Jun 7, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LE ROSE ROSSE E BIANCHE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LE ROSE ROSSE E BIANCHE NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Un vecchio proverbio che i mistrettesi recitano dice: “maggiu fa li sciuri e giugniu si nni preja “ cioè il mese di “maggio fiorisce e il mese di giugno gioisce”. Anche io gioisco vedendo i roseti fioriti nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.
Il nome “Rosa” deriva dal sancrito “vrad o vrod”, che significa “flessibile”, oppure dal “rhood o rhuud”, che significa “rosso”, oppure dalla lingua originaria iranica “vareda” che significa semplicemente “fiore”, cioè, appunto, la Rosa, “il fiore” per eccellenza.

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Il più regale dei fiori spuntò come una semplice specie selvatica a cinque petali. Lunghi anni di coltivazione e di ibridazione l’hanno trasformata nel sontuoso ed elegante fiore di oggi.
Le “Georgiche” di Nicandro dicono che la rosa è originaria esattamente del monte Bermios, nel Caucaso orientale, dove le famiglie, in primavera e in autunno, si recavano alla ricerca delle sue talee.
Nel V sec. Erodoto parlò già della rosa a cento petali come di un fiore comune e riferì come fosse coltivata con successo in Macedonia nei giardini di Mida, il mitico re che trasformava in oro tutto ciò che toccava. Raccontò che presto Mida lasciò la città di suo padre e si stabilì in Tracia, poi nell’Edonia e nell’Emazia, sempre con le sue rose sotto il braccio, fino a fissare la propria dimora e soprattutto a creare i suoi prestigiosi giardini ai piedi del monte Bermios.
Ancora oggi nel Kurdistan la rosa cresce spontanea.
La Rosa è originaria dell’Asia Minore e, successivamente, è stata introdotta in Grecia, in Mesopotamia, nella Siria, nella Palestina.
Verso il 1100 furono i Crociati, al ritorno dalle guerre, a portare in Francia ed in Inghilterra le rose asiatiche e quelle di Damasco.
Dopo i Crociati, dall’Europa le rose viaggiarono verso il Nuovo Mondo con i colonizzatori i quali scoprirono che già gli Indiani d’America amavano piantare la rosa selvatica.
I greci attribuirono l’origine della rosa all’isola di Citera, chiamata anche Cerigo, al largo del Peloponneso e mitica patria di Afrodite.
Una leggenda racconta che Chloris, la dea greca dei fiori, durante una sua passeggiata ha rinvenuto nel bosco il corpo senza vita di una ninfa, uccisa dalle punture delle api, contenuto nel tronco di un albero. Allora trasportò la ninfa sul monte Olimpo. Chiese aiuto ad Afrodite, la dea della bellezza, e a Dionisio, il dio che insegnò agli uomini la coltivazione della vite, affinché le donassero l’immortalità. Afrodite le donò la bellezza, Dioniso le aggiunse il nettare per donarle un dolce profumo e, infine, le tre Grazie le diedero fascino, gioia e luminosità.
Chloris portò la ninfa anche da Apollo, il dio del sole, affinché con i suoi raggi potesse riscaldarla e permetterle di fiorire. Zephir, il dio del vento dell’est, spazzò via le nuvole. Rinata, la ninfa divenne la Rosa, la regina dei fiori.

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Fu Saffo, la poetessa greca, vissuta nel IV secolo a.C., a definire la Rosa la  “regina dei fiori,- regina, grazia delle piante,- orgoglio dei pergolati,- rosso dei prati, occhio dei fiori,- la sua dolcezza schiude l’alito d’amore,- fiore favorito di Citera”.
Anacreonte rispose: “ La rosa è l’onore e la bellezza dei fiori – la rosa è la cura e l’amore della primavera – la rosa è il piacere delle potenze celesti .- Il figlio della bella Venere, prediletto della Citera, –  avvolgeva il suo capo di ghirlande di rose, –  quando andava a danzare nel giardino delle Grazie”.
Dall’inizio della storia la rosa è sempre stata  il fiore di Afrodite, “con serti di rose e mirto si cingevano le sue statue” e, secondo le antiche fonti, era di colore bianco.

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 Divenne di colore rosso per intervento divino.

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 Sono dell’antica Grecia dei miti le leggende che narrano perché le rose, dapprima tutte candide, successivamente si colorarono.
Venere si era follemente innamorata di Adone. Marte, l’amante ufficiale, poiché suo marito era Vulcano, furioso e ingelosito, si trasformò in un cinghiale per uccidere il bellissimo Adone. Il suo sangue, per volere di Venere, colorò le pallide rose e il suo corpo si trasformò in un fiore di anemone.
I greci credettero che la rosa fosse nata dal sangue fluito dalla ferita di Venere la quale, bella sopra ogni altra divinità dell’Olimpo, mentre correva incontro al suo innamorato Adone, mettendo un piede su un cespuglio, sarebbe stata graffiata dalle spine di un roseto spoglio e scolorito. Subito le rose bianche, mescolando la linfa terrena al sangue divino, per la vergogna di aver causato molto dolore alla dea, arrossirono e rimasero rosse per sempre.

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 Un’altra leggenda mitologica racconta che durante un convivio dell’Olimpo, Cupido, il dio dell’amore, trascinando una schiera di danzatori, ha lasciato cadere alcune gocce di nettare sui mazzi di rose bianche che adornavano le tavole imbandite. Le rose, allora, si sarebbero tinte del colore dell’aurora.
Un altro antico mito racconta che quando Venere uscì dalle acque nella sua conchiglia Gea, la Terra, si ingelosì e decise di creare qualche cosa di altrettanto  bella: la rosa, appunto, perfetta nella forma e finemente profumata.
Anche Anacreonte racconta che la rosa è la stessa Afrodite che emerge dalle onde del mare Egeo gocciolante d’acqua. Una goccia, fissata sulla pelle nuda della Dea, cadendo a terra, fece spuntare la prima rosa.
Non si esaurisce mai il discorso sulla rosa. La rosa è il fiore più  cantato dai poeti, menzionato dagli antichi scrittori e disegnato dagli artisti. E’ stata descritta, oltre che nella mitologia, nella letteratura, nella poesia, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella storia, nella Bibbia. Omero racconta che Aurora, la dea del mattino, con “dita di rosa”, dipinge di colore il mondo ad ogni alba. Saffo, Catullo, Anacreonte, Virgilio, Ovidio, Erodoto, Plinio, Ippocrate sono stati incantati dal suo fascino. Dante paragonava l’amore paradisiaco al centro di una rosa. In tempi più recenti Lorenzo il Magnifico, Shakespeare, D’Annunzio, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco non hanno saputo resistere alla tentazione di usarla nelle loro opere.
L’isola di Rodi era detta “l’isola delle Rose”; essendo la terra natale di Minerva.
La rosa era il fiore sacro anche alla dea della saggezza. Nelle feste di Dioniso gli antichi greci erano soliti cingersi con corone di rose poiché credevano che avessero la virtù di calmare i fumi dell’alcool.
Il governo dell’isola di Rodi coniò monete con impresso il simbolo della rosa.
La più antica testimonianza storica sull’origine della rosa risale al re di Accad, Sargon I, che si pensa sia stato il primo a promuovere la coltivazione delle rose nel 2300 a.C. Un’iscrizione attesta che, tornando da una spedizione, “portò ad Ur viti, fichi e alberi di rose”.
Già il pensatore cinese Confucio, che viveva in mezzo alle rose, per esse compose un gran numero di poesie.
Fra i 18.000 volumi della biblioteca dell’imperatore della Cina, 1800 sono trattati di floricoltura e di essi 600 riguardano la coltivazione delle rose nonostante che, allora, erano conosciute solo due qualità: la Rosa bianca e la Rosa giallo-paglierina.

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La rosa è nata, in realtà, oltre quaranta milioni di anni fa, come risulta dai reperti fossili di questo fiore ritrovati nel Colorado e nell´Oregon.
Dal 1790 al 1824 sono state introdotte dall’Oriente in Europa molte varietà spontanee con portamento cespuglioso, con foglie e con rami rossicci allo stato giovanile, con fioritura abbondante dalla primavera all’autunno, costituite da rose singole come fiori da recidere e da rose a mazzetti che formavano variopinte macchie di colore dal profumo intenso.
Oggi le varietà di rosa sono tantissime.
La rosa è sempre stata un elemento indispensabile anche nelle cerimonie religiose e laiche ed è passata indenne dai pagani ai cristiani sempre con lo stesso significato di “perfezione”. Se la rosa è la regina dei fiori, il roseto è il re del giardino. Da sempre considerata simbolo di riservatezza, di eleganza, di bellezza, di fragilità e, soprattutto dell’amore, è stata diffusamente coltivata già nell’antichità sia come pianta ornamentale sia per le proprietà officinali ed aromatiche.
Il re di Babilonia Nabucodonosor coltivava le rose per adornare il suo palazzo e per estrarre dai petali l’olio profumato.
Gli imperatori del Kashmir coltivavano dei meravigliosi roseti poiché enormi quantità di petali erano gettate nel fiume per accogliere il loro ritorno a casa.
Ammirare la soavità e la bellezza della rosa, attingere alle sue innumerevoli proprietà è merito di Bacco, il dio del vino. Bacco, invaghitosi di una ninfa, tentò di possederla. Per sfuggire ai suoi desideri, correndo precipitosamente la ninfa inciampò in un cespuglio che Bacco trasformò in un roseto dal quale spuntarono splendidi fiori di un delicato colore rosato, il colore delle guance della sua ninfa.

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Ebrei ed Egiziani conobbero la rosa relativamente tardi, in Egitto, però, divenne una vera passione al tempo di Cleopatra.
Cleopatra portava sempre al collo un cuscinetto ripieno di profumatissimi petali di rosa. Faceva cospargere di petali il pavimento, i mobili e i letti. Invitava Cesare e Antonio a fare il bagno in uno strato di petali di rosa alto mezzo metro.
Petali di rosa erano sparsi lungo il percorso dei vincitori.
Poiché gli antichi romani erano grandi consumatori di rose e farle venire dall’Egitto, dove esistevano enormi coltivazioni, costava una fortuna, furono creati vivai nell’Italia meridionale.
Nella Roma imperiale le rose divennero anche sinonimo di vizi e di eccessi. I nobili patrizi e gli imperatori costringevano i plebei ad una super-produzione di rose a scapito della coltivazione di generi alimentari necessari alla loro esistenza. Amavano, infatti, colmare le piscine e le fontane di acqua di rose e sedere su morbidi tappeti di petali di rosa.
Seneca racconta che Nerone, appassionato di rose, per addobbare una delle sue feste ne ordinò una tale quantità, pagata quattro milioni di sesterzi, spargendo i petali sopra i suoi invitati.
Marco Aurelio Antonino, detto Eliogabalo, in onore del dio Sole, durante una cena fece scendere da un finto tetto dei suoi saloni un’abbondante pioggia di petali di rosa che ha sommerso i propri convitati tanto che alcuni di loro perirono soffocati.  Egli si bagnava solo nel vino di rose.
Verre, politico romano del I secolo a.C., propretore della Sicilia dal 73 al 71 a.C., sulla lettiga giaceva disteso su un materasso di rose e con esse si cingeva la testa e il collo. Marco Valerio Marziale, il più importante epigrammista in lingua latina, diceva “Egiziani inviateci il grano, noi vi manderemo rose“.
Ancora nell’antica Roma, testimoniate fin dal I secolo d.C., tra l’11 maggio e il 15 luglio si tenevano le Rosalie, la festa delle Rose, che rientravano nel culto dei morti. Durante questa festa le tombe erano guarnite di rose e di viole.
In Cina l’essenza di rosa può essere usata solo dai membri della famiglia imperiale e dagli alti dignitari. Un sacchetto pieno di foglie di rosa era considerato un talismano contro i geni del male, contro le malattie e i brutti sogni. Per fare sogni d’oro si consigliava di dormire su un cuscino imbottito di petali di rose, di aroma di limone, di menta e di chiodi di garofano. In Thailandia è credenza popolare che il genio del bene è nato in un boschetto di rose, mentre il genio del male in un boschetto di cipressi.
La rosa è simbolo di “rigenerazione” perciò veniva portata sulle tombe degli avi offerta ai Mani dei defunti. Nella religione romana i Mani erano le anime benevole dei defunti e le divinità dell’oltretomba. Veramente, in principio, certi lussi furono un poco limitati, nessuna esibizione di corone, nessun letto di rose e persino qualche critica all’abitudine di ornare di fiori le tombe, perché, come osservò Minuzio Felice “se i morti sono in pace, non sanno che cosa farsene e, se sono dannati, non possono gioirne“.
Ecate, dea degli inferi, era talvolta rappresentata con corone di rose a cinque petali: il cinque indica la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. Questo uso si è conservato in alcune regioni d’Italia dove la domenica di Pentecoste è detta “Pasqua delle Rose”.
Nell’antica festa di Pentecoste dei primi cristiani la rosa rappresentava la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e, durante la ricorrenza, petali di rose erano fatti cadere sui fedeli dal lucernaio della cupola dell’antico Pantheon, diventato Santa Maria dei Martiri, a simboleggiare le lingue di fuoco della sapienza.
Sempre petali di rose bianche erano fatti cadere il 5 agosto sui fedeli radunati in Santa Maria Maggiore a Roma per ricordare la nevicata miracolosa che indicò il luogo dove, per volere della Madonna, si sarebbe dovuta costruire la chiesa.
Anche oggi dai balconi dei palazzi si gettano ceste di petali di rosa sui simulacri dei Santi e sul Corpus Domini.
Nei tempi lontani, nella quarta domenica di quaresima, a San Pietro si svolgeva una cerimonia risalente al 1096. In quell’anno, alla fine del Concilio di Tours, papa Urbano II° benedisse per la prima volta una rosa donandola al principe che si era maggiormente distinto nei confronti della chiesa. Si trattava di un ramo che portava molte rose d’oro e dove erano incastonate pietre preziose. Il ramo rappresentava il Cristo.
Questa ricorrenza, denominata Domenica a Latere o Domenica delle Rose, era considerata un passaggio verso l’ultimo periodo della quaresima. Metà della penitenza era ormai superata, c’era una pausa di riposo che, simbolicamente, corrispondeva  alla partenza degli Ebrei verso Gerusalemme. Dopo il 1759 questo prezioso “omaggio” fu riservato alle regine.
Le ultime rose d’oro furono donate nel 1923 a Vittoria Eugenia di Spagna, nel 1925 ad Elisabetta del Belgio, nel 1937 ad Elena di Savoia, regina d’Italia.

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Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, una grande appassionata di rose fu Giuseppina  Beauharnais, prima moglie di Napoleone Bonaparte, che fece arrivare dall’Inghilterra e da altri continenti rose dalle diverse varietà da coltivare nel giardino della Malmaison. Nemmeno le guerre napoleoniche, grazie a speciali permessi, la fermarono. I suoi giardinieri erano abilissimi nel creare nuovi ibridi. In questo modo incrementò l’esiguo numero delle specie allora coltivate. Il suo fiore preferito era la Rosa spinosissima.
Ai nostri giorni splendide rose sono state donate a personaggi illustri: a Rita Levi Montalcini, a Lady Diana, ad Ornella Muti, a Sofia Loren, a Marella Agnelli, a Luchino Visconti, che collezionava rose color pastello.
La rosa è il fiore più disegnato dagli artisti.
Nel quadro di Botticelli, “la nascita di Venere“, la dea sorge dalle acque accompagnata da una pioggia di rose. Esse celebrano colei che è la manifestazione della bellezza divina, ma anche il sacro sposalizio tra cielo e terra.
Marcel Uzè scrisse che un dio, passando un giorno dinanzi ad un umile cespuglio che sembrava attendere un poco di vita, gridò: “Che la rosa sia”.
Immediatamente nacque dal cespuglio un fiore luminoso e bianco, la prima di tutte le rose.
E’ difficile trovare in letteratura un altro fiore più famoso della rosa celebrata come il simbolo della grazia femminile. Rosa è la prima parola con la quale inizia il celebre “contrasto” di Cielo D’Alcamo:

Rosa fresca aulentis[s]ima  ch’apari inver’ la state,

le donne ti disiano,  pulzell’ e maritate:

tragemi d’este focora, se t’este a bolontate;

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di  voi, madonna mia.”

E’ messo in risalto il contrasto amoroso fra il gabelliere innamorato e la donna che lo rifiuta.

Nell’ode “All’amica risanata”, dedicata ad Antonietta Fagnani Arese guarita da una brutta malattia che l’aveva colpita nell’inverno del 1801-1802 e da cui uscì sul cominciare della primavera:

“[… ] Fiorir, sul caro viso

Veggo la rosa, tornano

I grandi occhi al sorriso

Insidiando; e vegliano

Per te in novelli pianti

Trepide madri, e sospettose amanti [… ] “

Ugo Foscolo decanta il rifiorire della sua primitiva bellezza che la rende oggetto di trepida ammirazione da parte di tutti.

Ne “Il sabato del villaggio”:

“La donzelletta vien dalla campagna,

in sul calar del sole,

col suo fascio dell’erba; e reca in mano

un mazzolin di rose e di viole,

onde, siccome suole,

ornare ella si appresta

dimani, al dì di festa, il petto e il crine  [… ] “

Giacomo Leopardi fa intuire che l’unica forma di felicità consiste nello sperare, non nel vivere.

Anch’egli s’immerge nelle gioie di questo piccolo mondo, le gioie del sabato che preludono la domenica. Come scrive il Vossler “E’ gioia di un giorno specchiata in eterno dolore”.
Nel racconto di Antoine di Saint-Exupéry ”Il piccolo principe“, il principe viveva sul suo minuscolo pianeta insieme ad una rosa che egli pensava essere unica. Quale non fu la sua infelicità quando, scendendo sul pianeta terra, s’imbatté in un giardino fiorito di rose. Una volpe gli spiegò il mistero. Il piccolo principe capisce: gli uomini “coltivano cinque mila rose in un unico e medesimo giardino, e non vi trovano ciò che cercano. E pensare che quel che cercano lo possono trovare in un’unica rosa. Ma gli occhi sono ciechi. Con il cuore bisogna cercare“.
E. Dean Hole affermò: “Chi vuole avere rose belle nel giardino, deve avere rose belle nel cuore”.
Questi discorsi non sono per nulla esaurienti e riferimenti alla rosa ne esistono in abbondanza.
Nelle 74 fitte pagine del “Deutsches Worterbusch” i fratelli Grimm, alla voce “Rosa“, si esprimono con derivati ed espressioni ad essa attinenti: “roseo, rosetta, balsamo di rosa, sangue di rosa, colori rosa, labbra rosate, velo di rose, gote rosate, tempo delle rose”.
La Rosa c’è anche nella Bibbia. In Siracide, come “attributi della Sapienza” si legge: “[…] come le palme in Engaddi, come le piante di rose in Gerico […]” (Siracide 24,1-4). Nel passo “il sapiente letterato”, dello stesso Siracide, che esorta a lodare Dio, è scritto: “[…] Ascoltatemi figli santi, e crescete come una pianta di rose su un torrente […]”(Sir. 39,25).
Con l’inizio del cristianesimo la rosa rossa è coltivata perché le sue spine ricordano la passione di Cristo.

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Il culto, un tempo tributato a Venere, ora è giustamente riservato alla Madonna il cui cuore è raffigurato trafitto da spine di rosa.
Secondo un’antica leggenda la rosa era priva di spine e la Vergine è detta “Rosa senza spine” perché non è stata sfiorata dal peccato originale.
San Domenico di Guzman sogna che le preghiere dei mortali salgono alla Madonna sotto forma di rose e ne discendono piene di grazie.
È la nascita del Rosario: la preghiera più popolare adatta alla recita singola e collettiva che si trasforma in un potente mezzo d’intercessione.
San Bernardo, in uno dei suoi sermoni (vol. III p.1020), dice: “Maria è stata una Rosa, bianca per la sua verginità, vermiglia per la carità“.
La rosa è presente nella simbologia cattolica. la Rosa mistica è la Vergine; la Rosa alba raffigura i misteri gaudiosi del rosario che simbolicamente rappresentano ”la nascita”, la Rosa rubra i misteri dolorosi, “la morte”, la Rosa lutea i misteri gloriosi, ”la resurrezione”. Il temine di “Rosario” si lega alla visione delle rose. Se le spine sono il simbolo del peccato, la rosa è, appunto il simbolo, della redenzione. Così canta il poeta provenzale Pierre de Corbiac:

Roza ses espina

Sobre totes flors olens

rosa senza spine,

la più odorosa dei fiori”.

