Aug 25, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL LIBRO DI POESIE “AD UN SOFFIO DA TE” DEL POETA DONATELLO SCIEUZO PRESENTATO NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

IL LIBRO DI POESIE “AD UN SOFFIO DA TE” DEL POETA DONATELLO SCIEUZO PRESENTATO NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

 

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La sede della SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO di Mistretta spesso è teatro di importanti eventi culturali. Il 16 agosto del 2015 nell’accogliente sala delle conferenze, l’Ass.ne Kermesse d’Arte, nella terza giornata culturale, di seguito al concorso letterario “Enzo Romano”, ha attuato la presentazione del libro di poesie “AD UN SOFFIO DA TE” del poeta Donatello Scieuzo.

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Donatello Scieuzo è nato a Bivona (AG) il 02/05/1971 e risiede a Mistretta (ME) assieme alla sua famiglia.
Il poeta Donatello ha ottenuto tanti meritati riconoscimenti. Nel 2014, con la poesia “Notte”, è stato menzionato nel premio Letterario “Il Federiciano” a Rocca Imperiale Reggio Calabria per il 6° Concorso Internazionale di Poesia Inedita.
Erano presenti: Mogol e Alessandro, il figlio di Salvatore Quasimodo, Premio Nobel. La poesia è stata pubblicata da Aletti Editore nel libro “Il Federicano”.
Il giornale “Il Centro Storico” di Mistretta nel foglio informativo dei soci dei mesi Luglio-Settembre 2014 gli ha dedicato un lungo articolo pubblicando la sua poesia “T’ammiro” dedicata a Mistretta.

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In qualità di Presidente fondatore e coordinatore internazionale della –Scuola di poesia-School of poetry Unione mondiale dei poeti –U.M.P.

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 il Cav. Silvano Bortolazzi ha conferito a Donatello la Croce D’Oro Commemorativa della Scuola di Poesia per l’evento “Comune di Spadafora, 02/06/2015, festa della Repubblica con la scuola di poesia”;

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lo ha nominato “Membro Onorario Scuola di poesia-School of poetry Unione mondiale dei poeti –U.M.P. e responsabile Provinciale Messina della scuola di poesia –School of poetry Unione mondiale dei poeti U.M.P.

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Ha aperto i lavori  il signor Dino Porrazzo, presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte. Il signor Giuseppe La Via, presidente della Società fra i militari in congedo, ha elogiato Donatello Scieuzo, socio del sodalizio, per avere scelto questa sede per presentare il suo libro e fare ascoltare la lettura di alcune sue poesie. Donatello ha ringraziato il presidente e tutti i soci della Società per la calorosa accoglienza e per le parole di apprezzamento.

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Da sx: Dino Porrazzo- Giuseppe La Via-  Donatello Scieuzo

 Anche il sindaco di Mistretta, avv, Liborio Porracciolo, si è complimentato con Donatello per la stesura delle sue poesie, sensibili e meditate, che ha avuto il privilegio di leggerle in ante prima. 

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Sulle sillogi ha ampiamente relazionato il prof Antonio Oieni che così si è espresso: “ temi dominanti di questa raccolta poetica sono l’Amore e la Natura. L’Amore inteso come intrecci di sguardi, di sincerità, di serenità, di passione forte. Musa ispiratrice del poeta è la sua amata consorte, la signora prof.ssa Valeria Oieni. La Natura, tramite gli occhi del poeta, trasvola magica verso la luna, il vento, il sole, gli alberi, la sabbia del mare, le farfalle fino ad arrivare a Dio che rasserena l’animo del poeta che Lo ringrazia senza fine per l’amore che Egli dona a tutte le Creature. Il poeta trae ispirazione dalla VITA, che regala emozioni forti e anche leggere come il vento. Anche la piuma riesce ad ispirare l’animo del poeta: <leggera si eleva nel cielo ed insegue le direzioni del vento>”.

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Avendo letto le sue liriche, posso affermare anch’io che Donatello, nelle sue composizioni, trova sempre l’occasione per parlare di famiglia, il fulcro principe della sua esistenza, di amore per la vita, di fede cristiana, di gioia, di nostalgia, di speranza. In molte di esse emerge il suo entusiasmo verso le cose del Creato. La Natura, per Donatello, è bellezza, è seduzione, è evocatrice di grazia, è forza terrificante, è mare in tempesta, è distesa tranquilla di un lago, è corsa inarrestabile del fiume verso il mare, è vastità di una foresta, è silenzio di un bosco interrotto dal sibilo del vento. Il desiderio di esprimersi mediante la poesia denota, in Donatello, il possesso di uno spirito semplice e delicato, che sceglie proprio la poesia per trasmettere sensazioni, riflessioni e profondi sentimenti. Nelle sue poesie le riflessioni diventano sorgente di ispirazione per l’uomo che, con pudore e con intelligenza, apre il suo cuore e invita a lasciare sempre aperta la porta del tuo cuore.

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Al lettore offre la possibilità di leggere se stesso nella propria interiorità, di commuoversi, di impressionarsi creando così un’intima comunione di pensieri. Leggere i versi poetici, raccolti in “Ad un soffio da te”, significa aprire lo scrigno segreto e penetrare nell’intimo della anima del poeta per coglierne la ricchezza di sentimenti a lungo gelosamente custoditi.
La poetessa licatese Angela Ylenia Torregrossa, con la lettura di alcune poesie, tratte dal libro “ Ad un soffio da Te”, ha piacevolmente intrattenuto il folto pubblico che ha applaudito calorosamente.

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NOTTE

La notte giunge puntualmente,

le stelle illuminano il cielo

regalando magie ad ognuno di noi

e desideri da realizzare.

 DONNA

Figura sublime fonte di vita, guida e sostegno.

Tu sei piena di dolcezza e passione,

degna di essere amata, desiderata e rispettata.

Donna, ispiratrice dell’amore fonte di passione senza fine:

semplicemente Donna.

 HO SOGNATO L’ALBA CHE TI ACCAREZZAVA

Al mio risveglio

c’ era solo la tua ombra.

Sentivo l’aroma del caffè, ed odore di rose, mentre mi svegliavo

un solo pensiero,

grazie di esistere, mio dolce Angelo.

Un dolce ricordo è rimasto vivo, il desiderio dell’amore.

INVISIBILE DONNA

Invisibile donna,

donna di casa,

sempre pronta a tutto.

Presenza attiva in casa,

premurosa e paziente.

Basta guardarla negli occhi

per trovare la risposta giusta

ai tanti perché.

Regina del focolare domestico,

riferimento unico e insostituibile per i propri figli,

semplicemente, mamma e donna.

 LA FATA DELLA CASA

Giornalmente, senza mai stancarsi,

stracci e scope attendono la donna di casa.

Finestre al mattino spalancate

segnano il giorno della fatica, che l’attende.

Canti e musiche accompagnano

il suo gran da fare.

Tra i  fornelli, l’odore del buon cibo cucinato

segna la fine della mattinata.

La giornata continua, con impegno e dedizione

ai figli e al marito che, stanco dal lavoro,

ha bisogno di una carezza, di un sorriso e di un bacio.

Inestimabile il mestiere della donna casalinga,

duro, ma proiettato verso un futuro pieno di speranze.

L’unica forza che la sostiene

è quella di essere  pronta a ricominciare.

 DEDICA

Bellezza infinita,

elegante nei tuoi movimenti,

come una musa, donna

ispiri la fantasia del mio poetare.

Delicato e rispettoso,

mentre ti osservo,

ti dedico questa ode

dettata da emozioni senza fine.

Dalla voce del poeta Donatello, dedicata a Mistretta,  abbiamo ascoltato

T’AMMIRO

T’ammiro cara Mistretta, baciata dal sole,

ai miei occhi sei un topazio che brilla.

Antica e graziosa fra le montagne

fai sognar ad occhi aperti,

ed il vento pian piano ti dona l’aria pura,

mentre gli alberi ed il verde

colorano di vita i tuoi spazi.

Cara mia città sei sempre la mia regina

da amare e rispettare.

Ispiratrice di pittori e scultori

sei e sarai la sovrana unica di cultura ed arte.

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LA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

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La Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso ha la sua sede a Mistretta nel palazzo nobiliare Allegra Trasselli, ubicato prima del palazzo Russo, con l’accesso in via Primavera. Nella facciata principale, che dona in via Libertà, al centro del balcone è esposto lo stemma del vecchio casato.

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Palazzo Gallegra Trasselli militarii congedo ok

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 Il 10 gennaio del 1887 fu costituita la Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso. Riconosciuta giuridicamente, con provvedimento del Tribunale di Mistretta in data 22 novembre 1902 a norma della legge 15 aprile 1886 N° 3818, è di durata illimitata. Gli scopi, come recita l’art. 1 dello Statuto, erano: “Di riunire tutte le classi in un’unica fratellanza, di soccorrere i soci ammalati e bisognosi, di elevare moralmente e politicamente lo spirito, di svolgere le attività proprie della Società (sport, escursionismo, educazione culturale ed artistica), dell’assistenza sociale, e di tenere desto e sviluppato maggiormente il sentimento del militarismo nazionale”. La Società era regolata da un preciso statuto antico che, man mano è stato rivisto ed ampliato. Potevano far parte della Società gli Ufficiali, i Sottufficiali, graduati e militari di truppa sia in servizio sia in congedo. I soci, qualunque fosse il grado conseguito durante il servizio militare, sono considerati tutti uguali.

I fondatori furono: i consiglieri comunali Francesco Consentino e Francesco Lo Iacono de Carcamo, l’avv. Salvatore Giordano, che fu eletto come primo presidente della Società. Eletto presidente onorario perpetuo fu il Principe di Napoli. I soci del sodalizio si distinguevano in: soci effettivi, soci corrispondenti, soci temporanei, soci benemeriti. Soci effettivi della Società dei Militari in Congedo potevano essere “gli individui di bassa forza dell’Esercito italiano in congedo assoluto o illimitato, gli ufficiali di complemento, di riserva e territoriale”. I soci “benemeriti” erano coloro i quali, “per benefici arrecati alla Nazione, al Paese o alla Società”, erano proclamati dall’Assemblea degni di tale “onorificenza”. Soci corrispondenti erano quelli che non fecero parte delle forze armate dello Stato, purchè di sana costituzione fisica. Erano soci temporanei quelli che, per ragione di impiego o di altro, non erano residenti a Mistretta. La persona, che voleva essere iscritta nei ruoli dei soci del sodalizio, dopo aver prodotto la domanda, dopo aver presentato l’attestazione di sana costituzione fisica e il congedo militare, doveva versare una somma in denaro come tassa di ammissione. Da questa tassa erano esclusi i soci temporanei. Tutti gli associati dovevano versare la quota mensile ogni quadrimestre.

La Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso il 10 gennaio 1987 ha compiuto 100 anni. E’ tutt’ora in attività.

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Adesso la quota associativa annuale di ciascun socio è di 60 €. Sono esenti dal pagamento dei contributi mensili i soci che hanno compiuto cinquanta anni di iscrizione alla Società. I soci morosi per oltre quattro mesi non avranno diritto a visite mediche e al seppellimento nella cripta sociale in caso di morte. L’azione della Società è esercitata: dall’Assemblea dei soci, dal Consiglio, dalla Giunta dell’amministrazione, dal Presidente. Sono presenti anche il Segretario, l’Esattore, il Cassiere, il bibliotecario. La Società, infatti, è dotata di una biblioteca costituita da volumi ricevuti in dono e acquistati o ricevuti in premio e dall’abbonamento ad alcune testate giornalistiche. Il gonfaloniere porta la Bandiera in caso di partecipazione a solennità pubbliche come la festa dell’Immacolata Concezione e del venerabile San Sebastiano che, essendo stato un condottiero, occupa il primo posto nella Società.

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Essendo una società di mutuo soccorso, il culto dei morti è rispettato. Il presidente pro-tempore e molti soci disponibili, con il gonfalone della Società, si recano ogni anno, in un giorno stabilito durante la ricorrenza dei morti, al cimitero monumentale per onorare gli estinti dignitosamente sepolti nella cripta sociale e dove assistono alla funzione religiosa della celebrazione della Santa Messa.

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Sono ospitati nella cripta sociale: il socio, la madre del socio se vedova, i figli maschi fino all’età di sedici anni e le femmine se nubili di qualunque età, le sorelle nubili, se orfane di padre all’atto dell’ammissione a socio del fratello. Non ha diritto al seppellimento nella cripta la moglie del socio separata dal marito. La vedova del socio non ha diritto al seppellimento quando, con la sua condotta disonorevole, offenderebbe la memoria del marito.

 

Aug 23, 2016 - Senza categoria    Comments Off on CYPERUS PAPYRUS I PAPIRI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

CYPERUS PAPYRUS I PAPIRI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il Cyperus papyrus, la straordinaria pianta dall’aspetto molto caratteristico, comunemente chiamata “Papiro, Giunco del Nilo”,appartenente alla famiglia delle Cyperaceae, è originario delle zone umide ed acquitrinose di diversi paesi: dell’America meridionale, dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa. Sulla presenza della pianta in Sicilia i botanici hanno molto discusso se è una pianta autoctona o se è stata importata dall’Egitto. Una delle ipotesi più accreditate ha sostenuto che la pianta sia stata importata dall’Egitto già verso il 250 a.C. Altre ipotesi hanno sostenuto che sono stati gli Arabi ad introdurre la pianta in Sicilia, altre ancora che il Papiro sia stata una pianta autoctona.

Il nome “Papiro”, molto probabilmente, è stato usato per primo da Teofrasto. Al genere Papiro appartengono circa 600 specie.
Diverse piante di Papiro, posizionate nell’aiuola vicinissima al laghetto nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, di fronte all’Arundinaria e fra le due
Buddleia colvilei, necessitando di ambienti acquitrinosi, lì vivevano molto bene, amorevolmente curate dal signor Vito Purpari, come documentano le mie foto scattate qualche anno fa. Oggi in quell’aiuola i papiri non ci sono più.

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Tre vasi di papiri erano stati collocati dentro l’acqua del laghetto. Stavano bene, erano rigogliosi e vivaci. Rendevano il panorama del laghetto molto armonioso e gradevole. E dove vorrei che fossero di nuovo ricollocati!

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I tre vasi di papiri non stanno più là, sono stati spostati in un’altra aiuola attorno al laghetto, sotto le Cordyline australis. Soffrono la sete. Sono dei condannati a morte! La loro unica speranza è la generosità dell‘acqua del cielo!

