazioni a base di Ginkgo biloba contengono unicamente gli estratti delle foglie, spesso purificati dagli acidi ginkgolici, agenti potenzialmente allergenici e tossici, efficaci sulla circolazione sanguigna e soprattutto sull’attività cerebrale e polmonare. Esistono numerosi documenti riguardanti l’azione degli estratti di foglie di Ginkgo tramandati da un imperatore il quale 2800 anni prima di Cristo consigliava l’utilizzo della pianta di Ginkgo biloba nel trattamento delle vertigini e delle turbe di memoria delle persone anziane. Probabilmente, dalle foglie si può trovare utilità nel rallentare il morbo d’Alzhaimer, però aumenta il rischio d’ictus. Le foglie, lavate in acqua e conservate in alcool, sono utili per produrre un medicamento efficace contro le ecchimosi e le bruciature poichè hanno funzione cicatrizzante. Dalle foglie si ricavano anche flavonoidi utili per le flebiti e le emorroidi. Gli stessi flavonoidi sono molto usati nell’industria cosmetica per ripristinare il giusto equilibrio lipidico nelle pelli secche e screpolate. Oltre a queste sostanze “buone” contenute nelle foglie e nei frutti della pianta, si trovano anche sostanze “cattive”, gli acidi ginkolici, responsabili di effetti collaterali e di reazioni allergiche, pertanto l’autoprescrizione medica è assolutamente da evitare. L’ingestione dei frutti e dei semi provoca reazioni allergiche e disturbi degli apparati: digerente, respiratorio e circolatorio. I semi, in modo particolare, possono provocare gravi intossicazioni alimentari con comparsa di convulsioni, di perdita di coscienza fino ad essere addirittura mortali. I monaci buddisti piantavano il Ginkgo biloba accanto al tè, gli antichi cinesi e giapponesi consumavano i semi tostati come rimedio alla cattiva digestione, i guaritori indiani lo associavano alla longevità usandolo come ingrediente del “soma“, “l’elisir di lunga vita”. In Cina i saggi assicurano che camminare sotto il Ginkgo allunghi la vita.Le foglie del Ginkgo, nascoste fra le pagine dei libri, pare siano utili per tenere lontani i parassiti della carta. Il legno di Ginkgo, di colore giallastro, molto fragile e di bassa qualità, è usato per la costruzione di mobili e per lavori di tornio e d’intaglio.

 

Nov 5, 2015 - Senza categoria    Comments Off on TEMPO D’ AUTUNNO

TEMPO D’ AUTUNNO

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Foto di Filippo Giordano

La poesia “Tempo d’autunno

È tratta dal libro “Sintiti Sintiti” , del prof. Carmelo De Caro, pubblicato postumo dalla moglie Nella Seminara

TEMPO D’ AUTUNNO

Tempo d’autunno,

Tempo di foglie gialle

Che, come ballerine,

volteggiano nell’aria,

animate dal fremito dolce

del vento della sera.

Vento d’autunno,

che corri per le vie

con ali di velluto,

baciando la sua pazza chioma bruna,

col tuo alito fresco di verde muschio

e di terra bagnata.

Pioggia d’autunno,

che cadi lentamente

nell’arsa terra brulla,

che canti correndo giù, giù

per la grondaia, empiendo di suoni

il pacato silenzio della notte.

Amore d’autunno,

che come viva fiamma

riscaldi i nostri cuori,

riaccendendo l’essenza della vita,

tu, te ne andrai così,

come l’autunno.

            Settembre 1962 

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Il momento della sua laurea in Scienze Naturali.

Relatore il prof. Riverberi, Accademico dei Lincei.

Nov 2, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL MONUMENTO AI CADUTI – LA FESTA DELL’UNITA NAZIONALE E DELLE FORZE ARMATE IL QUATTRO NOVEMBRE A MISTRETTA

IL MONUMENTO AI CADUTI – LA FESTA DELL’UNITA NAZIONALE E DELLE FORZE ARMATE IL QUATTRO NOVEMBRE A MISTRETTA

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Nel 1919 l’Amministrazione Comunale di Mistretta, su suggerimento della Società Operaia, deliberò la realizzazione di un monumento per onorare i mistrettesi caduti durante la prima guerra mondiale.
La sua costruzione ebbe inizio nel 1922 ma l’importo stanziato di 3000 lire fu sufficiente per la creazione solo della base e non per completare tutta l’opera. I lavori, pertanto, furono interrotti e ripresi dopo un lungo periodo di cinque anni. Per completare l’opera non fu sufficiente neanche la somma di 14.000 mila lire inviata dagli emigrati amastratini in America spinti dal forte senso dell’amor patrio.
Il commendatore e ingegner Vincenzo Vinci intanto si adoperò per realizzare il bozzetto del gruppo statuario che si sarebbe dovuto collocare sopra il basamento. Mancava la moneta!
Nel 1930 il podestà Gaetano Paternò, sollecitato dai cittadini per completare la memorabile opera, promosse la raccolta di altri fondi e affidò l’incarico al cav. Antonino Ugo considerato uno dei migliori scultori italiani di allora. Il cav. Antonino Ugo terminò il monumento con la realizzazione del gruppo statuario in bronzo che fu collocato sopra il basamento di pietra arenaria sul quale fu impressa la dedica: MISTRETTA AI SUOI EROI.

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La scultura bronzea simboleggia forse la Patria togata che ammonisce l’armato suo figlio.  Però non può essere la Patria togata, che non può avere la barba,  ma sicuramente simboleggia Dio che indica il cielo al figlio morente.

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 Sulle lapidi sono scritti i nomi dei caduti in guerra.

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Il monumento, inaugurato il 27 agosto del 1934, è stato collocato nella Piazza Vittorio Veneto.

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Il monumento è circondato, per essere protetto, da una recinzione in ferro battuto e abbellito da alcuni esemplari di Cupressocyparis leylandii.

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 Il 4 novembre di ogni anno il corteo delle autorità civili e militari dal Palazzo di Città si avvia al monumento per commemorare la festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate.

https://www.youtube.com/watch?v=P4QYx8figzY&t=104s

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Alcuni soci dell’Associazione Nazionale Reduci di Guerra depongono la corona di alloro, simbolo di vittoria e di libertà, ai piedi del monumento ai caduti.

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Quindi, il prof. Francesco Cuva, già presente dell’Associazione Nazionale Reduci di Guerra, legge il suo discorso richiamando alla memoria il significato della guerra e il sacrificio dei tanti figli, fratelli, mariti caduti per mano nemica. Era il 4 novembre del 2012.

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La folla ascolta attenta, commossa, in silenzio.

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Il complesso bandistico locale intona l’inno di Mameli.

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Le fotografie sono state estratte dal mio archivio storico e documentano l’anniversario  del 4 novembre del 2012. Oggi sono cambiati i componenti dell’Amministrazione Comunale di Mistretta e l’aspetto della Piazza Vittorio Veneto.
Ogni anno il 2 giugno, data del referendum istituzionale del 1946, ricorre la festa della Repubblica Italiana, uno dei simboli patri. E’ una giornata celebrativa nazionale italiana istituita per ricordare la nascita della Repubblica Italiana.
La celebrazione principale avviene a Roma.
Anche a Mistretta il sindaco, avv. Liborio Porracciolo, i componenti dell’Amministrazione Comunale, l’Arciprete, mons. Michele Placido Giordano, altre autorità civili, militari e religiose e tanta gente comune si sono recati in piazza Vittorio Veneto per depositare la corona d’alloro davanti al monumento dei Caduti in guerra.
La bellissima Phoenix canariensis, che adornava il terrazzino dell’archivio parrocchiale della parrocchia di Santa Lucia, è stata aggredita dal Rhynchophorus ferrugineus, il temibile Punteruolo rosso, per cui è stato necessario abbatterla.

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Oct 25, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL CIMITERO MONUMENTALE DI MISTRETTA

IL CIMITERO MONUMENTALE DI MISTRETTA

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Ugo Foscolo, nel verso de “I Sepolcri” “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro”?, canta il dolore provocato dalla morte delle persone care. Non continuerà a vivere l’Uomo, idealmente sottoterra, quando non esisterà più per lui la bellezza armoniosa dell’universo, se potrà risvegliare nei suoi cari l’illusione che egli vive ancora? Una lapide ricorda il nome e un albero di Cipresso consola le ceneri con le sue confortevoli ombre.
I cipressi sono i compagni dei defunti dentro i cimiteri. Il cipresso è la pianta “del silenzio, del raccoglimento, della tensione spirituale”.
Non è l’albero che rattrista, anzi è l’albero che conforta.

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Il culto dei morti è molto seguito dal popolo dei credenti cristiani. Andare al cimitero il 2 di Novembre, giorno della commemorazione dei defunti, è un dovere morale e affettivo molto sentito dai parenti e dagli amici che vanno a trovare i loro cari estinti. E’ come ritrovare persone che si sono allontanate per un lunghissimo tempo.
A Mistretta per otto giorni di seguito, definita “l’Ottava ri muorti”, la gente comune, le associazioni, le confraternite si recano al cimitero per la visita ai defunti e per partecipare alle Sante Messe celebrate dai sacerdoti nelle varie cappelle dei sodalizi.
Per la commemorazione dei defunti, giorno 2 Novembre 2018, Mons. Michele Placido Giordano, Padre Giovanni Lapin, Padre Massimiliano Rondinella e il ministrante Paolo Trincavelli hanno celebrato la Santa Messa all’interno del cimitero monumentale di Mistretta.

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La prima cappella gentilizia che si nota varcando la soglia del cimitero è quella della famiglia Pasquale Salamone.
E’ grande, maestosa.
Sembra il palazzo della residenza estiva dei suoi occupanti.

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 Il Cimitero monumentale di Mistretta nel suo insieme è un’opera di grande pregio architettonico e artistico dove si possono ammirare cappelle tombali e monumenti in pietra locale, in marmo, in bronzo. Fu costruito, adiacente al Santuario della Madonna della Luce, su progetto dell’architetto Giambattista Basile, collaborato dal figlio Ernesto, su delibera del Comune del 24 ottobre del 1874.
Tra la fine del’ 800 e gli inizi del’ 900 i due artisti lasciarono i segni della loro presenza anche a Mistretta importando nuove idee di carattere architettonico. Ne è un esempio il fastoso monumento sepolcrale della famiglia Lipari-Tasca dalla struttura di una moschea araba.

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 La famiglia Lipari-Tasca, nel costruire la moschea, probabilmente si è ispirata al detto di Maometto secondo il quale “se uno costruisce una moschea, sia pure piccola come la buca che un uccello scava nel terreno per la cova, Allah lo ricompensa poi con una dimora in Paradiso”.
Motivi floreali in pietra e in ferro, segni distintivi dello stile liberty portato a Mistretta proprio dai Basile padre e figlio e che caratterizzarono l’800 palermitano, sono rappresentati nelle aperture di questo monumento. Gli intrecciati motivi geometrici, i decori, secondo i canoni dell’arte musulmana, simboleggiano il dissolversi della materia terrena e l’elevarsi all’eterno e all’infinito.
In bella vista c’è lo stemma di famiglia.

5 LIPARI tasca okTuttavia, all’interno del cimitero le opere funerarie rievocano stili di diverse epoche perché costruite in tempi diversi.
Le pregevoli cappelle gentilizie, l’una adiacente all’altra lungo il viale principale,

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 appartengono alle famiglie dell’antica all’aristocrazia di Mistretta: alla famiglia Baiardi,

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  alla famiglia Giuseppe Salamone,

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alle famiglie Salamone-Tita, dove sporgono nel prospetto lo stemma e la corona regale,

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alla famiglia Placido Salamone. Carico di significato è l’angelo con le ali aperte, come se volesse volare per abbracciare il Creatore, stringendo col braccio sinistro la croce, simbolo delle terrene umane sofferenze,

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alla famiglia Ortoleva,

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 alla famiglia Allegra,

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 alla famiglia Bettino Salamone,

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 alla famiglia Gioacchino Salamone.