Gli angeli e le anime benedette del Paradiso sono spesso dipinti con corone di rose che circondano la testa.
Cespi di rose incoronano il capo delle Sante. Santa Rosa da Lima cambia il proprio nome e, da Isabella, diventa Rosa ed è la “Rosa del Nuovo Mondo”.
Nei secoli XVIII e XIX sul cassettone delle case di un certo pregio era in bella mostra una statuetta di cera del Bambino Gesù incorniciata da un serto di roselline doppie d’organza di colore rosa della varietà Pompon de Bourgogne.
Simbolo di riservatezza, una rosa stilizzata a cinque petali fu spesso utilizzata per ornare i confessionali con la scritta “sub rosa” posta sotto il sigillo del silenzio e della discrezione per garantire il segreto della confessione. L’espressione “sub rosa” significa “in confidenza”.
La rosa è entrata anche nella storia. In Inghilterra una rosa rossa divenne il simbolo del casato Lancaster, mentre una rosa bianca divenne il simbolo del casato York. Fra questi due casati fu combattuta la guerra dei trent’anni, (1455-1485), nota come “la guerra delle Due Rose”.
Come simbolo, è tra i più usati negli stemmi sia di casate sia di città.
In Svizzera le persone assolte avevano il diritto di portare la “Rosa dell’innocenza“.
Il teologo tedesco Lutero, il padre spirituale della Riforma protestante, aveva una rosa nel suo sigillo.
La rosa bianca era il movimento tedesco di opposizione al nazismo.
La rosa è stata da sempre un fiore molto amato. Gli affreschi e i tessuti scoperti nelle tombe egiziane, databili intorno al III – IV secolo a.C. e nelle case di Pompei (79 a.C.) documentano la presenza della rosa coltivata. Virgilio attesta l’esistenza a Paestum di roseti che fiorivano due volte l’anno. Il Medioevo fu un’epoca buia per la rosa. Carlo Magno emise inutili decreti per valorizzarla tanto che ne impose la coltivazione anche nelle ville private. Nella stessa epoca i monaci benedettini si affezionarono a questo fiore e lo coltivarono.
Roland A. Brawne scrisse: “Io non so se le brave persone tendono a coltivare rose, o se coltivare le rose rende brave persone”.
Con la caduta dell’impero romano il fascino della rosa subì un forte arresto. Alberto Magno di Bollstädt (1200-1280) ), vescovo domenicano di origini tedesche, conosciuto come Sant’Alberto il Grande, il santo protettore degli scienziati, consigliava la sua coltivazione “sicut ruta, salvia et basilicon“.
I suoi precisi riferimenti testimoniano  fin da allora nell’Europa continentale la presenza di quattro specie di rosa: Rosa canina, Rosa alba, Rosa rubiginosa, Rosa arvensis.
Pare che si debba risalire a San Medardo per ritrovare l’origine del simbolo della corona di rose come ricompensa della virtù. Si narra che Medardo, vescovo di Vermandois, nato a Salency e morto a Noyon nel 545, uomo molto solidale verso i poveri, abbia stabilito un premio di 25 franchi da regalare ogni anno alla più virtuosa fanciulla e, contemporaneamente, le si cingeva la fronte con un serto di rose.
Il vocabolo rosa è ancora molto usato nel discorso figurativo: il mese delle rose è il mese di maggio, la stagione delle rose è la primavera, un bocciolo di rosa è una giovane bella e fiorente, essere in un letto di rose è trovarsi in una situazione favorevole, essere fresco come una rosa è mostrare un aspetto rilassato e indifferente, non c’è rosa senza spine indica che anche la gioia può essere contrastata da qualche dispiacere, all’acqua di rose sono le azioni superficiali e poco impegnative, vedere tutto rosa è essere ottimisti. La rosa è un tema sempre ricorrente.
La mitologia, la storia, la poesia cedono il posto alla scienza.

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La Rosa, appartenente alla famiglia delle Rosaceae, comprende circa 150 specie e numerose varietà con infiniti ibridi. E’ un alberello alto da 20 centimetri a diversi metri, dall’aspetto cespuglioso, sarmentoso, rampicante e anche strisciante. Le foglie, alterne, picciolate, imparipennate, caduche, composte da 5-9 foglioline, ovali, sono dentate e a margine seghettato.
La pagina superiore è verde, mentre quella inferiore è pallida e glabra. I rami sono numerosi, eretti nella parte inferiore, ricurvi nella porzione superiore. Sul tronco e sui rami numerose foglie, trasformate in spine, difendono la pianta dal morso degli erbivori. I fiori possono essere grandi o piccoli, a mazzetti, solitari, semplici o doppi e fioriscono tra maggio e giugno e, quando fioriscono le rose, cantano gli usignoli che, nella poesia persiana, dichiarano il loro amore per la regina dei fiori.
Firdousi, nel XI sec., canta: “I giardini arrossiscono per lo splendore delle rose. Le colline sono coperte di tulipani e giacinti; nei boschetti piange e si lamenta l’usignolo; la rosa risponde sospirando al suo canto”.
I frutti sono piccoli acheni bruno-giallastri racchiusi nel falso frutto ovale di colore rosso vivo, lucido, carnoso chiamato cinorrodo.
La moltiplicazione avviene per seme, ma Plinio descrive, con vivezza di particolari, la coltivazione della rosa tramite la talea, un metodo più facile e più rapido. La rosa è una pianta colonizzatrice che vive anche sulla roccia.
Le piante sono solitamente coltivate in piena terra nei giardini e dentro le aiuole poste su un terreno argilloso fresco, fertile e ben drenato. Prediligono un’esposizione in pieno sole o in luoghi molto luminosi e sopportano bene temperature sia alte sia basse.
Passando dalla rosa selvatica a quella coltivata, le cure necessarie per una buona fioritura aumentano perché, appunto, si desidera produrre un fiore di colore, di dimensioni, di profumo diversi da quelli originari. Il roseto, con le sue caratteristiche foglioline tondeggianti, alcune trasformate in spine, resta sempre una pianta rustica.
Greci, Romani e Persiani impiegavano diverse varietà di rosa a scopo terapeutico.
Il medico arabo Eissa Ibn Massa riconosce ai petali di rosa rossa una virtù al tempo stesso fortificante e rinfrescante che si rivela miracolosa nelle affezioni cerebrali. Ishac Ibn Amram consiglia il decotto di petali di rosa per rafforzare lo stomaco ed il fegato. Razès lo usa come febbrifugo.
Nel 77 d.C. Plinio citava ben 32 disturbi che potevano essere curati con preparati a base di rose.
La famosa acqua di rose fu inventata da Avicenna, celebre medico persiano vissuto tra il IX e il X secolo, che la considerava anche efficace contro la nausea, contro le infiammazioni degli occhi e delle orecchie.
La rosa, in farmacopea, è un eccellente tonificante ed astringente e anche oggi è riconosciuto il suo valore nella cura delle emorragie e dei tumori della pelle.
Nell’antichità l’olio di rose era usato sia per imbalsamare i morti, sia per lucidare il legno pregiato con cui erano costruiti molti idoli. Per ottenerlo, si faceva bollire del giunco aromatico in olio d’oliva, si agitava bene e si versava sui petali di rosa opportunamente seccati. Si lasciava in infusione un giorno ed una notte e si filtrava il tutto conservandolo in vasi prevalentemente unti di miele.
Dai petali opportunamente seccati si ricavava, inoltre, una polvere deodorante, chiamata “diapasma “, usata come talco dopo il bagno caldo e prima di quello freddo. Plinio parla di un profumo ottenuto mescolando in olio d’oliva fiori di rosa, di zafferano, di cinabro e di giunco.
In realtà non era un profumo, ma un unguento profumato, infatti non si sapevano ancora distillare le essenze. Oli, unguenti e profumi ricavati da questo fiore erano usati in tutto il mondo antico. Infatti, Omero, nell’Iliade, canto XXIII, verso 186, parlò della rosa, anzi d’olio di rose per i massaggi. Afrodite usò olio di rose per preparare alla sepoltura il corpo di Ettore ucciso dal pelide Achille che minacciava di gettarlo in pasto ai cani, ma non avvenne perché

“[…] i cani li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite

di giorno e di notte, l’ungeva con olio di rose,

ambrosio, perché Achille non lo scorticasse tirandolo […]”

Le spade dei due contendenti recavano inciso sull’elsa il fiore di rosa.

Gli alchimisti persiani del XVI secolo producevano un’essenza superiore per distillazione.
L’essenza è un prodotto costosissimo; per produrre 300 grammi d’olio servono circa 1000 Kg di petali. Per questo motivo oggi è largamente sintetizzata. Circa il 96% dei profumi femminili e il 46% di quelli maschili contengono essenza di rosa.
La rosa, pur nella sua bellezza, è causa di fastidiose allergie. Lusitanicus racconta di un sacerdote ”[…] tamquam mortuus, humi prostratus iacebat, proinde a medicis consulebatur, ut eo tempore, quo rosae vigebant, domi maneret, nec extra prodiret, ut tantum malum fugeret[…]”  “Lo sfortunato era costretto a non uscire di casa finché fiorivano le rose nei dintorni, sotto pena di rimanere a terra, come morto”.
Già, fin dal tempo di Galeno (129-199), le rose godevano di questa fama negativa. Come scrive Serafini, sofferenze vaghe e malesseri non ben precisabili colpivano molti individui fra quelli che si trovavano in presenza di fiori di rosa.
Fra i secoli XVII e XVIII s’incominciò a parlare di una strana forma di “raffreddore da rose”. Scrive Johannes Pierius Valerianus che fu il cardinale Oliviero Caraffa a sperimentare involontariamente la perfidia nascosta nelle rose. Egli era tanto sensibile da essere costretto ad ordinare alle guardie di servizio del suo palazzo di impedire l’ingresso a chiunque recasse con sé questi fiori.
Le rose, essendo entomofile, impollinate per mezzo degli insetti, liberano nell’aria il poco, ma nocivo polline responsabile delle fastidiose allergie.
La rosa è apprezzata anche nell’arte culinaria. In cucina si faceva grande uso di insalate di rose,soprattutto come “intermezzo” fra una portata e l’altra quando si beveva un po’ troppo; molto quotato era anche il paté alla rosa. Gli Assiri, pare, furono i primi a scoprire le sue virtù. In età romana si usavano i petali per fare “il piatto di rose con cervella, uova, vino e salsa di pesce“. Marco Gavio Apicio, nato intorno al 25 a.C. e morto verso la fine del regno di Tiberio, famoso buongustaio romano, ha saputo creare saporite ricette utilizzando i petali di rosa come è scritto nel “De re coquinaria”, “L’arte culinaria”, lasciando ai posteri la ricetta del pudding di rosa.
La rosa canina ha avuto un ruolo importante nella fornitura di vitamina C ai bambini britannici durante la seconda guerra mondiale. I suoi frutti, detti “arance del nord”, sono stati usati in sostituzione della fonte normale degli agrumi allora difficili da reperire.
Alla rosa erano attribuiti anche molti significati magici. Apuleio, nella favola dell’Asino D’oro, racconta che Lucio, stanco di essere condannato a restare nel corpo dell’animale, invoca Iside che, per fargli riprendere le sembianze umane, gli consiglia di mangiare una corona di rose.

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Nella favola “ La Bella e la Bestia”, Bella chiede “solo una rosa” al padre che parte per un lungo viaggio. Al suo ritorno Bella riceve una rosa magica, che non appassirà mai, cresciuta nel giardino della Bestia. Bella s’innamora della Bestia.
Nella favola “La bella addormentata nel bosco“, la protagonista è custodita nel suo sonno verginale da una tenace barriera di rose selvatiche in grado di conservarla intatta per cento anni fino all’incontro del vero amore. La ragazza si chiama Rosaspina.
Più spesso la rosa continua a mantenersi casta, anzi diviene simbolo di castità tanto che in Germania era proibito l’uso di corone di rose alle fanciulle che avevano perso la virtù, mentre le donne regolarmente maritate potevano portare corone, ma poste sul cappello. Nel Medioevo solo le vergini potevano indossare ghirlande di rose.
Molto tempo fa, in diverse parti dell’Europa, le ragazze, la vigilia del giorno di San Giovanni, usavano gettare alla luce della luna petali di rosa. Alla mezzanotte, recitando una particolare orazione, avrebbero visto apparire l’uomo che le avrebbe sposate.
In Persia una ragazza poteva far tornare l’innamorato perduto bollendo la sua camicia in acqua di rose e di spezie.
La rosa ha meritato un’intera gamma di significati diversi a seconda del colore e della forma.

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Nel linguaggio dei fiori alla rosa si attribuisce un doppio significato: “delicatezza e piacere”, ma anche “sofferenza e dolore fisico”.
Il piacere è quello che si prova nel guardarla e nel sentire il profumo, il dolore è quando si tenta di coglierla. Ogni colore di rosa evoca un particolare significato: la rosa bianca, legata alla Madonna, simboleggia il “silenzio e la segretezza”, ma anche il “candore, l’innocenza e la verginità”; indica “amore eterno e puro, libero dalla passione terrena, ma è anche simbolo di morte”.
La rosa variegata simboleggia “l’amore tradito”. La rosa tea la “gentilezza della donna amata”. La rosa rossa è simbolo di “passione, di pegno di un amore fedele, dell’amore che sopravvive alla morte” e, unita al mirto, è una vera e propria richiesta di “matrimonio”. Se l’amata è una fanciulla, allora è meglio scegliere il colore rosa tenero simbolo di “serenità”. La rosa gialla simboleggia la “vergogna, l’infedeltà, la gelosia”.

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Una leggenda narra che il profeta Maometto, essendo dubbioso sulla fedeltà della sua favorita Aisha, chiese all’Arcangelo Gabriele di aiutarlo a scoprire la verità. L’Angelo gli disse di bagnare le rose e, se avessero cambiato colore, i suoi dubbi sarebbero stati fondati. Di ritorno a casa, Maometto ricevette da Aisha alcune rose rosse. Maometto le ordinò di lasciarle cadere nel fiume. Diventarono gialle!

 

May 30, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA CHIESA DI SANTA MARIA DI TAGLIAVIA “A MATRI TAGLIAVIA”

LA CHIESA DI SANTA MARIA DI TAGLIAVIA “A MATRI TAGLIAVIA”


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La chiesetta di Santa Maria di  Tagliavia è una piccolissima chiesa rurale extra moenia, posta fuori dalle mura del paese, distante dal centro abitato di Mistretta appena 2,5 chilometri e ad un’altezza di 1100 metri.
La chiesetta si raggiunge percorrendo la regia trazzera interna del boschetto in contrada Neviera.

 

 

 

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Anticamente, in questo luogo prima della chiesetta fu edificata l’edicola votiva dedicata alla Madonna del Santo Rosario o Madonna di Pompei.

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La sua edificazione risale al 1845 per volere dei fratelli Lo Iacono, Si narra che i fratelli Lo Iacono, allevatori di Mistretta, agli inizi dell’‘800 si trovavano a Corleone per avere preso in affitto, dalla Mensa Arcivescovile di Monreale, il feudo, di proprietà  dei baroni Tagliavia, per portare al pascolo i loro animali.
Per la costruzione ” ru zaccinu “, il recinto che circonda “u marchitu”, il luogo dove la sera si riuniscono pecore, capre, mucche, i due fratelli raccoglievano le pietre necessarie per portare a termine il loro lavoro.
Sepolta sotto un cumulo di pietre trovarono una bella lastra di ardesia, alta circa 72 cm e ben levigata. Osservandola con curiosità, con grande meraviglia i due fratelli scoprirono che nella lastra era dipinta l’effigie della Madonna del Rosario.
I fratelli Lo Iacono, contenti, ma stupiti, raccontarono la loro recente vissuta esperienza ai parenti, agli amici, ai vicini.
Per permettere a tutti di andare ad ammirare il dipinto e di venerare la sagra immagine della Madonna, alla quale imputarono una serie di eventi miracolosi successivi al ritrovamento della lastra di ardesia, la deposero su un cumulo di pietre.
Oggi, a Corleone, nello stesso luogo dove fu ritrovata la lastra sorge un grandioso Santuario detto, appunto, della “Madonna di Tagliavia “.
I fratelli Lo Iacono, dopo 45 anni di permanenza nel feudo di Corleone, ritornati a Mistretta, notarono che in un margine del sentiero che circondava i loro campi e l’ovile c’era un mucchio di pietre.
Era un segno premonitore!
Bisognava edificare lungo quel polveroso sentiero, sopra quelle pietre, un’edicola dedicata alla Madonna del Santo Rosario.
Era, come già detto, l’anno1845.
Quindi promotori del culto alla Madonna del Rosario a Mistretta sono stati due fratelli Lo Iacono. L’edicola di Mistretta è stata dotata di un dipinto a tempera su faesite, realizzato dal pittore amastratino Antonio Biffarella intorno alla metà del XX secolo, che riproduce l’immagine della Madonna del Rosario uguale a quella trovata dai fratelli mistrettesi Lo Iacono sotto il mucchio di pietre nel feudo di Corleone. Ai lati della Madonna del Rosario giacciono: Santa Caterina da Siena e San Domenico di Guzman detto il “Surione”.

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Il dipinto è stato recentemente restaurato da Mario Biffarella, figlio di Antonio, grazie all’interessamento della signorina Pina Giletto e dalla signora Rita Marchese che hanno coinvolto il cuore dei mistrettesi con le loro donazioni.

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La signora Liria Travagliato, che mi ha dato queste informazioni orali, concorde anche la guida turistica Nino Dolcemaschio, mi ha raccontato che, come testimonia la tradizione, ogni persona che, percorrendo il sentiero passava davanti all’edicola, lasciava una pietra come esortazione a costruire una vera chiesa dove potere effettuare le funzioni religiose.
Il cumulo di pietre attorno all’edicola c’è sempre. Oggi vi si accede salendo un certo numero di gradini.

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Costatata la grande partecipazione dei fedeli mistrettesi alla festa della Madonna di Pompei che sempre più numerosi si recano a visitare la sacra immagine della Madonna del Rosario custodita nell’edicola, il Parroco e la comunità parrocchiale di Santa Caterina d’Alessandria proposero di edificare una chiesetta davanti alla piccola edicola.

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La chiesetta è stata edificata nel 1909, come attesta la data incisa sul concio della chiave del portale in pietra arenaria locale.

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L’arredo della chiesetta è molto povero. Sull’unico piccolo altare, sul quale poter celebrare regolarmente la Santa Messa, è collocato un dipinto, dono del pittore amastratino Peppino Lupo, che raffigura l’immagine della Madonna del Rosario con il Bambino e ai lati due Santi.

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L’altare è continuamente abbellito dai fedeli con fiori e ceri.

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Un piccolo Crocifisso arreda la parete.

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La chiesetta della “Matri Tagliavia” è molto piccola e può accogliere contemporaneamente solo poche persone. Lo spiazzale è grande anche perché c’è la lunga strada detta “ra Matri Tagliavia” col significato che la Madonna taglia la Via a quelle persone che avrebbero intenzione di compiere cattive azioni a danno di altre e aprendo, al contrario, la strada della retta Via.
Due volte all’anno, l’otto maggio, perché è il mese di Maria, e il sette ottobre, perchè è la festa della Madonna di Pompei, i fedeli si recano in pellegrinaggio alla piccola chiesetta “ra Matri Tagliavia” per festeggiare la Madonna del Rosario. I fedeli si riuniscono nello spiazzale della Parrocchia di Santa Caterina d’Alessandria e, accompagnati dal parroco Sac.Giovanni Lapin, preceduti dall’icona con l’immagine della Vergine effigiata su una lastra di maiolica, si avviano verso la chiesetta a piedi e anche scalzi per venerare la Madonna e ringraziarla per grazie ricevute.

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 Questa icona è stata regalata dalla comunità di Corleone ai fedeli amastratini quando si sono recati alcuni anni fa a visitare la grande chiesa dedicata alla Madonna di Pompei nel feudo di Tagliavia, luogo da dove è iniziato Il desiderio di costruire la chiesetta dedicata alla Madonna del Rosario anche a Mistretta. Durante il pellegrinaggio i fedeli recitano il Santo Rosario, cantano lodi alla Madonna e recitano:

Vi viegnu a-vvisitari, o ruci ronna,

Matrizza ri la Santa Tagghiavia,

ca ri stu munnu siti la culonna

e-ddi-ddu munnu siti la me-ddia!

Viegnu a-vviriri a-vui, filici ronna,

Matruzza ri la Santa Tagghiavia!

 

P’u rrusariu:

 

-Cu laramu tutt’a via?

A la Matri Tagghiavia! –

– E – llaramu a-ttutt’a via

La Matruzza Tagghiavia! –

La Madonna del Rosario è miracolosa.

Anche oggi, 8 maggio 2017, si è ripetuto il tradizionale pellegrinaggio alla chiesa della Matri Tagliavia

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foto di Antonio Biffarella e di Mattia Lo Iacono

La chiesetta è stata restaurata con lavori effettuati all’esterno e anche all’interno per eliminare l’umidità causata dalle infiltrazioni dell’ acqua piovana.
Il recente restauro della chiesa è stato finanziato per il 90% dalla signorina Pina Giletto  e per la restante parte da alcuni fedeli.
Anche il quadro è stato restaurato grazie all’interessamento della signorina Pina Giletto e dalla signora Rita Marchese.
Davanti all’altare è stata incastonata una bellissima croce realizzata con la pietra dorata locale dal maestro muratore, il signor Felice Ruggeri, che ha eseguito i lavori di restauro della chiesetta e alla quale ha donato la Croce .
Grazie a tutti i fedeli devoti che hanno contribuito alla realizzazione di queste opere.
Grazie, Lucia Tamburello, per avere arricchito l’articolo con queste notizie.
Dalla viva voce del signor Antonino Bongarrà ho appreso la storia della guarigione della sua giovane mamma per intercessione della Madonna del Rosario. La giovane signora Marietta Giordano, già madre di tre figli, di due femminucce e di un maschietto, Antonino, che allora aveva quattro anni, contrasse una butta malattia facendo molto preoccupare per la sua vita il marito e il medico di famiglia. Il farmaco specifico, somministrato nell’arco di breve tempo, l’avrebbe salvata da morte sicura. A Mistretta quella salutare medicina non era reperibile. Bisognava andarla a cercare nel più vicino paese: a Santo Stefano di Camastra.  Allora a Mistretta non erano arrivate le veloci autovetture, ma i mezzi di trasporto erano il carretto e, per chi la possedeva, la bicicletta.
Il parente, il signor Benedetto Rossini, si offrì di raggiungere la cittadina di Santo Stefano di Camastra a cavallo della bicicletta. Percorrere la strada in discesa dalla montagna al mare per il ciclista è stato facile, il ritorno, dal mare alla montagna, in salita e in poco tempo, gli è stato molto più difficile.
Fortunatamente portò il farmaco necessario all’ammalata che, prontamente curata, miracolosamente già al mattino successivo si svegliò senza la pericolosa febbre che la tormentava da diversi giorni. Per ringraziare la Madonna del Rosario della “Matri Tagliavia”, supplicata per ottenere la grazia della guarigione dell’amata moglie, il marito, il signor Francesco Lucio Bongarrà, organizzò una grande festa nello spiazzale della piccola chiesa. Dopo la celebrazione della Santa Messa di benedizione, la folla dei mistrettesi, intervenuta per ringraziare la Madonna del miracoloso Suo intervento, fu saziata con la grande quantità di alimenti trasportati sul dorso di quattro muli. E’ sovrabbondato tanto cibo, più di quanto ne è stato consumato.
La signora Marietta, nata a Mistretta nel 1908, agli inizi degli anni ’60 dello scorso anno si adoperò per ristrutturare la chiesetta della Matri Tagliavia che l’azione del tempo e la disattenzione stavano per distruggerla. La chiesa, restaurata, fu riaperta al culto nel 1963.
A tutt’oggi alcuni fedeli si adoperano per pulire l’interno della chiesa, per togliere le erbe dall’esterno. Sarebbe necessario un nuovo intervento per eliminare le infiltrazioni d’acqua piovana che stanno rovinando gli intonaci interni.
Anticamente la porta della chiesa era sempre aperta e l’interno accessibile a chiunque, passando da lì, o si fermava per accudire gli animali al pascolo, poteva trovare rifugio durante le intemperie e i temporali.