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Molto raramente l’apparato radicale, formato dal rizoma che fissa la pianta al terreno tramite piccole radici di colore bianco, riceve una goccia d’acqua.

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Normalmente dalle radici si innalza il caule, o canna. I cauli, lisci, di colore verde scuro, alti circa 60 centimetri in una pianta ancora giovane, ma nella pianta adulta possono raggiungere anche 4 metri d’altezza, sono diritti, senza nodi, a sezione triangolare e con abbondante midollo. Di solito il Papiro non si pota, man mano che la pianta cresce e i cauli diventano gialli vanno rimossi tagliandoli alla base. Sui cauli, spogli nella parte inferiore, alla loro estremità si inseriscono le foglie, strette, lineari, sottili, arcuate e disposte ad ombrella che, nella parte centrale, portano i fiori piccoli e senza petali riuniti in infiorescenze, simili a dei ventagli, formate da spighette piumose. Fioriscono da luglio a settembre.

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 Le foglie sono impregnante di silice che le rende solide e con il margine spesso tagliente. Il frutto è un achenio allungato. Il Papiro si può riprodurre per semina in primavera, o per suddivisione dei rizomi della pianta, o per talea fogliare. Si taglia il caule con un’infiorescenza e si accorciano le foglie per circa la metà della loro lunghezza. Questa parte della pianta si pone, capovolta, in un recipiente pieno d’acqua. Quando si formeranno le radici e i nuovi germogli, allora la talea di Papiro si trapianterà in un vaso con del terriccio buono. Non è difficile coltivare il Papiro perché, essendo una specie rustica perenne, cresce normalmente all’aperto, negli ambienti umidi e con abbondante luminosità, ma non sotto i raggi diretti del sole. Il Papiro è una pianta che ha bisogno di tanta acqua, pertanto è bene porla in un luogo dove può assorbire liberamente la quantità d’acqua necessaria sia d’estate sia d’inverno. Non bisogna lasciare mai il terreno molto bagnato poiché l’acqua potrebbe provocare marciumi delle radici. E’ importante usare un terriccio molto poroso per non far ristagnare l’acqua. Durante il periodo primaverile ha bisogno di un poco di fertilizzante liquido, diluito con l’acqua d’irrigazione, che contiene azoto che favorisce lo sviluppo delle parti verdi. Non devono mancare: il fosforo, il potassio, il ferro, il manganese, il rame, lo zinco, il boro, il molibdeno, il magnesio, tutti elementi chimici importanti per una corretta ed equilibrata crescita della pianta. L’esposizione alla luce diretta del sole per lungo tempo, oppure la modesta quantità di luce, l’eccessiva o l’insufficiente provvista d’’acqua, la presenza della Cocciniglia farinosa e del Ragnetto rosso sono le cause principali del danneggiamento delle foglie che iniziano a marcire fin dalla base e mostrano le macchie brune sulla lamina e la punta necrotica.

Il Papiro è una pianta famosa sin dall’antichità perchè impiegata dal popolo Egizio fin dal XIV secolo e, successivamente, anche da tutte le popolazioni dell’area Mediterranea per la fabbricazione di materiale scrittorio. La pianta di Cyperus papyrus è molto abbondante e ancora presente lungo le sponde del fiume Nilo, in Egitto, e del Ciane, il fiume della Sicilia orientale che nasce dalle sorgenti Pisma e Pismotta e che sfocia nel porto grande di Siracusa. Sembra che la presenza del Papiro nell’acqua del Ciane risalga al III secolo a.C. quando arrivarono dall’Egitto alcune piante inviate da Tolomeo II Filadelfo all’amico Gerone II.

Attraverso le escursioni in barca lungo il corso del fiume si può ammirare la più grande estensione europea di Cyperus papyrus che cresce spontaneo lungo le sue rive. Il Consiglio d’Europa ha incluso il Papiro del Ciane nell’elenco dei biotopi di grande interesse naturalistico e, quindi, meritevole di MASSIMA TUTELA.

Questa estensione siciliana di Papiro è di grande interesse naturalistico e storico perché conserva l’antica tradizione della produzione della carta di Papiro. Per valorizzare e diffondere la cultura del Papiro, nel 1989, a Siracusa, è sorto il Museo del Papiro, un’istituzione intellettuale che raccoglie un’importantissima documentazione storico-scientifica. Oggi, considerato il vasto panorama che offre sulla storia del Papiro, l’ambiente siracusano è stato proclamato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. La prima testimonianza certa sulla presenza della pianta di Papiro nel territorio di Siracusa risale al 1674 fornita dal botanico palermitano Paolo Silvio Boccone che la segnalò nelle vicinanze di Augusta. Il merito di aver identificato il Cyperus papyrus fu attribuito al conte siracusano Cesare Gaetani, mentre Saverio Landolina fu riconosciuto il promotore della fabbricazione della carta a Siracusa nel XVIII secolo, merito che gli diede notorietà nel mondo scientifico e letterario. Egli non riuscì a rifare la carta con la stessa tecnica usata dagli egizi e non fu il primo a fabbricare la carta papiracea a Siracusa, ma diede un valido contributo alla storia del Papiro in Sicilia e alla produzione di carta di Papiro a Siracusa.

La pianta, già nota ai siracusani prima del 1674, era chiamata “Pappera, Pampera o Parrucca”. Era utilizzata dai pescatori siracusani per intrecciare corde e dai contadini per legare i covoni. Le ampie chiome verdi erano utilizzate come ornamenti e, durante le festività, erano usate per ricoprire i pavimenti delle strade e delle chiese. Era utilizzato anche per comporre splendidi mazzi offerti agli dei e ai morti.

Il Papiro era comune anche tra i greci intorno al IV sec. a.C. La principale fonte d’esportazione era la città fenicia di Gubal il cui nome greco “βίβλος” significa appunto “Papiro“. Questa pianta era usata per svariati usi: per l’edilizia, per l’abbigliamento, ma soprattutto per ricavarne materiale utilizzato per scrivere che, in seguito, è stato sostituito dalla carta. La sua fabbricazione risale ai tempi molto antichi tanto da ritrovare un rotolo di Papiro nella tomba di qualche faraone della prima dinastia. La migliore “carta papiro” risale all’epoca faraonica,tra il 3100 e il 332 a.C. Quella riservata ai testi sacri era chiamata “hieratica”. Intorno al 3000-3500 a.C., i sacerdoti e i contabili dei faraoni egizi scrivevano su un supporto leggero e duraturo: sui rotoli di Papiro fabbricati utilizzando gli steli di questa pianta acquatica. Sullo stesso materiale sono stati redatti i manoscritti rinvenuti nella grotta 7Q (Qumran) del famoso complesso di Qumran, nei pressi del Mar Morto, che alcuni considerano i più antichi testi evangelici redatti prima della conquista romana di quei territori avvenuta nel 70 d.C.

Per produrre i fogli di Papiro si procedeva così: si tagliava la parte superiore del lungo stelo delle piante in sottili strisce longitudinali larghe pochi centimetri e lunghe oltre un metro. Tali strisce erano poi disposte, l’una accanto all’altra, sopra un piano orizzontale, in modo da formare uno strato continuo e il più possibile omogeneo.

Su questo primo strato se ne collocava un altro, con l’accortezza di disporre le strisce incrociate parallelamente e perpendicolarmente in modo da ottenere una trama molto resistente. Il reticolo così formato era poi bagnato con acqua e pressato affinché le sostanze collanti contenute nelle fibre della pianta facessero aderire i due strati sovrapposti; successivamente veniva fatto asciugare all’aria. Incollando i margini di più fogli di Papiro si otteneva una striscia continua che si arrotolava per costituire il “volumen o rotolo”: in pratica era l’antenato del nostro libro. Il rotolo di papiro inviava distinti messaggi: arrotolarlo significava il “segreto, il portatore di notizia”, svolgerlo significava “la conoscenza, la rivelazione”.

La carta prodotta in epoca romana, fino al III sec. d.C., è ancora buona, mentre è scadente quella del periodo bizantino e arabo fabbricata in Egitto, in Sicilia, in Siria, in Mesopotamia. In Egitto la produzione è cessata nel XI-XII secolo d.C. e i metodi di fabbricazione della carta ad uso scrittorio non furono più tramandati. Soltanto nel 1962 riprese una produzione simile a quella che gli antichi egizi definivano “emporetica”, cioè commerciale. A Siracusa, dove la carta di Papiro si produceva sin dal 1781, nei laboratori dell’Istituto del Papiro oggi si rivive ancora questo prodigio di tecnica e di arte?

Il leggerissimo legno del Papiro era sfruttato in Egitto anche per la costruzione di imbarcazioni. Nel linguaggio floristico il Papiro è la pianta del “mondo in gestazione, segno di gioia e di fanciullezza”. Nella Bibbia, nella Nascita di Mosè Esodo (2, 5-6) è scritto:Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi( i papiri) e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide un bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: <E’ un bambino degli ebrei>”.

 

 

      

   

  

Aug 15, 2016 - Senza categoria    Comments Off on CONCORSO LETTERARIO DI POESIA E NARRATIVA ”ENZO ROMANO” 2016 A MISTRETTA

CONCORSO LETTERARIO DI POESIA E NARRATIVA ”ENZO ROMANO” 2016 A MISTRETTA

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Nella prestigiosa sala delle conferenze del palazzo Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta il giorno 13 Agosto 2016 si è tenuta la cerimonia di premiazione dei vincitori partecipanti al concorso letterario di poesia e narrativa, edita ed inedita, in dialetto siciliano “Enzo Romano” giunto alla IV edizione e promosso dall’Ass.ne Kermesse d’Arte.

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All’inizio interessante è stata la proiezione del video “A Filippieddu” del prof. Lucio Vranca.

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Enzo Romano è nato a Mistretta il 12 agosto 1933 ed è morto a Calolziocorte il 12 giugno del 2009. Ha insegnato nelle Scuole Elementari di Reitano, di Castel di Lucio, di Mistretta, di Calolziocorte. Ha condotto corsi di aggiornamento per gli insegnanti della Scuola dell’obbligo in varie province della Lombardia. Incaricato dal Provveditorato Agli Studi prima, dall’Università di Bergamo poi, ha insegnato nei corsi polivalenti di formazione professionale per gli insegnanti delle Scuole Elementari, Medie e Superiori. Ha collaborato con l’I.R.R.A.A.E. della Lombardia quale consulente per l’educazione logico-matematica nelle Scuole Elementari. Dal 1978 al 1998 ha collaborato con la rivista di pedagogia e didattica “L’Educatore” della  Fabbri Editore. Ha collaborato con diverse Case Editrici ed è l’autore della didattica per la matematica della “Guida Fabbri” per gli insegnanti delle Scuole Materne ed Elementari e di diversi altri sussidi didattici per l’educazione logico-matematica. Ha collaborato alla raccolta del materiale dialettale del “Vocabolario Siciliano”, opera fondata da G. Piccitto, diretta poi da G. Tropea e, infine, da S. Trovato. Cultore del dialetto, Enzo Romano ha pubblicato diverse opere in lingua dialettale riscuotendo notevole successo e, per questo motivo, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: nel mese di Dicembre del 1994 l’Università degli Studi di Palermo gli ha assegnato il premio “Giuseppe Cocchiara” con la motivazione di aver prodotto etnotesti,  in dialetto amastratino arcaico, che esprimono con grande efficacia e precisione i valori ormai sbiaditi dalla cultura popolare di Mistretta e dei Nebrodi.
Nel  mese di Febbraio del 2004 la sua opera “LUMAREDDI” è stata segnata dal “Premio Vann’ Anto’ – Saitta”. Nel mese di Maggio del 2004 a Caravaggio (BG), dal Cenacolo di Storia Patria di Enna e provincia, gli è stato assegnato il Premio Sicilia “Proserpina”, quale riconoscimento della vasta produzione di preziosi etnotesti siciliani.

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Ha introdotto i lavori il signor Dino Porrazzo, promotore del concorso letterario e presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte,

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 che ha salutato il pubblico presente, ha manifestato ampia soddisfazione per l’elevato numero di componimenti poetici e narrativi ed ha illustrato l’impostazione del concorso così articolata:

Categoria “A”- Poesia – Scuola Primaria e Sec. Primo grado;

Categoria “B”- Poesia – Scuola Secondaria;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie edite;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie inedite;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  edita;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  inedita;

La maestra, signora Mariangela Biffarella, ha illustrato la personalità di Enzo Romano commentando le sue opere: “MUDDICATI”, “ A CASA PATERNA”, “ALLA RICERCA DELLE RADICI” , “LUMAREDDI”, “CUNTARI PI NUN SCURDARI”,”JAUDDI TIEMPI”, “SI RACCUNTA CA NA OTA dove l’autore, in dialetto siciliano, descrive la cultura popolare a Mistretta attraverso ricordi e racconti dei nonni.

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 Il Vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Mistretta, avv. Vincenzo Oieni, ha portato i saluti dell’Amministrazione Comunale ed ha ringraziato l’Ass.ne Kermesse d’Arte per aver dato lustro ad un importante personaggio a cui Mistretta ha dato i natali.

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Il prof. Roberto Sottile, docente di Linguistica Italiana c/o Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo e membro del Comitato Scientificodel Centro Studi Filologici Linguistici Siciliani, si è favorevolmente espresso con queste sue parole: “ Ben vengano i concorsi di poesia dialettale, tra i quali quello di Mistretta, che rappresenta non solo l’occasione per render omaggio a una straordinaria figura di dialettologo e scrittore siciliano, ma anche per dare voce a quanti vogliano affidare a un codice generalmente marginale, com’è oggi il dialetto, il più potente strumento di espressione del loro più intimo sentire”.

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L’amico avv.Sebastiano Insinga, in maniera brillante come sempre, riscuotendo calorosi applausi, ha recitato la poesia “E-siddu fussi veru…!”, tratta dal volume “Lumareddi”, e qualche poesia della poetessa Graziella Di Salvo.

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Quindi, la conduttrice Mariangela Biffarella ha dato inizio alla fase fondamentale della cerimonia con la premiazione dei vincitori giunti a Mistretta anche da paesi lontani per riscuotere il meritato riconoscimento.

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Categoria “A”- Poesia – Scuola Primaria e Sec. Primo grado:

3° classificata: Emanuela Occorso, di S. Mauro Castelverde, per la poesia dal titolo: “U SORRISU D’UN MPICCIRITRU”.Ha consegnato l’attestato di partecipazione la dirigente scolastica prof.ssa Antonella Cancila.