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 Oltre alle cappelle gentilizie il cimitero monumentale di Mistretta ospita molti altri monumenti, colonne sepolcrale e lapidi di uomini illustri della società amastratina. Appartengono ai signori:
a Bartolotta,

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 a Giuseppe Di Salvo Salamone,

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 a Marianna Parlato, vedova Nigrelli,

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 a Giuseppe Giordano Longo,

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a Liboria Di Salvo nata Lo Iacono, la mamma che esce dal mondo terreno lasciando due angioletti che, non volendosi staccare dal suo affetto,  si aggrappano alle sue vesti, ma impotenti tutti contro la volontà divina.

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al cav. Antonio Cialente

Cav. Antonio Cialente

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alla famiglia Musco

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a Giovanni Santangelo,

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a Giovanni Giaconia.

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Nella tomba di Giovanni Giaconia, l’Angelo di bronzo, attribuito ad Ernesto Basile, dalle forme del corpo proporzionate, armoniose e pure, denota un distacco assoluto dal mondo terreno e una composta serenità.
Ci sono molti altri monumenti di cui non si legge il nome dell’ospitato perché scolorito dal tempo:

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Il monumento al “Milite Ignoto”.
Il  Milite Ignoto era il signor Pace Orlando, caporale del X° reggimento bersaglieri, trombettiere, morto il 28/04/ 1914. Era di Cittaducale in provincia di Rieti.

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I resti mortali della scrittrice Maria Messina riposano qui.

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A Mistretta la scrittrice verista del primo Novecento visse per tanti anni e ambientò alcune novelle, racconti e romanzi.
Nei suoi lavori la Messina ha evidenziato l’oppressa condizione femminile, l’isolamento e la percezione di un destino avverso, a cui non ci si può ribellare, che non dà ai “vinti” la possibilità di evasione e di liberazione in una società dove le regole sono stabilite da sempre.
Grazie all’interessamento dell’Associazione “Progetto Mistretta”, al giornale “Il Centro Storico”, e al certosino lavoro di ricerca del pistoiese “mistrettese” Giorgio Giorgetti, che ora riposa accanto a Maria Messina, i resti mortali di Maria Messina, dal cimitero della Misericordia di Pistoia, sono stati trasferiti al cimitero di Mistretta dove la scrittrice riposa accanto alla sua amata madre Gaetana Traina.
Il merito di questo “ritorno” in patria si deve attribuire soprattutto al prof. Nino Testagrossa, presidente dell’associazione “Progetto Mistretta”, che ha messo in risalto il legame della Messina con quelli che lei stessa definì “i miei buoni mistrettesi”.
La cerimonia di accoglienza e di tumulazione dei resti mortali della scrittrice è avvenuta il 24 aprile del 2009.

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 Le due piccole casse, di Maria e della madre, sono state collocate nella zona alta del Cimitero monumentale di Mistretta, dietro ad un’antica colonna di marmo, a destra, subito dopo l’ingresso dal cancello principale.
Ada Negri, poiché relazionavano in forma epistolare, scrisse a Maria Messina: “Non ti conosco fisicamente, ma mi sembra di conoscere bene la tua grande anima”.
Anche molti di noi mistrettesi non l’abbiamo conosciuta personalmente, ma possiamo dire di conoscere bene la sua anima, i suoi messaggi, la sua arte narrativa.
Mons. Michele Giordano, durante una sua omelia, ha affermato che “ciò che resta di ognuno di noi è il messaggio delle nostre opere”.
Voglio mostrare anche la tomba di Maria Natalia, la mia maestra delle Scuole Elementari, soprannominata “a pizzulunina” perché soleva punire elargendo pizzicotti agli alunni indisciplinati, che ricordo con grande riconoscenza per avermi avviato alla conoscenza degli elementi basilari del sapere e per avermi trasmesso l’amore per lo studio.

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 Nel Cimitero monumentale di Mistretta sono presenti, inoltre, grandi edifici a più piani che accolgono i resti mortali dei soci dei sodalizi amastratini.
Possiedono la cripta: la Società Operaia di Mutuo Soccorso, la Società fra i Militari in Congedo, la Società Agricola di Mutuo Soccorso, la Società la Cerere, la Confraternita della Madonna del Carmine, la Confraternita della SS. Trinità, la cripta dei Sacerdoti.
Un ricordo particolare va a padre Giuseppe Sciacca, già preside del liceo “Alessandro Manzoni”  di Mistretta, scuola che ho frequentato, e a padre Antonino Saitta, persona molto vicina alla mia famiglia.

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L’artista amastratino Noè Marullo ha imposto la sua impronta anche nel cimitero monumentale. Rifacendosi al concetto del lavoro, nel tondo sopra la porta della cripta della Società Operaia di Mutuo Soccorso ha scolpito San Giuseppe con il Bambino in braccio. I lineamenti del volto di San Giuseppe sono morbidi, tranquilli e dimostrano una matura giovinezza.

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La cripta della Società fra i Militari in Congedo

Qui sono custoditi i resti mortali di mio padre Seminara Giovanni

e di mia madre Lorello Maria Grazia

la Cappella della Società Agricola di Mutuo Soccorso

Cappella della società La Cerere

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Cappella della confraternita di San Vincenzo

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cappella della confraternita della Madonna del Monte Carmelo

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RIPOSINO IN PACE!

 

 

Oct 19, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’ALBERELLO DEL PUNICA GRANATUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

L’ALBERELLO DEL PUNICA GRANATUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Nella mia campagna dl Licata l’alberello di Melograno ha maturato i suoi gustosi frutti.

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Le melagrane mature richiamano alla mia memoria dolci ricordi di una persona cara e indelebile: sono quelli di mia nonna Sebastiana Isabella, la mamma di mio padre Giovanni.
Era una donna poco alta, magra, religiosissima, silenziosa e quasi sempre con lo sguardo lontano, con la speranza di poter riabbracciare il figlio Peppino, purtroppo disperso in Russia durante la seconda guerra mondiale.
Mi raccontava che i gendarmi lo chiamarono fuori di casa e da allora non lo ha più rivisto.
Donava a tutti i suoi nipoti un amore grande, immenso.
Per la ricorrenza dei “morti” la melagrana era il frutto che, con la sua corona regale, troneggiava al centro del cestino di vimini, che lei, la nonna Sebastiana, preparava, uno per ciascun nipote, colmandolo di frutta secca: di noci, di nocciole, di mandorle, di fichi secchi, di castagne, di semi di pistacchio. Oggi lo stesso cestino è riempito dalla frutta martorana.
Nella tradizione mistrettese e siciliana in genere, l’usanza di regalare ai bambini, proprio il giorno dei morti, il cestino traboccante di frutta secca o di frutta martorana simboleggia il “ciclo biologico della Vita”.
La Natura la dona, la toglie, la ridà.
La scelta di tutti questi frutti raggruppati insieme testimonia lo stretto rapporto tra l’Uomo e la Natura, il bisogno di attribuire agli elementi vegetali, che la Madre Terra mette a disposizione, i valori fondamentali per la vita di ciascuno.

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L’albero di Melograno è una pianta antichissima, risalente al Pliocene inferiore, che produce un frutto oggi quasi dimenticato ma che, nel passato, ha goduto di grande notorietà perché considerato il frutto della “fertilità”.
Ogni popolo che ha conosciuto la melagrana, le ha attribuito un particolare significato simbolico.
Nell’Antico Testamento è citata come uno dei frutti della Terra Promessa.
I Fenici e i Cristiani attribuivano ad essa un valore religioso: il rosso della melagrana simboleggiava il “sangue dei martiri e la carità”.
Nell’arte copta l’albero del Melograno è simbolo di “resurrezione”.
Anche per i Romani, dove il Melograno giunse dopo la sconfitta di Cartagine, era il simbolo di “fecondità e di abbondanza” e le spose usavano ornare i loro capelli con i rami della pianta come segno di “buon augurio”.
Nella tradizione asiatica ancora oggi il frutto aperto simboleggia “abbondanza e buon auspicio”.

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Gli americani pensavano che bere il succo del frutto combattesse la sterilità.
Nel “linguaggio dei fiori“, comunque, prevale il significato di “abbondanza e di amore” per il colore acceso delle fioriture. Nell’Antico Egitto si utilizzavano i frutti nelle cerimonie funebri.
All’interno delle tombe egizie, nelle pitture, sono state rilevate testimonianze risalenti al 2500 a.C.
Nella necropoli di Tebe, nella Valle dei Re, il sarcofago del faraone Ramsete IV conteneva appunto i suoi frutti essiccati.
Le sue origini greche sono molto antiche.
In Grecia questa pianta era sacra a Giunone e a Venere.
Si racconta che la melagrana era il frutto che Paride offrì a Venere e che lei coltivò a Cipro.
Secondo il mito greco il Melograno nacque dal sangue di Dioniso che, catturato dai Titani, fu ridotto a brandelli.
Amore, fedeltà, prolificità, concordia, ricchezza” sono i numerosi e sorprendenti termini attribuiti all’albero di Melograno e soprattutto alla melagrana, il suo frutto, per il notevole numero di grani contenuti al suo interno e per il loro colore rosso vermiglio.
E’ citato nell’Odissea, nel giardino del re dei Feaci.
Il Melograno e la melagrana hanno notevolmente ispirato anche l’arte.
Giotto dipinse Cristo Crocefisso su un albero di Melograno.
La melagrana nel XV e nel XVI secolo è stata rappresentata frequentemente in sculture e in dipinti da bravissimi e famosissimi artisti.
Nel dipinto laMadonna della melagrana”, di Sandro Botticelli, la Madonna sorregge nella sua mano sinistra una melagrana come simbolo di “fecondità”. Anche il Bambinello appoggia sulla melagrana la sua paffuta manina.
Nell’iconografia medioevale e rinascimentale è proprio Gesù Bambino a reggere la melagrana alludendo alla nuova vita.
Nel Cantico dei Cantici, (4,1-3), nelle lodi alla bellezza della sposa, attraverso la metafora della melagrana, eletta a simbolo “dell’amore, della fecondità della Terra Promessa, della “fedeltà e della femminilità”, lo sposo, in rapimento poetico, canta le bellezze dell’amata sposa: “[…] Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna. Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo […]”, e nel (4,13): “ […] I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti […]”.
In Deuteronomio (7-9), nelle prove del deserto è scritto: “ […] Perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato […] ”.
L’albero di Melograno, sotto la sua chioma, ha ospitato Saul come si legge nel primo libro di Samuele cap.14: “ […] Un giorno Giònata, figlio di Saul, disse al suo scudiero: <Su vieni, portiamoci fino all’appostamento dei Filistei che sta qui di fronte>. Ma non disse nulla a suo padre. Saul se ne stava al limitare di Gàbaa sotto il melograno che si trova in Migròn; la sua gente era di circa seicento uomini […]”.
Le Melagrane sono anche il simbolo della “benedizione divina”; sono ricamate sulla veste per le funzioni sacre di Aronne e sono scolpite sui capitelli di bronzo che sormontavano le colonne all’entrata del Tempio di Salomone.
Nella Bibbia, nella reggia di Salomone, (1Re 7,40-42) è scritto: ” […] Chiram preparò inoltre caldaie, palette e vassoi.
E terminò tutte le commissioni del re Salomone per il Tempio del Signore, cioè le due colonne, i globi dei capitelli che erano sopra le colonne, i due reticolati per coprire i due globi dei capitelli che erano sopra le colonne, le quattrocento melagrane sui due reticolati, due file di melagrane per ciascun reticolato
[…] “.
Nel Cristianesimo medievale la melagrana ha assunto un significato ancora più importante: ha rappresentato la Chiesa, simbolo di “concordia della società e di conservazione dell’unione dei popoli” che, paragonati ai grani, stretti sotto la membrana, pur essendo profondamente diversi per cultura e per tradizione, erano armonicamente riuniti sotto la stessa fede.
La melagrana aperta è invece emblema “dell’amore misericordioso di Cristo”.
Per gli ebrei era simbolo di “amicizia, di fratellanza, di abbondanza, di prosperità”.
In ebraico “rimonim” vuol dire Melograno perché i puntali del tempio di Gerusalemme hanno la forma di Melograno.
In senso più laico, la melagrana fu anche considerata simbolo di “desiderio, di passione, di prolificità”.
In Turchia, la giovane sposa, gettando a terra una melagrana matura, dal numero di semi che fuoriescono dal frutto che si apre urtando contro il suolo, conoscerebbe in anticipo quanti figli potrebbe partorire.
In Dalmazia lo sposo trasferisce la pianta di Melograno dal giardino del papà della sposa al suo podere come simbolo di “fecondità, di successo in amore e di prole numerosa”.
Il nome scientifico del Melograno è “Punica granatum“.
Il nome del genere “Punica” dal latino “punicum”, “persiano”, è stato attribuito al Melograno dal botanico Linneo convinto della sua origine africana.
Il nome della specie “granatum” per i tanti “semi, grani” che possiede il suo frutto, la melagrana.
Dai Romani l’albero di Melograno era chiamato “Mela punica”, dal latino “malus”, “mela” per la sua forma, e “punicum” perché pensavano che provenisse da Cartagine e lo ritenevano il frutto più gustoso del Mediterraneo.
Plinio lo chiamava “
malum punicum”, ovvero mela cartaginese.
Il frutto, la melagrana, o mela granata, o balausta, deriva pure dal latino “malus granatum”.
Apprezzato dagli Egizi per le sue proprietà vermifughe, lo onoravano come sacro.
In realtà l’albero era originario dalle regioni del sud-ovest asiatico da dove ebbe una larga diffusione in tutta l’Africa settentrionale e, in particolare, nei paesi mediterranei, dalla Turchia alla Penisola Iberica.
Dal Marocco, i mercanti lo portarono in Europa, in Italia e in Spagna diffondendone la coltivazione.
La città di Granada, dominata dai Mori dal ’700, ha questo nome perché, eretta su tre colli, somiglia ad una melagrana aperta che è divenuta l’emblema del suo stemma.
In Italia è presente nelle regioni meridionali e insulari sia spontaneo sia coltivato, soprattutto a scopo ornamentale.
Un vecchio esemplare di Melograno già dal 1867 abita nel Piazzale Sud dei Giardini Hanbury a Ventimiglia.

