Aug 3, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTINE DI BORRAGO OFFICINALIS NELLE CAMPAGNE DI LICATA E DI MISTRETTA

LE PIANTINE DI BORRAGO OFFICINALIS NELLE CAMPAGNE DI LICATA E DI MISTRETTA

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Le passeggiate all’aria aperta nelle campagne di Licata e di Mistretta mi danno la possibilità di osservare, conoscere e fotografare sempre nuovi elementi naturalistici. Questa piantina, molto semplice, ma vivace nel colore dei suoi fiori, è degna di essere raccontata perchè molto comune non solo nei campi di Licata e di Mistretta, ma ovunque, nel pianeta Terra, dove trova le condizioni ideali per vegetare e riprodursi.

 

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Il suo nome botanico è “BORRAGO OFFICINALIS“.

Nomi italiani sono:” Borragine comune, Borrana, Borragine“.

Sinonimo del nome botanco è ” Borago hortensis“.

Ogni regione italiana la chiama con nomi diversi: “Vurrania in Calabria, Verraine in Abruzzo, Vorraina in Campania, Vurrane in Puglia, Borrana in Toscana, Buraze in Friuli, Borrana in Lombardia, Burraxa in Liguria, Burage in Piemonte, Borase in Veneto, Burrascia in Sardegna.

A Mistetta la chiamiamo”Urrania”.

Nomi popolari internazionali sono: “Borai, Boraso, Bragia, BuraxuBurràs, Erba d´la torta, Malai, Borrana, Buglossa vera, Burràgine, Verràine, Borraccia, Vorràgine, Bburraina, Inistrora, Urraina, Vurraina, Burraxi, Limba´e boe, Limbuda, Lingua rada, Borage, Bourrache, Boretsch, Borag, Stofférblomma, Agurkurt, Hjulkrone, Purasruoho“.

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Etimologicamente il nome del genere “Borrago” deriva dal latino “borra“, una stoffa grossolana di lana ruvida con lunghi peli, per via dei peli presenti nel fusto e nelle foglie e che rendono la pianta ruvida al tatto, oppure dal latino “borrus” “ispido, peloso” in riferimento alla pelosità ispida delle foglie, o sempre dal latino “borrago” per le proprietà sudorifere della pianta.

Una tesi sostiene che derivi dall’arabo “Abu araq” ” padre del sudore“, a sottolineare le proprietà sudorifere diaforetiche della pianta.

Un’altra tesi sostiene che il nome derivi dal celtico “barrach” che significa ” coraggio” .

Infatti la Borragine, aggiunta al vino, era usata dai guerrieri dell’antico popolo celtico per affrontare i nemici, prima di una battaglia, convinti che desse loro coraggio. La Borragine incoraggia anche “l’allegria“.

La Borragine era già conosciuta da Plinio che la chiamava “Euphrosinum” considerandola capace di donare la” felicità“.

Dioscoride la chiamava “Buglossa” per la forma della foglia somigliante alla lingua del bue.

Il nome della specie “officinalis” deriva da “offícina, laboratorio medioevale“, perchè è una pianta usata in farmaceutica, in erboristeria e in profumeria.

La Borrago officinalis è un’essenza vegetale appartenente alla famiglia delle Boraginaceae.

E’ originaria del Medio Oriente, ma naturalizzata ovunque, in tutte le regioni temperate del globo terrestre.

Cresce allo stato spontaneo in tutta l’Europa, nell’America settentrionale e nell’Africa settentrionale raggiungendo quote altimetriche da 0 fino a 1000 m s.l.m.

E’ presente in tutte le regioni italiane spesso come pianta avventizia.

In Sicilia è presente in tutta l’isola. La possiamo ammirare nei prati incolti, nei bordi delle strade, nei sentieri, lungo i muretti, nei giardini privati.

La specie è stata introdotta in molti paesi per la sua coltivazione.

La Borrago officinalis è una pianta erbacea annuale o perenne legata al terreno mediante una radice a fittone dalla quale si sollevano i fusti cavi, carnosi, alti 50-70 cm, dal portamento eretto, ricoperti di peli biancastri e ramificati in alto.