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2° classificata: Greta Scalone, di Mistretta, allieva del plesso “Neviera” I.C “T. Aversa” per la poesia dal titolo: “GRAZIE NONNA”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Pina Manerchia.

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1° classificata: Francesca Artale, di Mistretta, allieva del plesso “Neviera” I.C “T. Aversa” per la poesia dal titolo: “ A ME PATRI”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Liria Bongarrà.

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Categoria “B”- Poesia – Scuola Secondaria:

1° classificata:  Diana Diaconu”, allieva del Liceo Artistico “Diego Bianca Amato” di Cefalù, per la poesia dal titolo: “GIUVANI”. In sua assenza ha ritirato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Antonella Cancila che ha letto integralmente la poesia.

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 Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie edite:

1° classificato: Salvatore Gaglio,di Santa Elisabetta, per la poesia dal titolo “LU CANTU DI LA NOTTI”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione Sebastiano Insinga.

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 Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie inedite:

3° classificato Vincenzo Aiello, di Bagheria, con la poesia dal titolo “CORSO BUTERA 333”. Ha letto, in sua assenza, Sebastiano Insinga.

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2° classificato Salvatore Bruno, di Finale, per la poesia dal titolo “RIUORDU”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione Sebastiano Insinga.

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1° classificato: Gaetano Spinnato, di Mistretta, per la poesia dal titolo “CUNTIMI” magistralmente letta dalla maestra Mariangela Biffarella. Ha consegnato l’attestato di partecipazione il poeta Filippo Giordano.

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Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  inedita:

Gaetano Spinnato, per il racconto “U FUNERALE RU ZZU PIPPINU – U MISIRU –“ ha ottenuto la menzione speciale con la motivazione: <Per la strutturazione del racconto; per il tema che evoca le vicende della migrazione di tanti siciliani; per l’ironia che pervade l’intera storia e che trova il suo culmine nella chiusura del racconto>. Ha consegnato l’attestato di partecipazione la prof.ssa Marisa Antoci.

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Il prof. Lucio Vranca ha letto la sua gradevole poesia “NA VOTA SI CHIAMAVA FUITINA”.

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In un’antologia sono stati raccolti tutti i testi vincitori.

Il presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte, il signor Dino Porrazzo, concludendo i lavori, ha ringraziato i componenti della giuria,

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 l’Amministrazione Comunale di Mistretta, i Lions Club Mistretta  – Sez. Nebrodi per il sostegno economico, il prof.Giovanni Ruffino, direttore del Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani di Palermo e tutti i suoi preziosi collaboratori, l’Assessorato Regionale ai BB.CC e all’ Identità Siciliana per il patrocinio a titolo non oneroso alla quarta edizione del Concorso letterario “Enzo Romano”, la prof.ssa Lilly Blanco per il suo supporto durante le edizioni precedenti, i presenti intervenuti in gran numero.

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Ringrazio l’amico Emanuele Coronato per avermi concesso l’uso di alcune sue fotografie.

Per ricordare la cara Lilly

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Graziella Di Salvo

Aug 9, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ARUNDINARIA JAPONICA IL BAMBU’ NELLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ARUNDINARIA JAPONICA IL BAMBU’ NELLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

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L’Arundinaria japonica, che sta appoggiata al bordo del laghetto della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, quasi sopra le tegole del tetto che copre il motore dell’acqua, dopo la drastica potatura, che l’ha spogliata dai suoi numerosi culmi, adesso si sta riempiendo di nuovi giovani e teneri fusti che rendono l’habitat ancora più piacevole.

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L’Arundinaria japonica, il “Bambusa metake” o, comunemente, chiamato “Bambù”, è una pianta appartenente alla famiglia delle Graminaceae.
I Bambù sono presenti con più di 75 generi diversi e con oltre 1200 specie diffuse in tutto il mondo. Sono tutte originarie delle regioni tropicali e sub tropicali, esattamente dell’Estremo Oriente, della Cina e del Giappone, anche se sono state scoperte alcune specie spontanee in Africa, in Oceania e in America.

Il Bambù è una pianta di taglia media, può raggiungere anche i due metri d’altezza e, crescendo, sviluppa un arbusto tondeggiante. L’Arundinaria japonica è coltivata a scopo ornamentale perché, in tutte le stagioni dell’anno, assume sempre una colorazione verde e mantiene la foglia anche in inverno.

E’ una pianta straordinaria, molto vigorosa, a portamento arbustivo. Il culmo è quello delle Graminaceae, tipico di tutti i Bambù: rigido, alto, eretto, quasi lignificato e duro. Tanti culmi insieme spuntano dal rizoma sottostante a formare fitti gruppi specialmente attigui ad un laghetto o ad un corso d’acqua.

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Presenta internodi cavi e nodi cilindrici molto evidenti dai quali si sviluppano le foglie. Il culmo è conosciuto per la resistenza, per la leggerezza e per la flessibilità tanto da creare un commercio molto florido in tutto il mondo nell’artigianato per la produzione di cestini, “panara” e “carteddi”, nell’industria del mobile e del tessile, per la realizzazione di tessuti, di ventagli, di parquet perché le sue fibre sono molto lunghe.

Haicu (poesia giapponese)

Bianche gocce di rugiada

Sui pennacchi di canne del mio giardino

Potessi perforarle intatte,

Una collana per te.

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La pianta è saldamente legata al suolo tramite le radici rizomatose che si sviluppano considerevolmente in profondità. Il diverso modo di svilupparsi delle radici consente di identificare i vari tipi di Bambù. Vi sono, infatti, piante che sviluppano rapidamente il proprio apparato radicale rizomatoso strisciante allontanandosi velocemente dal luogo d’origine e diventando molto invasive; altre che si sviluppano più lentamente, affondano le radici in profondità e non si allontanano.
Le foglie, provviste di un corto peduncolo,sono sottili, lunghe, lanceolate, appuntite, a margine intero, erette o reclinate verso l’esterno, di colore verde scuro brillante sulla pagina superiore, glauche nella pagina inferiore.

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I fiori somigliano ai lunghi e grossi turioni degli asparagi, anche se le piante coltivate fioriscono raramente. Le spighette, formate da un numero vario di fiori, generalmente unisessuali, sono riunite in pannocchie: quelle maschili sono poste alla sommità della pianta, quelle femminili si trovano all’ascella delle foglie. Talvolta i due tipi di spighette sono riuniti sulla stessa infiorescenza che porta in alto gli elementi maschili e in basso quelli femminili.

Difficilmente è possibile osservare una pianta di Bambù fiorita anche nel proprio paese d’origine. In alcune specie la fioritura avviene contemporaneamente su vaste regioni e rappresenta un processo eccezionale che consuma in abbondanza energia e risorse nutritive.

Gli scienziati non sono ancora riusciti a capire perché, iniziata la fioritura di una specie in una qualunque località della terra, essa si estenda a tutti gli appartenenti a questa specie in qualsiasi parte del mondo e qualunque sia l’età di ogni singola pianta.

In genere, la fioritura avviene in aprile. Avvenuta la fioritura, il culmo muore, ma la ripresa vegetativa della pianta è assicurata dal rizoma sotterraneo. Alle volte il Bambù muore dopo che fiorisce. Una delle tante ipotesi attribuisce la causa all’impollinazione anemofila, cioè per mezzo del vento. Una singola pianta deve produrre una gran quantità di fiori per essere certa di poter produrre i semi; questo è già un notevole sforzo. La pianta, per lo stress subìto, potrebbe anche morire. Inoltre, essendo a crescita molto fitta, la “pianta madre“, per garantire alle piantine della nuova generazione spazio vitale, luce, acqua, aria, sali minerali, sacrifica se stessa.

Sono soltanto delle ipotesi in quanto le vere ragioni non sono ancora state chiarite. Il metodo più pratico per la riproduzione è la via agamica per divisione dei cespi, in primavera, oppure delle parti giovani del rizoma sotterraneo che possono generare nuovi culmi, oppure per talea, scegliendo un tratto di culmo non ancora lignificato e comprendente almeno un nodo e qualche ramificazione. La semina non è una pratica usata per la difficoltà di trovare i semi nei nostri climi.

L’Arundinaria japonica è una pianta un pò esigente e, per il suo equilibrato sviluppo, è consigliabile evitare di esporla a gelate tardive coltivandola in un luogo riparato e in uno spazio dove può ricevere almeno alcune ore di sole diretto. Il terreno deve essere fertile, profondo e ben drenato perché è una pianta che ama un ambiente umido.

Il clima primaverile, con un notevole sbalzo termico tra il giorno e la notte, le piogge abbondanti e frequenti, possono favorire lo sviluppo di alcune malattie fungine. Durante i mesi invernali, per proteggere la pianta dal clima rigido, bisognerebbe ricoprire la porzione di terreno attorno alle sue radici con foglie secche o altro materiale.

Il Bambù è la pianta dai mille usi.
Infatti, oltre ad essere un vegetale di incredibile bellezza, trova innumerevoli impieghi: nella manifattura della carta, delle canne da pesca, di strumenti musicali, nell’artigianato, in medicina, come materiale da costruzione, come utensili da giardino, per bastoni da passeggio.
Alcune specie sono utilizzate nell’industria cosmetica per la fabbricazione di creme e di lozioni perché la linfa contiene amminoacidi, vitamine e numerosi sali minerali. Per le sue caratteristiche la pianta è, pertanto, usata come emolliente, rinfrescante e tonificante della pelle; inoltre migliora la resistenza dei capelli e svolge un’azione protettiva verso gli agenti esterni.

Nella cucina asiatica il Bambù è usato come alimento umano, sotto forma di verdura, perché i giovani germogli si possono cucinare, e come cibo per gli animali.

Il buon funzionamento delle prime lampade Edison è stato favorito dall’impiego di un filamento carbonizzato di Bambù, pertanto si è apprezzata l’utilità della pianta anche nel campo dell’elettricità.

E’, inoltre, molto conosciuto in quanto nelle foreste di Bambù della Cina centro-meridionale, tra i 1800 e i 3000 metri d’altitudine, vive il Panda gigante, l’Ailuropoda melanoleuca, che si nutre proprio delle sue foglie. Il Panda, secondo le informazioni fornite dal WWF, è considerato la specie a maggior rischio d’estinzione per il continuo impoverimento del suo habitat naturale, per il bracconaggio per ricavare la sua pelle, per il basso tasso di natalità della specie, per la morte dei Bambù dopo la fioritura.

Per ricostituire una foresta aggredita dai ripetuti incendi, dai tagli impropri, dalla cementificazione selvaggia quanti anni occorreranno? Quando l’attività antropica non era così accentuata i Panda non avevano problemi di esistenza perchè potevano muoversi liberamente da una zona ad un’altra. Attualmente gli insediamenti umani rendono impossibili i loro spostamenti. Si stima che vi siano meno di 1000 esemplari di Panda divisi in poche decine di popolazioni.

Aug 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on INAUGURAZIONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO A LICATA

INAUGURAZIONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO A LICATA

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Il giorno 27 luglio del 2016 ho assistito alla cerimonia di inaugurazione del Museo Archeologico all’interno del convento cistercense di Santa Maria del Soccorso, meglio conosciuto come la “Badia”, sito in via Dante a Licata,

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che, finalmente, dopo sette anni di chiusura per restauri e ammodernamenti, è stato riaperto e fruibile da quanti desiderano conoscere la storia antica di Licata.

Erano presenti: il sindaco della città di Licata, il dott. Angelo Cambiano,

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che, nel suo breve discorso, ha sottolineato la notevole importanza del museo ed ha elencato tutti gli altri siti che raccontano la storia di  Licata “Dilecta”, il prof. Gioacchino Francesco La Torre, docente nell’ateneo di Messina, che ha parlato degli scavi da lui diretti al Castel Sant’Angelo ed ha ringraziato i collaboratori, che operano nel campo dell’archeologia, per l’impegno e per il proficuo  lavoro, la dott.ssa Luisa Lantieri, Ass.re Regionale alle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica che, nel suo intervento, si è soffermata  sul precario stato delle strade siciliane non agevolmente percorribili, la dott.ssa Gabriella Costantino, Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento, che ha messo in luce l’importanza di questo Museo nel territorio licatese,  il dott. Marco Alletto, dirigente del Commissariato di Polizia di Stato di Licata, la prof.ssa Vitalba Sorriso, unica presidente donna dell’Associazione Archeologica licatese, l’arch. Pietro Meli, già soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento e presidente dell’Associazione Archeologica Licatese.

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Da sx: G. F.La Torre, Luisa lantieri, Angelo Cambiano, Gabriella Costantino, Pietro Meli, Marco Alletto,

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Vitalba Sorriso

L’arch. Pietro Meli ha parlato della nascita del museo archeologico grazie all’entusiasmo e al lavoro degli allora giovani membri della AAL.