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Appartenente alla famiglia delle Punicaceae, il Melograno è una pianta rustica, piccola, ma, da adulta, raggiunge circa i tre metri d’altezza, perenne, molto longeva, anche se la sua crescita è piuttosto lenta e modesta.
Si presenta con portamento arbustivo, cespuglioso, molto ramificato, con una chioma irregolare ed espansa, con i rami rigidi, esili e un poco spinosi.
Nei rami più giovani la corteccia è rossiccia, liscia e molto rugosa, mentre nei rami vecchi e nel tronco è grigio-cinerea e screpolata.
Il fusto diventa sinuoso e attorcigliato negli alberelli annosi.
Le foglie sono semplici, piccole, caduche, alterne od opposte, di forma ovale, di colore verde lucente sulla pagina superiore, ma che muta con le stagioni: sono rosse nei giovani germogli e, successivamente, diventano di colore verde chiaro.
Cominciano a spuntare in primavera inoltrata e, prima di cadere, nel tardo autunno, assumono una colorazione giallo-dorata.
I fiori, ermafroditi, solitari, splendidi, hanno la corolla tubulosa, a campanella, formata da 5-8 petali, di colore rosso vermiglio, che racchiude le antere gialle portatrici di polline, goloso premio per gli insetti impollinatori.
La fioritura si estende dalla primavera fino all’inizio dell’estate e i fiori sbocciano all’estremità dei rami di un anno o sui dardi, isolati o riuniti in gruppi di tre.

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La pianta di Melograno comincia a fruttificare dopo 4 anni di età e raggiunge il massimo della sua produzione dopo circa trenta anni.
I frutti sono bacche commestibili, tondeggianti, grosse quanto una mela.
Sono rivestiti da una buccia coriacea dapprima verdognola, poi di colore giallo-arancio e, a completa maturazione, di colore rosso-corallo con sfumature soffuse di rosso. All’interno, i diversi loculi, separati da una membrana sottile, contengono un numero imprecisato di semi di forma prismatica, sfaccettati, avvolti da una polpa rossa gradevolmente dolce-acidula, molto succosa, trasparente.
I frutti maturano tra settembre e ottobre, vanno raccolti in autunno e mangiati in inverno.
Per evitare che le piogge provochino la spaccatura dei frutti, è consigliabile raccoglierli con un leggero anticipo; infatti maturano completamente anche dopo essere stati staccati dalla pianta.

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La moltiplicazione avviene per seme, in primavera, ma non è molto usata poiché le nuove piantine difficilmente mantengono le caratteristiche genetiche della pianta madre. I metodi più diffusi per la propagazione del Melograno sono: la talea, che può essere ottenuta da parti di ramo o di radice, e anche attraverso i polloni radicati che crescono alla base del ceppo della pianta adulta, la margotta e la propaggine.
La pianta di Melograno è molto pollonifera quindi, se lasciata crescere in modo naturale, assume un portamento cespuglioso, mentre, adottando particolari potature, può essere modellata in maniera tale da assumere svariate forme.
Il fiore rosso vermiglio del Melograno in primavera sorride festosamente a Persefone che ritorna dalle viscere della terra.
Persefone, a Zeus, che le domandò insidiosamente se le fosse stata usata violenza, se durante la sua permanenza negli inferi avesse mangiato o bevuto qualcosa confessò che un giorno, tormentata dalla sete, ha ceduto alla tentazione di accettare da Ade un chicco di melograna.
Non sapeva che questo inganno le avrebbe impedito di rimanere per sempre sulla terra, nel regno della luce.
Avendo mangiato un chicco di una melograna nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno ed a trascorrere sei mesi di ogni anno con lo sposo Ade e gli altri sei mesi con la madre sulla terra.
Demetra, sua madre, decise che, nei mesi in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo ci sarebbe stato freddo, la Natura si sarebbe addormentata, erano le stagioni dell’autunno e dell’inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, erano le stagioni della primavera e dell’estate.
Ecco perché, in primavera, la terra si ricopre di fiori: perché Demetra festeggia il ritorno di Persefone sulla terra.
In autunno, quando si reca nel regno dei morti, spoglia la Natura di ogni colore e la riveste di uno squallido manto.
Demetra, grata, da allora regala agli uomini un prodotto particolare: il grano.
Attualmente il Melograno è coltivato nei giardini solo come pianta decorativa perchè di grande effetto ornamentale specialmente per il portamento di quegli esemplari con tronchi contorti, per il bel colore del fogliame e per la decoratività dei frutti maturi.
L’albero, ben inserito nella macchia mediterranea, predilige i luoghi caldi, con molto sole, ben ventilati.
E’ coltivato anche in zone relativamente fredde, ma mal sopporta temperature molto basse, anche se si è adattato a vivere in montagna dove è bene piantarlo in posizioni riparate.
Preferisce i terreni argillosi, sabbiosi, tendenzialmente calcarei e drenati per favorire il rapido assorbimento dell’acqua.
Teme le piogge frequenti e l’elevata umidità del terreno e dell’aria durante l’autunno perché danneggiano i frutti in corso di maturazione e fanno sì che la pianta si spogli piuttosto precocemente.
Le piante che vivono all’aperto sono poco esigenti e si accontentano dell’acqua piovana e di un po’ di fertilizzante.
Una buona luminosità è indispensabile per garantire una considerevole fruttificazione.
La pianta non richiede molte cure e difficilmente si ammala; raramente è colpita da parassiti animali quali gli Afidi e il Ragnetto rosso, un piccolissimo aracnide che vive a spese della pianta succhiandone la linfa, e da agenti patogeni di origine fungina quale il mal bianco.
La pianta colpita deperisce visibilmente fino a morire se non è aiutata a liberarsi dal parassita.
L’albero, prevalentemente, è esposto agli attacchi di parassiti durante la fioritura, pertanto, nella somministrazione dei prodotti insetticidi, occorre avere prudenza per non impedire l’impollinazione naturale.
Gli usi tradizionali del Melograno in farmacologia sono molto antichi: le prime indicazioni si trovano in un papiro del 1550
a. C. Già Ippocrate consigliava l’uso dell’involucro del frutto per combattere la dissenteria.
Sono adoperate quasi tutte le parti della pianta. I fiori e i frutti contengono tannini e mucillagini.
I tannini sono indicati in farmacopea per trattare casi di emorragie avendo proprietà astringenti. I fiori si usano in infuso contro la dissenteria.
Il tegumento dei semi è astringente e diuretico.
Il frutto possiede proprietà rinfrescanti, diuretiche e toniche, la membrana e le radici sono astringenti ed antidiarroiche.
Anche i popoli dell’antica Grecia ne apprezzavano le proprietà medicamentose di antielmintico, di antinfiammatorio, di antibatterico nelle infezioni della pelle e di astringente nei casi di diarrea cronica.
In Europa, nel secolo scorso, la corteccia della radice era molto usata per curare la tenia solium grazie ad una miscela di alcaloidi presenti ma, essendo velenosa, se ne consigliava l’uso con molta cautela.
Le sostanze antiossidanti ad alta concentrazione rendono gli estratti di Melograno adatti a contrastare lo stress dell’organismo, a vincere le malattie del sistema nervoso, a regolare le pulsazioni cardiache, a rallentare l’invecchiamento dei tessuti e della pelle, a combattere l’ipercolesterolemia e l’aterosclerosi.
La corteccia delle radici, inoltre, è utilizzata anche per preservare gli indumenti dalle tarme.
Recentemente il Melograno è stato apprezzato per il suo potenziale uso cosmetico, per preparati ad effetto idratante della pelle.
Con i fiori e con le bucce dei frutti si ottengono dei coloranti rossi utilizzati in conceria per ornare il cuoio marocchino.
L’uso alimentare della melagrana è antichissimo e nasce già con i Romani.
Il frutto, considerato anticamente il re dell’orto per la presenza della corona, è stato apprezzato maggiormente nel Medioevo.
Per essere ricco di vitamine e di diversi sali minerali è entrato nella lista degli ingredienti delle cucine orientali e in tutti quei territori la cui l’aridità non offre una grande varietà di prodotti ad alto valore nutritivo.
Attualmente, nella cucina italiana è scarsamente utilizzato.
Gli chef più creativi impiegano i semi nei dessert, nelle gelatine, nelle granite, nelle marmellate e il succo nella preparazione di sciroppi, di bibite e di prodotti di pasticceria.
Il succo era utilizzato per aromatizzare il vino, detto “vinum granatus“, offerto sporadicamente ai commensali in occasioni particolari soprattutto della vita di corte. Con i grani si prepara la deliziosa e dissetante granatina, tipica bevanda spagnola.
E’ un liquore ricco di virtù medicinali, ottimo da bere in qualsiasi momento della giornata, soprattutto dopo un buon pranzo, per le sue qualità digestive, ideale per chi vuole offrire ai graditi ospiti un liquore unico e per chi vuole ritrovare gli antichi sapori di un tempo.
I suoi ingredienti sono: alcool, acqua, zucchero, vino bianco, melagrane e buongusto.
Maometto, trecento anni dopo la distruzione dei templi pagani, raccomandava di consumare il succo di melagrane per cancellare l’invidia conservando la ferma tradizione legata all’utilizzo del Melograno come pianta sacra.
Il Melograno è l’albero a cui tendeva la mano Dante, il figlioletto di Giosuè Carducci morto all’età di tre anni nel 1870.
Così recita il poeta nella sua breve ma accorata poesia “Pianto antico”:

L’albero a cui tendevi

la pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,

 

nel muto orto solingo

rinverdì tutto or ora

e giugno lo ristora

di luce e di calor.

 

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,

 

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor”.


Non ci sono parole per esprimere il dolore di un padre per la perdita prematura del proprio figlio.
C’è solo il pianto, la manifestazione, individuale ed intima, di un’immensa sofferenza interna.