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Le foglie basali, sostenute dal lungo picciolo, hanno la lamina di forma ovata, di colore verde scuro, con il margine seghettato irregolarmente.

Le foglie cauline, sostenute da un breve picciolo, dal margine ondulato e con la nervatura rilevata, sono alterne, ovali, lunghe 10–15 cm, di colore verde scuro, ricoperte da una ruvida peluria.

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I fiori, ermafroditi, di breve durata, raccolti in infiorescenze sommitali, sono riuniti all’ascella delle foglie.

La corolla, di forma stellata, ha i petali bilobati di colore azzurro. Sono peduncolati e disposti a grappolo. Al centro del fiore sono visibili le antere derivanti dall’unione dei 5 stami.

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I fiori della Borragine, oltre ad essere molto decorativi, sono importanti per le api e per gli apicoltori per produrre un ottimo miele.

I fiori, infatti, producono polline e nettare in quantità notevoli per tutto il periodo della fioritura. L’antesi è molto lunga.

La fioritura inizia nel mese di aprile continuando fino al mese di ottobre. In Sicilia la fioritura avviene da gennaio ad aprile. I fiori, commestibili, aggiungono un tocco insolito alle insalate e alle torte.

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I frutti sono dei tetracheni circolari, di colore marrone chiaro, molto duri, che contengono al loro interno piccoli semi neri da cui si ricava il prezioso olio.

I semi sono dotati di elaiosomi, particolari appendici contenenti sostanze nutritive appetibili alle formiche, che ne facilitano la disseminazione detta per mirmecoria.

La moltiplicazione avviene per seme in primavera. Le piante crescono abbastanza velocemente. Se i semi si lasciano sui fiori, senza toglierli, la pianta si riproduce automaticamente.

La Borragine, oltre a vegetare spontaneamente come pianta infestante, è coltivata nei giardini sia come erba culinaria, sia perché le api visitano i suoi fiori facendo produrre un eccellente miele. Si può coltivare nei vasi di grandi dimensioni.

La Borragine è una pianta rustica, facile da coltivare, non necessitando di particolari attenzioni. Cresce bene in quasi tutti i tipi di terreno prediligendo quelli asciutti, sciolti, ben assolati, ma tollera anche un’esposizione parziale al sole, in semi-ombra, e dove le temperature primaverili non siano inferiori ai 10°C.

La Borragine va annaffiata con regolarità, in particolare durante il periodo estivo. Se cresce spontanea, è sufficiente l’acqua piovana.

La Borragine è una pianta molto resistente e non è attaccata da muffe, da funghi o da parassiti.

La Borragine trova un largo utilizzo come pianta officinale. E’ usata, infatti, per la creazione di medicinali e di creme cosmetiche.

Le parti usate sono: le foglie, le sommità fiorite, i semi.

Gli antichi fitoterapeuti, che basavano i loro rimedi curativi sulle proprietà delle varie piante che conoscevano, consigliavano l’uso dei decotti ottenuti dalle sommità fiorite di Borragine per combattere gli stati febbrili proprio per il loro effetto sudorifero e depurativo.

Utili anche per calmare la tosse secca, per combattere le infiammazioni delle vie respiratorie, per lenire i disturbi gastro-intestinali .

I semi sono ricchi di acidi grassi polinsaturi e sono utilizzati per le loro proprietà antinfiammatorie e protettive del sistema cardiovascolare.

Fin dall’antichità la pianta ebbe fama di svegliare gli spiriti vitali.

Plinio il Vecchio sosteneva che i fiori della Borragine macerati allontanassero la tristezza e, se mangiati in insalata, potessero sgombrare la mente dai pensieri cattivi procurando effetti positivi anche sulla psiche. Un suo pensiero: «Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere».