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Foto di gruppo della AAL di Giuseppe Cavaleri e Marco Lanzerotti

 Alcune sue le frasi:”Il Museo Archeologico nasce nel 1971, in forme certo diverse dall’attuale,contestualmente all’Associazione Archeologia Licatese, che viene creata da alcuni giovani di allora col preciso intento di dare origine ad un museo per l’archeologia licatese. Con le prime vetrine allestite all’interno della biblioteca comunale, che danno vita al Museo Civico, si avvia il percorso che porterà nei primi anni ’90 del secolo scorso alla creazione dl Museo Archeologico Regionale della Badia. Fu proprio l’Associazione a proporre per prima, già nel 1977, la scelta di questo sito e a redigere un primo progetto che, negli anni successivi, la Soprintendenza fece proprio e attuò con fondi regionali. Non voglio ricordare ruoli e nomi di coloro che sono stati coinvolti a diverso titolo in tale lunga gestazione e realizzazione se non quello dell’ideatore dell’Associazione medesima perché, proprio grazie alla sua passione, al suo impegno, alla sua lungimiranza, Licata ha avuto il suo Museo Civico da cui deriva l’attuale Museo Regionale. Parlo di Totò Cellura, che da anni non è ormai più tra di noi. La fortunata circostanza che all’inizio della sua vita l’associazione si ritrovasse come soprintendente di Agrigento il prof. Ernesto De Miro e, come soprintendente aggiunto la dott.ssa Graziella Fiorentini, fece sì che essa potesse svolgere la sua attività con la loro piena fiducia, guadagnata sul campo, e con il loro appoggio. Fu, grazie alla dott.ssa Graziella Fiorentini, soprintendente succeduta al prof. Ernesto De Miro, che Licata ebbe finalmente il suo Museo. Devo compiacermi, oggi, che il museo riapra con la grandissima novità dell’esposizione degli scavi di Finziade, la cui preziosità di contenuti e di allestimento fa passare quasi in secondo piano la riduzione-direi del 60%- dei reperti precedentemente esposti. E’ stata una contrazione inevitabile a cui si potrà porre rimedio solamente con il restauro e l’allestimento dell’adiacente alla della Badia, che consentirà di esporre non solo i reperti archeologici rimasti fuori dall’allestimento odierno, ma anche le opere di proprietà comunale già destinate al Museo. Tornando brevemente alla storia dell’Associazione, con la  nascita del Museo Archeologico della Badia, gestito direttamente dalla Soprintendenza di Agrigento con personale proprio, la sua attività cessò quasi completamente essendosi essa basata, pressoché esclusivamente, alla gestione del nuovo museo civico. Ripresa solo da qualche anno,l’attività dell’Associazione si è rivolta ad altro. Ha collaborato, pertanto, con la Soprintendenza negli scavi archeologici di Monte Sant’Angelo condotti dal prof. Gioacchino F. La Torre dell’Università di Messina,nello scavo dello Stagnone Pontillo, nell’apertura estiva di quest’ultimo nel biennio 2014-2015 e, soprattutto, spendendo le sue energie nell’organizzazione del convegno che avrà luogo nel prossimo mese di ottobre nella ricorrenza del 1550° anniversario della nascita di San Calogero. In tale circostanza, di concerto col Comune, con la Soprintendenza e con l’Arcivescovado di Agrigento, e con la partecipazione delle università siciliane, di archeologi etno-antropologici e storici, si parlerà non solo di San Calogero, ma anche della diffusione del Cristianesimo nell’agrigentino nei primi secoli dopo Cristo. Altro importante incontro, a cui l’associazione sta già lavorando con l’Amministrazione Comunale, sarà, nel 2018, la ricorrenza dei 2300 anni dalla fondazione di Finziade, che costituisce l’inizio della vita della città attuale. Sarà un appuntamento importante ai fini della promozione della città di Licata anche per il tramite della sua storia”.

Essendo stata anch’io membro dell’Associazione Archeologica Licatese voglio ricordare che il Centro Attività Subacquee, diretto dal prof. Carmelo De Caro, ha collaborato con la AAL per effettuare i recuperi in mare di alcuni reperti come, ad es. i resti dei cannoni.

Alla benedizione, impartita dal Rev.Padre Totino Licata, è seguito un lungo e caloroso applauso da parte delle tante persone presenti all’evento.

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I reperti, esposti nel Museo Archeologico in sei sale, secondo un criterio cronologico, raccontano la storia antica di Licata. Provengono dai siti più significativi del territorio di Licata e della bassa valle dell’Imera e testimoniano la presenza di insediamenti a partire da Neolitico. Provengono dalle contrade: Casalicchio, Colonne, Caduta. Poliscia. Sono ceramiche a decoro impresso, inciso e dipinto che caratterizzano il Neolitico (VI – V millennio a.C.).

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 L’età del Bronzo  (fine III – prima metà del II millennio a. C.) è caratterizzata dalla ceramica, detta di Castelluccio, a motivi geometrici dipinti in nero su fondo rosso, proveniente dai siti di Monte Petrulla, Monte Sole, Giannotta, Landro, Canticaglione, Muculufa, Sottafari, Calì.  

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L’età del Bronzo  medio  (XV – XIII sec. A. C.) è documentata nel villaggio di Madre Chiesa con ceramiche di uso comune.

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Il periodo arcaico  e classico è documentato nelle contrade di Mollarella e Casalicchio dove è stato rinvenuto il santuario dedicato a Demetra e Kore risalente al VI sec.a,C. Dal santuario provengono: lucerne, statuette fittili, testine, vasi.

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Le statue raffigurano: Demetra, vestita dal peplo,

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la Madonna del Soccorso,

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Foto di Francesco Sottile

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Foto di Francesco Sottile

 Grande rilievo assume la città ellenistica sulla Montagna, dove è stata identificata la città di Finziade, fondazione del tiranno agrigentino Finzia nel 282 a.C., che  consente la lettura urbanistica della città con le strade, gli isolati, le case. In prossimità di una vecchia casa signorile, ubicata a ridosso del castello, proviene il “Tesoro della Signora”, costituito da gioielli aurei finemente lavorati e da circa 400 monete d’argento, scoperto durante alcuni scavi effettuati sul monte Sant’Angelo.

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Foto di Francesco Sottile

Trasferito ed esposto ad Agrigento, è ritornato per essere esposto definitivamente nel Museo archeologico di Licata. La mostra sul “Tesoro della Signora” era visitabile alcuni anni fa nella sede centrale della Banca Popolare Sant’Angelo a Licata.

II 13 ottobre 2018, per la giornata del FAI, l’archeologo dott.Fabio Amato ha piacevolmente intrattenuto gli alunni di alcune classi del liceo “V.Linares”, accompagnati dai loro docenti,  illustrando i contenuti degli oggetti esposti nelle vetrine che raccontano la storia di Licata.

 

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Jul 26, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ECHIUM ITALICUM SUBSPECIE SICULUM

L’ECHIUM ITALICUM SUBSPECIE SICULUM

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Amo le piante! Le osservo e le rispetto tutte allo stesso modo!

Nel mese di ottobre dell’anno 2015 da Licata giungevo a Mistretta percorrendo la strada statale 117. La mia attenzione è stata attratta da un cuscinetto di foglie aggrappate a un muro nei pressi della contrada “Cunigghiera”, distante qualche chilometro dal centro di Mistretta. Molto forte è stato lo stimolo a registrare l’evento tramite lo scatto della fotografia. Sapete come mi ha risposto il mio amico, il prof. Giuseppe Bazan? “sorride misteriosa… nascondendo la sua identità.Aspettiamo che un fiore la sveli”.

Essendo molto curiosa di conoscere l’identità di questa pianta che, inspiegabilmente, mi aveva incantata e, probabilmente anche stregata, temendo di non carpire il momento giusto della sua fioritura non risiedendo stabilmente a Mistretta, ho reso complice il mio amico, il dott.Luigi Marinaro e la sua gentile signora, la prof.ssa Matilde Bongarrà, che ringrazio per la loro disponibilità, affinchè fotografassero la pianta in fiore inviandomi qualche foto.

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Sono stata premiata!

 Nel mese di maggio di quest’anno 2016, percorrendo la stessa strada, ho notato che la pianta stava per fiorire. E’ stata così grande la mia gioia da coinvolgere anche la Flora Spontanea Siciliana e il prof. Alfonso La Rosa. Ringrazio tutti gli amici.

Finalmente la magica pianta, regalando i sui fiori, stava per appagare la mia curiosità.

 E’ l’Echium italicum, la pianta che avevo già ammirato in fiore lo scorso anno. L’Echium è stato classificato da Linneo nel 1753. Per maggior precisione, la popolazionesiciliana è riferita alla sottospecieEchium italicum L. subsp.  siculum (Lacaita) Greuter & Burdet.

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Il genere Echium comprende una sessantina di specie originarie dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa settentrionale, ma alcune si sono naturalizzate in altri continenti. Per esempio lEchium plantagineumè diventato infestante in Australia. In Italia l’Echium italicum è presente in tutte le regioni, ad eccezione del Trentino-Alto Adige, ma è più comune nell’Italia mediterranea, in Sicilia e in Sardegna.

Etimologicamente il termine “Echium” deriva da greco “έχις” “ vipera” . Gli antichi greci pensavano che queste piante fossero attive contro il veleno delle vipere. Probabilmente la credenza nasceva, secondo la teoria della “segnatura”, dalle caratteristiche anatomiche di queste piante: per la forma delle infiorescenze ricurve somiglianti alla testa di un serpente oppure per gli stami sporgenti dal fiore come la lingua del serpente, oppure perchè il fusto chiazzato di scuro richiama la pelle del serpente.

La specie “italicum” è riferita alla sua origine.

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 L’erba Echium italicum più comunemente è conosciuta col termine diViperina maggiore siciliana, erba viperina”. In Italia settentrionale è chiamata “Echio di Bieberstein”, in Toscana “Echio, Anchusa, Lingua di cane”, nel Veneto “Buglossa”, in Calabria “Vurrainazzu servaggiu”, in Sardegna “Pabulosu”, in Sicilia “Lingua viperina, Lingua di cani, Pizza di jattu”.

L’Echium italicum,appartenente alla famiglia delle Boraginaceae,è una pianta erbacea a ciclo biennale. Ecco perché ho dovuto aspettare due anni prima che fiorisse!

Nel primo anno forma la rosetta basale e nel secondo anno emette i fusti. E’ una pianta densamente ispida in tutte le sue parti perché rivestite da una peluria setolosa dura e pungente che possiamo verificare se, inavvertitamente, le tocchiamo.

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Le foglie basali, sessili, ravvicinate al suolo, disposte a rosetta, lunghe da 20 a 35 cm, di forma lanceolata, hanno margine intero con setole molli appressate. Le foglie cauline sono lineari e picciolate. Il fusto, eretto, nasce dalla rosetta basale ed è alto da 30 a 150 cm. 
I fiori, raccolti in infiorescenze piramidali, poco ramificate, sono addensati lateralmente al fusto.La corolla, campanulata-imbutiforme, ha la lunghezza del tubo uguale a quella del calice. Di colore bianchiccio, è piccola, pelosa all’esterno. E’ formata da 5 lacinie di cui le 2 superiori sono un po’ più grandi.

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 Dalla corolla sporgono 4-5 stami filamentosi, bianchicci, arcuati, glabri, lunghi il doppio della corolla. La fioritura avviene da aprile ad agosto. I fiori sono amati dalle api e permettono loro di produrre grandi quantità di miele monoflora dal gusto molto gradevole.

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 I frutti sono delle nucule a contorno triangolare, di colore grigiastro e ricoperti dal calice e dalle setole. Si separano a maturità per la fuoriuscita dei semi che sono duri e di colore bianco-perlaceo.

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 E’ consigliabile effettuare la semina in primavera o nella prima metà dell’estate. I semi germinano facilmente e le nuove piantine spuntano dopo 4-6 settimane. Fioriscono al secondo anno di età.

L’Echium è una pianta rustica e di facile coltivazione. Non necessita di terriccio particolare. Cresce nei terreni aridi e incolti, nei pascoli, ai bordi stradali, nelle discariche, ai margini degli abitati, nelle duneda 0 a 1300 metri sul livello del mare. Non ha bisogno di concimazione e di irrigazioni frequenti. Predilige una buona esposizione alla luce del sole.

Per quanto riguarda le proprietà officinali l’Echium ha le stesse virtù della borragine. I semi dovettero colpire profondamente l’immaginazione degli empirici. Infatti, la pianta, per il seme, fu ritenuta per molto tempo efficace contro i calcoli renali secondo la dottrina della “dottrina della signatura“. Per i principi attivi contenuti le foglie, in erboristeria, sono usate per le proprietà diuretiche, depurative e sudorifere per l’apparato escretore, per le proprietà antinfiammatorie ed emollienti per l’apparato respiratorio. La pomata è usata come antinfiammatorio sulle pelli arrossate, aride e sulle mucose boccali irritate. Una piccola quantità di fiori, immersi nell’acqua del bagno, esercita una delicata azione emolliente sulle pelli delicate. Le foglie della rosetta basale potrebbero essere commestibili. Andrebbero raccolte in primavera senza recidere la parte centrale da dove l’anno successivo spunterà lo stelo fiorifero. E’, comunque, più prudente non raccogliere erbe spontanee perché, anche se assunte in modeste quantità, potrebbero contenere sostanze tossiche.

L’Echium, come pianta ornamentale, può essere coltivato in vaso e addobbato come piccolo albero di Natale.

       

Jul 11, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA FESTA DELLA VISITAZIONE DI MARIA ALLA CUGINA ELISABETTA NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

LA FESTA DELLA VISITAZIONE DI MARIA ALLA CUGINA ELISABETTA NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

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Dopo tantissimi anni che abito a Licata, giorno 3  luglio 2016 nel Santuario di Monserrato ho assistito per la prima volta alla funzione religiosa e alla festa in onore della “Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta”, che si trovava in attesa di Giovanni Battista.

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Gli  evangelisti hanno scritto su Giovanni Battista.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 5-80), in Apparizione a Zaccaria, si legge: “Al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giunti davanti a Dio, osservavano irreprensibili le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni. Mentre Zaccaria officiava  davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso. Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso.
Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse
: <<Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto>>. Zaccaria disse all’angelo: << Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni >>. L’angelo gli rispose: <<Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio>>.
Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo>>. Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava del suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: << Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini>>. Nel sesto mese della sua gravidanza Elisabetta ricevette la visita della cugina Maria”.

Nel Vangelo secondo Luca (1, 39- 56), in Visita a Santa Elisabetta, si legge: “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito santo ed esclamò a gran voce:<< Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore>>.

Allora Maria disse:

<< L’anima mia magnifica il Signore,

e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

E santo è il suo nome;

di generazione in generazione la mia misericordia

si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia,

come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza,

per sempre>>.

Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Giovanno Battista è stato definito da Cristo “il  più grande tra i nati da donna”. 

Il nome Giovanni Battista deriva dal greco “Іωάννης”  “Вαπτιστής”, e dal latino “Iohannes Baptista” e significa “Dio è propizio”.

Devo ringraziare l’amico Ivan Frisicario che mi ha invitato a partecipare a questo evento religioso.

La funzione religiosa, con riflessioni Mariane, è stata celebrata nella chiesetta di Maria SS.ma di Monserrato dal Parroco e Rettore Padre Angelo Santamaria e alla quale ha partecipato molta gente.

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 Il fercolo è stato amorevolmente e devotamente addobbato dai giovani volontari: Andrea Occipinti, Raimondo D’Andrea, Luca Lombardo.

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Dopo la celerazione della Santa Messa, i presenti abbiamo assistito all’esibizione dei giovani dell’Associazione Culturale Zampognari Licatesi “V.Calamita” che hanno manifestato la loro bravura nel piazzale davanti alla chiesa e che ci hanno allietato con canti e balli tipici del folklore siciliano. 

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Particolarmente sentita è la processione dedicata alla Madonna di Monserrato.
La statua, che raffigura l’abbraccio di Maria e di Elisabetta, ha iniziato il cammino processionalelungo le strade di campagna in contrada Monserrato.