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Oggi la porta è chiusa, per precauzione, ma facilmente apribile girando la chiave inserita nella serratura.
Il luogo dove sorge la chiesetta della “Matri Ttagliavia” è incantevole. Si ammirano le montagne dei Nebrodi che circondano il territorio di Mistretta, le isole Eolie nel mar Tirreno. Colori accesi e brillanti illuminano i semplici e spontanei fiorellini da campo. Il suono dei campanacci degli animali al pascolo sembra una dolce melodia. L’aria è fresca, pulita, salubre, ossigenata, profumata. E’ un luogo di meditazione, di riflessione, di attrazione naturalistica.

 

 

 

 

 

May 21, 2016 - Senza categoria    Comments Off on “NOTTE DI LUNA”

“NOTTE DI LUNA”

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22 Maggio 2000- 22 Maggio 2016

Sono trascorsi 16 lunghissimi anni da quando da questa terra, per te non madre ma matrigna, sei volato in Cielo.

Sei un angelo fra gli Angeli del Paradiso.

Carmelo, nessuno ti ha dimenticato!

Questa vecchia foto dimostra che tu ed io eravamo giovani, la vita ci sorrideva, custodivamo molti sogni nel nostro scrigno segreto.

 

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Da Licata andavamo a Mistretta.

Da Mistretta ritornavamo a Licata, dove avevamo eletto la nostra sede,  trasportati dalla nostra reginetta: dalla macchina “Cinquecento”,  che avevamo comprato a rate dopo la laurea con il profitto del nostro lavoro di neo-insegnanti.

Ci siamo amati. Molto! Di un amore pulito, sincero. Con tanto attaccamento reciproco.

La poesia “NOTTE DI LUNA”, che hai dedicata a me quando ci siamo conosciuti  all’Università di Palermo, è incisa nella mia mente e nel mio cuore.

NOTTE DI LUNA

Notte di luna

in cielo sereno,

concerto d’estate

per un cuore che t’ama.

Vorrei restar così

fino a veder nel cielo

la porpora spuntare dall’oriente.

Ti penso e sento, nella notte,

sussurrare il mare;

son due stelle i tuoi occhi,

per il firmamento insieme vanno,

palpitano e della tua luce brillano.

I tuoi capelli son l’onde

del mare nel meriggio,

la tua bocca, che tanto bramo,

è l’alba del mio amore.

Chissà se un giorno mai

guardando il firmamento,

a me ti stringerai.

Quel giorno insieme,

il concerto del mare ascolteremo

e tradurrò quel ch’ei ti dice

nella notte serena mormorando.

 

A Nella con tutto il mio amore

Carmelo   1966

Dal libro “Sintiti, Sintiti” di Carmelo De Caro

May 18, 2016 - Senza categoria    Comments Off on RITA DA CASCIA LA SANTA AVVOCATA DEI CASI IMPOSSIBILI E DISPERATI

RITA DA CASCIA LA SANTA AVVOCATA DEI CASI IMPOSSIBILI E DISPERATI

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Margherita nacque a Roccaporena, una frazione montagnosa a pochi  chilometri di distanza da Cascia, in provincia di Perugia, da Antonio Lotti e da Amata Ferri probabilmente nel mese di ottobre del 1381. I genitori, ormai avanti negli anni, volevano un figlio maschio, ma diedero la vita alla loro unica figlia Rita allevandola nell’educazione religiosa.
Piissima, pur desiderando di consacrarsi a Dio fin dalla sua giovane età, tuttavia, di indole mite, Rita, per accontentare i suoi genitori, accettò di sposare, a soli sedici anni, Paolo di Ferdinando Mancini, un giovane di carattere violento e a cui Rita era sottomessa. Doveva chiedergli il permesso anche di recarsi in chiesa!
Pur sopportando umiliazioni di ogni genere, Rita cercò di aiutarlo a convertirsi e a condurre una vita onesta e laboriosa.
Nacquero i gemelli Giacomo Antonio e Paola Maria.
Rita guidava la sua famiglia conducendo una vita semplice, colma di preghiera e di rettitudine.
Una notte un tale, spinto dall’odio per aver subìto qualche cattiva azione, uccise barbaramente Paolo.
Rita, coerente con le parole del Vangelo, perdonò l’assassino del marito. Le sue prove di perdono e di mitezza non riuscirono a far cambiare idea ai figli che covavano nei loro cuori sentimenti di odio e di vendetta. Piuttosto che saperli assassini, Rita pregò Dio perché li prendesse con Sé. Morirono entrambi in giovane età poco tempo dopo la morte del loro padre.
Rimasta sola e con il cuore straziato dal dolore, Rita si adoperò in opere di carità cercando di essere accolta nel monastero.
Per ben tre volte bussò alla porta del Monastero Agostiniano di Santa Maria Maddalena a Cascia.
Le agostiniane la respingevano perché era donna, ma vedova. Solo nel 1417 vi fu accolta per intercessione dei suoi protettori San Giovanni Battista, San Nicola da Tolentino e Sant’Agostino che, miracolosamente, la introdussero nel monastero dove visse per quaranta anni servendo Dio ed il prossimo con una generosità allegra e attenta agli eventi del suo ambiente e della Chiesa di quel tempo.
La Madre superiora mise alla prova la sua ferrea volontà affidandole il compito di annaffiare ogni giorno un cespuglio di rose ormai appassito. Tutti i giorni l’ubbidiente Rita annaffiava la pianta con amore.
La pianta rifiorì dando bellissime rose.
Ancora oggi si può visitare a Cascia il famoso roseto di Santa Rita che è coltivato e rinnovato.

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Devotissima alla Passione di Cristo, un Venerdì Santo, mentre pregava davanti al Cristo in croce, una spina si staccò dalla corona del Salvatore e l si conficcò sulla sua fronte. Rita sopportò con grande forza il dolore della ferita sulla fronte per quindici anni, fino al termine della sua vita terrena.

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Morì il sabato del 22 maggio del 1457. Le campane suonavano da sole annunciando la sua “ascesa” al cielo.
Fu venerata come Santa.
Dal 18 maggio del 1947 le ossa di Santa Rita da Cascia, che non hanno ricevuto sepoltura, riposano nel Santuario dentro un sarcofago. Si narra che il giorno dei funerali, quando si sparse la voce dei miracoli, attorno al suo corpo comparvero delle api nere che si annidarono nelle mura del convento. Le api sono ancora lì, che non hanno l’alveare non producono il miele, ma da cinque secoli si riproducono fra le mura del convento.
Molti sono i prodigi che si sono compiuti su Santa Rita.
Il prodigio delle Rose e dei fichi in inverno è stato raccontato da diverse attendibili testimonianze raccolte nel processo per la sua beatificazione nel 1626. “Nel più aspro rigore dell’inverno, essendo ogni cosa ricoperta di neve, una buona donna, cugina di Rita, va a visitarla. Nel partire, le chiese se da casa sua voleva cosa alcuna. Rispose Rita che avrebbe desiderato una rosa e due fichi dell’orto della casa paterna.  Sorrise, la buona donna, credendo che ella delirasse per la violenza del male e se ne andò.
Giunta a casa sua ed entrata ad altro fine nell’orto, vide, su le spine spoglie di ogni foglia e cariche di neve, una bellissima rosa e, sulla pianta, due fichi ben maturi. Rimasta meravigliata per la contrarietà della stagione e per la qualità di quel freddissimo clima, veduti il fiore e i frutti miracolosi li colse e li portò a Rita
“.I due fichi, probabilmente, rappresentano i suoi figli.
L’orto di Santa Rita, dove la cugina raccolse la rosa e i fichi sotto la neve, si trova a Roccaporena.
Fra la popolazione amastratina il culto a Santa Rita è molto forte.
Si festeggia in 22 maggio nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria.
Dopo le celebrazioni eucaristiche e la benedizione, il fercolo di Santa percorre, in cammino processionale, le strade della città.

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La confraternita di Santa Caterina

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Padre Giovanni Lapin, il parroco della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria

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Foto di Giuseppe Ciccia

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Il 23 agosto 2020 nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Mistretta è stata inaugurata e benedetta l’edicola votiva che accoglie la statua di Santa Rita da Cascia, donata dal giovane Antonino La Ganga.
La cerimonia di inaugurazione e di benedizione, preceduta dalla celebrazione della Santa messa, è stata effettuata  dal parroco della chiesa padre Giovanni Lapin.
Il  comitato Anspi di Santa Caterina è stato la macchina organizzativa dell’evento al quale vanno i complimenti e i ringraziamenti di tutti i mistrettesi. Grazie anche a tutti coloro che si sono adoperati  per la realizzazione dell’edicola votiva che ha reso questo angolo del piazzale della chiesa un nuovo luogo di preghiera.  Rivolgiamoci alla Santa delle cose impossibili per chiedere e ricevere grazie!
La rosa è il simbolo di Santa Rita. Grazie al devoto Santino Cristaudo per aver offerto l’ addobbo floreale che ha abbellito l’edicola votiva in occasione di questa particolare giornata.

Mentre Dio ci accorda vita, diamo sempre i laudi a Rita sempre. Sempre sia lodato e Rita in cielo coronata.
W Santa Rita

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Si racconta che anche a Mistretta un  miracolo è stato attribuito all’intercessione della Santa dei casi impossibili.
Era l’anno 1931.
Il signor Portera Antonino, colpito da una paresi facciale, pur affrontando lunghi viaggi della speranza a Palermo e nell’Italia settentrionale e pur sottoponendosi a dolorose e a costose cure mediche, non guariva. Non riusciva ad accettare la nuova situazione di malattia e di malessere che gli causava un enorme disagio. Tutti gli specchi della casa furono eliminati dall’affettuosa moglie che avrebbe voluto nascondergli l’evidente verità.
Una notte, in sogno, Santa Rita apparve alla moglie, alla signora Liboria Lombardo, e le disse: “Perché non mi porti a Mistretta”? Non era un avvenimento che si poteva risolvere in poco tempo e soprattutto senza mezzi economici.
Le signora Liboria non si arrese, chiese aiuto ai paesani che contribuirono secondo le loro possibilità. La statua di Santa Rita, commissionata allo scultore Carmelo Bruno, giunse a Mistretta, proveniente da Lecce, il 19-11-1932.
Il signor Antonino miracolosamente guarì. Era il 1934. Per esprimere gratitudine alla Santa, per la grazia ricevuta, la famiglia Portera fece esporre nella facciata della propria abitazione, sita nella strada Santa Caterina al numero civico 43, l’edicola votiva dedicata a Santa Rita da Cascia.

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Ogni anno i familiari del signor Antonino, devoti a Santa Rita, dal Piemonte giungono a Mistretta per venerarLa.

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La ROSA è il simbolo ritiano per eccellenza.
Rita, come la rosa, ha saputo fiorire nonostante la sua vita sia stata carica di molte spine.

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Caratteristica è la tradizionale benedizione delle rose che avviene ogni anno dopo la Messa Pontificale del 22 maggio sul sagrato della Basilica e in tutte le altre chiese.
Il 22 maggio del 2000, il giorno riservato alla venerazione di Santa Rita, è morta un’indimenticabile persona a me molto cara: il prof.Carmelo De Caro, mio marito.

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Santa Rita è festeggiata solennemente anche a Licata

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Preghiera a Santa Rita

Sotto il peso e tra le angosce del dolore,

a te che tutti chiamano la Santa degli impossibili,

 io ricorro nella fiducia di ricevere presto aiuto.

Ti prego, libera il mio povero cuore dalle angustie che da ogni parte l’opprimono

e ridona la calma a questo spirito che geme, sempre pieno di affanni.

 E poiché ogni mezzo è inutile per procurarmi sollievo,

confido totalmente in te che fosti prescelta da Dio come avvocata dei casi più disperati.

Se è per i miei peccati che non ottengo ciò che domando,

 implora da Dio che mi ottenga la loro conoscenza e il perdono.

Non permettere che pianga ancora lacrime di amarezza,

premia la mia ferma speranza,

ed io farò conoscere dovunque le tue grandi misericordie verso gli animi afflitti.

O ammirabile sposa del Crocifisso,

intercedi ora e sempre per le mie necessità. 

In questo anno 2020 chiediamo a Santa Rita di intercedere presso Dio affinchè venga sconfitto il COVID-19 attraverso la recita della preghiera scritta dal signor Salvatore Conti

Mentre Dio ci accorda vita
ti preghiamo Santa Rita.
Tu che fosti ostacolata
ma dal ciel in fin premiata.
A te ci rivolgiamo e
in ginocchio ti preghiamo.
Lo facciamo con il cuore
ma tu chiedilo al SIGNORE
perché possa intervenire
ed il MORBO far finire.
Oggi e sempre sii lodata
perché in cielo incoronata
con fervore ti imploriamo
e il miracolo aspettiamo.

 

 

 

May 14, 2016 - Senza categoria    Comments Off on SAMBUCUS NIGRA E SAMBUCUS RACEMOSA

SAMBUCUS NIGRA E SAMBUCUS RACEMOSA

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Per la bellezza delle allegre e ricche fioriture arbusti di Sambucus nigra e di Sambucus racemosa hanno meritato un posto visibile nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta come piante ornamentali.

Sulla pianta di Sambuco c’è molto da dire!

Il Sambuco è una pianta arbustiva e anche arborea appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae e originario dell’Europa, dell’Asia, dell’America e del Caucaso. Oggi è una specie cosmopolita diffusa in tutte le aree temperate dei continenti ad eccezione dell’Africa meridionale. In  Italia è presente in tutte le regioni, dalla pianura alla  montagna, fino a 1.500 metri d’altitudine.

E’ una pianta spontanea, rustica e vigorosa, che tende a diventare infestante. Vegeta ai margini dei boschi, lungo le strade, nelle siepi e nei luoghi incolti, vicino alle discariche dove il suolo è ricco di azoto e di materia organica decomposta. Si  diffonde soprattutto per merito degli uccelli che, ghiotti delle sue bacche, disperdono i semi.

Il genere Sambucus comprende circa 40 specie, ma le più note sono: il Sambucus nigra e il Sambucus racemosa o di montagna. Il più diffuso in Italia è il Sambucus nigra.

Il nome Sambucus deriva dal greco “Σαμβύκη”. Il sambuchè è uno strumento musicale ottenuto dai rami cavi della pianta dai quali è stato rimosso il midollo. E’ il flauto a cui si attribuivano proprietà magiche. Tutti i bambini sicuramente hanno letto la favola “Il flauto magico” dei Fratelli Grimm.  La favola racconta che il suono magico del flauto era una sicura protezione dai sortilegi.

Nel folklore di diversi popoli europei era suonato il flauto per questo motivo.

Nell’opera musicale “Il flauto magico” di Mozart si racconta che la Regina della Notte donò un flauto a Tamino. Subito lo strumento divenne d’oro e, se suonato nei momenti di pericolo, liberava gli sfortunati da situazioni pericolose e difficili.

 Il Sambuco era conosciuto sin dall’antichità dai popoli preistorici i quali, molto probabilmente, con le sue bacche preparavano robuste bevande fermentate e tinture per tessuti. Sono testimoni i grandi ammassi di semi trovati durante i numerosi scavi archeologici in Italia e in Svizzera. Teofrasto di Efeso, filosofo e botanico greco, successore di Aristotele, chiamò il Sambuco “Aktè” e ne conosceva già le qualità terapeutiche. Ippocrate ne consigliava l’uso come diuretico e lassativo.

Linneo, nel 1735, ha attribuito il nome “nigra” al Sambucus niger, dal latino “niger”, “nero”, per il colore nero dei suoi frutti, e il nome “racemosa” al Sambucus rosso per i suoi frutti di colore rosso.

Il Sambuco ha altri nomi: “Sambuco comune, Nebbia, Sambuch, Zambuco, Sango, Fiore di maggio”.

Il Sambucus nigra è la specie più comune che si trova più frequentemente. E’ un piccolo e grazioso arbusto spontaneo che può raggiungere, da adulto, i cinque metri d’altezza. Le radici del Sambuco, alla ricerca di sostanze nutritive, si espandono dapprima orizzontalmente nel terreno, poi scendono più in profondità. I fusti sono eretti e molto ramificati e la corteccia che li riveste è di colore grigio chiaro, cosparsa di lenticelle verrucose brunastre. Sui tronchi e sui rami vecchi essa si screpola assumendo un aspetto tuberoso. Le foglie sono di colore verde intenso sulla pagina superiore e di colore più chiaro su quella inferiore. Sono picciolate, caduche, opposte a due a due, imparipennate, composte da 5, 7 foglioline ovali, acuminate, dentate e col margine seghettato. Dopo la loro caduta, sul ramo rimane una cicatrice a forma di semiluna. Tutte le foglie emanano un odore sgradevole in deciso contrasto con il piacevole aroma dei fiori. Insieme formano la chioma irregolare e folta per i numerosi rami ad andamento arcuato e ricadente. I fiori, ermafroditi, piccoli, di colore bianco giallognolo, raccolti in ampie infiorescenze ad ombrella, posti tutti alla stessa altezza,fioriscono tra maggio e giugno ed emanano un forte profumo dolciastro. Alle infiorescenze seguono i frutti, grappoli di piccole bacche nere e lucenti, sferiche, pendule, che hanno la parte esterna sottile e quella interna carnosa che produce un abbondante succo violaceo. I frutti sono commestibili, ma di sapore amarognolo. Contengono da 2 a 5 noccioli monospermi a forma di pinolo. L’epoca di fruttificazione è da agosto a settembre. La moltiplicazione avviene per semina, spargendo i semi direttamente sul terreno in autunno, dopo la raccolta dei frutti. La germinazione può avvenire anche a distanza di diciotto mesi. La pianticella di Sambuco cresce molto rapidamente. Durante la stagione invernale si possono prelevare talee legnose.

Il Sambucus nigra è simile al Sambucus racemosa.

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 Le differenze tra le due varietà di Sambuco sono modeste. Nel Sambucus racemosa, pianta diffusa negli ambienti collinari e montani, le foglie, imparipennate, con 3 o 5 segmenti, di colore verde chiaro nella pagina superiore e rivestite di lanugine nella lamina fogliare inferiore, hanno la forma più lanceolata e più acuminata all’apice rispetto al Sambucus nigra e il margine intensamente seghettato. I fiori sono giallicci di colore e i frutti sono rossi, di forma globosa ed eretti anche a maturazione.

Una posizione soleggiata è gradita alla pianta che si ambienta senza difficoltà anche a mezz’ombra. Predilige terreni freschi, umidi e profondi, in particolare ricchi di azoto. Sopporta bene sia le alte sia le basse temperature. L’irrigazione deve essere moderata e può bastare solo l’acqua piovana. La pianta di Sambuco non necessita di concimazioni e di potature. Non è soggetta a particolari malattie o parassiti. A volte possono manifestarsi delle macchie sulle foglie dovute a qualche specie fungina. Il Sambuco è “magico” per se stesso: le piante, soggette a ruggine o a muffa, traggono vantaggio se sono spruzzate con una tisana ottenuta dalle sue stesse foglie.

Il Sambuco è una pianta dai molteplici utilizzi: il legname delle parti apicali dei rami o dei polloni è molto tenero ed è  stato usato nel tempo per la produzione di zufoli. Il legno della parte basale, biancastro,  è duro e pesante, adatto per torniture e per oggetti da cucina.  Il  midollo di Sambuco era impegnato nella strumentazione da  laboratorio e in modellistica. Dai frutti e dalla corteccia di Sambuco si ricava una tintura nera, dalle foglie una tintura verde e dai fiori una tintura blu o lilla. Questi coloranti sono impiegati per tingere la lana e la seta rispettivamente di viola, di  giallo e di grigio. I frutti, utilizzati come esca, sono molto efficaci per la pesca dei pesci d’acqua dolce.

Storicamente, la pianta di Sambuco è stata considerata una pianta terapeutica da tutta la medicina popolare. Le proprietà medicinali del Sambuco comune erano conosciute fin dai tempi antichi perché citate nelle opere di Ippocrate (460-377 a.C.), di Teofrasto (370-287 a.C.) e di Dioscoride (I sec. d.C.).  Ippocrate consigliava la radice cotta nel vino come rimedio efficace contro i morsi delle vipere. Erano attribuite anche virtù ginecologiche. Dioscoride per primo attribuì al Sambucus notevolivirtù medicamentose utili per scacciare la bile e il catarro, per ridurre l’idropsia. Infiammazioni, ulcere e scottature erano curate con le foglie più tenere. Per circa 14 secoli le teorie di Dioscoride influenzarono il campo farmaceutico e medico.