Dalla spremitura a freddo dei semi della Borragine si ottiene un olio vegetale, o olio di stella, molto prezioso, utile nelle patologie della pelle come eczemi, dermatosi, psoriasi, aumentando le difese immunitarie per via delle proprietà antiinfiammatorie grazie alla presenza di omega 6 e della vitamina E.

Prima di utilizzare i prodotti farmaceutici derivati dalla Borragine, è prudente chiedere sempre consigli al proprio medico.

Plinio e Dioscoride concordavano nell’affermare che una tazza di vino caldo, con l’aggiunta di qualche foglia tritata di Borragine, era un ottimo rimedio per combattere la malinconia.

Secondo Dioscoride, la Borragine è in grado di “rallegrare il cuore e sollevare gli spiriti depressi”.

Il medico napoletano, Giuseppe Donzelli nel sua trattato alchemico del 1660 “Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico” riporta che essa <<toglie le immaginazioni cattive, acuisce la memoria e la mente e distacca dal corpo tutti gli umori cattivi>>.

Attualmente l’uso terapeutico della Borragine è sconsigliato sia per l’insufficienza delle evidenze mediche, sia per il fatto che i petali e le foglie contengono alcaloidi pirrolizidinici che hanno proprietà epatotossiche e cancerogene.

In cucina, nella tradizione gastronomica italiana, le foglie giovani della Borragine, lessate in poco acqua e condite con olio, sono usate nelle insalate, nelle minestre, nelle zuppe, e anche per insaporire il té freddo e le bevande di frutta.

Ricordo che mia madre andava a raccogliere le foglie e i fiori della Borrago nella sua campagna, in contrada Scammari, per preparare una gustosa frittata. Oppure preparava la “pasta con la vurrania”, detto il pasto povero,  alla quale aggiungeva un pò di pomodoro per dare colore alla pietanza. Comunque, sono contraria a mangiare erbe spontanee, soprattutto crude, perchè la mancanza di conoscenza delle varie specie mangerecce e non, potrebbe creare diversi problemi ala mia salute.

Le foglie giovani e fresche, raccolte in primavera, ricche di vitamina C, di calcio, di potassio e di sali minerali, sono utilizzate solitamente cotte perchè la cottura evita l’effetto urticante dei peli che le ricoprono interamente. Con l’essiccazione, le proprietà diminuiscono sensibilmente. L’aggiunta delle foglie dona alle pietanze un leggero aroma simile a quello del cetriolo.

L’infusione di foglie di Borragine è il miglior tonico naturale per i problemi legati allo stress. Galeno credeva che “facessero buon sangue” se messe nel vino.

I fiori sono usati per guarnire le preparazioni dolciarie e mantengono il colore violetto anche dopo la cottura al forno. Come tisana, la Borragine ha effetti calmanti che la rendono perfetta per trascorrere una buonanotte.

Tuttavia, anche l’abbondante uso alimentare dei fiori della Borragine, specialmente per lunghi periodi, è sconsigliato per la presenza, in alcune fasi vitali della pianta, di composti pirrolizidinici per sospetta attività epatotossica (come già detto).

Gli alcaloidi pirrolizzidinici sono una categoria di composti metabolici prodotti dalle piante allo scopo di disincentivare l’erbivoria.

Si stima che il 3% di tutte le specie vegetali producano questo tipo di composti che sono, quindi, onnipresenti all’interno delle catene alimentari.

La loro azione si esplica a carico delle vene epatiche favorendone l’occlusione e sono colpevoli di generare mutazioni nelle cellule del fegato con esiti cancerosi, soprattutto se la verdura è consumata spesso e in abbondanza.

Le persone con problemi epatici è bene che si astengano dal consumo alimentare di questa pianta.

Non ci sono invece problemi di tossicità nell’assunzione dell’olio ottenuto dalla spremitura dei semi perchè esso non contiene alcaloidi pirrolizidinici.

Con la Borraggine si prepara anche un miele molto particolare perchè ha un aroma delicato e aromatico.

Nel Regno Unito il miele di Borragine è una specialità dello Yorkshire orientale, dove viene coltivata la maggior parte delle piante di Borragine.