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 Nella sua semplicità questo è stato un momento ricco di amore, di fede, di devozione verso Maria Santissima come recita la massima:

Madonna di munzirràtu,tuttu u munnu àtu furriàtu e nni mia un ciàtu vinùtu: vinìti ora e ddatimi aiùtu”..

Fino a qualche anno fa il fercolo era portato a spalla dalle donne, tradizione oggi non più in vigore.

Alla fine della passeggiata ecologica, col rientro in chiesa della statua, i festeggiamenti sono terminati con la esplosione dei fuochi pirotecnici.

IL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

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La chiesetta di Maria SS.ma di Monserrato è stata costruita nel XVI secolo  per volere di Don Giovanni Guevara Cama, capitano d’armi a Licata, per rispondere a un miracolo sopra i calanchi in contrada Monserrato a Licata.
Padre francescano Antonio Mario Serrovira, nella sua storia inedita di Licata, ha raccontato che il capitano, giunto a Licata per impossessarsi della città, fu travolto da un turbolento naufragio nel mare di Licata. L’intero equipaggio si salvò grazie alle preghiere rivolte alla Madonna di Monserrato.
La chiesetta è  circondata dalle ville nobilari di stile Liberty.
A causa dei continui scivolamenti del terreno, la chiesetta ha subito notevoli danni per cui, negli anni 1983-1993, è stata ristrutturata ex novo. Tuttavia nel prospetto conserva i pochi elementi architettonici originari.

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Salvata dalla rovina e risorta per l’impegno del parroco Vella, del Comitato e dei fedeli, la chiesetta è stata riaperta al culto dal Vescovo Mons. L. Bommarito il 3 luglio del 1983. Il 2 luglio del 1991 il vescovo Mons.Carmelo Ferraro  innalzò alla dignità di Santuario la piccola chiesetta intitolata alla Madonna di Monserrato.

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Si accede al santuario attraverso il superamento dei gradini di  una lunga scala esterna.

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Il santuario mostra il prospetto molto semplice adornato da tre campane, una più grande e due più piccole,  racchiuse entro finestrelle allungate. Sono sormontate da un arco che ternima con la Croce di ferro battuto. L’’interno, illuminato da due grandi finestre a vetri colorati, ha una navata centrale che contiene pochi arredi. Due grandi finestre a vetri colorati donano luce all’interno della chiesa.
L’altare maggiore è arricchito dalla statua del Crocifisso e dal tabernacolo.

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I quadri raffigurano:  l’Annunciazione dell’Angelo Gabriele

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 La “Visitazione e “l’abbraccio di Maria e di Elisabetta” fra Zaccaria e Giuseppe, che tiene nella mano sinistra il bastone  con i gigli bianchi fioriti,  simbolo di  essere stato scelto come padre putativo del figlio della vergine Maria.

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   Nella pareti laterali è scritto il testo originale latino “Ave Maria, gratia plena …”

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la statua della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta è al suo posto.

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La statua di legno, che raffigura San Giuseppe, è stata donata dalla famiglia dell’avv. D.co Orlando per devozione.

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 Il santuario è circondato da numerose palme, qualcuna purtroppo già colpita dal “Rhynchophorus ferrugineus”, il temibile Punteruolo rosso.

  
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Jul 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA CAMPANULA RAPUNCULOIDES SPONTANEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA CAMPANULA RAPUNCULOIDES SPONTANEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il fiore! Il dono che Gea, la madre Terra, ha fatto alla Natura e all’umanità. Una varietà di colori eterogenei, di profumi, di forme semplici e strane, regolari o irregolari, effimeri o durevoli i fiori sono naturalmente molti; in essi sussiste l’incanto della vita.

Dice Guy de Maupassant: “La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito la cui aria, in primavera, è tutto un profumo”. Scrisse Chateaubriand che “ il fiore è il figlio del mattino, la delizia della primavera, la sorgente dei profumi, la grazia delle vergini, l’amore dei poeti”.

 I fiori non potevano passare inosservati ai poeti, ai pittori, ai musicisti, agli scultori, agli architetti, menti fertili e pronte, che hanno saputo trarre dai fiori ispirazioni per generare vere opere d’arte.

Nelle loro corolle, pur minuscole, grandi o mancanti, è nascosta l’alcova dove si innalzano padiglioni per favorire i più puri fra gli amori nel mondo vivente. Un fiore superbo, un altro semplice, solitario o in infiorescenza, ciascuno ha la stessa funzione: quella di consentire alla specie vegetale di appartenenza di tramandarsi.

I fiori allietano qualsiasi prato, qualsiasi bosco, qualsiasi giardino, qualsiasi aiuola, qualsiasi vaso del balcone.

L’Uomo vuole che il giardino sia sempre fiorito. Mette la rosa spinosa accanto alla gialla calatide del girasole, alla zinnia policroma, alla vellutata viola del pensiero dai vivaci colori lasciando che il verde delle aiuole faccia solo da sfondo. Di qualsiasi colore, bianco, rosso, azzurro, giallo, le corolle dei fiori, in un ciclo ininterrotto, fioriscono sempre. Tutti i fiori, a modo loro, dimostrano la gioia di salutare il sole.

Poiché le piante che fioriscono in primavera e in estate sono moltissime, per l’esperto giardiniere del giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, il signor Vito Purpari, quando era in servizio al Comune di Mistretta, oggi in quiescenza, era sempre facile orientarsi fra le specie e le varietà per dare un aspetto cromatico e armonioso alle aiuole della “nostra” villa.

Conosceva i cicli di fioritura delle piante che esplodono in ogni stagione. Sceglieva le piante, componeva le aiuole, otteneva una ricca ed esplosiva fioritura soprattutto in primavera e in estate.

Per coltivare le piante sono indispensabili poche cognizioni della loro ecologia: le abitudini nutrizionali e ambientali, la presenza delle sostanze minerali nel terreno, l’humus, l’acidità del suolo, ossia il pH.  Ma è  la Natura a dare a ciascun ambiente le proprie piante, i propri fiori.

 E’ ancora la Natura ad insegnare il bisogno di distribuire nel giardino le piante per gruppi aventi le stesse necessità. Naturalmente vi sono anche piante indifferenti, che si adattano ad ogni suolo: sono le piante rustiche.

 Gioiamo di questo grande regalo che la Natura ci dà!

Bello questo discorso sui fiori, ma la nostra villa comunale “Giuseppe Garibaldi” e anche la villa “Chalet”, attualmente danno la possibilità di ammirare e gioire della bellezza dei fiori?

Possiamo oggi dire che la villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è il gioiello di Mistretta?

Dov’è l’antico splendore della villa di alcuni anni fa quando in ogni periodo dell’anno mostrava le sue meraviglie?

Non c’è esplosione di fiori considerato che la primavera è andata via e l’estate è appena all’inizio!

Sono scomparse dalla villa le Lunarie, le Viole tricolor e Mammole, le Petunie e l’Althaea officinalis,

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le Digitalis purpuree, l’Antirrhinum majus, le Veronicahe spicata e variegata, l’Impatiens balsamina, la Buddleja colvei,  la Speronella, le Gazanie, il  Cosmos bipennatus, l’Helianthus  annuus, le Dalie variabili, i Tagetes, le Zinnie eleganti, le Celosia plumosa e cristata, l’Euphorbia marginata, la Bergenia saxifraga, l’Hydrangea macrophylla, il Coleus blumei, i Tulipani, la Fritillaria  imperialis, il Narcissus, l’Iris germanica e fiorentina, l’Hemerocallis, la Dracunculus vulgaris.

E’ appassita la Magnolia grandifolia che abbelliva il lato destro del busto dell’artista  Noè Marullo.

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E’ appassita la Clematide che abbelliva il lato destro del busto dell’on. Vincenzo Salamone.

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Non c’è più il Papiro che adornava il laghetto,

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è appassito da tempo il Pinsapo, albero che ancora non si abbatte.  Sono appassite alcune Tuje e molti Cycas sono in sofferenza.

E’ appassito il Carrubo che si incontrava alla fine del viale di sinistra.

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il Carrubo morto

Era stato piantato nella primavera del 1993 come testimonianza per non dimenticare l’uomo che ha dedicato la sua esistenza, il proprio lavoro e che ha donato la sua vita per la lotta alla mafia.

L’albero di Carrubo è il simbolo della vitalità di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morbillo e agli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montanaro mentre percorrevano, all’altezza di Capaci, l’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi conduce a Palermo e di tutti i caduti per mano mafiosa. Era stato scelto proprio l’albero di Carrubo perché esso indica la continuità della vita senza pause, nemmeno quelle stagionali, perché Falcone, come l’albero, “vive”.

L’Associazione culturale “Progetto Mistretta” ha donato la targa per ricordare la persistenza dei valori di legalità e di giustizia.

Nella targa si legge: “Albero Falcone / coltivare la giustizia / per far crescere la civiltà / Mistretta ai caduti di mafia”.

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Erano le essenze vegetali presenti nel NOSTRO giardino fino a qualche anno non lontano nel tempo.

Ho citato solo alcune piante, ma potrei ancora ampliare l’elenco di quelle non più presenti nel giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.

Una domanda: noi, popolo amastratino, diamo alla villa il meritato Valore?

Non ci rendiamo conto della grande importanza naturalistica, ambientale, turistica che la villa possiede.

Chi dobbiamo rimproverare? E’ vergognoso NON SAPERE custodire ambienti così preziosi!

Son molto dispiaciuta!

Spero almeno che gli arbusti, le Palme, gli alberi ad alto fusto resistano alla “nostra” indifferenza!

Durante la mia recente permanenza a Mistretta ho assistito alla manifestazione della “Giornata dell’Arte” organizzata dall’IIS “Alessandro Manzoni” e all’”Assemblea Corradiniana” della Congregazione delle Suore Collegine della Sacra famiglia di Palermo.

Luogo d’incontro è stata proprio la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.

Ho notato che alcune piante spontanee di Campanula rapunculoides, poste vicine, a gruppi di sei, sette insieme, esattamente sotto il balcone belvedere, con i bei fiori violetti che coronavano gli steli verdi, davano alla villa un’immagine di straordinaria e di spettacolare bellezza.

https://youtu.be/QvLIJ86PaYg

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Le Campanule appartengono alla famiglia delle Campanulaceae e comprendono circa 250 specie di piante erbacee annuali, biennali e perenni alte da 20 fino a 100 centimetri e coltivate soprattutto nel giardinaggio come piante ornamentali perché si prestano per la formazione di aiuole e di bordure nei parchi, per la coltura in vaso sulle terrazze e, industrialmente, per la produzione del fiore reciso. Presentano ricche fioriture di vario colore: bianco, celeste, rosa-lilla, viola, blu, giallo.

L’etimologia di questa parola è abbastanza intuitiva: il nome del genere “campanula”, “piccola campana”, dal latino “campana”, indica la forma del fiore a campana. Il primo studioso ad usare il nome botanico di “Campanula” è stato il naturalista belga Rembert Dodoens vissuto fra il 1517 e il 1585.

 Tale nome era usato già da diverso tempo da molte altre lingue europee.

Infatti, nell’antica lingua francese le Campanule erano chiamate “Campanelles”, oggi si chiamano “Campanules” o “Clochettes”, in tedesco sono chiamate “Glockenblumen” e in inglese “Bell-flower” o “Blue-bell”. In italiano “Campanelle”. Tutte forme derivanti, ovviamente, dalla madre lingua latina.

Le Campanule sono piante “pioniere” importantissime nell’equilibrio ecologico naturale perché capaci di conquistare spazi appena colonizzati dal muschio e di aprire la strada ad altre piante. La loro piantagione nei giardini e nelle coltivazioni orticole già nel secolo XVIII comprendeva una ventina di specie. In Italia molte sono spontanee. Questo numero aumentò nel secolo successivo grazie ad un largo sviluppo delle importazioni europee dagli altri continenti.

Il bacino d’origine delle Campanule è la zona mediterranea dell’Europa. L’Asia, l’Africa, l’America del Nord, ma anche le isole del Capo Verde e le regioni artiche manifestano la loro presenza . È, comunque, dalle regioni mediterranee che si pensa abbia avuto inizio la distribuzione e la diffusione di queste piante in tutto il mondo. In Inghilterra molte specie sono state importate inizialmente per essere coltivate negli orti e, in seguito, come specie ornamentali. E’ stato merito del botanico inglese John Gerard (1545-1612) di avere introdotto in Inghilterra, alla fine del 1500, la Campanula medium e la Campanula persicifolia. Erano entrambe specie solamente della flora spontanea italiana, quindi del tutto ignote al clima insulare inglese.

La Campanula rapunculoides, presente nella villa Comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta,  presenta un portamento vigoroso, cespitoso, con fusto eretto, non molto foglioso e poco ramoso, alto circa 60 centimetri.

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Le radici sono di solito grosse e ricche di sostanze lattiginose. Le foglie, disposte a rosetta, sono di colore verde chiaro, tomentose, intere, alterne. Quelle basali sono dentate, più grandi di quelle cauline e più lungamente picciolate. Le foglie non sono persistenti alla fioritura.

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Il fiore ha la caratteristica forma a campanella. I fiori, ermafroditi, penduli, dal colore blu violetto, disposti in infiorescenze racemose, hanno calici con 5 divisioni, corolla con 5 petali lobati e appuntiti, 5 stami e le antere saldate.

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La fioritura avviene tra giugno e luglio ed è abbastanza prolungata. L’impollinazione è entomogama.

Il frutto, carnoso, è una capsula ovata che si apre mediante fori dai quali fuoriescono molti semi.

La moltiplicazione avviene per semina o per via agamica mediante la divisione dei cespi separando i numerosi germogli che la pianta emette attorno al vecchio ceppo dopo la fioritura. E’ meglio propagare le Campanula per divisione dei cespi, piuttosto che per seme, perché difficilmente si otterrebbero piante uguali alla pianta dalla quale si è raccolto il seme. Le piante ottenute da semi fioriranno dopo circa due anni.

Tutte le Campanule sono piante rustiche e non particolarmente esigenti crescendo rigogliose sia al sole sia in luoghi con una leggera ombreggiatura. Amano un terreno ricco di sostanze organiche, fresco, umido, soffice e ben drenato. Non temono il freddo e il gelo e si possono coltivare in giardino in qualsiasi periodo dell’anno. Durante i mesi freddi la parte aerea può disseccare completamente per rispuntare l’anno successivo. Abbondanti annaffiature d’acqua a temperatura ambiente occorrono in estate evitando i ristagni. In primavera è necessario nutrire il terreno utilizzando un concime specifico per piante da fiore. Le Campanule non hanno molti nemici. Le Lumache e i Lumaconi, ghiotti di queste piante, sono il solo loro problema. Anche gli Acari possono arrecare gravi danni ad una parte o a tutta la pianta.