Anche Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, condivideva le teorie di Dioscoride. La corteccia, le foglie e i frutti hanno un’azione purgativa ed emetica.

Una credenza magica consigliava di staccare la corteccia dall’alto verso il basso se si voleva ottenere un effetto lassativo, dal basso verso l’alto se si voleva stimolare il vomito.

 Il Sambuco è un vegetale molto ambiguo nelle credenze popolari. Presso la tribù dei Kwakiutl si racconta che quando una donna malata non riesce a vomitare, allora il marito si reca nella foresta, si siede davanti ad un Sambuco e recita la seguente preghiera: “Oh! Essere Soprannaturale, sono venuto a chiedere se potessi, per favore, andare da mia moglie per farla vomitare, fa’ in modo che lei vomiti la causa del suo problema”.
Dopo aver pregato, l’uomo estrae dalla terra la radice della pianta, ne taglia un pezzo e fa ritorno a casa. Usando una pietra ruvida, grattugia la radice fino ad ottenere un liquido lattiginoso. Anche la donna, per ottenere la grazia di vomitare, deve prima recitare la stessa preghiera e poi bere alcune tazze di quel succo di radice di Sambuco. La magia è compiuta!

Molteplici sono gli usi officinali delle varie parti della pianta di Sambuco: fiori, frutti, foglie, corteccia, semi dai quali si ricavano, in prevalenza, gli infusi medicinali. Le proprietà terapeutiche possono essere così riassunte: la corteccia e le foglie sono purgative. Con i fiori si prepara una gradevole tisana che favorisce la sudorazione, utile rimedio per combattere il raffreddore, la febbre e l’influenza. Ottima anche per sconfiggere la tosse, l’asma, i reumatismi; ai fiori vengono anche riconosciute proprietà lassative e antiemorroidarie. L’infuso di fiori è più efficace se consumato caldo. I frutti si usano per preparare uno sciroppo antinevralgico e lassativo.Rami, foglie e radici sono impiegati nel trattamento dell’artrite reumatoide. La corteccia è la parte più attiva della pianta, specialmente se fresca; usata come decotto, ha azione diuretica assunta in piccole dosi, purgativa in dosi maggiori. Le  bacche di Sambuco contengono: tannini, carotenoidi,  flavonoidi, potassio, calcio, magnesio, fosforo e ferro e, per la gran quantità di vitamina C, sono state utilizzate per il trattamento di una pandemia d’influenza esplosa a Panama nel 1951.

 Tutte le parti verdi della pianta sono velenose poiché contengono il glicoside cianogenetico che, per  idrolisi, produce acido cianidrico. La presenza di un principio attivo nelle foglie della pianta conferisce loro proprietà  insettifughe.  Infatti, con le foglie si preparano decotti  in grado di allontanare  Afidi, Cocciniglie e Formiche. Una curiosità: le donne romane utilizzavano le ceneri per schiarire i capelli.

 Il Sambuco è noto, oltre che per le sue proprietà medicamentose,  anche in cucina.

 I fiori freschi sono utili  per aromatizzare bevande alcoliche, per preparare dolci, macedonie, prodotti da forno, insalate, frittate. I getti terminali, come i turioni degli asparagi, privati dalle foglioline, vengono lessati a lungo, per togliere il gusto non gradevole, e portati in tavola. Non è un piatto eccessivamente prelibato, ma può servire per ottenere, insieme ad altre verdure, sapori nuovi e sconosciuti. I fiori di Sambuco, disposti in file alternate, aiutano la conservazione delle mele per lungo tempo. Sono commestibili i fiori con i quali si possono ottenere frittelle dolci e un tè depurativo,  e le bacche dalle quali si possono ottenere marmellate  e sciroppi contro le malattie da  raffreddamento.  L’assunzione dei frutti immaturi può determinare fenomeni d’intossicazione che si manifestano con sensazione di bruciore e di raschiamento della gola, con vomito, con diarrea, con mal di testa e con difficoltà di respirazione. I frutti rappresentano un importante alimento per numerose specie di uccelli.Il Sambucus racemosa ha le stesse proprietà del Sambucus nigra. Forse, secondo il parere degli abitanti della montagna, il Sambucus racemosa è più efficace del Sambucus nigra. Il periodo migliore per raccolta delle foglie e dei fiori è aprile e maggio, per i frutti la fine di agosto e per la corteccia l’autunno. I fiori sono fatti essiccare e conservati in vasi di vetro a chiusura ermetica in modo da averli disponibili in ogni periodo dell’anno.

 Il Sambuco è un grande regalo della Natura! E’ una pianta che ha tante storie da raccontare e non solo in ambito erboristico e culinario: storie di giochi, di magia, di credenze popolari, di proverbi. È una pianta dal duplice simbolismo: nella tradizione cristiana era usata nei riti funebri come conforto per il viaggio verso l’aldilà, nella tradizione pagana, invece, come protettrice della casa e del bestiame. Il Sambuco è uno degli arbusti prediletti dalle streghe e dalle creature della notte a cui, in passato, si attribuivano poteri magici. Questa pianta magica, alquanto inquietante, è chiamata albero del “Flauto Magico”. Essa si presta bene per realizzare miscele insieme all’incenso usate per rituali magici e miracolosi. In Germania era chiamato “l’albero di Holda”. Secondo l’antica tradizione popolare, il Sambuco era sacro alla Dea Holda che lo proteggeva e lo rendeva forte e vigoroso. Holda era una divinità del folklore germanico medievale dai lunghi capelli dorati. Abitava nelle piante di Sambuco situate vicino ai laghi e ai corsi d’acqua e alle quali conferiva poteri magici e curativi. Insieme con lei, nascosti tra i cespugli, c’erano solo gli elfi. Talvolta Holda appariva sotto le sembianze di una vecchia strega. In Inghilterra si pensava che il Sambuco non fosse un arbusto, ma una maliarda che aveva assunto le sembianze della pianta. Tuttavia, prevalevano le credenze popolari positive che ne esaltavano le proprietà magiche e benefiche. Fino all’inizio del secolo, in alcuni paesi, i contadini tedeschi, come segno di grande rispetto, quando, nel loro cammino, incontravano il Sambuco, s’inchinavano e si levavano il cappello per sette volte perché sette erano i suoi doni. In sette parti il Sambuco donava se stesso per il benessere della povera gente: la sua resina, utile per placare il dolore delle lussazioni, il decotto di radice per la gotta, la corteccia per riequilibrare le funzioni intestinali, per le cistiti e per gli orzaioli, le foglie per curare la pelle, i frutti per le bronchiti e per i mali invernali, l’infuso di fiori per depurare l’organismo e i germogli per calmare le nevralgie. Intorno ai monasteri, ai castelli e alle case il Sambuco era sempre presente. Proteggeva dalle serpi, dai malanni e dagli incantesimi e, per questo motivo, ne tenevano sempre un pezzetto nelle loro tasche. In Danimarca l’arbusto era considerato il protettore di tutta la famiglia. In Svezia si credeva favorevole alle donne gravide. In Russia si riteneva che allontanasse gli spiriti maligni. Nelle alte montagne alpine si credeva che proteggesse il bestiame e i contadini dalle malattie e dai serpenti velenosi. Un vecchio detto contadino recita: “mai bruciare il Sambuco”. Ancora oggi sono convinti che bruciare il suo legno porti male e che le sue ceneri aprano al diavolo la porta di casa. A valle, nelle case dei ricchi, il legno di Sambuco serviva a tener lontani i ladri. Al giorno d’oggi un’apparente magia consiste nel piantare il Sambuco presso le finestre di casa: le mosche ne saranno attratte e non entreranno all’interno. Nel XVII secolo gli stregoni temevano di essere battuti con un bastone di Sambuco. Per avere i suoi poteri eccezionali, che proteggevano dai sortilegi, il bastone doveva essere tagliato in un luogo dove non sarebbe stato possibile udire il canto del gallo. Anche in Sicilia si credeva che il bastone di Sambuco avesse il potere di uccidere i serpenti e di far scappare i ladri. A questa pianta, dalle molteplici proprietà, era attribuito anche un potere divinatorio per quanto riguardava la conoscenza del sesso del nascituro e la bontà del raccolto. Il Sambuco, in generale, nel linguaggio dei fiori simboleggia “prudenza”.

Apr 27, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANT’ANGELO, MARTIRE CARMELITANO PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA

LA VITA DI SANT’ANGELO, MARTIRE CARMELITANO PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA


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Mistretta è la mia città d’origine, Licata è la mia città adottiva. San Sebastiano è il patrono di Mistretta, santo al quale sono devota, come tutti i mistrettesi. Sant’Angelo, martire glorioso del Signore, è il patrono di Licata e, come ogni licatese, Gli sono devota anch’io.

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Auguri a tutti coloro che portano il nome di Angelo/a che rendono onore al nostro Santo Patrono. Auguri alla diletta città di Licata protetta dal Santo Martire

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Angelo nacque a Gerusalemme il 2 marzo del 1185 da Jesse e Maria, genitori ebrei convertiti al cristianesimo in seguito all’apparizione della SS.ma Vergine che predisse loro la nascita di due figli gemelli.
Alla morte dei genitori, rimasti orfani, i fratelli Angelo e Giovanni, presi in custodia dal Patriarca Nicodemo, furono educati sino all’età di 18 anni. Sotto la sua guida, furono eccellenti nella virtù e negli studi.
Quindi, chiesero di essere accolti fra i Carmelitani nel convento di Sant’Anna, presso la Porta Aurea in Gerusalemme. Superato l’anno di prova, andarono al convento sul monte Carmelo ove vissero in duro ascetismo in digiuni, preghiere e penitenze. Fin dal tempo dei Filistei il monte Carmelo fu luogo di sosta di asceti.
Dopo la morte di Gesù, su questo monte si ritirarono alcuni cristiani per attuare i suggerimenti evangelici. Fu la culla dell’antico Ordine monastico contemplativo d’origine orientale che prese il nome proprio dal monte: l’Ordine dei Carmelitani.
Alcuni eremiti sul monte Carmelo edificarono il primo tempio dedicato alla Vergine che, per questo motivo, si chiamò Madonna del Carmelo o Madonna del Carmine.
Il monte Carmelo, in aramaico “Karmel” “giardino, paradiso di Dio”, è un rilievo montuoso calcareo alto 528 metri che si trova nella sezione nord-occidentale di Israele, nell’Alta Galilea. Si estende da SE a NW tra la piana di Esdraelon e quella di Sharon giungendo fino al mar Mediterraneo e articolando la costa nell’omonimo capo ai piedi del quale sorge la città di Haifa.
Possiede una vegetazione bella e rigogliosa. E’ ricoperto di boschi, uliveti, vigneti. E’ citato più volte nell’Antico Testamento, in connessione con la vita del profeta Isaia (III Re 18,19 ss) e di Eliseo (IV Re 2,25), rispettato, per questo motivo, dagli israeliti, dai cristiani, e da musulmani.  Angelo fu ordinato sacerdote nel convento del Carmelo nel 1210, all’età di 25 anni. Angelo, venuto dalla Terra Santa, giunse in Occidente, dopo aver separato le acque del Giordano attraversandolo a piedi asciutti e dopo essersi recato ad Alessandria d’Egitto.
Attraverso il Mediterraneo giunse a Messina, poi a Civitavecchia, per consegnare alcune reliquie che il Patriarca inviava a Federico di Chiaramonte, suo fratello, che si trovava a Civitavecchia. Presto Angelo cominciò a predicare e ad imitare la potenza taumaturgica dei suoi padri Elia e Eliseo compiendo i primi miracoli.
Nel 1214 Alberto di Gerusalemme compose la nuova regola, adottata dall’ordine dei carmelitani, che la trasformava da contemplativa a mendicante. Nel 1218 ad Angelo fu data la missione di recarsi a Roma per sottoporre la nuova regola a Papa Onorio III e che fu approvata nel 1226. A Roma Angelo incontrò San Domenico Guzman e San Francesco d’Assisi che gli profetizzò il suo martirio.
Angelo fu inviato a predicare anche in Campania, in Puglia e in molti altri luoghi. Istituì diversi conventi, che avrebbero accolto i Carmelitani disturbati sul monte Carmelo dalla presenza delle Crociate. Dopo una breve permanenza a Roma, dove svolse intensa attività di predicatore, fu inviato in Sicilia quale capo di coloro che dal Monte Carmelo per la prima volta si portarono in Sicilia. Predicò in diversi paesi: a Cefalà Diana, a Caltabellotta, a Sant’Angelo Muxaro, a Palermo, ad Agrigento. Infine giunse a Licata. Predicava per combattere l’eresia catara.
I Catari professavano una dottrina dualista nella quale Dio e il Demonio avevano pari dignità. Predicavano un’assoluta purezza di vita e rifiutavano i sacramenti tranne il consolamentum“, una specie di battesimo per gli adulti, che permetteva di liberarsi dal peccato all’avvicinarsi della morte. Si definirono “Uomini Puri”.
Per i Catari ogni Uomo doveva liberare il suo animo dal potere del male che governava il mondo terreno. Secondo loro la Chiesa, avendo accettato il potere e le ricchezze, aveva scelto il male e quindi non offriva alcun aiuto per la purificazione. La salvezza poteva venire solo dalla nuova chiesa dei Catari che si erano proposti come l’autentica Chiesa di Cristo, quella degli apostoli.
Quindi si caratterizzarono per un radicale anticlericalismo che rimetteva in discussione l’esistenza del personale e delle strutture ecclesiastiche. Dopo il Concilio cataro di Saint Felix de Caravan del 1167, la chiesa cattolica cominciò ad avvertire la pericolosità dei Catari. Allora assunse verso di loro un atteggiamento estremamente duro. Papa Alessandro III li condannò come eretici, condanna che fu confermata in seguito da Innocenzo III e da Onorio III.

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Giunto a Licata, Angelo andò ad abitare in una casa di via Sant’Andrea, probabilmente ospitato dall’Arcivescovo Goffredo. Angelo, per i licatesi, fu un forestiero arrivato da lontano.

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Ai tempi in cui vi giunse Angelo, Licata era un paese rinchiuso tra le mura per difendersi dagli assalti dei pirati. Il popolo licatese venerava come Patroni i Santi Apostoli Filippo e Giacomo, in onore dei quali era stata costruita una piccola chiesa non lontana dalle rive del fiume Salso. In questa chiesa Angelo officiava e predicava. A Licata conobbe Berengario La Pulcella. Nella piccola piazza, all’incrocio tra la via Giosuè Carducci e la via Rizzo, in una parete di un edificio, è fissato il quadro di maiolica raffigurante Sant’Angelo che discute con un nobile cavaliere che ha la spada al suo fianco.

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 In questa piazzetta Angelo incontrò per la prima volta Berengario. Berengario era un signorotto del luogo, di origine normanna, che, oltre ad essere un caparbio cataro, da dodici anni, con indicibile scandalo del popolo, viveva una vita incestuosa con la sorella Margherita dalla quale aveva avuto tre figli.
Non erano riusciti a fargli cambiare vita le potenti voci dei ministri di Dio, né quelle di altre autorevoli persone perché, come ammetteva pubblicamente, non commetteva nessuna colpa a convivere con la sorella. Toccò ad Angelo porre fine a questo scandalo pagando con la sua vita! Tante volte Angelo aveva parlato paternamente con Berengario. Angelo, che disapprovava questa condotta, mediante le sue prediche sul peccato, convinse almeno la donna a ravvedersi, a porre fine a questa sua colpa e a dare inizio all’opera ardua, ma non impossibile, della propria redenzione. Margherita gridò il suo pentimento davanti al santo predicatore e alla moltitudine di persone presenti in chiesa.
Berengario, molto arrabbiato, progettò l’orrenda idea di vendicarsi. Pensava: ” Tolto che avrò di mezzo questo noioso predicatore che non bada ai casi suoi, io potrò riprendere tranquillamente la mia vita di galantuomo”.
Angelo, con le sue fervidissime prediche, nella chiesa dei santi Apostoli Filippo e Giacomo intratteneva la folla che pendeva dalle sue labbra. Nessuno poteva trattenere le lacrime, di dolore o di gioia, non essendo stato mai ascoltato un predicatore così capace e convincente come Angelo. Fortunati quelli che hanno potuto ascoltare le sue omelie!
All’improvviso ecco lo scompiglio nell’uditorio: Berengario, munito di ben affilata arma luccicante ai raggi del sole ed accompagnato da ribaldi suoi pari, si fece largo prepotentemente tra la devota folla e, con un balzo felino, salì sul pulpito, posto fuori della chiesa perché essendo molto piccola, non poteva accogliere la moltitudine di persone che accorreva per ascoltare la Parola di Dio da Lui annunciata. Raggiunto Angelo, il predicatore, Berengario, sotto gli occhi della popolazione esterefatta, alzò il sacrilego braccio e vibrò ben cinque mortali colpi su quelle verginali carni innocenti. Unanime fu il grido di orrore e di disprezzo dei presenti.
Berengario gridò che anche Margherita sarebbe stata uccisa. Sorella morte raggiunse Angelo, che colse la palma del martirio, il 5 maggio del 1220. Morì dissanguato per le ferite riportate per la violenta aggressione. Prima di morire gridò al popolo di correre alla casa di Margherita per avvertirla dell’ira sanguinaria del fratello e chiese ai fedeli di Licata di non vendicare, ma di perdonare il suo assassino. Angelo fu sepolto nella chiesa dei SS.mi Apostoli Filippo e Giacomo, dove fu ucciso, per ordine dell’Arcivescovo Goffredo, perché questa era la sua volontà manifestatagli durante un’apparizione in casa sua. La cerimonia del seppellimento ebbe luogo il 13 maggio.
Il luogo dove fu martirizzato divenne presto meta di pellegrinaggi dei devoti.  Berengario pose fine alle sue scelleratezze e ai suoi infelici giorni impiccandosi nella sua stessa casa, una ricca dimora dalla sagoma monumentale con la facciata principale sulla piazza della chiesa del santo, oggi piazza Sant’Angelo. Lateralmente c’è un vicolo cieco detto cortile Berengario.

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Per unanime deliberazione del popolo il suo putrido cadavere, che da tempio dello Spirito Santo per avere ricevuto il battesimo era divenuto abitacolo del demonio, fu gettato nell’aperta campagna, esposto ai morsi divoratori dei cani randagi e degli uccelli di rapina. Tommaso Bellorosio racconta che nella chiesetta dove era avvenuto il martirio, dal punto dove riposava il capo di Angelo, scorreva una specie di olio che dava la salute agli infermi che con esso si ungevano.
Una donna vide emergere dalla stessa bocca del martire un candidissimo giglio che tante volte rinasceva quante volte veniva reciso. Questi miracoli non solo accrebbero la devozione del popolo verso Angelo, ma fecero si che il corpo del Santo Martire, trovato là, dissepolto ed emanante un soavissimo odore, nel 1223 fosse deposto in una cassa di legno.
Come racconta Battista Mantovano, rimosse le reliquie, scaturì poi, nel luogo dove era stato collocato il corpo la prima volta, una sorgente di acqua chiarissima e di soavissimo odore, Racconta Giuseppe Pitrè che l’acqua, per i suoi effetti miracolosi, veniva spedita in “ orciuoli ed  anfore sigillate col sigillo del magistrato di Licata alle città e alle province vicine”.
Negli anni 1625-1627, durante il processo per la santificazione, molti testimoni asserirono di avere ricevuto benefici dall’acqua che scaturiva dal pozzo. Venerato come martire, il culto di Sant’Angelo si diffuse rapidamente in tutto l’Ordine Carmelitano e anche tra il popolo almeno dal 1456. L’approvazione del culto a Sant’Angelo fu concessa da papa Pio II. I sacri resti mortali furono deposti in una cappella non carmelitana.
Nel 1457 i suoi confratelli ottennero da Callisto III di annetterla al loro convento, ma ciò non è stato fatto sino al 1605. Le spoglie mortali, tolte dalla cassa di legno, il 7 agosto del 1486 furono deposte dentro un’urna d’argento di piccole dimensioni. Il 5 maggio del 1623 furono deposte in un’altra urna ancora più preziosa realizzata dal maestro argentiere Lucio de Anizi di Ragusa che ricevette l’incarico dai nobili di Licata Francesco Grugno, Baldassarre Celestre e Giuseppe Serrovira il 6 dicembre del 1621.
E’ l’attuale sacra urna! Il maestro, nei sei pannelli che ricoprono i lati del reliquario separati da sottili colonne, scolpì le scene più importanti della vita di Sant’Angelo e della Sua morte.
Nell’urna le preziosissime reliquie di Sant’Angelo, con tutte le solennità canoniche e liturgiche, mostrate al popolo ed alle autorità civili, furono rinchiuse per sempre. Con una imponente processione il 15 agosto del 1662 la sacra urna di Sant’Angelo fu trasferita dalla vecchia all’attuale nuova chiesa a Lui dedicata ed edificata nello stesso luogo del martirio come ringraziamento in seguito alla liberazione dalla peste che aveva colpito la città di Licata nel 1625 per Sua intercessione.

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La preziosa urna argentea è custodita nella cappella costruita nel braccio destro del transetto del santuario di Sant’Angelo. Quando, nel 1997 il santuario di Sant’Angelo fu chiuso al culto, il sacro reliquiario fu trasferito nella chiesa Madre e deposto ai piedi della statua del Cristo Nero.
Nel 2005, essendo stato il santuario riaperto al culto, il sacro reliquario è ritornato nella Sua cappella protetta da una grande cancellata di ferro rigorosamente chiusa da tre catenacci.