 

Oct 10, 2015 - Senza categoria    Comments Off on L’URGINEA MARITIMA CON LA SPIGA FIORALE BIANCA

L’URGINEA MARITIMA CON LA SPIGA FIORALE BIANCA

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A Mistretta, al mio paese, le feste religiose di San Sebastiano, della Madonna della Luce e dei Giganti, del SS. mo Ecce Homo, il concorso letterario di poesia dialettale “Enzo Romano”, il trittico amastratino dedicato a “Mario De Caro”, la mostra fotografica collettiva di: Giuseppe Ciccia, Ugo Maccà, Giusy Sirni, Emanuele Coronato, Francesca Scarcina, sul tema “San Vastianu, vui siti lu gran santu”, la mostra di pittura dell’artista Sebastiano Caracozzo, la presentazione del libro di poesie “Le sequenze del cuore” di Antonio Oieni, del libro di poesie “Ad un soffio da te” di Donatello Scieuzo, del libro di poesie “Versi Diversi” di Rino Scurria,  dei libri di Filippo Giordano “Riepitu” e “Valle delle cascate, il volto sconosciuto di Mistretta”, la Cover musicale al largo Cavour della cantante folk Cinzia Sciuto, che ha l’interpretato alcuni canti tratti dal repertorio di Rosa Balistreri, il concerto di Deborah Iurato, la cantante siciliana pop vincitrice della tredicesima edizione del talent di Maria De Filippi “Amici”, la sfilata di moda con l’elezione della “Miss sotto il castello” organizzata da Dino Porrazzo, il concerto in piazza San Felice della banda musicale di Mistretta, diretta dal maestro Girolamo Di Maria, il concerto degli allievi dell’Accademia fisarmonicistica, curato dal maestro Salvo La Ferrera, l’esibizione della Corale Monteverdi, diretta dal dott. Sebastiano Zingone, i molti complessi di musica, molto eterogenei, che si sono esibiti sul palco in piazza San Felice e lungo i marciapiedi della via Libertà, la passeggiata sotto le stelle nei quartieri della città di pietra, organizzata dall’Associazione Sicilia Antica con Santina Rondine, la passeggiata alla valle delle cascate dei Nebrodi, con Filippo Giordano, Daniela Dainotti, Nello Turco, Luigi Marinaro, le escursioni a cavallo, la sfilata dei carretti siciliani, le sagre del “cudduruni, della salsiccia, dei prodotti caseari”, la mostra cinofila, le gare sportive, il torneo di Calcio-Tennis, i giochi di abilità per bambini, lo Slide and Fly “Il mare a Mistretta”, il “XXI raduno internazionale del Folklore”, le commedie,  la gimkana,  gara organizzata dal comitato pro festa del SS.mo Ecce Homo, durante la quale i concorrenti hanno dovuto percorrere nel più breve tempo e con il minor numero di penalità un tracciato tortuoso e reso impegnativo da ostacoli, la visita quotidiana alla villa comunale “Giuseppe Garibaldi” e alla villa “Chalet”, la serata di premiazione dei vincitori partecipanti alla XII edizione del Concorso Letterario “Maria Messina”, promosso dall’Associazione culturale “Progetto Mistretta”, in collaborazione con l’ Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa”, e presentata, come ogni anno, nel Salone delle Feste del Circolo Unione, sono state tutte manifestazioni, insieme a tante altre ancora, inserite nel programma dell’estate mistrettese 2015 programmato dall’Amministrazione comunale, dalla Pro Loco, dalla Kermesse d’arte,  dai Comitati delle feste religiose, dalle varie Associazioni, che hanno vivacizzato il paese.
La movida, formata dalla gioventù amastratina, ha animato la vita notturna dalla mezzanotte fino alle prime luci dell’alba.
Inoltre hanno reso piacevole il mio lungo soggiorno a Mistretta la gradevole frescura del luogo, che mi ha evitato di patire l’afosa e insopportabile calura licatese, la tranquillità della vita del paese, la piacevole compagnia degli amici.
Due carissime persone hanno concluso la loro vita terrena durante l’estate appena trascorsa. Ciao Nellina! Ciao Maruzza! Vi ricorderò sempre.
La mia villeggiatura a Mistretta è terminata.
Sono ritornata a Licata, a casa mia! Festosamente sono stata accolta dalle mie vicine: Letizia, Cettina e Raffaella.
Lungo il viaggio di ritorno che da Mistretta conduce a Licata, percorrendo la statale 125, esattamente nelle vicinanze di Enna, ho notato alcune piante che ergevano verso l’alto la loro spiga fiorale.
Mi sono subito innamorata della loro bellezza ed eleganza!
Qual è il nome scientifico?
Ha soddisfatto la mia curiosità il mio amico, il prof. Giuseppe Bazan, docente di botanica all’Università di Palermo.
Carissimo Giuseppe ti ringrazio sempre per la tua grande disponibilità ad istruirmi soprattutto sulle piante spontanee e rare che amo immensamente.

E’ L’URGINEA MARITIMA.

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Urginea è un genere di piante ricco di 120 specie distribuite nel bacino del Mediterraneo.
Sono diffuse in Europa, in Asia, in Africa. In Italia vegetano in Liguria, in Toscana, nel Lazio, nel meridione e nelle isole.
 In Italia delle tre specie esistenti la più comune è l’Urginea maritima.
La pianta di Urginea maritima appartiene alla famiglia delle Gigliaceae secondo la “Guida Botanica d’Italia”.
Il nome del genere “Urginea” ricorda la tribù algerina Beni Urgin, dalla quale ha ereditato il nome, e dove fu raccolta e studiata per la prima volta nel 1834. Gli algerini la chiamano “Âsquyl”.
Il nome “maritima” della specie è stato attribuito perché allo stato spontaneo la pianta vegeta bene nella macchia mediterranea costiera.
Si allontana poco dal mare dove s’interra nella sabbia delle spiagge o fra le rocce. Molto raramente vegeta nelle zone interne.
Infatti, è stato un fenomeno inconsueto aver notato un insieme di piante di Urginea maritima nella zona interna della Sicilia, esattamente nei pressi di Enna.

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L’Urginea maritima volgarmente è chiamata “Squilla”, ma .possiede molti altri sinonimi: “Charybdis pancration, Charybdis maritima, Speta, Urginea scilla, Drimia maritima,  Cipolla marina, Scilla marittima”.
Etimologicamente il nome ”Scilla” deriva dal sostantivo greco “Σκύλλα”  “Scilla”, il feroce mitico mostro marino che abitava in una caverna rocciosa di rimpetto a Cariddi, più tardi localizzata nello stretto di Messina. Potrebbe derivare dal verbo “σκύλλω” “dilaniare, stracciare, tormentare” nome che Ippocrate utilizzò per segnalare la forte tossicità della pianta.
Secondo la classificazione botanica più recente il nome Urginea maritima è il sinonimo del corretto nome Drimia maritima (L.) Stearn (1978). Il Pignatti, nella Flora d’Italia, la riporta come Urginea maritima.
L’Urginea maritima è una pianta che si fa apprezzare per il portamento e per la bellezza dei suoi fiori. Si notano dei pennacchi bianchi che ondeggiano nel vento: è l’infiorescenza che spesso, nella cultura popolare, segna la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno.

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 L’Urginea maritima è una pianta erbacea perenne dotata di un grosso e pesante bulbo, rivestito da una tunica, dal diametro fra i 10 e i 20 cm e dal peso anche di 4 chilogrammi. Alla fine dell’estate emette uno scapo fiorifero eretto, alto anche due metri, di colore verde biancastro, che termina con un’infiorescenza a racemo denso formato da numerosi fiori, anche oltre 100, a forma stellare, peduncolati e formati da sei tepali ovali bianchi con una costola mediana marrone e con filamenti giallo-verdastri.
I fiori sono inodori. L’apertura dei fiori è graduale, inizia dal basso e prosegue verso l’alto. E’ molto decorativa. La punta dell’infiorescenza tende frequentemente ad incurvarsi a causa del peso dei fiori.

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 Le foglie, di colore verde scuro, molli e carnose, lanceolate, larghe circa 10 cm e lunghe fino a 50 cm, riunite in una rosetta basale, appaiono contemporaneamente o prima della fioritura creando una sorta di “culla” da cui emerge lo scapo fiorifero.
I fiori sbocciano alla fine dell’estate. Il frutto è una capsula membranosa ellittica triloculare contenente molti semi.
La moltiplicazione avviene per seme in primavera. Ancora più indicata è, in estate, la moltiplicazione per divisione dei bulbi.
La coltivazione dell’Urginea maritima è abbastanza facile sia in vaso, di dimensione sufficiente, sia in piena terra.
Il bulbo deve essere collocato a pochi centimetri dalla superficie e con la sua punta ricoperta solo da un sottile stato di terra. Il substrato deve essere sciolto, ricco di humus e molto permeabile, preferibilmente sabbioso, sia acido sia calcareo.
Gradisce una esposizione dove può ricevere la luce diretta del sole della mattina.
Durante il periodo del ciclo vegetativo, in cui sono presenti le foglie, è necessario somministrare un debole concime liquido per piante da fiore. Durante l’estate i bulbi non devono essere mai annaffiati.
L’Urginea maritima teme le basse temperature. Nelle zone fredde non riesce a sopravvivere, quindi è bene coltivare la pianta in grandi vasi che potranno essere trasportati in luoghi più caldi durante la stagione invernale. Essendo molto irritante per la pelle si consiglia di maneggiare la pianto usando i guanti.
La pianta era nota già nell’antichità con il nome di “Scilla”.
Questo nome è tuttora frequentemente usato in erboristeria.
Per le sue proprietà cardiotoniche e diuretiche la pianta era già usata come droga dagli egizi, dai greci e dagli arabi.
E’ stata descritta da Dioscoride, da Teofrasto, da Galeno che conoscevano già le stesse proprietà cardiotoniche, diuretiche ed espettoranti dell’Urginea.
Lo scienziato Plinio il Vecchio, I° secolo d. C., così scrisse:“In verità nobilissima è la scilla, sebbene nata per i medicamenti e per rinforzare l’aceto. Non c’è bulbo più grande e che abbia maggior forza. Due sono le varietà della medicinale, il maschio dalle foglie bianche, la femmina dalle foglie nere. Ma la terza varietà è un cibo gradevole, si chiama Epimedio, dalle foglie piccole e meno aspro. Hanno tutte molto seme; tuttavia crescono abbastanza celermente con i bulbilli nati attorno e, perché crescano, le foglie, che hanno ampie, si sotterrano; così i bulbilli ne assumono le sostanze nutritive. Nascono spontaneamente numerosissime nelle isole Baleari e ad Ibiza e per tutta la Spagna”.
Secondo Plinio esistono due varietà di Scilla. La varietà “alba”,chiamata anche “Scilla maschio”, di dimensioni minori; la varietà “rubra”, chiamata “Scilla femmina” il cui bulbo può arrivare a 3–4 kg. La differenziazione delle due varietà si riferisce al colore delle squame del bulbo.
Plinio ancora scrisse: “ Tra le scille con proprietà medicinali la bianca è il maschio, la nera la femmina; la più bianca è la migliore. Tolta a questa la scorza secca, fatta a fette la parte verde restante, si pongono queste su un panno a piccola distanza l’una dall’altra. Poi i pezzi seccati vengono sospesi in un orcio pieno di aceto quanto più forte possibile in modo che non tocchino nessuna parte del vaso. Si fa questo quarantotto giorni prima del solstizio. Poi il vaso otturato con gesso viene posto sotto le tegole perché ricevano il sole dell’intera giornata. Dopo quel numero di giorni si tira fuori il vaso, si estrae la scilla e si cola l’aceto. Questo rischiara molto la vista, è salutare per lo stomaco, per i dolori al fianco assunto a digiuno ogni due giorni. Ma è tanto forte che assumendolo con troppa avidità per un momento sembra che uno sia morto. Giova pure alle gengive e ai denti anche solo masticandola. Assunta con aceto e miele elimina le tenie e gli altri parassiti del corpo. Messa fresca sotto la lingua fa che gli idropici non sentano sete. Si cucina in diversi modi: in una pentola che si mette nel forno spalmata di grasso o di fango o a pezzi in tegame. E cruda viene seccata, poi si taglia a pezzi e si cuoce nell’aceto, quando serve contro i morsi dei serpenti. Quando è arrostita si netta e la sua parte centrale viene cotta di nuovo in acqua. Così cotta viene somministrata agli idropici, per stimolare la diuresi bevuta nella dose di tre oboli con miele ed aceto, allo stesso modo ai sofferenti di milza e ai sofferenti di stomaco, se non avvertono i sintomi dell’ulcera, che abbiano problemi di digestione, per le coliche, per i sofferenti di bile, per la tosse cronica che toglie il respiro. In soluzione con le foglie per quattro giorni combatte la scrofolosi, cotta in olio ad empiastro la forfora e le ulcere che emettono liquido. Si cuoce pure nel miele per cibo, soprattutto per favorire la digestione. Così purifica anche l’intestino. Cotta in olio e mista ad acquaragia sana le screpolature dei piedi. Il suo seme viene applicato con miele nel caso di dolore dei fianchi. Pitagora tramanda che la scilla sospesa anche sulla porta è efficace a tenere lontani i malefici”.
“L’aceto di Scilla quanto più è invecchiato tanto più è utile. Giova, oltre a quanto abbiamo detto, ai cibi inaciditi perché li rende più gradevoli al gusto; parimenti a quelli che vomitano a digiuno perché dà insensibilità alla gola e allo stomaco. Elimina l’alitosi, cicatrizza le gengive, rende saldi i denti, dà un colorito migliore. Gargarizzandolo elimina la durezza di orecchi e apre le vie dell’udito. In pari tempo acuisce la vista. È straordinariamente utile agli epilettici, ai biliosi, contro le vertigini, i restringimenti della matrice, gli urti, le cadute e gli ematomi che ne conseguono, i nervi ammalati, le malattie dei reni, da evitare in caso di ulcera”.
Nel XVIII secolo sono state scoperte le sue proprietà cardiotoniche simili a quelle della Digitalis purpurea, differendo da questa per l’azione più rapida, ma di più breve durata.
Oggi le sue attività principali sono: la cura delle forme lievi di insufficienza cardiaca e della ridotta funzionalità renale. L’uso come espettorante è ormai sorpassato.
Possono verificarsi casi di tossicità, di interazioni e di effetti secondari. I sintomi di intossicazione, anche alle dosi terapeutiche, si possono manifestare con nausea, vomito, disturbi gastrici, diarrea, polso irregolare.
E’ consigliabile attenersi rigorosamente alle indicazioni del medico e alle preparazioni standardizzate perché la concentrazione della droga può variare fortemente.
Storicamente, dunque, l’interesse per questa pianta si è maggiormente indirizzato verso le virtù medicinali più che per le sue caratteristiche ornamentali. La parte della pianta che interessa è il bulbo. Esso è raccolto in agosto, prima della fioritura, tagliato a fette e posto ad essiccare in un ambiente asciutto e ventilato.
Esso dimostra una notevole tossicità per l’uomo, specie se consumato fresco. I principi attivi contenuti nel bulbo sono: afoscillina, scillipicirina, scillitossina, scillina, poliosi, mucillagine, ossalato di calcio.
Curiosità: il bulbo è talvolta utilizzato come  topicida perché i topi, attirati dal suo odore aromatico, affondano i denti nella polpa e, rapidamente, muoiono.
E’ noto che i capi Bantù si procurano delle cicatrici con una pasta preparata da queste piante e usano le foglie come medicinali. Anche le foglie, come i bulbi, contengono sostanze tossiche per l’uomo e per gli animali.
In Sardegna l’Urginea maritima è considerata una pianta magica e spesso è coltivata come talismano come protezione dalle stregonerie.