 Le Campanule sono coltivate soprattutto come piante ornamentali, ma alcune specie vengono utilizzate in cucina.  Le radici e le rosette fogliari di Campanula rapunculoides e di Campanula persicifolia sono usate in insalata. Le radici carnose devono essere raccolte prima dell’inizio della fioritura. Le prime notizie di un uso commestibile di queste piante risalgono al XV secolo trasmesse dall’agronomo francese Oliviero de Serres (1539-1619) nel suo “Théàtre d’agriculture“.

 Lo scrittore e umanista François Rabelais, (1494 – 1553), nella serie dei cinque romanzi “Gargantua e Pantagruel”, dove l’autore racconta le avventure di due giganti, del padre Gargantua e del figlio Pantagruel, ne consigliava l’uso come insalate estive o autunnali. Le radici e le parti aeree della Campanula rapunculus, usate in medicina, hanno proprietà antinfiammatorie e rinfrescanti. Le foglie, applicate per uso esterno, combattono le verruche, gli infusi dei fiori sono utili nei gargarismi. Secondo molti studiosi, la Campanula rapunculus è nociva e quindi è sconsigliato l’uso interno.

Nel linguaggio dei fiori la Campanula simboleggia “civetteria e pettegolezzo”.

 

Jun 20, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SAN PIETRO APOSTOLO E LA SUA CHIESETTA A MISTRETTA

LA VITA DI SAN PIETRO APOSTOLO E LA SUA CHIESETTA A MISTRETTA

 

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La storia di San Pietro, primo dei 12 Apostoli di Gesù, investito della dignità di primo papa della Chiesa cattolica dallo stesso Gesù Cristo, è quella che si legge nel Vangelo ed è molto conosciuta.

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Secondo il Vangelo di Giovanni, Pietro, figlio di Giovanni (Giona), nacque tra l’anno 2 e 4 d.C, a Bethsaida, città situata a circa 3 chilometri a nord del Lago di Tiberiade, in Galilea. Il suo vero nome era Simone che, in ebraico, significava “Dio ha ascoltato”.

Secondo i vangeli sinottici, dopo il matrimonio, insieme alla moglie, alla suocera, al padre e al fratello Andrea, si trasferì a Cafarnao, piccolo villaggio della Galilea che divenne in seguito uno dei centri della predicazione di Gesù, dove svolgeva l’attività di pescatore sul lago di Tiberiade facendosi aiutare dal fratello Andrea, da Giacomo e da Giovanni di Zebedeo. Il trasferimento a Cafarnao è stato necessario in quanto la città offriva maggiori possibilità lavorative per il commercio del pesce.

Secondo Clemente Alessandrino sua moglie seguì il marito durante le sue predicazioni, ma morì martire prima di lui. Nel Vangelo è citata solo la suocera che Gesù guarì “dalla febbre”. I Vangeli apocrifi raccontano che aveva una figlia di nome Petronilla, la mitica santa. San Francesco di Salesa riferì che era la figlia spirituale, non la sua vera figlia.

Ad avvicinare Simone a Gesù fu il fratello Andrea che, dopo avere ascoltato l’esclamazione di Giovanni Battista “Ecco l’Agnello di Dio” designando Gesù e, dopo averLo conosciuto ed ascoltato, Andrea disse a Simone: “Abbiamo trovato il Messia!”. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa. Cefa” in aramaico significa “roccia“, “pietra“, da cui il nome ” Pietro”.

Allora Simon Pietro cominciò a seguire Gesù durante il suo ministero assieme ai discepoli e a predicare la fede cristiana. I Sinottici collocano le prime chiamate di Pietro in riva al mare di Galilea, detto anche lago di Gennesaret.

Gesù conosceva già Pietro e, per predicare, gli chiese di salire sulla sua barca invitando poi i pescatori a raggiungere il largo e a gettare le reti. Sebbene non avessero pescato nulla durante tutta la notte, Pietro obbedì con sollecitudine. La pesca fu miracolosa.

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Bozzetto del pittore Salvatore De Caro da me custodito

Sottomesso, Pietro si prostrò ai piedi di Gesù che gli annunciò che da quel momento sarebbe diventato “pescatore di anime”.  La risposta dei primi discepoli fu di abnegazione assoluta: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Anche dopo la Resurrezione, Gesù apparve a Pietro e ad altri discepoli mentre pescavano nei pressi del lago di Tiberiade.

Significativo per la comprensione della sua personalità è il fatto che Pietro si sia unito inizialmente ai discepoli di Giovanni Battista che predicava l’avvento di un Messia. Era un periodo storico in cui in Galilea stava affiorando una certa insofferenza nei confronti del dominatore romano e l’idea di un Messia come capo anche spirituale, che fosse in grado di guidare una rivolta contro Roma, era piuttosto sentita. L’incontro con Gesù, dotato di un notevole carisma, di doti taumaturgiche straordinarie e di un comportamento aperto anche nei confronti delle regole sociali e religiose, dovette indubbiamente segnare un momento molto intenso nella sua vita.

 Primo tra i discepoli, Pietro professò che Gesù era il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Divenuto apostolo di Gesù, insieme a Giovanni e a Giacomo, assistette alla resurrezione della figlia di Giairo, alla trasfigurazione, all’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi e alla Sua Pasqua.

Di indole spontanea, generosa, intraprendente, fu il più impulsivo degli Apostoli per cui fu eletto portavoce e capo riconosciuto con la promessa del primato: “E io ti dico che sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Nell’iconografia le chiavi simboleggiano la potestà di aprire e chiudere il regno dei cieli.

A Cesarea di Filippo, Gesù interrogò i suoi apostoli su quel che gli uomini dicevano di lui. Diedero varie risposte. Alla  fine il Maestro domandò loro: “Voi chi dite che io sia?”. Fu Simon Pietro che espresse in termini umani la realtà soprannaturale del Cristo: “Tu sei il figlio del Dio vivente!”.Da Gesù Pietro fu nominato “Primo ministro” della Sua Chiesa, governatore dei fedeli, e degli stessi funzionari.

Dai racconti evangelici, nei quali viene menzionato 114 volte, Pietro risulta essere un personaggio spontaneo nelle sue reazioni, impetuoso, ma anche disposto a comprendere i propri errori e ad imparare. Nel celebre episodio della “camminata sull’acqua” Pietro corse incontro al Maestro chiedendoGli di poter fare lo stesso e imparando a sue spese, sprofondando fra le onde, che è necessaria un’intensa fede per compiere tali prodigi.

Pietro, fra i dodici, era anche il più ardito nei suoi discorsi e spesso parlava e agiva a nome loro. All’inizio del ministero di Gesù andò a cercarlo quando il Maestro si era ritirato nella solitudine del deserto. In più occasioni lo interrogò a proposito delle parabole, implorando da lui una spiegazione o chiedendoGli a chi fossero destinate: “ai Dodici o alla folla”. È da lui che si recarono gli esattori delle imposte per reclamare il tributo del Tempio.

Pietro stava per comunicarlo a Gesù che lo prevenne e gli dichiarò che egli stesso era esentato da versamento della tassa, ma non voleva provocare scandali. Così Gesù inviò Pietro a pescare un pesce nella cui bocca fu trovato uno statere, ossia quattro dracme, che rappresentavano l’ammontare delle due tasse dovute: quella di Gesù e quella di Pietro.

Quando in mezzo alla moltitudine di persone una donna toccò l’orlo del mantello di Gesù nella speranza di essere guarita e il Maestro domandò: “Chi mi ha toccato?” Pietro s’affrettò ad osservare la folla che lo stringeva da tutte le parti. Sempre Pietro domandò a Gesù sino a quali limiti ci si debba spingere nel perdonare: “Fino a sette volte?” Risposta: “Settanta volte sette“, cioè sempre.

Mentre si avvicinavano a Gerusalemme, Pietro interrogò Gesù sul fico che aveva maledetto e che l’indomani era stato effettivamente trovato essiccato fin dalle radici. Gesù si limitò a rispondere: “Abbiate fede in Dio”.

A Gerusalemme fu di nuovo Pietro ad informarsi sulla ricompensa che attendevano in cielo coloro che, come lui, avevano abbandonato tutto per seguire Gesù. Rispondendo, promise: “Per questa vita, una famiglia spirituale e dopo la morte, la vita eterna”.

 Dopo il discorso a Cafarnao sul pane di vita, a seguito del quale parecchi discepoli abbandonarono il Maestro, quando Gesù chiese ai dodici se anche loro volevano andarsene, Pietro rispose in nome di tutti dicendo: “Signore, da chi andremo? Solo tu hai parole di vita eterna“.

Durante l’arresto e il supplizio di Gesù anche Pietro fu preso da grande timore tanto che lo rinnegò per tre volte.  Nel Vangelo di Marco, in abbandono dei discepoli (Mc 14, 26 – 31) si legge: “ E, dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi“.

Gesù disse loro: “Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto:

Percuoterò il pastore

e le pecore saranno disperse.

Ma, dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea“. Allora Pietro gli disse: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò“.Gesù gli disse: “In verità ti dico: proprio tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte“.Ma egli, con grande insistenza, diceva: “Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. Lo stesso dicevano anche tutti gli altri apostoli.

Pietro si pentì, assalito dal rimorso.

5 Giovanni d'Enrico  Il pentimento di san Pietro, statua in terracotta 1639 Sacro Monte di Varallo

Statua in terracotta di Giovanni d’Enrico del 1639, Basilica del Sacro Monte di Varallo

Quando il Maestro preannunciò la sua imminente morte, Pietro si ribellò e disse: “Il Maestro deve morire? Assurdo!” Pietro è un uomo semplice, schietto, che agisce d’impeto e, tante volte senza riflettere.  Si raccontano molti episodi come quello di rifiutare di farsi lavare i piedi da Gesù durante l’ultima cena, o quando tentò di difendere il Maestro opponendosi all’arresto riuscendo a ferire uno degli assalitori con la spada recidendogli l’orecchio. Tutti i Vangeli riportano che, al momento dell’arresto di Gesù, uno di quelli che stava con Lui tagliò con la spada un orecchio al servo del sommo sacerdote di nome Malco (Mt 26,51; Mc 14,47; Lc 22,50; Gv 18,10). Il Vangelo secondo Giovanni lo identifica in Simon Pietro. Gesù rimproverò il discepolo dicendo di riporre la spada perché deve bere il suo calice. Gesù allora disse a Pietro: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?”

 Ritiratosi nell’orto del Getsemani, Gesù chiese a Pietro, Giovanni e Giacomo di mettersi in disparte con lui per pregare. Essi però, vinti dal sonno e dal vino della cena, caddero addormentati ricevendo per ben tre volte il rimprovero del Maestro che disse loro, e in particolare a Pietro: “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole“.

Il Maestro ancora una volta riprese Pietro per queste sue reazioni di uomo, non ancora conscio del grande evento della Redenzione. Assistette impotente ed angosciato alla Passione di Cristo. Dopo la Crocifissione e la successiva Resurrezione di Gesù, Pietro fu nominato dal Maestro, oltre che capo dei dodici apostoli,  promotore di quel movimento che sarebbe poi divenuto la prima Chiesa cristiana. Convinto della missione salvifica del Maestro, a Gerusalemme, dove risiedeva, ancora più energico e più coraggioso, radunò gli Apostoli e i discepoli che si erano allontanati infondendo a tutti coraggio fino alla riunione nel Cenacolo. Lì ricevettero lo Spirito Santo, ebbero così la forza di affrontare i nemici del nascente cristianesimo e, con il miracolo della comprensione delle lingue, uscirono a predicare le Verità della nuova Fede.

Gli Apostoli nell’ardore di propagare il Cristianesimo a tutte le genti, dopo 12 anni di permanenza a Gerusalemme, si sparsero per il mondo. A causa della persecuzione di Erode Antipa, vivere a Gerusalemme era molto rischioso. Secondo la tradizione, Pietro per circa 30 anni, dal 34 al 64 d.C fu non il vescovo, carica inesistente all’epoca, ma il capo spirituale della comunità cristiana di Antiochia, che, non solo era la terza città dell’Impero Romano, ma era anche situata nella Grande Siria che fu la sede della nascita e dello sviluppo delle prime comunità cristiane. Quindi intraprese molti viaggi. Giunse in Italia proseguendo fino a Roma “caput mundi”, centro dell’immenso Impero Romano. Predicò anche in molte altre città italiane.

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Predica di Pietro dopo la Pentecoste di Benjamin West

 Vicario di Cristo, primo papa, dirigente visibile della Chiesa, Pietro è il capo di una gerarchia che da venti secoli si avvicenda nella guida dei fedeli credenti. Dovette guidare la nascente Chiesa in un periodo cruciale per l’affermazione nel mondo pagano dei principi del Cristianesimo. Istituì il primo ordinamento ecclesiastico e la recita del “Pater noster”. Indisse il 1° Concilio di Gerusalemme, fu ispiratore del Vangelo di Marco.
Fu investito della dignità di primo papa della Chiesa cattolica dallo stesso Gesù Cristo espletando il suo papato per 25 lunghi anni, anche se interrotti da qualche altro viaggio apostolico.

Nell’anno 64 Roma fu incendiata. Di quest’azione furono accusati i cristiani che furono perseguitati da Nerone. Perseguitato anche Pietro, fu catturato dai soldati dell’imperatore e rinchiuso nel carcere Mamertino. Fuggito dal carcere, Pietro si diresse verso la via Appia, ferito ad una gamba per la stretta delle catene. Secondo la tradizione, nei pressi delle terme di Caracalla avrebbe perso la fascia che gli stringeva la gamba. Catturato nuovamente dai soldati dell’imperatore, fu crocifisso.

Lo storico cristiano Origene diffuse la prima notizia che Pietro fu crocifisso nel circo Neroniano per volontà di Nerone con la testa in giù perché ebreo. Secondo la tradizione, trasmessa da Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene, Pietro fu crocifisso sul colle Vaticano fra il 64, anno dell’incendio di Roma e dell’inizio della persecuzione anti-cristiana di Nerone, e il 67, benché l’autenticità di tale evento sia ancora oggi fonte di grande dibattito fra gli studiosi della Bibbia.  In mancanza di testimonianze documentarie certe sulla data della morte di Pietro, la tradizione l’ha fissata al 29 giugno. Secondo le ricerche effettuate dall’archeologa Margherita Guarducci il martirio di Pietro avvenne il 13 ottobre del 64.