Curiosità: la pianta di Borragine tradizionalmente era usata per abbellire le case durante i preparativi delle feste matrimoniali.

Il nome gallese per la borragine, “llawenlys“, significa infatti “erba della contentezza“.

Nel linguaggio dei fiori la Borragine esprime “coraggio, felicità, gioia“.

E’ di fondamentale importanza non confondere la Borragine con la Mandragora.

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La Mandragora è una pianta velenosissima che fiorisce in autunno, non è commestibile, potrebbe causare la morte al malcapitato che, ignorantemente, l’avrebbe mangiata scambiandola per la Borragine.

Ha la corolla dei fiori gamopetala, a forma di campana, di colore viola.

I fiori sono inseriti a gruppo al centro della rosetta di foglie quasi glabre.

E’ inconfondibile!

 

Jul 15, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LA PHYLA NODIFLORA – IL TAPPETO DI PICCOLI FIORI COLORATI

LA PHYLA NODIFLORA – IL TAPPETO DI PICCOLI FIORI COLORATI

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Ho notato questo tappeto di fiori in un’aiuola passeggiando all’interno del Porto Turistico “Marina di Cala del Sole” a Licata la scorsa estate.
E’ la “Phyla nodiflora” ,detta Lippia nodiflora”.

https://youtu.be/JOEyg2LuJ0k

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 Nomi comuni sono: “ Lippia repens o Lippia nodiflora, Pianta a dente di Sega, Groviglio di tacchino, Erba di Santa Luigia minore”.
Il nome generico Lippia deriva dal greco φῦλονtribù ed è riferito alle fitte colonie dei fiori che ricordano una tribù.

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La Phyla nodiflora è una piccola pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Verbenaceae.
Originaria dell’America meridionale, si è diffusa allo stato spontaneo quasi ovunque. In Europa e in Italia vive in modo spontaneo soprattutto dove può godere di un clima mite.
La Phyla nodiflora è una pianta sempreverde, perenne, tappezzante, di piccole dimensioni, alta circa 10 cm, ideale per formare prati colorati molto belli.
Possiede radici non molto profonde, mentre la parte aerea è formata da una fitta serie di fusti molto sottili che si allungano, quasi strisciando sul terreno. Forma tappeti erbosi molto fitti per mezzo dei rizomi che si sviluppano emettendo radici ai nodi delle foglie. Le piccole radici rizomatose si allargano orizzontalmente sul terreno ricoprendo in breve tempo ampie aree favorisendo un ulteriore sviluppo della pianta in tutte le direzioni.

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Sui fusti, sottili, spuntano le foglie, piccole, disposte a coppie opposte. Possiedono piccioli corti, a forma di cuneo, che sostengono la lamina fogliare di forma ovata-lanceolata e con il margine frastagliato.
Il colore delle foglie può variare a seconda della specie di Phyla nodiflora e dell’ambiente in cui essa si trova a proliferare.
Possono essere di colore blu-verde ma nelle regioni con inverni rigidi allora diventano brunastre e possono anche cadere per poi essere ricacciate nella primavera successiva. Sia gli steli che le foglie sono generalmente glabri.

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La produzione dei fiori è abbondante.Da  maggio a settembre alla base delle ascelle fogliari spuntano i fiori numerosi, riuniti in infiorescenze profumate. Sono un’ottima fonte di nettare per le api e per le farfalle essendo una pianta mellifera.
I fiori, profumatissimi, sono di piccole dimensioni. Hanno la corolla composta da 5 petali lobati e di vari colori, che possono spaziare dal giallo al rosa porpora al violetto al bianco rosato.

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I frutti sono delle piccole capsule a due celle ognuna contenente minuscoli semi di colore grigiastro, molto fertili.
Infatti, quando cadono sul terreno, germinano dando vita a nuove piantine.
La moltiplicazione può avvenire sia per seme, sia tramite la propagazione agamica, che può essere effettuata agevolmente per divisione dei cespi in primavera. Le piante di Phyla nodiflora si possono mettere a dimora tutto l’anno, ma il momento migliore è l’inizio dell’autunno.
La piantumazione primaverile è valida per una crescita armonica delle piantine.
La Phyla nodiflora è una verbenacea adatta a realizzare tappeti erbosi fioriti, a coprire muri di recinzione e anche scarpate oppure lastricati in pietra nelle zone di passaggio.