Sep 26, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Francesco nacque ad Assisi il 26 settembre del 1182. Questa data è incerta. Probabilmente è nato a Dicembre del 1181 o a Settembre del 1182 da Pietro Bernardone dei Moriconi e da Giovanna Bourlemont, nobil donna d’origine provenzale, detta “Pica”, da “picca”, per il suo anormale desiderio di voler partorire il suo bambino, come Gesù Bambino, nella stalla allestita al piano terra della casa paterna ubicata nella piazza principale della città. Questa stalla, in seguito, fu detta “la stalletta” o “Oratorio di San Francesco piccolino”.
Francesco, che etimologicamente significa “libero”, nacque in una famiglia appartenente alla borghesia emergente della città di Assisi che, grazie all’attività del genitore, commerciante di stoffe, aveva conquistato ricchezza e benessere.
La madre, durante il battesimo, celebrato nella chiesa costruita in onore del patrono della città, il vescovo e martire Rufino, gli impose il nome Giovanni in ricordo di Giovanni Battista. Il padre, di ritorno da un lungo viaggio in Francia, aggiunse il nome Francesco, che prevarrà poi sul primo, per esaltare la Francia dove, avendo espletato là la sua attività di commercio, lo aveva fatto arricchire.
Francesco, quindi, è cresciuto tra gli agi della sua famiglia che, come tutti i ricchi assisani, godeva dei tanti privilegi imperiali concessi dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Nella sua casa, sita al centro della città, il papà Pietro di proposito aveva adattato a deposito e a negozio un magazzino  per lo stoccaggio e l’esposizione della pregiata merce che portava con i suoi frequenti viaggi in Provenza e che vendeva in tutto il territorio del Ducato di Spoleto a cui allora apparteneva anche la città di Assisi. Aveva pensato, infatti, di avviare il figlio alla sua stessa attività di commercio. Lo considerava un valido collaboratore e l’erede della famiglia.
Francesco, già alla giovane età di 14 anni, si dedicò all’attività di commercio. Dopo aver condotto una vita dissoluta tra le liete brigate degli aristocratici assisani e la cura degli affari paterni, ricevette in sogno la chiamata del Signore.
Frequentò la scuola parrocchiale dei canonici della cattedrale che insegnavano nella chiesa di San Giorgio dove, dal 1257, fu costruita l’attuale basilica di Santa Chiara. Le sue cognizioni letterarie erano limitate, però conosceva bene il provenzale. Nel 1154 un conflitto contrappose le città di Assisi e di Perugia tra le quali esisteva un’accanita rivalità che si prolungò nel tempo. L’odio fra le due città aumentò a causa dell’alleanza di Perugia con i guelfi, mentre Assisi si alleò con i ghibellini. Nel 1202 gli assisani subirono una clamorosa sconfitta e una numerosa perdita di uomini a Collestrada, località nei pressi di Perugia.
Il giovane Francesco, appartenente alla cerchia degli aristocratici della piccola nobiltà di Assisi, espresse la volontà di diventare cavaliere, di partecipare alle guerre tra Assisi e Perugia e di partire per la crociata. Nel 1203-1204 Francesco, giovane ventenne, partecipò alla Crociata,  andò a Puglia, convinto di raggiungere la corte di Gualtieri III di Brienne a Lecce il quale combatteva per conto del papa in tutela dell’ancora minore Federico II e di continuare il suo viaggio, assieme ad altri arditi giovani cavalieri, alla volta di Gerusalemme. Allora la partecipazione ad una crociata era considerata uno dei massimi onori per i cristiani d’Occidente. A Spoleto sognò un castello pieno di armi e di insegne cavalleresche mentre una voce lo invitava a seguire piuttosto “il padrone che il servo”.
Francesco fu catturato e fu fatto prigioniero dai perugini. Dopo un anno trascorso in prigione, gravemente malato, ottenne la libertà dietro il pagamento di un congruo riscatto pagato dal padre. Ritornato a casa, trascorrendo molto tempo tra i possedimenti di famiglia, a poco a poco recuperò la salute.
Tommaso da Celano racconta che in questi luoghi familiari e solitari si risvegliò in Francesco un incondizionato amore per la Natura, che vedeva come opera mirabile di Dio: << Alto e Glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio>>.
L’ esperienza della guerra, l’angoscia della prigionia lo sconvolsero al punto tale da indurlo a cambiare il suo stile di vita. Iniziò, quindi, un cammino di conversione che, in seguito, lo portò «a vivere nella gioia di poter custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore».
Francesco, ritornato ad Assisi, si ritirò in luoghi solitari, in totale povertà, conducendo per alcuni anni una vita di penitenza e di preghiera. Iniziò quella meravigliosa avventura che l’avrebbe portato a diventare uno dei più grandi santi del Cristianesimo. Si racconta che un giorno suo padre mandò Francesco a Roma a vendere la sua preziosa mercanzia. Egli, non solo distribuì ai poveri il denaro ricavato dalla vendita della merce, ma cambiò le sue vesti con quelle di un mendicante chiedendo l’elemosina davanti alla porta di San Pietro.
Un giorno Francesco incontrò un lebbroso, lo abbracciò e lo baciò. Egli stesso racconterà che prima di quell’incontro non poteva sopportare neppure la vista di un lebbroso. Dopo questo episodio scrisse che  « ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d’anima e di corpo».
Nel 1205  avvenne l’episodio più importante della sua conversione: mentre pregava nella chiesa di San Damiano Francesco sentì la voce del Crocefisso che per tre volte gli disse: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina».
Egli portò via alcune stoffe dal negozio del padre e andò a venderle a Foligno. Vendette anche il cavallo e tornò a casa a piedi. Donò il denaro, ricavato dalla vendita delle stoffe, al sacerdote della chiesa di San Damiano affinché riparasse la chiesa.
Il padre Pietro si arrabbiò assai.
Francesco, per questa sua eccessiva generosità, fu considerato pazzo dai paesani e dal padre che, impotente all’irremovibile “testardaggine” del figlio, e visto che il suo patrimonio si assottigliava, decise di denunciarlo ai consoli con la speranza che Francesco, per paura della punizione, cambiasse atteggiamento.
Anche Francesco presentò ricorso al vescovo. Al processo, che si svolse nel mese di gennaio del 1206, partecipò tutto il popolo di Assisi per conoscere il giudizio del vescovo.
Francesco non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né proferì parola. Senza indugio depose tutti i vestiti e li restituì al padre. Si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in Lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza“.

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Con quel gesto, spogliandosi di tutto, Francesco rinunciò ai beni terreni. Il vescovo Guido lo coprì pudicamente agli occhi della folla accogliendo Francesco nella Chiesa.
Francesco diede inizio ad un nuovo percorso di vita. Scelse di vivere non solo in preghiera, in povertà, ma dedicandosi anche al servizio degli ammalati, al lavoro manuale ed elargendo l’elemosina. Molto sviluppato era in lui il senso di pietà verso i deboli e verso gli emarginati. Questa pietà poi si sarebbe trasformata in una vera e propria “febbre d’amore” verso il “prossimo”.
Da uomo nuovo, Francesco cominciò il suo viaggio. Nell’inverno del 1206 partì per Gubbio. Fu ospite di Federico Spadalonga, che aveva condiviso con lui la prigionia nelle carceri di Perugia. Federico lo sfamò e lo rivestì. Dopo pochi mesi, Francesco si trasferì presso i lebbrosari restando con i lebbrosi servendoli con la massima cura. Era il lebbrosario di Gubbio  intitolato a San Lazzaro di Betania.
Francesco non ebbe mai una fissa dimora.
Nell’estate successiva Francesco ritornò ad Assisi. Per un certo periodo se ne stette da solo, impegnato a riparare alcune chiese in rovina, come quella di San Pietro, al tempo fuori le mura, la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano.
Il 24 febbraio del 1208 Francesco si trovava nella chiesetta della Porziuncola. Dopo aver ascoltato un passo del Vangelo secondo Matteo,  sentì la necessità di divulgare la Parola di Dio. Iniziò così a predicare partendo dalla sua città.
Ben presto si unirono a lui: Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani, Filippo Longo di Atri, frate Egidio, frate Leone, frate Basso, frate Elia da Cortona, frate Ginepro. Nacque il primo nucleo della comunità di frati. Le prediche di Francesco uscirono fuori dell’Umbria.
Solo nel 1209 Papa Innocenzo III, dopo la predica ai porci, approva la Regola dell’Ordine ed autorizza Francesco a predicare alla gente.
Le sue prediche erano semplici, ma di grande significato umano e religioso tanto da conquistare i molti ascoltatori e a suscitare una sorta di conversione di massa. Ecco che allora Francesco pensò di creare il Terz’Ordine, oggi denominato “Ordine Francescano Secolare”.
Nel 1210 Francesco, avendo riunito intorno a sé dodici compagni, si recò a Roma per chiedere al papa Innocenzo III l’autorizzazione della Regola di vita per sé e per i suoi frati. Dopo alcune iniziali perplessità, il papa concesse a Francesco la propria approvazione orale per il suo «Ordo fratum minorum». Secondo un’interpretazione, che associa la nascita del Terz’Ordine Francescano al miracolo del “silenzio delle rondini“, dagli scritti di frate Tommaso da Celano, il primo biografo francescano, si può desumere che la promessa di Francesco di fondare il Terz’Ordine Francescano è stata fatta nel 1212 ad Alviano, un borgo tra Orte ed Orvieto, poco distante da Todi. La stessa interpretazione è possibile farla nella “Legenda Maior” di San Bonaventura.
Non è rimasta nessuna traccia del testo presentato da Francesco al papa. Gli studiosi pensano che consistesse principalmente in alcuni brani tratti dal Vangelo che, insieme ad alcune aggiunte, abbozzarono la “Regola non bollata”, che Francesco scrisse nel 1221 alla Porziuncola : “Se vuoi essere perfetto va e vendi tutto quello che possiedi e donalo ai poveri, così avrai un tesoro in cielo. Non portare alcuna cosa per via, nè bastone, nè bisaccia, nè calzari, nè argento. Chi vuol venire dietro di me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Inoltre Francesco scrisse:

– La “Regola bollata”, del 1223, presentata al papa Onorio III, che l’approvò il 29 settembre del 1223 con la bolla Solet annuere.