In occasione della festività del mese di Agosto 2020 è stato possibile ammirare l’urna reliquaria d’argento, esposta per alcuni giorni nella cappella del Santo Patrono Sant’Angelo, nonostante il suo restauro non fosse stato ancora del tutto ultimato. Per meglio farla risaltare, dietro di essa è stato posto un ampio drappo di velluto rosso.

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Prima del restauro

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Dopo il restauro

 È stato un vero pellegrinaggio di devoti e di curiosi. Grazie ai fondi raccolti dai fedeli, il lavoro è stato eseguito a Licata, nel santuario di Sant’Angelo, dal Laboratorio Mimarc per il restauro, per la conservazione e per la tutela dei BB. AA. CC. dell’Aquila.
Si è trattato di un restauro conservativo del rivestimento in argento davvero molto precario a causa delle tante cadute dell’urna sul selciato durante le corse e di interventi deleteri di improvvisati “restauratori” locali che hanno utilizzato chiodi e viti per fissare alcuni dei rivestimenti in argento che si erano staccati. Si è trattato anche del consolidamento dell’intero apparato architettonico del reliquiario, della disinfestazione biologica della struttura lignea, dell’integrazione delle parti argentee mancanti e, infine, della generale ripulitura di tutta la parte argentea che ha rimosso anche quella patina oscura che dava plasticità e rilievo all’intero apparato illustrativo e architettonico dell’urna, patina che certamente si era creata negli anni dovuta forse al processo di ossidazione dell’argento.
Fu nel 1615 che l’Università di Licata – così si chiamava allora l’amministrazione comunale- decretò di costruire per le reliquie di Sant’Angelo una nuova urna d’argento più maestosa, in sostituzione di quella molto semplice, pure d’argento, del 1486. L’esecuzione fu affidata al maestro argentiere ragusano Lucio de Anizi con atto stipulato a Licata il 6 dicembre 1621 presso il notaio Giacomo Murci, alla presenza dei giurati Giuseppe Serrovira, Francesco Averna, Francesco Selvaggio, Giuseppe Averna, dei deputati dell’opera Francesco Grugno e Baldassare Celestri e dei testimoni, i maestri Giuseppe Bonello, Antonio Bennici, Giuseppe Bruscia, Angelo Delagarbo e il fabbro argentiere di Licata Martino Passaniti. L’urna doveva essere lunga 114 cm, larga 50 cm e alta 130 cm sino al coperchio. Depositario dell’argento fu nominato Giuseppe Serrovira, mentre il pittore licatese Giovanni Portaluni fu incaricato di disegnare le immagini della vita di Sant’Angelo che dovevano essere impresse nelle sei formelle d’argento dei quattro lati del reliquiario. Infine, sul coperchio doveva essere impresso lo stemma della città di Licata, quale committente dell’opera. L’impegno dell’Anizi era quello di consegnare l’urna nel 1622, entro quattro mesi dall’inizio dei lavori, che verranno eseguiti nel palazzo di Giuseppe Serrovira ma, a seguito dei ritardi dovuti alla raccolta dell’argento necessario che i devoti del Santo andavano donando, l’urna fu consegnata per la festività del 5 maggio del 1623, giorno in cui le reliquie di Sant’Angelo dalla vecchia cassa furono trasferite in quella nuova.
In occasione dell’ottavo centenario del martirio di Sant’Angelo è stata aperta l’Urna argentea nel cui interno accoglie la cassa lignea che custodisce  le reliquie di Sant’Angelo martire. E’arrivata dall’episcopio vescovile di Agrigento, dove si trovava dal 26 febbraio, ed è stata accolta nella cappella del santo Patrono  giorno 11 agosto 2020. In questa cassa furono traslate il 5 maggio 1623 le reliquie di Sant’Angelo dalla precedente urna d’argento del 1486 e quindi inserita nella nuova urna d’argento opera del maestro argentiere Lucio de Anizi di Ragusa, committenti i giurati di Licata con l’argento donato dai Licatesi. Secondo quanto riferisce il notaio Giacomo Murci, così si è svolta la solenne cerimonia. “All’imbrunire del giorno festivo convenuto i Giurati di Licata diedero disposizione, col permesso del vicario foraneo, don Michele Taormina, all’arciprete, don Carlo Giliberto, di intonare l’inno liturgico <<Deus quorum militum>>.Allora don Antonio Oriolo, il cappellano della chiesa e della confraternita di Sant’Angelo, Padre Angelo Gatti, il priore del convento di Sant’Angelo,  ed altri sacerdoti presero la vecchia arca d’argento dall’altare maggiore e la portarono in processione per le vie principali della città finché la deposero sull’altare in legno, appositamente allestito, presso il cimitero della chiesa Madre, l’attuale piazza Duomo. Alla presenza poi di tutti i sacerdoti, i religiosi, le confraternite e circa dieci mila Licatesi, dopo le preghiere di rito, furono tolte le lamine d’argento dalla vecchia urna che furono poste in quella nuova, internamente rivestita di raso rosso, ricamato dalle monache del monastero benedettino di Santa Maria del Soccorso di Licata.
Al momento della traslazione, nella vecchia cassa, si rinvennero, sotto una tovaglia lavorata con fili verdi, rossi e bianchi, le ossa e il teschio infranto del Santo martire; sopra 15 monete di bronzo della casa aragonese, molti frammenti di ossa e ceneri del corpo. All’interno dell’arca si trovarono pure i documenti relativi alla traslazione del 1486
” (testo tratto da Calogero Carità, La Chiesa di Sant’Angelo e il 5 maggio a Licata, Ragusa 2020, Ed. La Vedetta).

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E’ una pregevole cassa di legno, lunga circa 110 cm, larga circa 44 cm e alta circa 65 cm. E’ ricoperta da un drappo di velluto rasato di color rosso decorato con ricami in oro in tutte le quattro facce e sul coperchio.

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ll coperchio della cassa è ripartito in tre registri divisi da tre galloni realizzati con filati aurei, ricamati direttamente sul velluto rosso. Arricchiscono i decori filati aurei, filati serici, micro perline, piccoli grani in corallo rosso e preziosi inserti di tessuti operati. Nel registro centrale del coperchio della cassa è incisa la data del 1623, cucita su un drappo, e riportata sul velluto rosso. Al centro c’è una croce realizzata con filati aurei, avente capicroce gigliati rivestiti da micro perline, scaramazze barocche, e piccoli grani in corallo, simboli legati alla Passione e alla morte di Cristo.

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Sant’Angelo è molto venerato in tutta la Sicilia, in molte città dell’Italia, in Germania e negli Stati Uniti d’America dove vivono numerose famiglie di emigrati licatesi. Il 4 maggio del 1626 Sant’Angelo fu proclamato anche patrono della città di Palermo.

PREGHIERA A SANT’ANGELO

O glorioso Sant’Angelo,

gemma preziosa della mistica vigna del Carmelo,

perfetto seguace del patriarca Elia, specchio di ogni eroica virtù,

per l’immenso amore che portasti a Dio e alle anime,

fino al martirio che sostenesti impavido,

qual novello Battista, a noi supplici riguarda

che attirasti dai tuoi esempi e confortati

dal tuo patrocinio a Te ci affidiamo.

Sostieni la nostra fede, rialza la nostra speranza ed infiammaci

del desiderio di copiare le tue virtù al fine di dare gloria a Dio,

che aspiriamo di possedere un giorno con Te in Paradiso.

Ricordati, o potente avvocato, della Tua Licata e di tutti i licatesi che,

in Patria e per il mondo sparsi, a Te sempre guardano come a una torre di fortezza.

Continua a proteggerli da ogni flagello e ad implorare su tutti i Tuoi devoti

la gioia salutare della misericordia divina. Amen

Questa’altra preghiera, recitata in dialetto siciliano, è ancora più  emozionante.

Diu ti salvi, Angilu Santu,
di lu Carmelu gloria e vantu,
nostru granni prutitturi,
virgini, martiri e dutturi.
D’ogni mali preservati,
nui ancora liberati di la fami,
pesti e guerra, di lu trimuri di la terra.
Sempri siti nostru scutu, prutitturi e nostru aiutu.
Avvocatu pressu Diu,
prutitturi amatu miu.
Dati a nui la bella sorti.
Fari bona e santa morti.
Cussì spera,
allegru visu
gudirivi in paradisu.

Moltissimi sono i miracoli attribuiti a Sant’Angelo, descritti nei libri dedicati a Sant’Angelo.
Solo per citarne alcuni: la liberazione di Licata dalla peste del 1625, la storia di Agata Scolla Rosetta che, all’età di 45 anni, ha potuto allattare al suo seno la nipotina di 14 mesi rimasta orfana dalla madre Grazia colpita dalla terribile peste, la guarigione di un uomo rattrappito e deforme, l’uso della parola del piccolo Francesco Zirafi, di 12 anni, muto e deforme, il salvataggio di Giovanni Battista de Orlando caduto in un pozzo nel fondo del quale Sant’Angelo aveva fatto cadere il suo mantello per accoglierlo dolcemente, la madre salvata dal difficile parto che avrebbe causato la sua morte e quella del nascituro, la liberazione dall’ossessione diabolica di Vincenzo Polizzi, il salvataggio della nave dell’armatore Orazio Raynel, di Malta, che, nel settembre del 1625, mentre da Alessandria faceva vela verso la terra natia, giunta presso le coste di Creta, vide la nave che, sorpresa da un’improvvisa e violenta tempesta, stava per affondare.
Tra i passeggeri, un certo Giovan Battista Ortonio, ricordandosi di avere con sè una scheggia della cassa del corpo di Sant’Angelo, reliquia donatagli da sua madre, la gettò nel mare burrascoso.
Per intercessione di Sant’Angelo la tempesta si placò, la nave e i marinai si salvarono. Un altro famoso miracolo riguarda la liberazione di Licata dall’invasione dei turchi. Nel 1553 Licata subì diversi tentativi da parte dei Turchi di invaderla e di distruggerla. L’intervento visibilissimo di Sant’Angelo li respinse senza gravi conseguenze. Nel 1625 la Sicilia fu afflitta da una pericolosa peste che, come scrisse lo storico Muratori “facea terribile strage, e sommo spavento eziandio recava all’Italia”.
La peste fece la sua comparsa anche a Licata, ma se ne allontanò ben presto grazie al patrocinio di Sant’Angelo. Per ringraziarLo gli illustri signori del patriziato e le pubbliche autorità hanno fatto solenne decreto di innalzare al Santo un sontuoso tempio e che si sarebbe celebrata in perpetuo la festa del patrocinio Santo il giorno 16 agosto con i dovuti permessi delle competenti autorità ecclesiastiche e civili.
Visibilissimo fu il patrocinio di Sant’Angelo su Licata durante la seconda guerra mondiale. Molto adatta agli sbarchi militari, Licata fu scelta come uno dei punti strategici di sbarco degli anglo-americani.
Il bombardamento che precedette lo sbarco del 10 luglio del 1943 apportò soltanto leggeri danni a qualche abitazione, qualche scheggia raggiunse un angolo della cupola della chiesa, alcuni vetri si infransero, solo pochi feriti e pochi morti. Nell’autunno del 1951 una disastrosa alluvione arrecò ingenti danni in molte parti della Sicilia. Nei giorni 3,4,5 del mese di maggio, quando si festeggia Sant’Angelo, è facile incontrare bambini vestiti dello stesso abito del carmelitano in segno di gratitudine per grazie ricevute o per raccomandarsi alla Sua potente intercessione. La Chiesa cattolica festeggia Sant’Angelo martire il 5 maggio, giorno della sua morte. I Suoi emblemi sono: la Palma, tre corone, la spada.
L’iconografia dedicata a Sant’Angelo è molto vasta. Fra Filippo Lippi Lo raffigurò nella Madonna Trivulzio ( Madonna dell’Umiltà con angeli e santi carmelitani). La tavola, datata 1429-1432, è conservata nella Pinacoteca del Castello Sforzesco a Milano.
Mostra la Madonna, seduta in terra e col Bambino appoggiato sulle sue ginocchia, circondata a esedra da sei angeli senza ali e privi di aureola, e tre santi carmelitani: Sant’Angela di Boemia, Sant’ Angelo di Licata, con il coltello in testa, e Sant’Alberto da Trapani, con il giglio.

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La Madonna del Carmelo è un dipinto a tempera su tela del Moretto, databile al 1522 circa e conservato alle Gallerie dell’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Il dipinto raffigura la Beata Vergine Maria del Monte Carmelo in atteggiamento accogliente con un largo mantello nero sollevato da quattro angeli. Ai suoi piedi, appoggiati sulle nuvole, sono disposte quindici figure. Le due figure vestite di bianco sono: Sant’Angelo da Gerusalemme a destra, con un giglio bianco nelle mani, e San Simone Stock a sinistra.

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La tavola, attribuita a Tommaso De Vigilia, raffigura Sant’Alberto di Trapani e Sant’Angelo da Gerusalemme. E’ custodita nella chiesa del Carmine Maggiore di Palermo.

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I due bozzetti, del 1966, che raffigurano Sant’Angelo che incontra San Domenico e San Francesco e Sant’Angelo in gloria con schiere di angeli e la SS. Trinità sono opera del pittore licatese Salvatore De Caro. Li custodisco gelosamente perché sono ricordi di famiglia.

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Apr 27, 2016 - Senza categoria    Comments Off on I FESTEGGIAMENTI IN ONORE DI SANT’ANGELO MARTIRE, PATRONO DI LICATA

I FESTEGGIAMENTI IN ONORE DI SANT’ANGELO MARTIRE, PATRONO DI LICATA

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Raccontare le feste in onore di Sant’Angelo è un dialogo molto lungo, bisogna viverle! Religiosità, devozione, folklore si mescolano insieme. Santo benedetto!
Egli è prodigioso nelle grazie, fecondo a compiere miracoli perché viva è la fede ancora dopo 796 anni dal giorno del Suo martirio.Sant’Angelo si festeggia diverse tre volte durante l’anno. Le feste interne, che si eseguono in chiesa per ringraziamento per aver preservato Licata dai tre terremoti, si celebrano: l’11 gennaio per ricordare il terremotodel 1693 che colpì la Val di Noto e parte della Sicilia occidentale, ma risparmiò la città di Licata grazie alla Sua intercessione, il 5 febbraio per ricordare il terremoto del 1783, il 28 dicembre per ricordare il terremoto del 1908. Le feste esterne si celebrano: il 5 maggio perché si fa memoria del suo martirio e il 16 agosto perché si ricorda la liberazione di Licata dalla peste del 1625 per Sua intercessione. La festa grande, consacrata al patrono di Licata Sant’Angelo, è quella che si celebra il 5 maggio, giorno che confermò versando il Suo purissimo sangue. Il capitolo provinciale dei PP. Carmelitani della Sicilia, tenutosi a Licata nel convento dell’Annunziata l’8 maggio del 1457, fissò la data della festa di Sant’Angelo il 5 maggio di ogni anno.

I festeggiamenti iniziano giorno 4 e si concludono giorno 6 del mese di maggio.
E’ una festa commovente, ammirevole, il popolo è festoso e testimonia la sua devozione al Santo martire Angelo.
Il paese è illuminato con archi di luce. Gli spari dei mortaretti, le bancarelle che invadono tutti i corsi della città esponendo la loro merce, le sfilate delle bande musicali, i cortei dei gruppi folkloristici, le gare di abilità rallegrano piacevolmente questo atteso periodo di maggio.
Le devote funzioni liturgiche iniziano la sera del 4 maggio quando, alla presenza delle autorità religiose e civili, si celebrano solennemente i Vespri.
Come prevede un antico rituale, i catenacci dell’inferriata della cappella che custodisce le sacre reliquie sono tolti dal Sindaco della città, dal Prevosto della Collegiata della Chiesa Madre e dal Rettore del Santuario Don Angelo Pintacorona.
Il rettore del santuario, rev. Angelo Pintacorona, cura le funzioni religiose sostenuto da altri sacerdoti, mentre i membri l’Associazione “Pro Sant’Angelo”, presente dal 1997, formata da molti  giovani volontari, curano il buon andamento della festa e portano il sacro fercolo in processione.

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La sacra urna di Sant’Angelo esce dalla Sua cappella e, portata a spalla dai portatori, al grido di “Viva Sant’Angelo”, attraversa in processione tutta la navata della chiesa fino all’altare maggiore dove viene sollevata ed esposta.

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Rev. sac.  Angelo Pintacorona

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La mattina del 5 maggio i Ceri votivi vengono esposti in Piazza Sant’Angelo e poi traslati in Piazza Elena a cura dell’Associazione “Vivere Licata”e accompagnati dall’allegro suono della banda. Sono condotti a spalla da otto portatori e da due timonieri.
Anticamente accompagnavano Sant’Angelo durante il cammino processionale.  Dal 1999 non vengono più portati in processione perché potrebbero subire danni irreversibili durante il cammino. In chiesa durante la messa solenne, celebrata dal clero cittadino, presieduta dall’Arciprete don Angelo Fraccica,

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alla presenza delle autorità civili e militari,  presenti anche i due mazzieri, che portano le mazze d’argento, simbolo del potere civile,

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e animata dal coro Terz’Ordine Carmelitano

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vengono offerti i voti e benedetti i bambini donati a Sant’Angelo, vestiti con l’abito carmelitano.

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Molti giovani aspettano nella piazza Sant’Angelo perchè la chiesa non può contenere tutti.

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La Santa Messa continua alla presenza di moltissima gente che ha riempito il santuario

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La Sacra urna è esposta all’adorazione dei fedeli

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A mezzogiorno il Rev. Don Angelo Pintacorona, nel sagrato benedice i “muli parati” che portano simbolicamente  i doni della terra e del mare in ricordo della fastosa dominazione spagnola.

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L’esposizione dei muli parati è il ringraziamento per i benefici ottenuti dal santo.  Il padrone dell’animale offre la sua offerta e la bestia viene benedetta con l’acqua santa.  Il dorso degli animali è coperto da ricche bardature di seta o di velluto e la testa è addobbata con penne di pavone, fiori e sonagliere. Sfilano anche i carretti siciliani e i cavalli delle Associazioni: “Carrettieri siciliani”,  “Amici del cavallo”, “Ass.ne “Cavallo Frisone”, “Un Cuore a cavallo”, “Sant’Angelo 2004” 

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In Piazza Progresso è piacevole ascoltare i bandisti della banda “Amedeo Vella

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Nel pomeriggio, nel sagrato della chiesa molti giovani marinai cantano, ballano, giocano, si rincorrono aspettando l’uscita della sacra urna.

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Alle ore 20:00, dopo la celebrazione della santa Messa, inizia il cammino processionale. La sacra urna di Sant’Angelo viene deposta su un fercolo sorretto da sei felini alati dorati con funzione di cariatidi e tra questi gruppi di tre putti argentati per ogni lato.
Vanno incontro a  Sant’Angelo: i giovani  dell’ Associazione “Vivere Licata”, che indossano la maglietta azzurra, i membri del’Associazione  “Oltreponte Pro S.Angelo”, che portano una rosa  rossa nella mano, i membri dell’Associazione “Pro Sant’Angelo”, che indossano la divisa da marinaio e portano nella mano la candela.

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La sacra urna esce dalla chiesa portata a spalla dai marinai preceduta da una doppia fila di giovani marinai vestiti di bianco, che rappresenta la divisa estiva della Marina Militare, a piedi scalzi e con una candela accesa nelle mani.
I marinai sostituiscono i contadini che ne avevano il privilegio fino ad alcuni anni fa.  La gente è molto numerosa.

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Accompagnano Sant’Angelo il giovane Sindaco di Licata Angelo Cambiano e alcuni membri dell’Amministrazione comunale

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Sant’Angelo passa davanti alla casa di Berengario

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 Quindi prosegue per il Corso Vittorio Emanuele, imbocca la Via Sant’Andrea per sostare davanti alla casa dell’Arcivescovo Goffredo che l’ha ospitato nel 1220.
In piazza della Vittoria si danno il cambio sotto l’urna altri marinai dell’Associazione “ Pro Sant’Angelo” i quali, mentre il clero e il popolo attendono presso la chiesa Madre, loro si portano nei pressi del mare. Sant’Angelo benedice le acque del mare licatese affinché fossero sempre più ricche di pesce.
Recita un antico detto licatese: “Sant’Angilu è u nostru protitturi, carma lu ventu e abbunazza lu mari”.
Da Piazza della Vittoria inizia la prima corsa. I portatori, senza guardare il percorso, avvinghiati gli uni agli altri, guidati dal timoniere, corrono fin dentro la chiesa Madre. Altri giovani marinai, gridando, corrono velocemente davanti all’urna per liberare la strada dalla folla ammassata sui marciapiedi. La banda stimola la corsa intonando marce veloci.

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L’incitamento dei portanti è sempre: “E chi semu surdi e muti? Viva Sant’Angelo”. Le corse sono un momento molto atteso dal popolo.
Lungo il percorso per le vie della città Sant’Angelo corre ancora in Corso Umberto I, in Corso Roma, davanti alla Sua chiesa, al rientro la notte intorno alla mezzanotte.

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Le corse della sacra urna ricordano gli eventi drammatici, cioè quando le reliquie di Sant’Angelo di corsa erano portate fuori dalle mura della città per nasconderLe in luoghi più sicuri per impedire che, a causa dell’invasione dei turchi, che scorazzavano lungo il litorale della costa centro-meridionale della Sicilia, venissero profanate dagli invasori. A Mistretta anche San Sebastiano corre. Era un bersagliere!
La processione prosegue. In piazza Elena avviene l’“ncruciata” con i quattro ceri che fino ad alcuni anni fa accompagneranno il Santo per gran parte del cammino processionale.
Oggi non Lo accompagnano più perché, essendo pesanti e voluminosi, potrebbero subire danni irreversibili. Il percorso prosegue in Corso Umberto I, all’inizio di Oltreponte, in Corso Serrovira e, attraversando la zona di Settespade, raggiunge il Corso Roma entrando correndo nella chiesa del Carmine. Sosta in Piazza Progresso. Quindi prosegue il suo cammino. In via San Francesco corre di nuovo fino all’altare della Sua chiesa al grido sempre più forte “Viva Sant’Angelo”. Sant’Angelo rientra nella Sua chiesa intorno all’una di notte.
La festa si conclude il 6 maggio, giorno di ringraziamento.
La sera, dopo il canto del Te Deum e la benedizione eucaristica, l’urna di Sant’Angelo ritorna nella Sua cappella e, con lo stesso rituale avvenuto il 4 maggio, la porta di ferro viene richiusa con i tre catenacci.