L’apostolo Pietro fu sepolto nelle vicinanze dell’obelisco del circo di Nerone, (quello che anticamente si trovava all’esterno dell’attuale sagrestia della basilica ed ora al centro di piazza San Pietro), dove rimase fino al 258 quando, per mettere al sicuro le spoglie durante la persecuzione di Valeriano, esse furono trasferite nelle catacombe di San Sebastiano assieme ai resti di Paolo.

Un secolo più tardi papa Silvestro I ripristinò le antiche sepolture e Pietro tornò in Vaticano nel luogo in cui Costantino fece poi costruire la primitiva basilica. Nei secoli II e III il sito fu utilizzato come necropoli precostantiana. Durante gli scavi archeologici effettuati nelle grotte vaticane a partire dal 1939 e fortemente voluti da Pio XII, in corrispondenza dell’altare della Basilica Vaticana di San Pietro a Roma, fu individuata un’edicola, ritrovata nel cosiddetto “muro rosso”, su cui era leggibile il graffito “Пέτρος ενι” “Pietro è qui”. La datazione di questo reperto risale al 160 d.C. circa.

Anche se le prove non erano certe, tuttavia, gli indizi erano tali da confermare che l’edicola doveva effettivamente essere la tomba di Pietro.

La Chiesa Cattolica Romana celebra ogni anno quattro feste in suo onore. Il 18 gennaio e il 22 febbraio è ricordata la fondazione delle due sedi episcopali di Roma e di Antiochia. Il giorno 1 di agosto è ricordato il miracolo delle catene. Il 29 giugno è commemorato il martirio di San Pietro. Il 29 giugno è festeggiato anche San Paolo.

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 Paolo, sotto Nerone, ebbe diritto alla decapitazione perchè cittadino romano. La festa dei Santi Pietro e Paolo è una delle più antiche e più solenni dell’anno liturgico. A Roma i Santi Pietro e Paolo sono venerati insieme come colonne fondanti della Chiesa.

 Il principale luogo di culto dedicato all’apostolo San Pietro è la basilica di San Pietro della Città del Vaticano, nella piazza a lui dedicata. Roma possiede tante altre chiese dedicate al Santo. Le reliquie di San Pietro sono custodite nella Basilica Vaticana, nella cripta sotto il maestoso altare con il baldacchino del Bernini, detto della “Confessione”.  Nella basilica di San Pietro In Vincoli si conservano le catene della sua prigionia all’interno del Carcere Mamertino a seguito della persecuzione neroniana. Il nome ”in vincoli” deriva appunto dal latino “in vinculis”, “in catene”.

A Roma ci sono altri luoghi dedicati a San Pietro: la chiesa di San Pietro In Carcere, l’ex-carcere Mamertino, dove è tuttora visitabile la cella dove Pietro fu rinchiuso poco prima della morte, la chiesa di San Pietro In Montorio dove fu crocifisso. Nella Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, detta appunto “in fasciola”, è custodita la fascia che gli stringeva una gamba. A Venezia si conserva il suo coltello e in Germania il suo bastone. In Italia e in molti altri paesi esteri esistono altre chiese dedicate a San Pietro.

La prima fonte, da considerarsi tra le più vicine al periodo in cui visse l’Apostolo Pietro, è costituita dagli scritti del Nuovo Testamento. Tra di essi un posto di rilievo spetta ai quattro Vangeli e agli Atti degli Apostoli. Questi testi, redatti in greco durante il I secolo, sono gli unici a contenere riferimenti sulla vita di Pietro. La tradizione cristiana, nel canone biblico, attribuisce a Pietro anche due lettere apostoliche. Essendo il greco di buona qualità e considerando che Pietro era un pescatore di Galilea, quindi uomo di scarsa cultura, in molti studiosi è sorto il dubbio che queste lettere fossero state scritte personalmente dall’apostolo Pietro, ma dal suo “amanuense”, “il segretario”, o da qualche seguace dopo la sua morte.

Una seconda fonte è costituita dagli scritti apocrifi a lui attribuiti. Questi testi vanno sotto il nome di “Vangelo di Pietro, Predicazione di Pietro, Atti di Pietro, Atti di Pietro e Andrea, Atti di Pietro e dei dodici, Atti di Pietro e Paolo, Lettera di Pietro a Filippo, Lettera di Pietro a Giacomo il Minore, Apocalisse di Pietro (greca), Apocalisse di Pietro (copta)”. Composti nella seconda metà del II secolo sono, senza dubbio, poco fedeli alla realtà: testimonianza di una devozione molto antica che vedeva in Pietro il padre evangelizzatore della città eterna.

Una terza fonte è la testimonianza contenuta negli scritti dei Padri della Chiesa, in particolare di Papia, vescovo di Gerapoli, di Clemente e Ireneo. Questa serie di testimonianze ha dalla sua parte il conforto dei ritrovamenti archeologici.

Pietro ebbe il dono di operare miracoli. Se ne possono citare tanti.

Il primo miracolo dell’apostolo Pietro avvenne a Lidda. Davanti alla porta del tempio guarì Enea, un povero storpio che chiedeva l’elemosina, suscitando entusiasmo tra il popolo e preoccupazione nel Sinedrio. Poiché l’evento provocò un grande concorso di popolo, Pietro, da questo segno, trasse profitto per annunciare la buona novella dichiarando che era stata la fede in Gesù ad aver guarito lo storpio. Pietro predicò il pentimento e la conversione sottolineando che Gesù era il compimento della promessa fatta ad Abramo e degli oracoli dei profeti. Si convertirono in  cinquemila.

Mentre Pietro parlava al popolo, con Giovanni al suo fianco, fu arrestato dai sacerdoti e dai sadducei: furono entrambi portati in prigione perché era già tardi e sarebbero stati convocati davanti al Sinedrio solo il giorno dopo. Pietro, forte della sua fede, proclamò ancora una volta che aveva guarito il paralitico solo nel nome di Gesù.

I sinedriti ritenevano Pietro e Giovanni uomini semplici ma, vedendo con quale autorità Pietro sapesse parlare alla folla, restarono attoniti e più ancora li sorprese la presenza del graziato. I sinedriti decisero semplicemente di vietare a Pietro e a Giovanni di predicare e di insegnare in nome di Gesù. I due apostoli si rifiutarono di obbedire. I sinedriti, impotenti davanti all’acclamazione della gente, lasciarono andare gli apostoli. E’ uno dei miracoli!

Anania e sua moglie Saffira, per aver mentito ai cristiani, furono smascherati da Pietro e caddero morti stecchiti ai suoi piedi. La folla si accalcava intorno agli apostoli come un tempo in Galilea intorno al Maestro. I malati venivano portati lungo la via dove passava Pietro affinché “anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro”. L’ira del sommo sacerdote e dei sadducei si manifestò con forza e Pietro e Giovanni furono nuovamente arrestati. Un angelo li liberò durante la notte. Un altro miracolo!

8 Un angelo aiuta Pietro a evadere, dipinto di Sebastiano Ricci, 1710 Trescore Balneario, Chiesa di San Pietro

L’angelo aiuta Pietro ad evadere. Dipinto di Sebastiano Ricci1710, Chiesa di San Pietro a Trescore Balneario

A Giaffa risuscitò la discepola di nome Tabita per la gioia di quella comunità fuori di Gerusalemme. A Giaffa, Pietro abitava presso un conciatore di pelli. Mentre si trovava in quel posto vide una grande tavola su cui era disposta una gran quantità di alimenti che la Legge di Mosè dichiarava impuri. Anche Pietro fu invitato a cibarsene. Alla sua opposizione una voce vicina gli disse: “Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo più profano”.

Poco tempo dopo Pietro fu chiamato presso il centurione pagano Cornelio che, a sua volta, era stato incoraggiato a convocarlo da una visione. Mentre Pietro parlava con lui, lo Spirito Santo discese sul centurione e sui suoi compagni come in una nuova Pentecoste. Quindi ammise al battesimo il centurione romano Cornelio e la sua famiglia stabilendo che cristiani potevano essere anche i pagani e chi non era circonciso, e quindi considerato impuro dall’ebraismo come fino ad allora prescriveva la legge ebraica di Mosè. La questione del centurione Cornelio, il primo non circonciso ad entrare nella comunità dei cristiani, aveva suscitato diverse polemiche tra le varie chiese che all’epoca erano ancora abbastanza autonome. Perdonò Simon Mago, da “simonia” “commercio dei sacramenti” a cui Pietro fece capire che non avrebbe mai potuto acquistare con il denaro il potere d’invocare lo Spirito Santo e di operare miracoli.

San Pietro, quale primo papa, è il patrono della Chiesa universale. Nella Chiesa cattolica è venerato come protettore dei Papi, dei segretari, per avere ispirato il Vangelo di Marco e per avere dettato due Lettere inserite nel Nuovo Testamento. E’ protettore degli orologiai, per il suo triplice rinnegamento di Cristo al canto del gallo.  E’ protettore dei fabbricanti di chiavi per avere ricevuto da Cristo le chiavi del Regno dei Cieli. Per il suo temperamento focoso, è invocato per intercedere contro la rabbia in riferimento ad una sua lettera indirizzata al demonio che si aggira come “leone ruggente” per insidiare i cristiani. E’ patrono dei fornai, dei costruttori di ponti, dei macellai, pescatori, dei mietitori, dei cordai, dei fabbri, dei calzolai, dei costruttori di reti da pesca e di navi.

Il primo contrassegno che caratterizza la figura di Pietro e dei suoi successori è la “Cattedra”, simbolo della capacità di insegnare, di governare e di guidare il popolo cristiano. La “Cattedra” è inserita nel grande capolavoro della “Gloria” del Bernini che sovrasta l’altare maggiore in fondo alla Basilica Vaticana, a sua volta sovrastata dall’allegoria della colomba che raffigura lo Spirito Santo che l’assiste e lo guida.
Il secondo simbolo è lo stemma pontificio, comprendente la tiara, il copricapo esclusivo del papa con le chiavi incrociate. La tiara porta tre corone sovrapposte quale simbolo dell’immensa potestà del pontefice. Questo simbolo, trasmesso nei secoli da artisti insigni nelle loro opere di pittura, di scultura e nell’araldica, raffiguranti i vari papi, oggi non è più usato e nelle cerimonie d’incoronazione è stata sostituito dalla mitra vescovile per indicare che il papa è vescovo tra i vescovi, primo vescovo di Roma a cui la tradizione apostolica millenaria aveva affidato tale compito.  Altri emblemi sono: le Chiavi, la Croce rovesciata, la Rete del pescatore.

La più antica rappresentazione iconografica esistente è un medaglione di bronzo con la raffigurazione delle teste degli apostoli datato tra la fine del II secolo e l’inizio del III, e conservato nel museo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Pietro mostra una testa arrotondata con il mento prominente, la fronte sfuggente, i capelli spessi e ricci e la barba.

Nei dipinti della catacomba Pietro e Paolo appaiono frequentemente come intercessori e protettori dei defunti in paradiso. Nelle numerose rappresentazioni di Cristo insieme agli Apostoli, che compaiono nei dipinti delle catacombe e nei sarcofagi, Pietro e Paolo occupano sempre posti d’onore alla destra ed alla sinistra di Gesù. Nei mosaici delle basiliche romane, datati tra il IV ed il IX secolo, Cristo appare al centro dell’immagine con Pietro e Paolo alla Sua destra e alla Sua sinistra. In sarcofagi ed altri memoriali dei defunti sono presenti scene della vita di San Pietro come descritta nei Vangeli.

Nel periodo tra il IV ed il VI secolo è particolarmente frequente l’immagine della consegna della legge a Pietro che compare in vari tipi di monumenti. Cristo consegna a Pietro una pergamena aperta o arrotolata in cui si trova la scritta “Lex Domini”, “Legge del Signore”. In alcune raffigurazioni del IV secolo Pietro porta un bastone con tre aste trasversali, simbolo del papato pietrino e, successivamente, una croce con una lunga asta trasportata sulla spalla come uno scettro indicativo del suo compito. Nelle rappresentazioni dei sarcofagi del V secolo Gesù presenta a Pietro le chiavi (due, o tre) invece della pergamena.

.Dal VI secolo in poi Pietro ha la tonsura e viene rappresentato senza copricapo, vestito con abito o con mantello apostolico. Dal secolo XIV Pietro appare principalmente con paramenti episcopali o papali come figura centrale sugli altari a lui dedicati o in compagnia di San Paolo quale simbolo della Chiesa romana.

Uno dei primi cicli pittorici sulla vita di San Pietro era quello che si trovava nell’antica basilica vaticana, che fu in seguito distrutta e ricostruita nuovamente. Importantissimi sono gli affreschi di Masolino e Masaccio, che si trovano nella cappella Brancacci nella Basilica di Santa Maria del Carmine a Firenze  e alla cui realizzazione contribuì anche Filippino Lippi. Sono raffigurate le seguenti scene:

Predicazione di San Pietro

11 Masolino,_predica_di_san_pietro,_cappella_brancacci

 Guarigione dello storpio e resurrezione della cristiana Tabita

12 Cappella_brancacci,_Guarigione_dello_storpio_e rwsurrezione di Tabita_Masolino

 Pagamento del tributo

4 Affresco del Pagamento del tribut o di Masaccio (Cappella Brancacci, Firenze)

Il Battesimo dei neofiti

13 Battesimo_dei_neofiti_2

 Pietro guarisce i malati con la sua ombra

14 Cappella_brancacci,_San_Pietro_risana_gli_infermi_con_la_sua_ombra_(restaurato),_Masaccio

Distribuzione delle elemosine e morte di Anania

15 Masacc Distribuzione_delle_elemosine_e_morte_di_Anania

Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra

16 Cappella_brancacci,_Resurrezione_del_figlio_di_Teofilo_e_San_Pietro_in_cattedra_(restaurato),_Masaccio (1)

Paolo visita Pietro in prigione

17 St._Paul_Visiting_St

Disputa con Simon Mago di Lippi e crocifissione di San Pietro Lippi

18 Filippino_lippi, disputa con Simn mago e  _crocifissione_di_san_pietro,_cappella_brancacci,_1482-85

Raffaello Sanzio, nei suoi arazzi per la cappella Sistina, intorno al 1524, non attinse agli episodi dipinti da testi apocrifi, ma dagli scritti evangelici: la Pesca miracolosa

19 la pesca miracolosa

 La Consegna delle chiavi, del 1515, conservato nel Victoria and Albert Museum di Londra

10 consegna delle chiavi  di Raffaello 1515

Liberazione di Pietro 

10 A liberazione di Pietro di raffaello Musei vaticani 1513  1514

Le tre scene più importanti della vita di Pietro trovarono il loro massimo splendore pittorico in tre raffigurazioni conservate in Vaticano. Nella parete longitudinale della cappella Sistina il Perugino raffigurò il Cristo in primo piano che consegna a Pietro inginocchiato la potestas pontificia di legare e sciogliere nella forma di due chiavi.