– La “Regola di vita negli eremi” scritta tra il 1217 e il 1221.

– Gli scritti alle “povere signore” sono i testi di queste due lettere: Forma di vita e Ultima volontà e sono state ricavate dalla regola di Santa Chiara.

–  Le “Ammonizioni”, che raccolgono 28 pensieri di Francesco. Secondo gli storici potrebbero essere delle conclusioni di alcune conversazioni dei capitoli celebrati dai frati. Esse trattano vari argomenti fra cui spiccano i commenti alle Beatitudini.

Di ritorno da Roma, Francesco, assieme ad altri frati, si ritirò a Rivotorto, sulla strada verso Foligno, in una baracca malsana e angusta. Nel tugurio di Rivotorto arrivarono Egidio, Sabatino, Morico, Filippo Longo e prete Silvestro.
Seguirono poi: Giovanni, Barbaro, Bernardo, Vigilante ed infine Angelo Tancredi. Francesco e gli altri compagni vestivano un rozzo saio cinto da una corda.
Abbandonata la baracca, i frati si stabilirono presso la piccola badia di Santa Maria degli Angeli, in località Porziuncola concessa dall’Abate di San Benedetto del Subasio.
I seguaci di Francesco diventavano sempre più numerosi.
E’ stato avviato il primo convento dei frati francescani!
Nel 1213 il beato Villano, Vescovo di Gubbio, già abate benedettino dell’abbazia di San Pietro, concesse ai frati di fissare una loro sede nell’antica Santa Maria della Vittoria, detta della Vittorina, che la tradizione indica come il luogo in cui Francesco ammansì il famoso Lupo.
Un grosso lupo da tempo terrorizzava gli abitanti di Gubbio. Selvaggio, affamato, il lupo da diversi anni vagava nei boschi alle porte del paese avvicinandosi a ridosso delle mura della città per procurarsi il cibo. Gli abitanti, impauriti, si rivolsero a Francesco che si trovava a Gubbio. Il frate s’inoltrò nel bosco alla ricerca del lupo, lo incontrò, gli parlò. Attraverso la sua mediazione, il lupo promise di non spaventare più gli abitanti di Gubbio a condizione che loro si impegnassero a sfamarlo quotidianamente. La leggenda narra che, quando il lupo morì di vecchiaia, gli abitanti del paese ne furono molto dispiaciuti.
Ne “I fioretti di San Francesco” si legge: « …nel contado d’Agobio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziando gli uomini; intantoché tutti i cittadini stavano in gran paura, perocché spesse volte s’appressava alla cittade. E andavano armati quando uscivano della cittade, come se eglino andassono a combattere……”.
” E poi il detto lupo vivette due anni in Agobio; ed entrava dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare male a persona e senza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente: e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava dietro. Finalmente, dopo due anni, frate lupo si morì di vecchiaia; di che li cittadini molto si dolevano, imperrocché, veggendolo andare così mansueto per la cittade
”.
Francesco realizzò tre ordini riconosciuti dalla Chiesa cattolica esistenti ancora oggi e aventi costituzioni proprie. Il primo ordine è quello dei Frati Minori. La loro vita è ancora oggi ispirata dalla Regola bollata approvata dal papa Onorio III nel 1223.
Il secondo ordine è quello delle Monache Clarisse fondato da Chiara d’Assisi, la quale ha redatto una Regola propria. È costituito da suore di clausura e, attualmente, è presente in tutto il mondo. La nuova “forma di vita” di Francesco e dei suoi frati conquistò anche alcune donne. La prima fu Chiara Scifi, figlia del nobile Favarone di Offreduccio. Fuggita dalla casa paterna la notte della Domenica delle Palme del 28 marzo del 1211,  giunse il 29 marzo del 1211 a Santa Maria degli Angeli dove chiese a Francesco di poter entrare a far parte del suo ordine e dove ricevette l’abito religioso dal santo. Francesco la ospitò prima presso il monastero benedettino di Bastia Umbra, poi in quello di Assisi. In seguito, quando altre ragazze, fra le quali anche Agnese, la sorella di Chiara, seguirono il suo esempio, presero dimora nella chiesetta di San Damiano. Nacque la fondazione dell’Ordine femminile delle Clarisse.
Il terzo ordine nacque per i laici, per i secolari, per coloro che, pur non entrando in convento, vivono nelle loro famiglie la spiritualità francescana.
Negli stessi anni Francesco realizzò il convento di Montecasale, dove insediò una piccola comunità di seguaci, e dove ripetutamente sosterà durante i suoi viaggi.
Francesco sarebbe potuto essere scambiato per un cataro per la sua povertà e per la predicazione ai ceti subalterni. Ben viva era allora la vicenda dei catari, eretici che predicavano un dualismo Bene/Male portato alle estreme conseguenze. Francesco e i suoi seguaci si distinguevano in molteplici aspetti: non mettevano in dubbio la gerarchia della Chiesa, non contestavano l’autorità della Chiesa, che consideravano “madre“, e le promettevano obbedienza.
Francesco stesso, infatti, insisteva sulla necessità di amare e rispettare i sacerdoti. Dimostrò grande amore per la Natura, per gli animali e per gli uomini.  << La sua carità si estendeva, con cuore di fratello, non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al mansueto agnello. Per lo stesso motivo, il suo amore e la sua simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l’immagine di Dio >>.
Col passare del tempo la fama di Francesco si diffuse enormemente e aumentò anche il numero dei frati francescani. Nel 1217 Francesco, alla Porziuncola, partecipò al primo dei capitoli generali dell’Ordine.
Nei capitoli generali, che si tenevano ogni due anni, si stabilivano le regole di vita comunitaria, si organizzava l’attività di preghiera, si rinsaldava l’unità interna ed esterna, si decideva sulle nuove missioni. Con il primo capitolo fu organizzata la grande espansione dell’Ordine Francescano in Italia e furono inviate missioni in Germania, in Francia e in Spagna.
Nel 1219 Francesco si recò ad Ancona diretto in Egitto e in Palestina dove era in corso la quinta Crociata. Durante questo viaggio, in occasione dell’assedio crociato alla città egiziana di Damietta, insieme a frate Illuminato,  dal benedettino portoghese Pelagio Galvani, vescovo di Albano, ottenne il permesso di entrare nel campo saraceno per incontrare il sultano Ayyubide al-Malik al-Kāmil, nipote di Saladino. Lo scopo dell’incontro era quello di predicare il Vangelo nel tentativo di convertire il sultano e i suoi soldati a porre fine alle ostilità.
Tommaso da Celano racconta che Francesco suscitò profonda ammirazione nel sultano che lo trattò con rispetto e gli offrì numerose ricchezze. La pacifica rivoluzione che il nuovo Ordine Francescano stava compiendo cominciò ad essere palese a tutti. Iniziarono però anche i primi problemi: Francesco temeva che, ingrandendosi senza controllo, la fraternità dei Minori deviasse dai propositi iniziali. Per potersi dedicare completamente alla sua missione Francesco, nel 1220, rinunciò al governo dell’Ordine in favore del seguace Pietro Cattani, che morì l’anno seguente.
Al successivo Capitolo Generale, detto “Delle Stuoie”, riunitosi nel mese di giugno del 1221, fu scelto come vicario frate Elia. Nel 1223, con la bolla «Solet annuere», papa Onorio III approvò definitivamente la “Regola seconda” redatta con l’aiuto del cardinale Ugolino d’Ostia, il futuro papa Gregorio IX.
Francesco, pur non condannando né la ricchezza, né la sapienza, né il potere, si rendeva conto che i frati, che liberamente avevano deciso di seguirlo e di accettare la sua regola di vita, stavano diventando colti e accettavano doni e ricchezze che erano incassati dalla Santa Sede.
” Sorella Povertà”, “obbedienza”, “castità”, “umiltà”, “ascetismo” sono gli aspetti fondamentali della vita di Francesco e dei suoi seguaci. Per queste virtù a Francesco fu dato l’appellativo di “Imitator Christi , “Imitatore di Cristo“: Per il segno della “fraternità” ciascun discepolo è “imitator Francisci” “Imitatore di Francesco” e, dunque, “imitator Christi”.
Pur conducendo una vita attiva, Francesco spesso sentiva la necessità di ritirarsi in luoghi solitari. L’Eremo delle Carceri di Assisi, l’Isola Maggiore sul lago Trasimeno, l’Eremo delle Celle a Cortona offrivano a Francesco riposo, silenzio e pace per una più intima preghiera.
Tra il 1224 e il 1226, Francesco d’Assisi, malato, affetto da tracoma agli occhi, compose il “Canticus o Laudes Creaturarum”, “Il Cantico delle Creature”, il “Cantico di Frate Sole”.
E’ la lode a Dio per il Creato che si snoda con intensità e con vigore attraverso le sue opere. E’ una preghiera permeata da una visione corretta della Natura, poiché nel Creato è riflessa l’immagine del Creatore. Da questo deriva il senso di fratellanza che deve unire l’Uomo all’universo, per sempre.
La più antica stesura del Cantico delle Creature che si conosca, riportata nel Codice 338, è custodito nella Biblioteca del Sacro Convento di San Francesco ad Assisi.

 “Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se confano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubi lo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infirmitate et tribulatione.

Beati quelli che ‘l sosterranno in pace,
ca da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ scappare:
guai a quelli che morrano ne le peccata mortali;
beati quelli che trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ca la morte secunda no ‘l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate”.

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Secondo quanto riportato dalle agiografie il 14 settembre del 1224, mentre pregava sul monte della Verna  e dopo 40 giorni di digiuno, Francesco avrebbe visto un Serafino crocefisso. Al termine della visione gli sarebbero comparse le stigmate «sulle mani e sui piedi presenta delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai quali sanguina spesso».
Le agiografie raccontano che sul fianco destro Francesco aveva anche una ferita come quella inferta da una lancia. Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite fino alla morte. Per questa caratteristica Francesco è stato definito «alter Christus». Fu frate Elia, suo successore a capo dell’Ordine, ad annunciare al mondo la presenza sul corpo di Francesco delle stigmate. Questa rivelazione provocò nella chiesa gravi lacerazioni e scetticismi che dureranno anche nei secoli successivi.
Negli ultimi anni di vita la salute di Francesco si era molto aggravata. Soffriva di disturbi al fegato oltre che alla vista. Nel giugno del 1226, mentre si trovava alle Celle di Cortona, dettò il “Testamento” dove rievocò tutte le tappe della sua vita vissute come un dono del Signore. Infatti è frequente l’espressione: “Il Signore mi diede…”. Nel Testamento Francesco esorta i frati a vivere la Regola esortando l’Ordine a non allontanarsi dallo spirito originario. Francesco scrisse: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il SantoVangelo”.
Nel 1226 Francesco si trovava alle sorgenti del Topino, presso Nocera Umbra. Poiché capiva che le forze lo stavano abbandonando, chiese di tornare alla Porziuncola. Qui la morte lo colse nella notte fra il 3 e il 4 ottobre del 1226 su un giaciglio nella nuda terra.
Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi ed essere stato portato perfino in San Damiano per essere mostrato a Chiara ed alle sue consorelle, fu sepolto nella chiesa di San Giorgio. Da qui, nel 1230 la sua salma fu trasferita nell’attuale basilica.
Il Papa Gregorio IX lo canonizzò il 19 luglio del 1228. La canonizzazione di Francesco è riportata in modo molto dettagliato nella “Vita Prima” di Tommaso da Celano.
Il 25 maggio del 1230 la sua salma, trasferita dalla chiesa di San Giorgio, fu tumulata nell’attuale Basilica di San Francesco fatta costruire celermente da frate Elia su incarico di Gregorio IX negli anni tra il 1228 e il 1230.
San Francesco è stato ed è uno dei santi più amati dal popolo credente per il suo spirito di umiltà e di povertà. Nei luoghi dove ha trascorso la sua vita sono sorti santuari a lui dedicati. Il principale santuario è la famosa Basilica di San Francesco, ad Assisi, Il suo sepolcro è meta di pellegrinaggio continuo per le moltissime migliaia di devoti che ogni anno visitano il santuario.
La città di Assisi, per aver dato i natali a San Francesco, è elevata a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i tre grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002 e da papa Benedetto XVI nel 2011. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto papa nel conclave del 2013, ha scelto il nome pontificale di Francesco in onore del santo di Assisi, primo nella storia della chiesa.
San Francesco, conosciuto come il “poverello d’Assisi“, è venerato e festeggiato dalla Chiesa cattolica il 4 ottobre.  Il 3 ottobre di ogni anno è celebrato il “transito“, cioè un momento di preghiera teso a ricordare la morte del Serafico Padre attraverso letture tratte dalle Fonti francescane e dalla Bibbia.
San Francesco, assieme a Santa Caterina da Siena,  è stato proclamato da papa Pio XII patrono principale d’Italia il 18 giugno del 1939. E’ patrono degli animali, dei poeti, dei commercianti, dei lupetti, delle coccinelle, degli ecologisti. I suoi emblemi sono: il lupo e gli uccelli.
San Francesco è descritto nella pittura, nella scultura, nella musica, nel cinema, nella televisione, nella letteratura.