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Chiude il primo catenaccio il Rev. Sac. Angelo Pintacorona in sostituzione del Prevosto della Collegiata della chiesa Madre,

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Chiude il secondo catenaccio il Rev. Don Angelo Pintacorona, Rettore del Santuario di Sant’Angelo,

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Chiude il terzo catenaccio don Angelo Santamaria in sostituzione del Sindaco di Licata.

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Commovente è il grido dei fedeli: “E chi semu surdi e muti? Viva Sant’Angelo”. Intanto al porto si eseguono i giochi del “palio a mare” e del “palio a “‘ntinna”. Infine il concerto musicale in Piazza Progresso e i giochi pirotecnici chiudono suggestivamente i festeggiamenti in onore di Sant’Angelo il 6 maggio.
La festa del 16 agosto fu istituita nel 1625 per ringraziare Sant’Angelo per aver liberato Licata dalla peste.
Mons.Corrado Bonincontro, allora Vicario Generale della diocesi di Girgenti, concesse ai licatesi di festeggiare Sant’Angelo il 16 agosto di ogni anno.
Il 16 agosto era, pertanto, la festa principale, celebrata solennemente, rispetto alla festa del mese maggio che ricorda il martirio del santo. Attualmente la festa principale è quella del 5 maggio, considerando secondaria la festa di agosto.
Oggi, la festa di agosto è celebrata nel primo fine settimana successivo al 15 agosto con le stesse funzioni religiose e civili di quella di maggio  ad esclusione della “fiera” e della partecipazione dei ceri alla processione. Moltissima gente giunge a Licata dall’estero e dai pesi vicini per invocare le grazie a Sant’Angelo.

 

 

 

 

Apr 26, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL SANTUARIO DI SANT’ANGELO MARTIRE PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA

IL SANTUARIO DI SANT’ANGELO MARTIRE PATRONO DELLA CITTA’ DI LICATA


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Ringrazio il prof. Calogero Carità per avermi fornito questa esatta descrizione sulla costruzione del Santuario di Sant’Angelo a Licata e che riporto integralmente.
Ancora Grazie professore.
La ringraziano anche tutti i lettori.
Il cantiere per la costruzione  della chiesa, aperto nel 1564, fu chiuso nel 1850.
Quando vennero scoperte le reliquie che vennero attribuite a Sant’Angelo, canonizzato a furor di popolo, furono raccolte e custodie in un’urna che fu posta sotto l’altare maggiore della chiesuola ad una navata, intitolata ai SS.mi Filippo e Giacomo, primi protettori della città di Licata, che si trovava in via Solferino prossima al bastione Mangicasale e alla porta urbica detta di Sant’Angelo.
Nel 1564, per volontà del Vescovo di Agrigento mons. Rodolfo, venne edificata, accanto a quella dei SS.mi Filippo e Giacomo, una nuova chiesa sotto il titolo di Sant’Angelo. Aveva una navata con al centro il pozzo miracoloso, il tetto era a travatura scoperta e dipinto, l’urna non sta più sull’altare maggiore, ma è custodita in una cappelletta il cui ingresso è difeso da una grata di ferro.

Nel 1575, il vescovo di Agrigento, mons. Cesare Marullo, in sacra visita a Licata, concede ai confrati di Sant’Angelo il diritto di patronato della chiesa e la custodia delle reliquie del Santo, che restano, però, di patronato dei giurati di Licata.
Nel 1624 scoppiò anche a Licata la peste, ma fu presto debellata grazie all’intercessione di Sant’Angelo. I giurati, per gratitudine verso il Santo, stabilirono di edificarvi una nuova chiesa, più grande e più maestosa. La prima pietra fu posta il 1° gennaio del 1626. I lavori andarono molto a rilento e con molte sospensioni. Intanto, per creare un grande sagrato al tempio patronale, furono abbattute tutte le casupole dell’area prospiciente il cantiere e fu creata l’attuale grande piazza Sant’Angelo.
I lavori poterono riprendere grazie all’intervento del Vicerè che il 22 giugno del 1643 ordinava ai giurati di tassare ogni misura di olio in modo di finanziare i lavori di costruzione. Responsabile del cantiere è il capomastro licatese Angelo Bennici. Nello stesso anno furono ordinate 12 colonne in pietra di Billieme ai marmorai palermitani La barbera e Maso. Queste colonne vennero trasportate via mare a partire del mese di giugno del 1643 e saranno collocate a dividere le navate dall’8 dicembre 1653 al 16 febbraio 1654. Fra Angelo Italia, da un rendiconto del 28 giugno 1658, figura come autore dei disegni della pianta, del prospetto e della sezione della chiesa.

Dal 1662 al 1673 opera, come responsabile dei lavori, il religioso e architetto trapanese Andrea Noara. Seppur non ancora completa, la chiesa fu aperta al culto il 15 agosto del 1662 e le reliquie dalla vecchia chiesa furono traslate nella nuova chiesa e collocate nella cappella appositamente costruita nel braccio sinistro del transetto.
Per il 5 maggio 1680 fu completato l’altare maggiore grazie anche al beneficio concesso dal re Carlo II come atto di riconoscenza alla città di Licata per la sua fedeltà alla Corona e per la sua strenua difesa contro l’attacco della flotta francese del 19 aprile 1675.
A questa data, degli undici altari previsti solo 7 erano stati completati.
La chiesa subì seri danni a seguito del terremoto che l’11 gennaio 1693 colpì e devastò anche la Val di Noto.
Tra il mese di novembre del 1695 e il mese di giugno del 1700, sotto la consulenza di Fra Angelo Italia fu costruita la cupola sotto la direzione del capo mastro ed ingegnere palermitano Mario Callisto.
Nel 1733, il vescovo di Agrigento, Mons. Gioieni, consacrò la chiesa di Sant’Angelo. In questo medesimo anno le capriate della navata centrale vennero coperte con una volta a botte.
Il 3 settembre del 1748, presso il notaio Filippo Carmona di Licata, viene sottoscritto il contratto con i marmorari trapanesi Artale e Ferro per la messa in opera delle prime quattro colonne del 1° ordine del prospetto centrale. Per ciò viene recuperato il progetto di Fra Angelo Italia, gesuita, e vengono chiamati come consulenti, suo nipote, Padre Angelo Italia, canonico e architetto della Curia agrigentina, e il teologo e architetto trapanese Giovan Biagio Amico. I lavori si fermarono, purtroppo, per oltre trent’anni e furono ripresi nel 1788, ma non andarono mai avanti. Così il prospetto rimase incompleto.
Ad iniziare la ristrutturazione del precedente prospetto, ancora visibile con le sue paraste corinzie sul lato dove c’è l’ingresso del convento, era stato l’architetto Francesco Bonamici, originario di Lucca, proveniente da Malta dove operava come architetto militare. Da una relazione del 1686 risulta che a quella data, nonostante fosse subentrato al Bonamici Angelo Italia, il prospetto era fermo al primo ordine colonnato mentre i due campanili non erano stati neppure iniziati e l’antico parametro murario della precedente facciata era solo parzialmente ricoperto dalle nuove lastre di pietra, del tutto quasi completata solo nella parte a sinistra dell’ingresso principale, dove oggi è ospitato il Bar Sant’Angelo.
Le colonne del 2° ordine, non tutte pagate ai marmorari, furono restituite ai fornitori. Solo un paio di esse rimasero nel cantiere di piazza Sant’Angelo e lì rimasero per lunghi anni finché, quando la piazza venne sistemata, furono interrate, ma una di queste è riemersa durante i lavori di sistemazione della piazza Sant’Angelo degli anni novanta curati dall’arch. Antonino Cellura ed è stata collocata davanti all’attuale ingresso del chiostro di Sant’Angelo.

Il 27 ottobre del 1847, fortunatamente, mentre la chiesa era chiusa, è collassata la cupola crollando. Fu ricostruita nella forma attuale tra il 1848 e il 1850.
L’antica pavimentazione, fatta di quadrelli di argilla stagnate, fu completamente rifatta nel 1863 e nuovamente rifatta nel 1934 dal can. Vincenzo Di Palma che ricevette dall’allora capo del governo, Benito Mussolini, un contributo di 6 mila lire”.
Il santuario di Sant’Angelo si trova a Licata, nella ex provincia di Agrigento, città dove il santo riscuote una grande devozione essendo il Patrono, nella piazza denominata Piazza Sant’Angelo.
La piazza Sant’Angelo si trova nel centro della città e vi si accede dalle strade laterali del corso Umberto I, dalla piazzetta Elena, dalle strade laterali del corso Vittorio Emanuele, dalle strade laterali di via Nazario Sauro, dalla via sottotenente Sapio e dalla via Dante.
La sua realizzazione, risalente al XVII secolo, è stata necessaria per corredare di un ampio sagrato la grande chiesa dedicata al Santo Martire Angelo. La piazza era abbellita da un’ampia fontana che oggi non esiste più. Nella piazza Sant’Angelo insiste il prospetto della chiesa risalente al 1748. Esso è rimasto incompiuto, ma è stato parzialmente completato nella parte centrale con due ordini di colonne. Sul lato destro della chiesa si erge il campanile che ospita 4 campane; nella campana grande è riprodotto Sant’Angelo, le altre sono più piccole.

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Quasi addossata al campanile, sul transetto della chiesa sorge la meravigliosa cupola di forma rotonda nella parte interna, magistralmente decorata, e di forma quadrangolare nella parte esterna, adorna di una torretta per ogni lato.
Attraverso le ampie finestre la luce del sole illumina l’interno della chiesa. La parte superiore, semisferica, termina con un bel lanternino.

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La cupola, rimasta allo stato rustico fino al 1680, fu completata nel 1696. L’architetto gesuita licatese Angelo Italia inserì la costruzione della cupola nel progetto di edificazione della chiesa nel 1658. Il 27 ottobre del 1849 la cupola crollò nella parte interna senza causare danni alle persone, ma subito fu ricostruita nella forma attuale più maestosa. Torreggia su tutta Licata, si distingue fra tutti gli edifici ed è visibile anche da lontano.

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Negli anni ’80, grazie all’intervento dell’arch. Turi Scuto, la cupola è stata di nuovo sottoposta a restauri interni ed esterni.
La chiesa, a tre navate, è di forma basilicale di stile rinascimentale con transetto e cappellone sul lato sinistro dell’abside. Le dodici colonne delle navate provengono dalle cave di Billieme.

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Sull’altare centrale troneggia Sant’Angelo.

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Esistono due paliotti di marmo colorato che adornano gli altari. Sul paliotto dell’altare maggiore nel bassorilievo è raffigurato il Santo, il pesce che porta sul dorso il cesto di pani, l’Agnello del Signore che, additando un pane ad Elia che riposa sotto un ginepro, dice: ”Alzati, mangia poiché ti resta da fare un lungo camino”. 

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Importante è anche il tabernacolo d’argento.

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La parte più importante della chiesa è la cappella che si trova nel braccio sinistro del transetto. Custodisce le reliquie di Sant’Angelo racchiuse nell’urna d’argento posta al centro della cappella.
L’urna è lunga 114 cm, larga 50 cm e alta 70 cm. Raggiunge i 130 cm di altezza col coperchio che sfuma in tronco di piramide con gli spigoli arrotondati.
La statua di Sant’Angelo adorna il coperchio. Artisticamente l’urna è molto bella. Quando viene portata in processione durante le feste dedicate al Santo Martire è protetta da un artistico baldacchino su cui è effigiata l’aquila sveva, lo stemma di Licata, abbellito da frange triangolari da cui pendono piccole campane d’argento.
L’urna è una meravigliosa opera d’arte recentemente impreziosita dalla maestria del signor Piero Accardi, argentiere di Palermo, che, per interessamento della famiglia Gibaldi, sostenuta  dai membri dell’Associazione “Pro Sant’Angelo” e dalla generosità dei licatesi che hanno donato oggetti di argenteria posseduti a casa, e altre offerte in denaro, ha realizzato il desiderio di Giovan Maria Gibaldi. Secondo il giovane Giovan Maria il vecchio sistema di luci, posto attorno all’urna di Sant’Angelo, non rendeva il gusto onore al Santo Patrono.
Il signor Accardi ha cesellato a mano i decori dei fregi montati lungo il perimetro dell’urna, due di 130 cm e due di 90 cm,  arricchiti da 22 margherite e da 26 candele. Giovan Maria era un fervente devoto di Sant’Angelo ed era un membro attivo dell’Associazione “Pro Sant’Angelo”.Già all’età di 3 anni indossò la divisa dei devoti e a 14 anni era sotto il  fercolo di Sant’Angelo durante il cammino processionale. Il  nome “Giovanni”, per sua memoria, rimarrà per sempre inciso nel fregio laterale dell’urna di Sant’Angelo.

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Giovan Maria è volato in cielo il 9 settembre del 2009 a causa di un incidente di caccia. Aveva 23 anni. Ora fa parte della schiera degli Angeli. I genitori di Giovan Maria, Nino e Caterina Bonafede, membri dell’Associazione “Pro Sant’Angelo”, nata nel 1997, sono molto attivi nell’organizzazione della parte esterna della festa di Sant’Angelo, assieme ai molti  giovani volontari che curano il buon andamento della festa di Sant’Angelo e portano il sacro fercolo in processione.
Ne faceva parte anche Giovan Maria. Il Rettore del santuario, Rev. Angelo Pintacorona, cura le funzioni religiose sostenuto dagli altri sacerdoti. Il programma relativo ai festeggiamenti in onore di Sant’Angelo Martire è molto dettagliato.

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La cappella è adornata da un piccolo altare e da due tele

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La cappella è protetta da un’ampia cancellata di ferro battuto riccamente decorata. Nel 1680 questa cancellata fu chiusa da tre robuste chiavi: una chiave custodita dai Giurati, un’altra dal Priore del convento, un’altra dall’ Arciprete della chiesa Madre. Durante le feste dedicate al Santo Martire i tre lucchetti dell’inferriata sono prima aperti e poi richiusi da un rappresentante del clero, dall’Arcivescovo di Agrigento e dal Sindaco di Licata.

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 Tra la seconda e la terza colonna della navata destra della chiesa si trova il pozzo di Sant’Angelo. E’ il pozzo miracoloso perché al suo interno nel XIV sec. furono rinvenute le ossa del Santo carmelitano esattamente nello stesso posto dove egli predicava prima di essere ucciso.
Essendo profondo vai metri, il pozzo fu circondato da una balaustra e fornito di una scala di pietra affinchè gli infermi che solevano bagnarsi in quelle acque salutari potessero discendervi facilmente.
La balaustra, di pietra grigia di Trapani, di forma ottagonale, è stata eseguita dal maestro Giovanni Romano. Sul puteale è collocata la statua di gesso di Sant’Angelo adagiato sul letto di morte, scultura eseguita dall’artista licatese Antonio Mazzerbo. Ancora oggi, il 5 maggio, durante la funzione religiosa, Sant’Angelo si manifesta con un altro miracolo: l’acqua salmastra del pozzo diventa acqua dolce.

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 Nelle navate laterali della chiesa sono ospitati i ceri di legno i “’ntorci” perché nella loro sommità recano un cero chiamato dai licatesi “u balannuni”.
Questi ceri rappresentano i 4 titoli di Sant’Angelo: dottore, confessore, vergine e martire. Oppure rappresentano i quattro antichi castelli della città greca o i quattro baluardi medioevali.  Ogni cero ha un nome derivante dalla corporazione che ne ha fatto dono: “Cero Comuni” dallo stile eclettico, “ Cero Pecorari” dallo stile neogotico, “Cero Massari” dallo stile neoclassico, “ Cero Piana” dallo stile neoclassico.

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I vecchi ceri sono stati tutti duplicati grazie all’interessamento dell’Associazione Culturale “Vivere Licata” che si è impegnata per la raccolta dei fondi.

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La donazione del cero è una dimostrazione di ringraziamento per grazia ricevuta, di devozione e di affetto verso Il Santo Patrono e Protettore di Licata e dei licatesi.

 

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La chiesa custodisce molte opere d’arte. Lo splendore del tempio si deve anche alla capacità artistica dei fratelli Antonio, Salvatore ed Emanuele De Caro che lo hanno abbellito con i lavori da loro realizzati.
Gli affreschi, realizzati negli anni ’60, illustrano momenti della vita di Sant’Angelo e di altri santi venerati nell’Ordine Carmelitano. Sono stati dipinti da mio suocero, il pittore Salvatore (Totò) De Caro, il papà del prof. Carmelo, quelli del transetto, del presbiterio della chiesa e della volta sopra l’altare della Madonna del Carmelo. Sul soffitto del transetto, nel lato sinistro, il dipinto, realizzato con colori ad olio, raffigura il miracolo della pioggia di fuoco contro le navi saracene.

90 OK SACACENE INVESTITE DALLE FIAMME ARDENTI

 Sul soffitto del transetto, nel lato destro, la scena raffigura Sant’Angelo che separa le acque del fiume Giordano attraversato da Lui a piedi scalzi.

91 OK  pASSAGGIO DELFIUME GIORDANO

Nel soffitto della cappella della Madonna del Carmelo si ammira il corteo degli Angeli.

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Gli affreschi dell’abside son stati dipinti dal pittore Emanuele (Nenè) De Caro. Si ammirano: la Vergine del Monte Carmelo tra i santi Eliseo, Elia Simon Stoch,

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l’apparizione della vergine a Sant’Elia,

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95  DEL PRESBITERIO OK  apparizione della vergine a Sant'Elia

il beato Luigi Rabatà di Erice a sinistra,

96. ALOYSIUS RABBATA'

Sant’Alberto di Sicilia a destra,

97  OK S. aLBERUS SICULUS

 Eliseo che lancia il mantello a Elia rapito sopra un carro di fuoco,

98 OK O DI FUOCO

Sant’Angelo, inginocchiato, presenta al papa Onorio III la nuova Regola Carmelitana.

Ha l’aureola in testa e un angelo scende dal cielo con in mano la palma del martirio e tre corone inserite in essa.

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Il pittore Salvatore De Caro, usando la pittura ad oro zecchino, ha restaurato anche la volta centrale, i capitelli, i pilastri, le trabeazioni. Erano gli anni 1964-1966. Assieme a Salvatore, anche i fratelli Antonio, ed Emanuele (Nenè), il papà del prof. Albino De Caro, hanno profuso la loro arte per rendere sempre più bello il santuario di Sant’Angelo.
Emanuele ha decorato anche l’interno della cupola, Antonio ha scolpito sul legno di ebano, in un unico tronco, il Cristo Crocifisso alto 170 cm datato 1940.  Insieme hanno eseguito molti lavori di restauro nelle chiese di Licata e di altre città.
Molti dipinti adornano le pareti della chiesa. La Madonna della Lettera è un dipinto olio su tela di autore ignoto.

100 OK Madonna della lettera

Anche il quadro dell’Ecce Homo è un dipinto olio su tela. Ha la forma di un triangolo equilatero ed è circondato da una ricca cornice dorata.

101 OK ecce Homo racchiuso in un'artistica cornice

Il dipinto della Madonna col Bambino e i Santi Apostoli Filippo e Giacomo è una pregiata opera di un anonimo artista siciliano.

102 OK Madonna col bambino e i santi Filippo e Giacomo

  Un altro importante dipinto è La Deposizione.

103  OK La deposizione

  Nel dipinto delle Anime del Purgatorio Sant’Angelo ha nella mano la palma del martirio.

104 OK LE ANIME DEL PRGATORIO CON LA PRESENZA DI sANT'aNGELO

 Il dipinto di Santo Spiridione Vescovo, del 1970, è poco pregiato.

105  OK San Spiridione vescovo

 Altre due dipinti, olio su tela, raffigurano il martirio di Sant’Angelo durante la predica e la Sua morte.

106 OK IL MARTIRIO DI SANT'aNGELO ok

107 OK MORTE DI SANT'aNGELO ok

la tela raffigurante la Deposizione di V.Incorvaia

106 a la deposizione di Incorvaia ok

In occasione del’ottavo centenario della nascita di Sant’Angelo i devoti abbellirono la chiesa mettendo in vista  nella finestra centrale l’immagine di Sant’Angelo in vetro dipinto e colorato e nelle finestre laterali le immagini dei santi Apostoli Filippo e Giacomo.

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La chiesa di Sant’Angelo custodisce alcuni sarcofagi e busti marmorei di illustri e nobili personaggi licatesi: Padre Sebastiano Siracusa da Caltabellotta, primo priore del convento di Sant’Angelo, si trova all’inizio della navata di destra,

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Salvatore Cannarella Sapio dei Marchesi di Scuderi e di Regalbono, giovinetto diciassettenne vittima di un infortunio,

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  N.H. Tito Bosio, cavaliere del Sovrano Ordine di Malta,

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  Angelo Parla Muscia, tenente di vascello, medaglia di bronzo al V.M.

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 Il sepolcro di Angelo Frangipane e Celestri, posto all’inizio della navata destra, è sormontato dalle loro armi e coronato da un obelisco.

115 OK  ANGELO FRANGIPANI

 Il sepolcro del marchese di Regalbuono Girolamo Fragapane si trova nella navata sinistra.