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Può essere coltivata anche come pianta ornamentale per abbellire balconi e terrazze posta in vasi abbastanza ampi riempiti con un un normale terreno non argilloso e ben drenato in modo che l’acqua defluisca bene.
La Phyla nodiflora gradisce qualsiasi terreno, meglio se soffice, sciolto, asciutto, ben drenato e con una discreta dose di nutrienti. E’ una pianta dei climi tropicali, quindi necessita di una posizione in pieno sole per almeno 3-4 ore al giorno. Si adattata anche alla mezz’ombra, ma producendo fioriture meno abbondanti.
Teme le gelate prolungate ed intense, ma riesce a sopravvivere anche a temperatura inferiore ai -10° C. Nelle regioni con clima invernale rigido perde la parte aerea ed entra in uno stato semi -vegetativo per poi risvegliarsi nella primavera seguente più forte e più bella di prima.
Nuovi germogli, infatti, compariranno sugli steli stoloniferi radenti al terreno.
Nei climi miti vegeta tutto l’anno, anche se le foglie tendono a imbrunire.
E’ una pianta che non teme la siccità e, anche se generalmente si accontenta delle acqua piovana, va irrigata saltuariamente altrimenti non riesce a svilupparsi in altezza e il tappeto erboso sarà rado e sottile.
Per assicurare i nutrienti indispensabili allo sviluppo della pianta e alla produzione dei fiori, in primavera bisogna somministrare sul terreno un concime granulare ricco di azoto e di potassio. Ha una buona resistenza alla salsedine.
Per contenere lo sviluppo della pianta ed evitare che possa diventare un’erbacea infestante può essere tagliata 1-2 volte all’anno. Le cure periodiche prevedono l’eliminazione degli steli secchi e danneggiati.
La Phyla nodiflora è una pianta rustica. Resiste alle malattie fungine, ma teme il marciume delle radici che insorge solo se il terreno non è drenante o gli apporti idrici sono inadeguati.Tra i parassiti animali, anche se raramente e quando il clima è particolarmente umido, teme l’attacco degli Afidi e delle Coccinelle che colonizzano i nodi dei fusti.
Alla Phyla nodiflora sono state riconosciute proprietà erboristiche calmanti, antibatteriche, diuretiche, e refrigeranti.
In erboristeria, il succo della pianta è consigliato per sedare la tosse e per lenire i sintomi dell’influenza, del raffreddore, nel trattamento di disturbi gastrici.
In cucina le foglie fresche sono usate come sostituto del tè, dal sapore erbaceo, non particolarmente distintivo.

Jul 1, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LA CHIESETTA DI MARIA SS.MA DI POMPEI E LA CHIESETTA RUPESTRE SAN CALOGERO A LICATA

LA CHIESETTA DI MARIA SS.MA DI POMPEI E LA CHIESETTA RUPESTRE SAN CALOGERO A LICATA


La Chiesa della Madonna di Pompei fu edificata nel XV secolo alle pendici orientali del monte sant’Angelo, a Licata, dove sono sorti i primi insediamenti abitativi della città e dove sono stati trovati notevoli reperti archeologici.


Per la sua posizione elevata è visibile da diversi punti della città.
Basta alzare lo sguardo dal Corso Umberto I, sopra il palazzo di città, o guardare dal porto dei pescherecci, o dalla baia Marina di Cala del Sole, per vedere da lontano la chiesetta.

Ammiro la chiesetta osservandola da lontano, soprattutto la sera quando è illuminata dalle luci accese al suo interno.