Dante Alighieri ricorda la figura di Francesco nel XI canto del Paradiso e descrive le sue

nozze mistiche” con Madonna Povertà, che

“ …privata del primo marito

millecent’anni e più dispetta e scura

fino a costui si stette senza invito “ (vv.64-66)

e che prima di morire affida ai suoi discepoli:

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede

raccomandò la donna sua più cara

e comandò che l’amassero a fede “ (vv.112-114)

 

LA CHIESA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI A MISTRETTA

 

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La chiesa di San Francesco d’Assisi, costruita nel XVI secolo, sorge nel cuore della città di Mistretta, in via Libertà, ed ha annessi l’ex convento dei Padri Cappuccini, già adibito a casa di detenzione fino a poco tempo fa, e la villa comunale “G.Garibaldi”, allora orto botanico dei frati. La chiesa era inglobata nel convento delle Benedettine, che vi dimorarono fino al 1569, quando lo cedettero ai Padri Cappuccini trasferendosi nel nuovo convento di S. Maria del Soccorso.

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 Nel 1604 i frati Cappuccini ampliarono l’attuale chiesa che è costituita da un’unica navata ricca di sculture lignee e di dipinti. Tra le opere più interessanti, conservate in questa chiesa, si deve ammirare l’artistico altare, uno dei maggiori capolavori in legno esistenti in Sicilia, realizzato dallo scultore intagliatore sacerdote Giovanni Biffarella, del 1742, e da frate Bernardino da Mistretta.

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La custodia sacramentale e le nicchie dalle colonne tortili, che si alternano alle statue miniaturizzate degli Apostoli, formano una pregevole opera d’intaglio e di scultura in cui l’artista evidenzia un senso di sorprendente plasticità di forme e una sicura conoscenza dell’anatomia umana.

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Il dipinto della Madonna degli Angeli, con i Santi Francesco e Chiara, quest’ultima nell’atto di mettere in fuga gli eretici con l’ostensorio ecucaristico, opera di Scipione Pulzone da Gaeta, del 1588, è una bellissima pala dove nella parte superiore è dipinta una zona celeste, molto luminosa, che esalta i simboli della divinità, la gloria della Madonna e degli Angeli, mentre nella parte inferiore, molto scura, è rappresentato il mondo terrestre, l’umano operare con i Santi umili che devono essere esempio di imitazione secondo le sollecitazioni promosse dalla Chiesa nel periodo della Controriforma.

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8 Madonna degli angeli Scipione Pulzone 1588 ok

Le icone nascondono questi preziosi dipinti.

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L’Immacolata perché ha la luna sotto i piedi e lo stellario,

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Il Cristo Re che sorregge  il mondo  con la mano sinistra e con la mano destra la Croce simbolo di salvezza.

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Tutto il complesso rappresenta l’Annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria.

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L’interno delle edicole contenevano reliquie dei santi fra i fiori.

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I frati francescani aprivano queste edicole, singolarmente,  in momenti particolari della storia della chiesa: l’8 dicembre per la festività dell’Immacolata Concezione, il 25 marzo per la celebrazione dell’Annunciazione. Le edicole erano aperte entrambe contemporaneamente il primo novembre per la festa di tutti i Santi perché contenevano le reliquie dei santi.

L’urna sotto l’altare contiene frammenti di mandibola e di qualche osso di un frate cappuccino morto in odore di santità.

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Nella tela della Sacra Famiglia, con Sant’Anna e con gli Angeli musici, opera del messinese Antonio Catalano detto l’Antico, del 1599, l’artista ha saputo fare risaltare una pacata atmosfera evidenziata da luminosi effetti cromatici.

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Altre opere sono: la Madonna col Bambino, opera di Domenico Guargena, meglio conosciuto col nome di Fra Feliciano da Messina,

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la Deposizione della Croce, del XVI secolo, attribuita ad Antonello de Saliba,

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la pregevole statua lignea del Beato Felice, al secolo Giacomo Amoroso, realizzata da Noè Marullo che ha saputo imprimere al fraticello laico una sublime, palpitante, viva espressione mistica,

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Il Crocefisso ligneo, di Giovanni Pintorno, meglio conosciuto come Fra Umile da Petralia, dove l’artista ha saputo cogliere l’istante del trapasso del Christus Patiens raffigurato con una espressione pensosa e malinconica, è circondato da 68 formelle ognuna delle quali è un reliquario dei monaci Santi martiri.

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 Le altre tele raffigurano Santa Caterina, Sant’Agnese, Sant’Agata, Santa Barbara e la Madonna con San Felice di Cantalice,

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 Sant’Antonio, quest’ultima opera del 1600.

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Prima di entrare all’interno della chiesa sono da ammirare i due affreschi murali seicenteschi che raffigurano San Bernardus, San Joseph e San Seraphinus da un lato e Cristo in Croce con le pie donne dall’altro.

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L’Ordine francescano ha avuto origine per merito di San Francesco d’Assisi che nel 1209/1210 ottenne dal papa Innocenzo III la possibilità di vivere in modo radicale la povertà evangelica. L’ordine da lui fondato, infatti, a differenza degli altri ordini religiosi esistenti, in particolare agostiniani e benedettini, ebbe il carisma di praticare non solo una vita povera, ma di non possedere beni conducendo una vita mendicante.

 Il 24 giugno del 2017 il Corpus Domini giunge alla chiesa di Francesco.

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Sep 18, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I SANTI COSMA E DAMIANO E LA LORO CHIESA A MISTRETTA

I SANTI COSMA E DAMIANO E LA LORO CHIESA A MISTRETTA

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Cosma e Damiano, secondo fonti non ritenute storicamente attendibili, erano due fratelli gemelli nati in Arabia nella seconda metà del III secolo in una ricca famiglia. Il padre, Niceforo, si convertì al Cristianesimo dopo la loro nascita, ma morì durante una persecuzione in Cilicia.
La madre, Teodota, o Teodora, da più tempo cristiana, si occupò della loro educazione indirizzandoli al cristianesimo. I due fratelli vissero in un tempo in cui la fede cristiana stava attraversando momenti molto difficili. Dichiararsi cristiano allora comportava rischi molto seri per la carriera, per il lavoro, per la propria vita.
La condanna a morte era una frequente punizione. Loro vissero in questo clima!
Cosma e Damiano furono definiti “Illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri dal vescovo Teodoreto, il principale biografo dei santi, che guidò la città episcopale di Ciro dal 440 al 458.
Cresciuti, i due fratelli prima si recarono in Siria per apprendere le scienze e per specializzarsi nella medicina, poi si stabilirono ad Egea, in Cilicia, per praticare la professione medica nella città portuale dedicandosi alla cura dei malati, in particolare alle persone più povere e abbandonate.
Alcuni testi parlano di un farmaco di loro invenzione chiamato “Epopira”.
Durante la loro attività medica non solo curavano le malattie del corpo, sapevano operare prodigiose “guarigioni”, ma miravano al bene delle anime con il loro buon esempio e con la parola divina riuscendo a convertire molti pagani al cristianesimo.
Operavano in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date“.
In Matteo (10,8-10) si legge: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia di viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento”.
Offrivano a tutti la loro opera completamente in forma gratuita.
Per questo sono stati designati con l’appellativo di “anàrgiri“, dal greco  “αν-άργυρος” “senza argento,senza denaro”, cioè medici senza compenso.
Questa disponibilità verso i malati era uno strumento efficacissimo di apostolato. Secondo la “Passio”, tuttavia, in una sola occasione era stata loro elargita una ricompensa. Il libro del “Sinassario” della chiesa di Costantinopoli riferisce un episodio molto curioso: la contadina Palladia, miracolosamente guarita, in segno di gratitudine, mise nelle mani di Damiano tre uova.
Al suo netto rifiuto la donna reagì rimproverandolo perchè tale rifiuto era una mancanza di galateo verso di lei. Damiano, di nascosto del fratello, accettò il dono.  Cosma, talmente tradito nel suo ideale, espresse la volontà di fare seppellire le sue spoglie, dopo la morte, lontane da quelle del fratello. Molti sono i prodigi a loro attribuiti.
Al guardiano di una chiesa romana fu sostituta la gamba ulcerata con quella di un etiope morto qualche giorno prima. Un serpente, che si era introdotto nella bocca di un contadino, fu da loro miracolosamente estratto. A quel tempo imperava il paganesimo e i fratelli Cosma e Damiano, come già detto, erano cristiani.
Nell’Impero Romano, soprattutto nelle regioni orientali dove il cristianesimo si era propagato con più successo, tra il 286 e il 305 d.C. sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano scoppiarono le persecuzioni.
In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303, i fratelli Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di scompigliare l’ordine pubblico e di professare una fede religiosa vietata. Il loro processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano pratico per il territorio nella Cilicia. Minacciati di torture e di condanna alla pena capitale, tutti i tentativi adottati per farli apostatare sono risultati vani.
Cosma e Damiano così risposero ai loro persecutori: “Noi adoriamo il solo vero Dio e seguiamo il nostro unico Maestro, Gesù Cristo”. Cosma e Damiano furono arrestati, processati, sottoposti a disumane torture. Le torture subite dai fratelli differiscono secondo le fonti.
Secondo alcune furono dapprima lapidati, ma le pietre rimbalzarono contro i soldati.
Secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male. Secondo altre furono gettati in mare da un alto dirupo legati ad un macigno appeso al collo per facilitare lo sprofondamento in mare, ma le legature si sciolsero e loro riaffiorarono in superficie.
E ancora incatenati e messi davanti ad una fornace ardente, immerse nel fuoco, le membra non si sono bruciate.  Il libro del “Martirologio”, che si ispira a Teodoreto, riporta che “i fratelli Cosma e Damiano furono martiri cinque volte” perché superarono la prova dell’annegamento, della fornace ardente, della lapidazione, della flagellazione, del martirio nell’anno 303.
Infine i fratelli Cosma e Damianofurono decapitati assieme ai loro fratelli più giovani, o ai discepoli,  Antimo,  Leonzio ed Euprepio.
Una narrazione racconta che la decapitazione avvenne a Ciro, città vicina ad Antiochia di Siria dove i martiri furono sepolti.
Un’altra narrazione attesta, invece, che furono uccisi a Egea di Cilicia, in Asia Minore, per ordine del governatore Lisia, e poi traslati a Ciro in Cilicia.
Le persone presenti al loro martirio vollero dare degna sepoltura ai due fratelli volendo rispettare la volontà di Cosma di deporre le sue spoglie mortali lontano da quelle del fratello Damiano.
Una leggenda racconta che un cammello si mise a parlare ad alta voce affermando che Damiano aveva accettato quella ricompensa solo perché mosso da spirito di carità verso la contadina Palladia per evitare che si potesse sentire umiliata dal rifiuto del semplice ma amorevole dono.
I corpi dei fratelli furono sepolti l’uno accanto all’altro. Il culto dei santi Cosma e Damiano, invocati come potenti taumaturghi, iniziò subito dopo la loro morte e fu molto diffuso in tutta la Chiesa fin dal sec. IV.
Sulla loro tomba è stata edificata una chiesa, meta di ininterrotti pellegrinaggi, per venerarvi le reliquie e per invocare la loro intercessione. Uno dei più illustri pellegrini fu l’Imperatore Giustiniano, il restauratore dell’Impero Romano d’Oriente (+ 565).
Guarito da una perniciosa malattia grazie alla loro intercessione, andò in preghiera presso la tomba dei santi taumaturghi.
In segno di riconoscenza fece erigere a Basilica la loro chiesa e dispose la fortificazione della città di Ciro.