116 OK  Marchese di regalbuono Girolamo Fragapane

  Il mausoleo del marchese Scuderi  Domenico Cannada è posto a destra dell’ingresso principale.

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 Il sepolcro in marmo bianco, della baronessa Isabella De Caro e Miano si trova nella navata sinistra. La baronessa è distesa sul letto dove si vedono l’epitaffio e lo stemma delle due famiglie.

118 OK  ISABELLA DE CARO

La chiesa di Sant’Angelo custodisce  alcune statue donate dai Padri Carmelitani quando presero possesso della guida della chiesa avvenuto nel 1947. Nella nicchia dell’altare maggiore è sempre esposto Sant’Angelo.
Questa statua fu donata ai frati licatesi da padre Giovanni Calabrese, priore di Catania dell’Ordine Carmelitano.

119  OK SANT'ANGELO SULL'ALTARE

 Altre statue sono: La Madonna del Carmelo custodita nella Sua cappella,

120  OK  madonna del Carmelo

  Sant’Angelo,

121  OK Sant'Angelo

 Sant’Anna,

122  OK Sant'Anna

 Il Sacro Cuore di Gesù,

123 OK Sacro Cuore di gesù

  il profeta Sant’Elia,

124 OK SAN ELIA PROFETA

il gruppo statuario della Crocefissione con la Madonna Addolorata,

125 a OK stauario della Crocifissione con la vergine Addolorata

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 San Giuseppe col Bambino,

126 OK San Giuseppe col Bambino

Sant’Alberto,

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San Francesco di Paola

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L’Ecce Homo

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 Santa Teresa

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 Sopra l’ingresso principale della chiesa una tribuna in legno dipinto ed intagliato con lo stemma della città adorna il santuario.

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Nella porta a vetri c’è il giglio di Sant’Angelo

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La chiesa fu affidata ai Carmelitani non senza lotte interne.  Il 23 luglio del 1598 Clemente VIII emanò da Ferrara il decreto che ordinava al Vescovo di Agrigento, dietro istanza dei giurati e del popolo di Licata, di concedere all’Ordine Carmelitano la chiesa nella quale “riposava e riposa” il corpo di Sant’Angelo Martire. Purtroppo l’ordine carmelitano ha avuto opposizioni da parte della Confraternita esistente in quel tempo. Adesso la Confraternita non esiste più. Il 2 febbraio del 1606 i Carmelitani presero possesso della chiesa di Sant’Angelo, anche se con situazioni incostanti.
La chiesa fino al 1866 era officiata assiduamente dai PP. Carmelitani. Dopo un periodo di reggenza del clero secolare, ritornò ai frati carmelitani nel 1947. La presenza dei carmelitani contribuì positivamente per la salvaguardia dell’antica chiesa. Dopo un lungo periodo di crisi, constatata la carenza dei frati carmelitani, l’ultimo priore pro-tempore del convento, il licatese Antonino Todaro dell’Ordine Carmelitano, anche se a malincuore, il 30 agosto del 1992 decise di rimettere la gestione della chiesa alla Curia Vescovile di Agrigento.
Il primo giorno del mese di settembre successivo la chiesa fu affidata dal Vescovo di Agrigento Mons. Carmelo Ferraro alla comunità ecclesiale “Opus Matris Verbi” il cui fondatore, Padre Ernesto Lima, fu nominato rettore della chiesa di Sant’Angelo. Inoltre dal 4 luglio del 1996, per salvaguardare l’incolumità dei fedeli, la chiesa fu chiusa al culto in attesa dei finanziamenti necessari per i numerosi interventi di restauro di cui aveva bisogno per il distacco di alcuni calcinacci.
Nella notte tra il 21 e il 22 agosto del 2005, al termine della processione dell’urna di Sant’Angelo, finalmente la chiesa fu restituita ai fedeli con decreto vescovile di S.E. Mons. Carmelo Ferraro che elesse, con proprio decreto nel mese di settembre dello stesso anno, Rettore della chiesa il Can. Don Angelo Pintacorona. All’apertura del “Decennio Angelano” la chiesa fu elevata a Santuario Diocesano il 5 maggio del 2010 dall’Arcivescovo Mons.Francesco Montenegro Metropolita della Diocesi di Agrigento.

Trascrivo interamente il discorso del prof. Calogero Carità, che ho letto su fb e che mi è piaciuto molto, sulla storia dei padri carmelitani e sulla chiesa di Sant’Angelo.  “La presenza dei PP. Carmelitani nella chiesa di Sant’Angelo. Essi ottennero dal Vescovo di Agrigento di poter officiare nella chiesa di Sant’Angelo il 2 febbraio 1606, data in cui ne presero anche possesso e, tra mille difficoltà, iniziarono ad edificarvi accanto un loro convento che sarà completato nel 1686.
Dopo due secoli, e precisamente nel 1866, con la soppressione degli ordini religiosi in virtù dell’art. 20 della legge 7 luglio 1866, n. 3036, i Carmelitani, come i Francescani, i Domenicani e gi Agostiniani dovettero lasciare il loro convento e Licata.
Giusto verbale del 25 novembre 1878 il Comune di Licata diventa cessionario del convento e consegnatario della chiesa che viene affidata alla officiatura del clero secolare.
Il convento viene adibito in parte a caserma militare e in parte a scuola primaria e verso la fine del secolo, quando sarà soppresso, perchè ormai inadeguato il carcere presso la piazza Regina Elena, sarà in parte adibito a carcere, con sezione maschile e femminile.
Nel 1906 lo stato vendette a privati l’intero angolo nord della chiesa, che ospitava la cappella gentilizia della famiglia Cannada,dove oggi c’è un bar, per saldare un debito della Confraternita del Santo.
Il 2 marzo 1936, con atto notarile presso il notaio Gaetano Giganti,  il Comune retrocesse alla Curia Vescovile la chiesa e parte dei locali del Convento, allora ancora adibiti a scuola elementare, ad uso rettoria. La Curia Vescovile si obbligava a tenere aperta la chiesa, a provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria, a garantire l’officiatura e le spese per il culto.
Rettore venne nominato il canonico Vincenzo Di Palma.
Con bolla vescovile di Mons. G.B. Peruzzo del 15 aprile 1946 la chiesa fu affidata nuovamente ai PP. Carmelitani.
Il primo carmelitano a giungere a Licata per preparare l’arrivo degli altri suoi confratelli fu P. Gabriele Monaco, mentre il primo priore del rinato convento fu P. Giuseppe Cimino.
La chiesa fu ripulita dalle macerie della guerra, sistemata e, grazie ai dollari che i fedeli mandavano dagli Usa, fu anche restaurata. Purtroppo scomparve l’antico organo, il restauro dei quadri fu affidato a un pittore locale che ne guastò la loro originalità, fu eliminato l’antico altare ligneo del settecento, donato alla chiesa di campagna di Sabuci che ne era priva e sostituito con uno marmoreo.
Nel 1992, precisamente il 30 agosto, dopo 46 anni di presenza a Licata, i Carmelitani abbandonarono la chiesa, dopo che l’ultimo priore, il licatese P. Antonino Todaro, consegnò le chiavi della Chiesa e del Convento al delegato vescovile portandosi a Trapani l’archivio del convento ed alcuni dipinti, nonostante le proteste. Da quel momento la chiesa ritornò nell’abbandono nonostante il vescovo Mons. Carmelo Ferraro l’avesse affidata alle cure del rettore P. Lima, fondatore della comunità ecclesiale “Opus Matris Verbis”. Questa comunità contemplativa preferì alla chiesa una cappella ricavata nell’area del chiostro, piccola ma adatta ai bisogni contemplativi di questa comunità. La chiesa, quindi, restava spesso e volentieri chiusa.  Fu chiusa definitivamente il 4 luglio 1996, dopo la caduta di alcuni intonaci in tre diversi momenti , il 29 giugno, il 1° luglio e il 2 luglio. Padre Lima invocò un intervento per salvaguardare la pubblica incolumità. La Curia e anche il Comune decretarono la chiusura della Chiesa e il reliquiario di Sant’Angelo -non era mai successo nella storia- fu trasferito ed alloggiato in chiesa Madre, nella cappella del Crocefisso. La Chiesa restò chiusa per 8 lunghi anni e non crollò mai. Intanto i padri contemplativi se ne erano andati e a seguito di un sopralluogo da noi sollecitato, il 7 maggio 2005 il sindaco Angelo Biondi, il vice sindaco Angelo Vincenti e l’assessore al turismo Claudio Morello, in compagnia di Calogero Carità, Angelo Schembri, Giovanni Peritore, Angelo Carità, Angelo Curella. Pierangelo Timoneri, Angelo Castiglione, Angelo semprevivo e Francesco La Perna visitarono la chiesa. Tutti ci accorgemmo del grande bluf che aveva portato alla chiusura della chiesa e che non c’era nulla di pericolante. Due giorni dopo il sindaco fece riaprire la chiesa e la fece ripulire. Si adopererò che fosse nominato un nuovo rettore, nella persona di don Angelo Pintacorona, e l’urna di Aant’Angelo rientrò nella propria cappella al termine della festa di mezzagosto di quello stesso anno. In questa circostanza fu contattato il Generale dell’Ordine dei PP. Carmelitani invitandolo a riprendere l’officitura della chiesa patronale, ma da Roma fu inviato un telegramma di poche righe nel quale si diceva con molta chiarezza che i PP. Carmelitani non erano più interessati alla chiesa di Sant’Angelo, che sarebbe un loro marti
re”.

Nel santuario di Sant’Angelo si venera la Beata Vergine del Monte Carmelo. Proprio sul Monte Carmelo il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria del Monte Carmelo, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” detto “abitino” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”. Lo “Scapolare” è per tutti i carmelitani un segno della protezione materna di Maria.
Il santuario di Sant’Angelo è sede del Terz’Ordine Carmelitano che, sotto la guida religiosa del rettore Don Angelo Pintacorona, i seguaci effettuano il proprio cammino spirituale secondo il carisma dell’Ordine “ Vivere in ossequio a Gesù Cristo.”

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Lo scapolare che indossano i devoti

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e il mantello bianco pogiato sulle spalle

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Adiacente al Santuario di Sant’Angelo sorge l’ampio convento, costruito nel XVII sec., che ospitò i Frati Carmelitani che ottennero il permesso di officiare nell’edificio legato al martirio e alla sepoltura del Santo, luogo principale del culto angelano.
Nel 1598 il Commissario generale dei PP. Carmelitani e il Vescovo di Agrigento si sono accordati che i frati potessero costruire a Licata, accanto alla chiesa di Sant’Angelo, un convento che avrebbe ospitato 12 frati e che agli stessi Carmelitani venisse concessa l’officiatura della chiesa. Proveniente da Mazzara, giunse a Licata padre Sebastiano Siracusa di Caltabellotta per gestire il convento.
Quando furono confiscati i beni ecclesiastici, la chiesa e il convento, il primo della Sicilia, il 23 novembre del 1878 furono ceduti al Comune di Licata. Pertanto il convento divenne prima sede di caserma militare, successivamente sede di edificio scolastico, e poi, alla fine dell’800, sede del carcere mandamentale.

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Il Vescovo Giovan Battista Peruzzo nel 1933 chiese la riconsegna della chiesa e di una parte del convento come rettoria per svolgere il servizio religioso.
Nel 1947 i PP. Carmelitani ritornarono di nuovo a Licata col permesso, sempre del Vescovo Giovan Battista Peruzzo, di officiare nella chiesa e di usare la parte del convento non adibita a carcere. Il numero dei frati carmelitani nel tempo si è assottigliato sempre di più fino a non essercene nessuno. E allora, chiuso definitivamente il carcere negli anni ’70, il convento è stato destinato ad altri usi soprattutto a scopo culturale.
Nel chiostro, infatti, è ospitato il centro Rosa Balistreri che accoglie materiale della cantante folk licatese. Nella sala intitolata a Rosa Balistreri svolge la sua attività il CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti). I soci dell’Associazione “Pro Loco” hanno fissato la loro sede in un piccolo angolo del chiostro.

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Il chiostro Sant’Angelo è oggi soprattutto sede museale; attualmente, grazie al lavoro del Gruppo archeologico D’Italia “Finziade”, diretto dal  dott. Fabio Amato, ospita il Museo del Mare dove sono esposti i reperti subacquei rinvenuti nel mare di Licata.

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La “Pro Loco”, in collaborazione con  il gruppo archeologico D’Italia “Finziade”, ha allestito, sempre all’interno do Chiostro Sant’Angelo,  la mostra dei cimeli storici dello sbarco degli alleati in Sicilia durante la seconda guerra mondiale dal titolo “ Joss Landing area – Licata 1943”.

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In una parete del chiostro Sant’ Angelo è esposto anche il dipinto, olio su tela, opera dell’artista pittore Antonio Mazzerbo, che raffigura lo sbarco degli alleati in Sicilia del 1943.

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Bibliografia:

– Bellorosio Tommaso – Vita S.Angeli-  Palermo 1527

– P Gabriele dott. Monaco Ord. Carm. –  S.Angelo Martire Carmelitano Ed. Laurentiana –Napoli 1967

–  Cantoni Tommaso – Vita S.Angeli martyris  – Bologna 1691

– Carità Calogero – La Chiesa di Sant’Angelo e la festa di Maggio a Licata – Ragusa 2000

– Cesare Carbonelli – Breve profilo storico di Licata e delle sue chiese –Azienda Tipografica Editoriale Canicattinese

– Couto Gabriele – De cultu S.Angeli matyris – in Analecta Ordinis Carmelitarum – Vol.XI- fasc.7-8, 1942, pagg 168-183

-La Rosa Giovambattista – Vita di S:Angelo – Palermo 1597

– Ludovico Saggi, O. Carm – S.Angelo di Sicilia- Studio sulla vita, devozione folklore –

Roma Institutum Carmelitanum 1962

– Giuseppe Fanucchi – Della vita di S. Angelo Martire – Presso Sperandio Pompei- Viterbo 1870

– Scala Andrea Ferdinando – Vita di S. Angelo Martire Carmelitano – Napoli 1746

– Signora Francesco – Vita e miracoli di S. Angelo martire carmelitano – Licata 1837-1838

– www. Santuario di Sant’Angelo – Licata (Ag)

 

 

 

Apr 25, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

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Il 25 Aprile di questo anno 2016 ricorre il 71° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E’ la festa civile della Repubblica Italiana. Il 25 Aprile è chiamato anche Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente il 25 Aprile. E’ un giorno importantissimo per la storia d’Italia. E’ la fine dell’occupazione nazista nel nostro paese avvenuta esattamente il 25 aprile del 1945. E’ giusto ricordare come l’Italia superò le barbarie della guerra e del nazifascismo grazie all’intervento di quanti, militari e civili, furono artefici di tale decisivo momento della storia italiana. Bisogna continuare a fare tesoro degli insegnamenti di chi, non volendo rinunciare alla libertà, diede il propri prezioso contributo alla nascita della democrazia  e delle Istituzioni repubblicane.

Un po’ di storia!

Durante la seconda guerra mondiale, l’Italia era divisa in due: al nord Benito Mussolini e i Fascisti avevano costituito la Repubblica Sociale Italiana vicina ai tedeschi e al Nazismo di Hitler. Al sud, in opposizione, si era formato il governo Badoglio in collaborazione con gli Alleati americani e inglesi. Per combattere il dominio nazifascista i Partigiani programmarono la Resistenza.
I partigiani erano uomini, donne, giovani, meno giovani, sacerdoti, militari, di diverse estrazioni sociali, di differenti ideologie politiche e religiose, ma tutte persone spinte dalla volontà di lottare con gli ideali di conquistare la democrazia, il rispetto della libertà individuale, l’unione e l’uguaglianza del popolo italiano.
Il 25 aprile del 1945 i Partigiani, supportati dagli Alleati, entrarono vittoriosi nelle principali città italiane. Esattamente il 25 aprile ricorda la liberazione di Torino e di Milano da parte dei partigiani al termine della seconda guerra mondiale. In seguito furono liberate altre città dell’Italia settentrionale: Bologna il 21 aprile, Genova il 26 aprile, Verona il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.
La fine della guerra per l’Italia intera avvenne i primi giorni del mese di maggio.
Il 25 aprile del 1945, alle 8:00 del mattino, attraverso la radio, dall’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, formato da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marazza fu proclamata ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti.
Mussolini fu fucilato tre giorni dopo.
La Liberazione mise fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra. Rappresentò, pertanto, l’inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno del 1946 per la scelta fra la Monarchia e la Repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana fino alla stesura definitiva della Costituzione Italiana. Il primo governo provvisorio, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”), confermò la data del 25 Aprile dal 1946 giorno di festa nazionale.
L’articolo 1, infatti, così recita: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale“. La Legge n. 260 del 27 maggio 1949 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”) rese definitiva la giornata festiva della Liberazione.
Il 25 Aprile è festa nazionale! Osservano il giorno festivo le scuole, gli uffici, le attività commerciali e artigianali con la sospensione delle attività lavorative su tutto il territorio nazionale. In molte città italiane ogni anno si organizzano manifestazioni, cortei e commemorazioni.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Roma, recatosi all’Altare della Patria, ha onorato il Milite ignoto deponendo una corona d’alloro. Durante la cerimonia di commemorazione ha espresso particolari apprezzamenti per gli uomini delle Forze Armate che assolvono i compiti loro assegnati dalla Carta Costituzionale con alto senso del dovere. Ha dettoanche che “la nostra Repubblica si fonda sul 25 Aprile”. “E’ sempre tempo di Resistenza contro guerre e violenze”.
A Licata il 25 Aprile ci sono stati tanti momenti celebrativi: la santa Messa, celebrata nel santuario di Sant’Angelo in ricordo dei Caduti di tutte le guerre e di quelli della Liberazione; il Corteo a cura  delle segreterie CGIL-CISL- UIL- A.N.P.I.
In Piazza Progresso il sindaco di Licata Angelo Cambiano

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ha accolto S.E il Prefetto S.E. Nicola Diomede, i Sindaci provenienti da altri paesi della provincia di Agrigento, le forze dell’Ordine e i civili presenti.

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In Piazza Progresso si è svolta la cerimonia ufficiale proposta dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo; la rassegna di picchetto interforze da parte del Prefetto di Agrigento;

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 l’alzabandiera e l’esecuzione del “l’Inno di Mameli” dagli alunni dell’Istituto Comprensivo “Francesco Giorgio” che hanno suonato anche “L’inno alla Gioia” di Ludwig Van Beethoven; è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa;

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 Una corona d’alloro è stata deposta ai piedi del monumento ai Caduti della I° e della II° guerra mondiale;

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 è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa; è intervenuta sull’argomento la Prof.ssa Carmela Zangara.
S.E il Prefetto di Agrigento ha consegnato alcuni testi sulla Costituzione ad una rappresentanza di giovani che oggi hanno compiuto diciotto anni d’età.

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Una corona d’alloro è stata anche deposta anche ai piedi del monumento sito dentro la villetta “G.Garibaldi” a Licata per ricordare il coraggioso soldato e partigiano Raimondo Severino, nato a Licata il 22/02/1923, torturato e trucidato pubblicamente dagli aguzzini repubblichini nella piazza di Borzonasca il 21/05/1944. Raimondo Saverino ha combattuto giovanissimo la Seconda Guerra Mondiale col 241° Reggimento Fanteria “Imperia”, fu colpito in Grecia e rimpatriato.
Appena guarito dalle ferite, riacquistata la sua agilità,fu riassegnato alla caserma “Piave” di Genova.
Quando seppe dell’armistizio, si rifugiò sui colli genovesi per unirsi ai partigiani della brigata “Cichero”.
Scelse come nome di battaglia “Severino” e si distinse  per il suo intrepido coraggio.
Catturato dai tedeschi durante un rastrellamento, riuscì a fuggire e a tornare dai suoi compagni. Appena sopra Chiavari, sui monti della Rondara, i nazisti lo catturarono di nuovo.
Volevano da lui  informazioni sulla resistenza ligure.
Lo legarono e continuarono a chiedergli: « Dov’è la tua banda? Dov’è il tuo Comandante? Ti libereremo se ci darai queste informazioni».
Continuò a ripetere in dialetto siciliano: « Nun u sacciu ».
Condotto sulla piazza principale di Borzonasca fu fucilato. Il corpo di Raimondo Severino rimase tre giorni nella piazza del paese a scopo intimidatorio. Fu il primo caduto della “Cichero”.

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Licata è stata la prima città ad essere liberata dal governo fascista e dall’occupazione nazista.
Nella mostra dello sbarco, allestita nel chiostro Sant’Angelo dalla Pro Loco di Licata,  sono esposti i cimeli, la   foto identificativa del primo soldato dell’esercito americano caduto sulla spiaggia di Mollarella, (foto pervenuta grazie al nipote del milite tramite il sig. F. Sciarrotta), le divise militari (donate dal sig. R. Bilotta), una bicicletta utilizzata dall’US ARMY e tanto altro ancora.

 

 

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A Torre di Gaffe è stata deposta una stele commemorativa dello sbarco degli alleati in Sicilia e l’inizio della liberazione, avvenuto il 10 luglio del 1943.

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In Via Guglielmo Marconi si possono visitare i rifugi anti-aerei che si snodano sottoterra del centro storico di Licata.
Anche la Natura omaggia l’Italia con la coltivazione della pianta di ARBUTUS  UNEDO

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 L’Arbutus unedo è una pianta della famiglia delle Ericaceae originaria dell’Irlanda e diffusa nei paesi del Mediterraneo. In Italia l’Arbutus unedo è l’unica specie del genere Arbutus diffuso in tutte le regioni centrali della penisola dove spesso forma piccoli boschetti; è assente in Val d’Aosta, in Piemonte, in Lombardia, nel Trentino Alto Adige e nel Friuli Venezia Giulia. Cresce dal livello del mare fino a 1000 metri di quota.
La leggenda vuole che fu proprio il Corbezzolo ad ispirare i colori della bandiera nazionale. E’ chiamato “l’albero d’Italia” poiché la presenza contemporanea del verde delle foglie, del bianco dei fiori e del rosso dei frutti  diede origine ai colori del tricolore italiano tanto da diventare, durante il Risorgimento, il simbolo dell’ Unità Nazionale.