3  consegna delle chiavi affresco del Perugino Cappella Sistina Città del Vaticno

Michelangelo Buonarroti dipinse l’affresco della martirio  di San Pietro, 1545-1550,che si trova nella Cappella Paolina, Palazzi Vaticani, Città del Vaticano

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in mezzo a una folla multicolore viene issata la croce, posta diagonalmente, con Pietro già crocifisso, ma ancora vivo. La raffigurazione del luogo dell’evento, ai margini di un abisso, nonché la presenza di molti soldati a cavallo e armati, accentua l’impressione di crudeltà e brutalità.

Michelangelo Merisi, il Caravaggio, dipinse il martirio di San Pietro1600- 1601,  che si trova nella Cappella Cerasi della Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma. Pietro è rappresentato come un uomo ormai anziano, con la lunga barba bianca,mentre la croce nella quale è inchiodato è sollevata dai suoi carnefici

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Intorno al 1600 il personaggio di Pietro fu raffigurato quale protagonista dei due eventi dolorosi della sua vita: il rinnegamento di Gesù e il suo martirio. Il dipinto Le lacrime di Pietro, di Georges de La Tour, rappresenta Pietro piangente, seduto con a fianco un gallo (simbolo del triplice rinnegamento) e una lanterna accesa (simbolo dell’arresto di Cristo).

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Fonte: WIKIPEDIA

LA CHIESA DI SAN PIETRO APOSTOLO A MISTRETTA

 

La chiesa di San Pietro è una piccolissima costruzione che si trova esattamente nel quartiere San Nicolò, alle spalle dell’omonima chiesa.

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Essa sostituisce quella antica, del 1500, che occupava gran parte della piazza antistante. Distrutto dall’aggressione del tempo e dalla mancata manutenzione il nuovo tempietto fu riedificato nello stesso luogo grazie all’interessamento della prof.ssa Enrichetta Cuva, coadiuvata dalle signore Crocifissa Portera e Maria Ribaldo, sopportando la fatica del chiedere, perché si perpetuasse l’antichissimo culto all’apostolo Pietro.

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All’interno la chiesetta custodisce la statua lignea dorata e policroma di San Pietro, realizzata dai fratelli Giuseppe e Giovanbattista Li Volsi nel 1608,

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 e il paliotto marmoreo di stile tardo-barocco.

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La campana seicentesca adorna l’esterno della chiesetta. In essa c’è scritto:”  Matteus Scarpuzza Amastratinus Divo Petro P(ontifex) M (aximus) R (omanae) E (cclesiae). Dal piazzale antistante si ammira il bellissimo paesaggio di valli e di monti nebrodei.

Jun 16, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA DIGITALIS PURPUREA

LA DIGITALIS PURPUREA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta fino a qualche anno fa la Digitale era molto presente a mostrare la sua notevole bellezza. Oggi ho potuto fotografare un unico esemplare che si erge solitario in mezzo ad altre piante.

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La Digitalis purpurea è una pianta erbacea biennale, talvolta perenne,della famiglia delle Scrophulariaceae. Del genere Digitalispurpurea” è la specie più nota. Ne esistono tre sottospecie: Digitalis purpurea subspecie Purpurea, Digitalis purpurea subspecie Heywoodii, Digitalis purpurea subspecie Mariana. La Digitalis purpurea origina dall’Europa, dall’Africa settentrionale, dall’Asia occidentale. Allo stato spontaneo vive nei boschi e nei luoghi selvatici e montuosi dell’Europa centro-meridionale, spesso inselvatichita. In Italiacresce spontanea solo in Sardegna e in Corsica, dove si dissemina spontaneamente, ma è coltivata a scopo ornamentale in molti giardini della penisola.

Il nome “Digitalis”, derivante dal latino, attribuito alla piantada Leonahart Fuchs, allude alla forma del fiore che ricorda quella di un ditale o un dito di guanto.

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Possiede tanti altrinomi italiani e stranieri: “Digitale rossa, Guancelli, Erba araldaCornucopio, Cacapeiro, Dedalario, Dedaleira, Dedalera, Digitale della Madonna, Erba di San Leonardu, Almindelig fingerbøl, Bloody fingers, Bloody man’s fingers, Common foxglove, Dead man’s bells, Digitale pourpré”. La Digitalis purpurea è una pianta alta da 30 a 100 centimetri e aggrappata al suolo mediante una radice grossa e ramificata che, al primo anno di vita, non produce fiori, ma solo una rosetta di foglie basali radenti a livello del terreno. Le foglie inferiori hanno il picciolo alato, le superiori sono sessili e semiabbraccianti. Sono di colore grigio verde, semplici, disposte a spirale e ricurve verso il basso, ovali, oblunghe, da 10 a 35 centimetri, con il margine finemente dentellato e ricoperte talvolta da una peluria lanosa biancastra.

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Nel secondo anno, dal centro della rosetta si sviluppa il fusto, eretto, semplice, angolare, peloso, rostrato, vuoto, che porta grandi fiori peduncolati disposti in un lungo grappolo unilaterale nella sua parte terminale e di dimensioni decrescenti dalla base verso l’apice dello stesso stelo. La corolla campanulata, a forma di ditale pendente, cigliata nel lembo, pelosaè di coloro rosso purpureo esternamente, rosata, con macule rosso-nere cerchiate di bianco all’interno e con labbro inferiore sporgente.

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Esistono altre varietà di Digitale ottenute da alcuni ibridi, a scopo ornamentale, in cui il colore del fiore varia dal bianco, al rosa, al viola, al giallo, al crema.

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La pianta fiorisce, con fioritura progressiva e prolungata, da maggio a luglio abbellendosi di fiori porporini, da cui il nome “purpurea”. Il frutto è una capsula peloso-glandulosa che, giunto a maturità, si apre liberando numerosi semi molto piccoli, da 0,1 a 0,2 millimetri. La moltiplicazione avviene per seme, che la pianta produce in gran quantità, e per divisione dei cespi. Si può seminare alla fine dell’estate o alla fine dell’inverno, in un luogo protetto, mettendo a dimora le piantine in primavera. Solitamente le Digitali tendono a riseminarsi spontaneamente di anno in anno divenendo perenni. I semi e le parti verdi della pianta vanno maneggiati con particolare cura poiché sono velenosi.

Tutta la pianta di Digitalis è velenosissima. Ecco perché il signor Vito Purpari, l’ex giardiniere della villa, aveva piantato la Digitale nelle vicinanze della casa del ricovero degli attrezzi dove non hanno libero accesso i bambini e gli animali domestici. Sono particolarmente tossiche le foglie del secondo anno. Le foglie delle piante selvatiche sono più ricche di principi attivi di quelle coltivate. Si raccolgono le foglie al momento della fioritura, possibilmente dopo mezzogiorno e con il tempo asciutto. Secondo le ricerche effettuate da Dafert, il contenuto in glucosidi raggiunge la massima concentrazione nelle ore pomeridiane perché sono utilizzati dalla stessa pianta durante la notte. Secondo Stoll e Kreiss nelle foglie sono contenuti: digitossina, gitossina, gitalina, glicosidi elementi farmacologicamente indicati principalmente nella terapia dell’insufficienza cardiaca. I glucosidi che si estraggono dalle foglie si usano in piccolissime dosi perché, a dosi elevate, sono velenosi e mortali. Mai portare i fiori di Digitalis purpurea in bocca!

Nell’Italia settentrionale crescono la Digitalis grandiflora e la Digitalis lutea, anch’esse velenose, che mostrano fiori gialli. Benché la Digitale venga usata in medicina, se ne sconsiglia vivamente l’uso empirico. Anticamente le proprietà medicinali della Digitale non erano conosciute, anche se Ovidio la cita ne “ Le Metamorfosi”. In Italia, in Grecia ed in Asia Minore le piante di diverse specie di Digitale crescevano frequentemente, tuttavia non furono utilizzate dai medici greci e latini. Le antiche cognizioni mediche si basavano quasi esclusivamente sui testi di Dioscoride e di Plinio, perciò, per tutto il Medioevo ed il Rinascimento le virtù medicinali della Digitale rimasero ignorate. Le applicazioni medicinali degli estratti della Digitalis purpurea, per il trattamento dello scompenso cardiaco, furono scoperte per la prima volta dall’inglese William Withering nel 1785 e illustrate nel suo libro “An Acconut of the Foxglove”. “Foxglove” è il nome popolare inglese di questa pianta e significa ”guanto di volpe”. WilliamWithering, medico di Birmingham, avendo appreso da una vecchia fattucchiera l’uso benefico della Digitale e dopo averlo sperimentato per dieci anni, divulgò il suo prezioso utilizzo sull’attività del cuore; impiegato con dosi eccessive e con indicazioni imprecise, però, cadde di nuovo nell’oblio. Solo nel 1842 R.P. Debreyne lo indicò definitivamente come cardiotonico.

Attualmente si usa nelle malattie acute e croniche in cui il cuore ha bisogno di essere tonificato. I prodotti attivi della Digitale, eliminati con difficoltà, si accumulano nell’organismo, quindi il periodo di cura con l’uso della Digitale deve essere limitato a poco tempo. Dosi eccessive od anche piccole, ma continuate per molto tempo, potrebbero provocare seri inconvenienti. La sintomatologia da ingestione di parti della pianta è identica a quella dell’intossicazione da farmaci digitalici. I segnali sono: malessere generale, sudorazione fredda, sonnolenza, angoscia, nausea, cefalea, astenia, vomito, dolori addominali, confusione mentale, allucinazioni, vertigini, disturbi visivi, diminuzione del numero delle pulsazioni, irregolarità del ritmo cardiaco, collasso, arresto del cuore.  Nei casi gravi la morte sopravviene per paralisi. Le dosi tossiche sono molto mutevoli perché variabile è il contenuto di principi attivi nelle foglie. In generale 10 gr di foglie secche o 40 gr di foglie fresche possono provocare la morte di un uomo dal peso di 60 Kg. Sono stati segnalati casi di avvelenamento in animali in seguito ad ingestione di fieno contenente piante di Digitale.

 Il preoccupato e pensieroso medico, dipinto nella celebre opera di Vincent van Gogh, il “Ritratto del dottor Gachet“, ha sul tavolo, accanto a sé, una pianta di Digitalis all’epoca utilizzata come rimedio fitoterapico per la cura di diverse malattie come l’epilessia.

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In letteratura nel libro di Maria Pascoli, la sorella di Giovanni, si legge: “ Un giorno, dopo la merenda e la ricreazione all’aperto, noi educande con la nostra Madre Maestra c’incamminammo per un sentiero che aveva ai lati due giardini, uno cinto dal bussolo e l’altro senza veruna siepe. In questo scorgemmo una pianta, che non avevamo mai veduta, non essendo mai solite a passare da quel luogo. Era una pianta dal lungo stelo rivestito di foglie, con in cima una bella spiga di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline di color rosso cupo: la Digitale purpurea. La curiosità di poterla guardare bene da vicino e di sentire se odorava ci spinse ad entrare nel giardino; ma appena ci fummo fermate presso la pianta, la Madre Maestra ci intimò di allontanarci subito di lì, di non appressarci a quel fiore che emanava un profumo venefico e così penetrante che faceva morire. Indietreggiammo impaurite e ci portammo leste leste sul nostro cammino. Io rimasi per un pezzo con la paura di quel fiore velenoso e, quando si doveva passare nelle sue vicinanze, me ne stavo più lontana che fosse possibile senza nemmeno guardarlo. Questo puerile e insignificante mio racconto ispirò a Giovannino la poesia “Digitale purpurea”. La Digitale purpurea è una celebre poesia decadente del 1898 di Giovanni Pascoli inserita nella raccolta “Primi Pometti”. Fu una pianta molto amata dal poeta tanto da scrivere nella poesia:

In disparte da loro agili e sane,

una spiga di fiori, anzi di dita

spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita”.

La poesia ha come protagoniste la sorella Maria, e la sua amica Rachele che, incontrandosi dopo tanto tempo in un convento per studiare, iniziano a parlarsi e a riferirsi le loro esperienze di vita.

Si disegnano due figure: una ragazza bionda “verginea” e l’altra bruna dagli occhi ardenti. La grande differenza tra le due donne è che Maria ha saputo rimanere distante dal “fiore proibito“, mentre Rachele ha voluto “cedere al fascino dell’ignoto”. La ragazza bionda, dalle vesti semplici e dallo sguardo modesto, è l’immagine dell’innocenza e della purezza, la ragazza bruna, dagli occhi che ardono, è l’immagine di una sensualità inquieta. In questa lirica il poeta riprende la simbologia floreale. La Digitale è un fiore rosso violaceo con delle macchie interpretate da Pascoli come dita spruzzate di sangue. Il fiore diventa simbolo di una sessualità ambigua, tormentata. Nel poeta si nota il profondo rispetto per entrambe le concezioni, l’assenza di condanna per la tentazione o la fermezza per la castità.

Le Digitali amano vivere su terreni calcarei, sciolti, ben drenati, ricchi di materia organica, in gruppi, per formare bordure, e coltivate a scopo decorativo per la bellezza dei fiori. Dopo la fioritura, è bene tagliare le spighe appassite per stimolare la formazione di altri germogli e di altre infiorescenze meno vistose, ma altrettanto ricche di colore. Crescono in qualsiasi posizione, sia in pieno sole, ma preferibilmente all’ombra, soprattutto nelle zone con estati molto calde e siccitose per evitare che il caldo eccessivo danneggi le piante. Se gli inverni sono particolarmente rigidi, è consigliabile coprire la rosetta basale di foglie con altre foglie o con paglia. Non necessitano di grandi quantità d’acqua. In autunno è bene spargere sul terreno intorno alle piante del letame nutriente. Nel linguaggio dei fiori la Digitalis simboleggia “impegno, consolazione”.

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