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In onore dei Santi Cosma e Damiano sono state costruite numerose chiese a Gerusalemme, in Egitto, in Mesopotamia, dove Teodoreto, il vescovo di Cirro,   distribuì le loro reliquie.
La più famosa chiesa eretta in Oriente fu la Basilica di Costantinopoli, proclamata santuario nazionale e divenuta meta di numerosi pellegrinaggi. Ad essa accorrevano malati d’ogni ceto sociale per chiedere la guarigione.
Nella basilica di Costantinopoli si svolgeva il rito della “incubazione”: Secondo la tradizione, mentre gli altri fedeli trascorrevano la notte in preghiera, i malati presenti si addormentavano adagiati su poveri giacigli nelle navate della chiesa.
Durante il sonno miracolosamente apparivano i Santi Medici che venivano a curarli. Molto rapidamente il culto dei Santi Cosma e Damiano si estese a tutto l’Oriente bizantino. Gli scambi commerciali, che intercorrevano tra Roma e l’Oriente, facilitarono la diffusione del culto dei due martiri anche in Occidente.
Papa Felice IV (526 – 530) fece edificare a Roma, sul sito dell’antico Templum Romuli e della Bibliotheca Pacis, nel Foro della Pace, una basilica a loro intitolata e ne favorì il culto in opposizione a quello per i pagani Castore e Polluce. Nell’anno 528, sempre sotto il pontificato di papa Felice IV, furono trasportate a Roma le reliquie dei SS. Cosma e Damiano.
I teschi dei santi nel X secolo furono portati da Roma a Brema. Nel 1581 Maria, figlia di Carlo V, li donò alla chiesa del convento delle clarisse di Madrid.
Le stesse reliquie sono venerate anche nella chiesa di San Michele Arcangelo a Monaco di Baviera dove, in base all’iscrizione sul reliquiario, furono poste nel XV secolo. Il primo documento che attesta la presenza delle reliquie delle braccia dei Santi a Bitonto è del 1572.
In Oriente, a partire dal V secolo, sorsero numerose chiese dedicate ai SS. Cosma e Damiano: in Scozia, in Cappadocia, in Panfilia, a Salonicco, a Gerusalemme, a Edessa del Ponto.
In epoca posteriore (secoli X-XIII) il culto si diffuse in Bulgaria, in Romania, nelle regioni bizantine dell’Italia meridionale. In Italia sono molte le località dove sono state edificate cappelle votive, chiese, piccole o grandi, in onore dei santi Cosma e Damiano.
La festività liturgica dei Santi Cosma e Damiano è celebrata nella Chiesa greca in due date: il 1 luglio e il 1 novembre.
La tradizione cattolica stabilì invece la memoria liturgica il 27 settembre, (probabilmente il giorno della dedicazione della basilica romana secondo il calendario tradizionale utilizzato tuttora per la Messa Tridentina), tuttavia Paolo VI la spostò al 26 settembre.
I loro nomi furono inseriti nel canone della Messa Tridentina, e furono gli ultimi Santi ai quali cui fu concesso questo onore.
Per gli innumerevoli miracoli ottenuti dall’invocazione dei Santi Cosma e Damiano la chiesa li ha designati patroni dei medici, dei chirurghi, dei farmacisti, degli ospedali. Gli emblemi dei santi sono: la palma e gli strumenti chirurgici.

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 PREGHIERA AI SANTI COSMA E DAMIANO

O gloriosi Santi Medici, Cosma e Damiano, che faceste della vostra arte

strumento di carità e mezzo di apostolato e testimoniaste col sangue la fede

che aveste in Cristo, alla vostra potente intercessione con fiducia noi ricorriamo.

Otteneteci dal Signore fede ferma ed operosa, carità ardente, zelo per la gloria di Dio

 e per il bene dei nostri fratelli. Illuminate la mente e dirigete la mano di chi ha cura

della nostra anima e del nostro corpo.

Otteneteci ancora che – dopo una vita cristianamente vissuta – possiamo conseguire

il dono della perseveranza finale

che ci congiunga a voi e a tutti i Beati nell’eterna visione di Dio. Così sia.

A voi tutti Santi Martiri del Paradiso e in modo particolare a voi,

Santi Medici Cosma e Damiano, volgete pietoso lo sguardo su di noi

ancora peregrinanti in questa valle di dolore e di miserie.

 Voi godete ora la gloria che vi siete meritata seminando opere di bene in questa terra di esilio.

Dio è adesso il premio delle vostre fatiche, il principio, l’oggetto e il fine della vostra gloria.

 Anime beate, Martiri della Chiesa, potenti taumaturghi Cosma e Damiano, intercedete per noi!

Ottenete a noi tutti di seguire fedelmente le vostre orme,

di seguire i vostri esempi di zelo e di amore ardente a Gesù e alle anime, di ricopiare in noi le vostre virtù, affinché diveniamo un giorno partecipi della gloria immortale. Così sia.

Gloriosi Medici Cosma e Damiano, Martiri della chiesa di Dio,

decoro e vanto della città di Bitonto, all’inizio di questa giornata (ed in questo tempio in cui si venerano le vostre sacre e miracolose immagini,)

eleviamo a Dio l’umile ma ardente preghiera perché vengano esauditi i bisogni spirituali e temporali

 nostri e di tutti i devoti che fanno incessante ricorso al vostro potente patrocinio.

Voi constatate in quanti, sofferenti nel corpo e nell’anima, vi si rivolgono con fiducia da ogni parte affinché possiate intercedere con sollecitudine presso il Signore per la guarigione dalla malattia e per la piena salute dello spirito.
Come la vostra scienza medica ha guarito dal male fisico, così vi esortiamo con intensità di cuore affinchè la vostra carità lenisca oggi le piaghe dell’anima e restituisca ad ognuno il dono della grazia divina.
Insigni, Santi Fratelli, ottenete per tutti, in questa giornata, celesti e consolanti benedizioni. Ma in modo speciale fate che esse discendano sulla Chiesa, sul Papa, sul nostro Vescovo, sulle nostre famiglie, sui devoti tutti e su quanti generosamente concorrono, con la preghiera e col sostegno materiale, ad edificare il Santuario intitolato ai vostri nomi e a testimoniare, in forme sempre nuove e consone ai tempi, la carità verso i fratelli affinché possano così essere celebrati, nel tempo imperituri, la vostra memoria e il memoriale di Cristo cui avete voluto generosamente conformarvi a maggior gloria di Dio.
Questa preghiera è recitata ogni mattina nella Basilica dei Santi Medici a Bitonto

PREGHIERA DI RINGRAZIAMENTO

 Eccoci, o Santi Taumaturghi, prostrati dinanzi a Voi,con animo pieno di gratitudine e riconoscenza.
Il nostro cuore sanguinava sotto il peso della sventura, e voi ci avete consolati; eravamo nelle angustie, e ci avete ridonata la pace; vi abbiamo invocato con fede e ci avete esauditi.
Siate perciò ringraziati e benedetti. Il vostro nome risuoni glorioso in ogni angolo della terra, il vostro patrocinio accresca sempre più il numero dei vostri devoti. Gloria al Padre…
Chi potrà mai, o Santi gloriosi, lodare degnamente la vostra pietà e la vostra sollecitudine nel concedere il vostro aiuto agli infelici?
Nessuno mai si è rivolto con fiducia a Voi, senza ottenerne sollecito soccorso. Il vostro cuore, pieno di carità, ha sempre accolto benignamente le suppliche dei figli devoti, si è commosso ai gemiti degli afflitti, ha riasciugato le lacrime dei tribolati.
Noi, che siamo ora nel numero di questi fortunati, vi preghiamo di presentare a Dio la nostra profonda e sincera gratitudine, lieti di appartenere alla schiera dei vostri devoti. Gloria al Padre…
O celesti nostri Intercessori, sono senza numero le grazie e i benefici che, per i nostri meriti, il Signore riversa su di noi: sono consolati gli afflitti, guariti gli infermi, convertiti i peccatori, e i giusti fortificati nella grazia. Anche noi, per vostra bontà, siamo stati esauditi.
La grazia singolare, che ci avete impetrato dal Signore, rimarrà scolpita a caratteri indelebili nei nostri cuori, come attestato della vostra protezione. Sicuri ormai della somma efficacia del vostro patrocinio, a voi ricorreremo con fiducia in tutte le tribolazioni della vita.
Siano pur gravi i mali che ci affliggeranno, siamo sicuri che troveremo in voi quei Medici misericordiosi, come foste sempre nei secoli della storia. Gloria al Padre…

LA CHIESA DEI SANTI COSMA E DAMIANO A MISTRETTA

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano, che sorge nell’omonimo quartiere, è un piccolissimo fabbricato che si trova ai piedi del castello.
Non è una strada di passaggio che conduce alla chiesa, ma bisogna attraversare la Via Libertà, oltrepassare la chiesa della Santissima Trinità e scendere da sotto l’arco.
Si presenta come una modesta casa rurale per dimensioni e per aspetto perché costruita in pietra.

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L’architrave, dove è incisa la data 1863, è decorato da una scultura che raffigura una corona e due foglie di palma, simbolo dei Santi Cosma e Damiano.

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All’interno la chiesa ha un’unica navata irregolare e pochissime sono le statue.
Il Cristo sulla Croce, con i santi Cosma e Damiano, occupa l’altare maggiore.

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Gli Ex Voto in argento

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Durante la novena ai Santi Cosma e Damiano nella loro chiesa a Mistretta si recita il santo Rosario.

Nei grani del Gloria al Padre si recita:
San Cosma e Damianu
siti mierici suprani
guariti li malati e tutti l’infermitati,
siti mierici ru Signure
guariti ogni piaga e ogni dulure
”.

Nei grani dell’Ave Maria si recita:
10.000 voti loramo a San Cosma e Damianu.
E loramo tutti uguali cu nni scanza r’ogni mali
”.
20.000
30.000
40.000
50.000

Nella prima posta del Rosario si dice 10.000 voti.
nella seconda 20.000.
nella terza 30.000 etc

Il film è stato realizzato dall’amico Giuseppe Cuva che ringrazio.

 

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La Sacra Famiglia, riconducibile al sec. XVII, occupa un altare secondario.

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 Imponente è la statua di legno di San Calogero l’eremita.

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E’ difficilissimo visitare l’interno della chiesa perché è sempre chiusa.
Un signore del vicinato è stato disponibile ad aprirla per farmela visitare e fotografare.

La chiesetta, che necessitava di immediati interventi strutturali, è stata ripristinata grazie alla disponibilità di alcuni giovani volontari.

 

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Il servizio è stato realizzato dalla giornalista Rosalinda Sirni.

Il commento del giovane Sebastiano Zampino: Sono stati mesi difficili e complicati, con l’aiuto di molti amici abbiamo ridato vita ad una Chiesa, un vero e proprio gioiello in un quartiere suggestivo e antico della nostra città di Mistretta. Ieri, giorno 26 settembre 2020, per la ricorrenza della festa dei Santi Cosma e Damiano, abbiamo ricevuto tanti apprezzamenti da parte delle persone per le buone condizioni in cui attualmente si trova la Chiesa, che molti definivano irriconoscibile, e questo ci ha reso davvero felici. Le cose più belle sono state: il continuo pellegrinaggio da parte delle persone, la recita il Santo Rosario in siciliano dei Santi Cosma e Damiano, che ci hanno fatto capire veramente e in maniera inaspettata che nella nostra città ci sono: una devozione forte e antica, un grande attaccamento verso questi grandi Santi e verso le nostre tradizioni. Grazie a tutti per la partecipazione!

 

 

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