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Virgilio, nelle “Georgiche”, indica questa pianta semplicemente col nome “Arbutus”, “Arbusto”, mentre Plinio il Vecchio la denomina “unedo”, da “unus”, “uno” ed “edo”, “mangio”, vale a dire ne “mangio uno solo” per indicare che il frutto, sebbene buono da mangiare, non è gradevolissimo e l’assunzione eccessiva, per la presenza di un alcaloide nella polpa, potrebbe causare probabili inconvenienti a persone ipersensibili, quindi è consigliabile “mangiarne uno solo”. Dall’unione di questi due antichi termini deriva il nome scientifico della specie Arbutus unedo attribuito dal naturalista Linneo nel 1753.
Volgarmente è chiamato “Corbezzolo”. Il Corbezzolo ha dato il nome al monte Conero, il promontorio più importante del medio Adriatico alto 573 metri a sud della città di Ancona. Il nome Conero deriva dal greco “Кόμαρος”, che vuol dire “Corbezzolo”.
Il Corbezzolo, chiamato anche “Ciliegio di mare”, è un arbusto molto diffuso nei boschi del Conero e che produce frutti molto apprezzati localmente. Il Corbezzolo nelle diverse regioni d’Italia ha tanti altri nomi. In Calabria si chiama “Cucummaràra, Mbriacunedi, Cacùmbaru, Chùmma”, in Campania “Accummaro, Soriva pelosa”, in Liguria “Armôn” è l’albero e il frutto, “murta” sono le foglie, in Umbria “cerasa marina, lallarone”, in Toscana “albatro”, in Sardegna “Alidone, Arbòsc, Cariasa, Ghilisoni, Lidone, Mela de Lidone, Olidone, Olidoni, Olioni, Orioni, Ulioni”, in Sicilia “Per’i ruggia,” e “ ‘Mbriacula” perché fa ubriacare. Altri nomi comuni sono:“Fragolon, Pomino rosso, Elioni, Urlo, Tirosetto, Cerosa marina, Musta”. In francese si chiama “Arbousier”, in  inglese ”Strawberry tree fruits”, in spagnolo “Madroño”, in tedesco “Westliche Erdbeerbaum ”.

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 L’Arbutus unedo è un arbusto compatto, elegante, molto ramificato, pollonifero, a crescita lenta. Presenta il fusto alto circa 2 metri, ma può raggiungere anche i 12 metri, dritto, tendente ad inclinarsi e a contorcersi, rivestito dalla scorza sottile, rossiccia, vellutata nei rami giovani, successivamente finemente e regolarmente desquamata in lunghe e strette placche verticali di colore bruno. Le foglie, molto decorative, addensate all’apice dei rami, semplici, alterne, di consistenza coriacea, glabre, brevemente picciolate, hanno la lamina lanceolata con apice acuto e con margine seghettato, la pagina superiore lucida e di colore verde scuro, la pagina inferiore opaca, di colore verde chiaro e presenta anche nervature prominenti rossastre nelle giovani foglie. La chioma è densa, tondeggiante e, a volte, un po’ disordinata.

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La bella peculiarità è la presenza dei fiori delicati ed ermafroditi. Piccoli racemi penduli portano da 15 a 35 fiori presenti da ottobre a marzo dell’anno successivo nella parte terminale dei rami dell’anno. Il fiore è formato da un piccolo calice e da una corolla di colore bianco-avorio, lucida, orciolata, ristretta all’orlo e rigonfia nel centro, appunto come un otre, che termina con cinque denti rivolti verso l’esterno. Fiorisce nei mesi di marzo-aprile.

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FIORI 1 ok

 Alla fioritura segue la maturazione dei frutti tra settembre e novembre dell’anno successivo contemporaneamente alla nuova fioritura di modo che la pianta ospita insieme fiori, frutti immaturi e frutti maturi, fenomeno che la rende particolarmente ornamentale. I frutti, chiamati “corbezzole”, commestibili, sono bacche carnose quasi rotondeggianti, con la superficie rugosa, irta di numerosi e piccoli tubercoli. La polpa, ambrata, succosa e di sapore dolciastro, è ricca di vitamina C.
Le bacche sono divise in loculi e ciascun loculo racchiude numerosi minuscoli semi ellittici di colore brunastro-chiaro lunghi 2-3 millimetri, spigolosi, caratterizzati da una scarsa germinabilità. In autunno si possono osservare il fiore bianco ed il frutto nelle varie fasi di maturazione: di colore verdastro quando è acerbo, di colore giallo in una fase intermedia e di colore rosso-arancio quando è completamente maturo.

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FRUTTI 4 ok

FRUTTI 6 ok

I corbezzoli possono essere consumati crudi, cosparsi di zucchero o con l’aggiunta di un vino liquoroso e in confettura. E’ importante mangiarli al giusto punto di maturazione, troppo immaturi o troppo maturi possono non essere gradevoli al sapore.
Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta ci sono diverse piante di Arbutus unedo e i mistrettesi chiamano i suoi frutti “ ‘miriacoli” perchè dicono che, mangiandone molti, fanno ubriacare.
I Greci amavano molto consumare i frutti perché l’uso abbondante creava un piacevole stato di ebbrezza. Ogni anno organizzavano la festa del Corbezzolo durante la quale si ubriacavano e socializzavano più facilmente tra loro. La propagazione avviene per seme in primavera o per talea semilegnosa in inverno, ma anche per margotta, per propaggine o per divisione di polloni.
La potatura va eseguita con molta attenzione poiché, per tutto l’arco dell’anno, la pianta presenta fiori e frutti, pertanto si eliminano le parti secche o danneggiate e i rami disarmonici. La fronda recisa con i frutti immaturi è utilizzata per decorazioni floreali.
La pianta ha uno spiccato potere pollonifero dovuto ad un ingrossamento ipogeo del fusto che funge da riserva nutrizionale per cui, anche se soggetta a continui tagli o all’aggressione degli incendi, riesce sempre a sopravvivere riemettendo numerosissimi getti dopo il passaggio del fuoco e ricostituendo, in tempi relativamente brevi, la vegetazione delle aree colpite e imponendosi sulle altre specie.
L’Arbutus unedo possiede un legno rossastro particolarmente dolce che può essere utilizzato per realizzare arnesi per alimenti e per piccoli lavori artigianali. In Sardegna i pastori lo utilizzano per realizzare “su pilìsu“, il particolare strumento impiegato per rompere la cagliata; è anche un ottimo combustibile e, non emettendo odore durante la combustione, è molto apprezzato come legna da ardere.
Il Corbezzolo dà altre gradite sorprese: ospita molti uccelli, insetti e mammiferi, che si cibano in gran quantità delle sue bacche mature preparandosi ad affrontare il lungo e freddo inverno, e la Charaxes jasus, la bellissima farfalla dai colori meravigliosi, chiamata la “farfalla del Corbezzolo” perché vive esclusivamente sulle foglie di questa pianta.
Il Corbezzolo è una pianta facile da coltivare. Predilige le aree soleggiate, ma tollera molto bene anche una parziale ombra posto su terreni acidi, anche se si adatta su quelli argillosi, ricchi di materia organica e ben drenati. Può resistere a temperature minime molto basse, ma mal sopporta le gelate precoci o tardive e non gradisce i venti freddi e secchi. Non richiede grandi quantità d’acqua ed è opportuno interrare del buon concime organico ai piedi della pianta in primavera per favorire lo sviluppo ottimale. Teme anche alcuni parassiti.
Gli eccessi d’umidità possono provocare attacchi da parte di alcuni funghi: l’Alternaria causa sulle foglie delle aree necrotiche circolari con alone rossastro; il Septoria unedonis causa maculature tra le nervature e sui lembi fogliari. L’Elsinoe matthiolianum aggredisce solitamente le foglie più giovani formando dapprima piccole macchie traslucide e, in seguito, bollicine di colore bruno che, al loro disseccamento, bucano il lembo.
Tra gli insetti sono principalmente riscontrabili: l’Otiorrynchus sulcatus, la cui presenza si nota per le erosioni sulle foglie;l’Afide verde del Corbezzolo, il Wahlgreniella nervata arbuti, che vive sulla pagina inferiore delle foglie più giovani. Varie specie di tripidi causano malformazioni dei fiori e dei frutti.
La pianta, già conosciuta ed usata in tempi antichi, da Dioscoride e da Galeno era ritenuta nociva per la testa e per lo stomaco. In età medioevale la peste era combattuta mescolando la polvere di “osso di cuore” di cervo con l’acqua distillata dalle fronde di Corbezzolo. Era annoverata tra le cosiddette “Erbe di S. Giovanni“, ricorrenza che cade nel solstizio estivo.
A tale proposito, davanti alle chiese si allestivano mercati delle erbe dove anche il Corbezzolo faceva bella mostra di sè insieme con altre essenze: aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, lavanda, mentuccia, salvia, rosmarino, biancospino, artemisia, ruta. Era considerata anche “erba cacciadiavoli e cacciastreghe” perché si credeva che diavoli e streghe viaggiassero, per partecipare ai loro convegni, proprio nella notte di S. Giovanni.
In fitoterapia le parti usate sono: i fiori, i frutti, le foglie, la corteccia e le radici.
Con le foglie e i frutti si ricavano tisane, infusi ed estratti. I fiori hanno azione sudorifera e diaforetica. Le foglie contengono l’arbutoside, un principio attivo che conferisce loro proprietà diuretiche e antisettiche del tratto uro-genitale, dell’apparato gastrico ed epato-biliare. I frutti, consumati nella giusta quantità, hanno azione astringente e quindi possono essere utilizzati come antidiarroici. Il decotto della radice, della corteccia, delle foglie e del frutto è utilizzato come antinfiammatorio, antiarteriosclerotico, diuretico e nei disturbi renali in generale.
Nell’industria alimentare il Corbezzolo ha numerosi impieghi. Specie mellifera, molto visitata dalle api, offre il famoso miele amaro della Sardegna e della Corsica che ha notevoli proprietà curative nelle affezioni bronchiali di tipo asmatico. Dalla fermentazione dei frutti si ricava il “Vino di corbezzolo” consumato soprattutto in Sardegna, in Algeria e in Corsica. In alcune regioni italiane è consuetudine utilizzare i frutti del Corbezzolo per preparare sciroppi, gelatine, frutta candita, marmellate, il “vino albatrino”, bibite molto dissetanti, una buonissima acquavite, e perfino un tipo d’aceto.
Il frutto entra volentieri anche nei piatti di carne sotto forma di salse.
Nei tempi passati le foglie del Corbezzolo, essendo ricche di tannini, erano usate per la concia delle pelli.
I romani attribuivano al Corbezzolo poteri magici. Virgilio, nell’Eneide, racconta che i parenti del defunto depositavano sulla sua tomba rami di Corbezzolo. Un’orsa, appoggiata ad un albero di Corbezzolo, è il simbolo della città di Madrid. Nella tradizione ligure è usato, assieme all’Alloro, nel carro del “Confuoco“, il carro che portava al podestà doni per dare, con i suoi frutti maturi, una nota di colore. Sempre in Liguria si usava mettere sul portale della propria casa un ramo di Corbezzolo con tre frutti maturi come segno di benvenuto quando si dovevano ricevere ospiti importanti. I vecchi liguri trattavano il Corbezzolo con un certo riguardo tanto da attribuirgli un notevole valore affettivo, chiamandolo, secondo la zona, “armuinermuin”, e perfino “ermelin”, cioè “ermellino” per indicare la sua preziosità.
Nel linguaggio dei fiori la bianca campanula è sinonimo “di ospitalità e di stima”.
Nella tradizione popolare il frutto simboleggia “l’amore”, sempre raffigurato di colore rosso, non disgiunto dalla gelosia che ha il colore giallo: il frutto maturo ha, infatti, la peculiarità di essere rosso fuori e giallo dentro; per tale motivo agli innamorati gelosi era maliziosamente regalato dagli amici intimi un ramo di Corbezzoli.

Apr 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Finalmente nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta sicuramente è fiorita la Dracunculus vulgaris. Un po’ in ritardo perché la vera primavera è stata molto lenta a presentarsi.
Per poter fotografare il suo fiore l’anno scorso sono venuta da Licata a Mistretta ben quattro volte, ma finalmente  ci sono riuscita!
Il nome della pianta di Dracunculus vulgaris ha conservato la sua origine latina “Dracunculus”, “piccolo drago”, nome botanico attributo a questa specie da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, anche se l’aveva usato per descrivere almeno altre due specie vegetali. Questo termine si riferiva al fusto punteggiato, simile alla pelle di serpente e, nel caso di altre piante, alla forma delle radici. Un altro nome della specie è Arum dracunculus.
Carl von Linné riprese il nome e lo usò come attributo nel binomio Arum dracunculus.
I greci antichi usavano il nome “δρακόντος”, “drago, grosso serpente” ma applicavano il nome “άρος”, “sciagura” comprendendo specie oggi classificate come Arum.
Già nel XVII secolo Philip Miller suggerì il nome Dracunculus per un genere a parte.
Nel 1832 Heinrich Wilhelm Schott (1794-1865), direttore dei Giardini Imperiali di Vienna, propose il nome Dracunculus vulgaris.
La specie è conosciuta con tanti altri nomi. In Italia sono relativamente comuni i nomi: “Dragontea”, “Dragonea”, “Dragonzio”, “Erba serpentona”, “Erba serpona”, “Serpentaria”. Altri sinonimi sono: “Arum dracunculus, Aron dracunculus, Dracunculus dracunculus, Dracunculus major, Arum guttatum, Dracunculus polyphyllus, Dracunculus creticus, Dracunculus vulgaris”.
Il nome Serpentaria è stato creato dalla credenza popolare perché si pensava che i serpenti trovassero riparo sotto le sue fronde o perché le macchie di colore rosso-bruno del fusto ricordano la pelle di un serpente. Il nome specifico “vulgaris” deriva dal latinocomune”, quindi “piccolo drago comune”.

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Appartenente alla famiglia delle Araceae, la specie è originaria della regione mediterranea centro-orientale: Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Corsica, Creta, Croazia, Isole dell’Egeo, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Turchia dove cresce sia nel sottobosco sia in radure e in terreni rocciosi. In Italia è distribuita in Sicilia, in Sardegna e in poche altre regioni. Mentre in passato in Italia era diffusa dal Nord fino all’estremo sud della penisola, come riferisce Filippo Parlatore nella sua Flora Italiana del 1853, incerta è oggi la sua presenza in Piemonte ed Umbria e non si incontra in Abruzzo e in Puglia.
La Dracunculus vulgaris è una pianta erbacea perenne tuberosa che vegeta bene fino a 1000 metri di quota. E’ provvista di una particolare radice sotterranea detta tubero. Il fusto, eretto, alto fino ad un metro, glabro, grosso, è di colore verde scuro chiazzato di bianco. Inizialmente la pianta presenta un gruppo di foglie che si ergono dal centro del tubero sotterraneo e che poi avvolgono lo stelo del fiore.
Le grandi foglie, lunghe 30-40 centimetri, molto decorative, sono sorrette da un lungo picciolo da cui parte  perpendicolarmente la lamina fogliare. Essa, di colore cangiante tra il verde chiaro e il verde scuro, lucida con rade macchie lineari bianche, presenta due nervature principali che la incidono profondamente in 5 – 7 lacinie lanceolate, quasi a simulare una foglia palmato-composta, con margini ondulati e appuntiti all’apice. In estate assume una colorazione rossa e non rimane in inverno.

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  La chioma tende a crescere sia in altezza, sia in larghezza facendo assumere alla pianta la forma di un arbusto arrotondato. L’antesi avviene tra aprile e maggio. Lo stelo fiorale, di colore giallo-verde, emerge dalle foglie dando origine ad una delle più spettacolari infiorescenze della flora Italiana.
L’infiorescenza a spiga, nominata spadice, lunga fino a 60 centimetri, è avvolta da un’ampia brattea dai bordi ondulati, detta spata, che ha la pagina superiore prevalentemente di colore rosso-violaceo molto scuro e vellutata e la pagina inferiore di colore verde chiaro. Essa è chiusa alla base a formare la camera floreale cilindrica che agisce da trappola per gli insetti. La spata e lo spadice sono glabri. Lo spadice, che nella porzione racchiusa dalla camera floreale porta numerosi piccoli fiori unisessuali separati da alcuni fiori sterili, si prolunga all’esterno con una lunga appendice violacea a forma di clava.
Contemporaneamente all’apertura dei fiori femminili, l’appendice dello spadice emana un fortissimo odore nauseabondo di carne in putrefazione, odore che permane per un intero giorno associato ad un innalzamento della temperatura ben più alta di quella dell’ambiente.
Gli insetti impollinatori sono attirati nella camera florale dall’intensa secrezione zuccherina di cui sono avidi e dal calore dell’ambiente prodotto dell’attività termogenerativa dei fiori maschili che producono il polline. Il calore permette la vaporizzazione di queste sostanze e gli insetti attirati rimangono imprigionati da due corone di peli rivolti verso il basso. I fiori femminili occupano la parte inferiore della camera floreale, quelli maschili la parte superiore. I fiori femminili sono ricettivi prima dei fiori maschili. Questo fenomeno impedisce l’autofecondazione.
Nel tentativo di uscire, gli insetti si caricano le zampette di polline. Avvenuta la prima impollinazione, l’infiorescenza perde il suo turgore, i peli interni appassiscono, gli insetti, liberati, fuoriescono e vanno ad impollinare altri fiori continuando l’importante compito che la Natura ha loro affidato.
L’attività dell’infiorescenza si può protrarre per 3 – 4 giorni mantenendo quasi invariata la bellezza della spata e dello spadice, soprattutto se la pianta viene annaffiata abbondantemente. La fioritura di piante di grandi dimensioni può durare anche 20 giorni poiché si aprono progressivamente infiorescenze secondarie. Dopo l’impollinazione, le foglie cominciano ad appassire. Lo stelo, da solo, sorregge l’infruttescenza composta da numerosi frutti molto decorativi.
Sono le bacche piriformi lunghe qualche centimetro che, inizialmente, sono di colore verde,  poi, maturando a fine estate o all’inizio dell’autunno, assumono un colore rosso-arancio. Le bacche contengono pochi semi compressi e lunghi 4 – 5 millimetri e di colore bruno. La riproduzione avviene per seme.
Occorrono da tre a cinque anni prima che la pianta fiorisca per la prima volta. Si può praticare anche la divisione dei tuberi durante il riposo vegetativo. Raccolti e conservati in un ambiente asciutto, si ripianteranno in primavera o in autunno. Ogni sezione da ripiantare deve contenere almeno una gemma. I tuberi vanno collocati alla profondità pari almeno al triplo della loro altezza e distanziati l’uno dall’altro di circa 30 centimetri poiché la pianta si espande notevolmente, soprattutto al momento della fioritura.
I tuberi possono essere lasciati indisturbati nel terreno anche per diversi anni. Non richiede potatura se non per eliminare le parti danneggiate.
La Dracunculus vulgaris è coltivata per la bellezza delle foglie e dell’infiorescenza ma, per l’odore nauseante, è consigliabile sistemarla lontano dai luoghi d’incontro dei frequentatori del giardino.
Nella villa comunale di Mistretta la pianta delle fotografie presenti in questo articolo era collocata vicino alla casa degli attrezzi e faceva compagnia alla Digitalis purpurea. Durante la mia scorsa permanenza a Mistretta, nella prima decade del mese di Aprile, sono andata a visitarla, ma non c’era più..Nello giardino, però, sono presenti altre piante. Il signor Orazio Scilimpa, il giardiniere della villa, è una buona guida alla scoperta di qualche altra pianta di Dracunculus vulgaris.
Il fiore della Dracunculus vulgaris dura schiuso solo pochi giorni e, per gli entusiasti delle Araceae, il suo repellente odore è solo un fattore secondario rispetto al suo fascino da molti considerato come il più spettacolare delle Araceae europee.

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La Dracunculus vulgaris è una pianta semirustica, adatta ad essere coltivata nel giardino, ma anche nei vasi di terracotta in terrazza. Preferisce essere esposta in un luogo luminoso affinché il sole possa colorare bene la spata, ma accetta anche zone semi-ombrose. Si adatta bene a qualsiasi tipo di terreno preferendo un suolo ricco di materia organica, sufficientemente umido e ben drenato poiché i ristagni d’acqua favoriscono l’attacco dei funghi.
La fertilizzazione deve essere eseguita con concimi organici una volta all’anno all’inizio del periodo vegetativo. Sa resistere alle alte e alle basse temperature, ma la pianta  va comunque protetta dalle gelate tardive durante la ripresa vegetativa in primavera. Teme il vento, la causa di un’eccessiva traspirazione. La Dracunculus vulgaris è una pianta velenosa e, come tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Araceae, contiene una quantità elevata di principi tossici molto fastidiosi per la salute. Tutte le parti della pianta contengono sostanze potenzialmente irritanti.
L’insieme di queste sostanze può provocare dermatiti e irritazioni al contatto diretto.
L’ingestione, specie dei frutti, può provocare nausea, vomito, diarrea, crampi muscolari. I Tulipani, le Fritillaria, i Narcisi, gli Iris, gli Hemerocallis e il Dracunculus sono piante Monocotiledoni che regalano fiori molto appariscenti.

 

 

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