Si chiamava prima chiesa di “Santa Maria del Soccorso”, successivamente fu conosciuta con il nome di “Chiesa della Collura”.
Nel 1557 fu ceduta ai padri Domenicani e,nel 1566, ai padri Agostiniani che dovevano costruire il convento.
La chiesetta fu restaurata nel 1897 grazie alla generosità di alcuni benefattori e all’interessamento di don Raimondo Incorvaia, parroco della Chiesa Madre.
La consacrazione della chiesetta a “Maria SS.ma di Pompei” avvenne nel 1897.
Lo stesso giorno fu scoperta la lapide per ricordare don Raimondo Incorvaia e dove è scritto: ” D.O.M. Raymundus M.Dr. Incorvaia Praep. P.D.O.M. suiset fidelium largitionibus nectam munificentiam Joanne Verderame Sapio, Josephi Sapio et Marianna Damanti hoc templum Deiparae SS. Rosari Pompei aedificavit. A.D. 1897“.


Nuovi interventi di restauro sono avvenuti nel 2000, dopo lunghi anni di abbandono e di degrado.
La chiesetta, di piccole dimensioni, costruita in muratura con cocci di calcarenite in una delle più ricche zone archeologiche di Licata, ha il prospetto planimetrico rettangolare e dalle linee semplici.



Il prospetto della facciata, ristrutturato nel 1897, fu abbellito da un portale bugnato discretamente elaborato con archi e con paraste in ottima pietra di taglio.


Il prospetto è sormontato da un timpano semicircolare spezzato con tre forature allungate nella parte centrale. Funge da campanile dove sono alloggiate le tre campane.

Una finestra, posta sopra la porta d’ingresso, dona luce all’ambiente interno.


All’interno della chiesa, a una sola navata, non vi sono particolari elementi decorativi, solo piccoli ma pregevoli affreschi.

La volta è interamente affrescata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi di restauro.

L’altare del presbiterio accoglie la Madonna del Rosario col Bambino e, lateralmente, i Santi Domenico e Caterina, un quadro dipinto da Giovanni Cammarata nel 1987.

L’altare è realizzato interamente in marmo con decori sui quattro lati e colonne laterali.
Arredano la chiesetta il quadro dell’Annunciazione e le statue di due Cristi crocifissi.

Il quadro di Gesù crocifisso con gli angeli è posto alla base dell’altare. Ad uno di Essi appartiene la lapide.


La strada, per raggiungere la chiesetta, è in un pendio ripido e, purtroppo, poco agevole e non facile da raggiungere. Tuttavia, nonostante la strada per accedere alla chiesa sia particolarmente accidentata, le funzioni religiose sono celebrate regolarmente perchè la chiesa appartiene alla rettoria della Parrocchia di Santa Maria la Vetere e alla diocesi di Agrigento.
Le persone che raggiungono la chiesetta, non solo partecipano alle funzioni religiose, ma dal piazzale davanti alla chiesetta osservano e apprezzano il suggestivo panorama che mostra gran parte di Licata, il mare e il porto.

Ai piedi della chiesa della Madonna di Pompei, scavati nella roccia, resistono i resti del santuario rupestre di San Calogero, di età Bizantina.

Alla base della chiesetta di Maria SS.ma di Pompei ci sono delle grotte.
Nell’antica città di Licata una buona parte dei suoi abitanti, in genere contadini e allevatori, abitava all’interno di grotte e spelonche naturali nella zona alta del Cotturo, di Piano Madre e di San Calogero.
Probabilmente erano preesistenze di età preistoriche.
Queste grotte esistono ancora, ma sono state incluse nelle successive abitazioni che furono edificate in quella zona a partire dal 1600. A Licata, in località “Collura”, oggi “Pompei”, si possono visitare ancora i resti della chiesetta rupestre di “San Calogero”, dedicata alla “Santa Croce”, un ipogeo scavato nella roccia dai monaci calogerini.




I monaci calogerini, oltre che a Licata, si erano stanziati a Naro, ad Agrigento, a Sciacca.
“Calogerini” era l’appellativo che indicava gli anacoreti che vivevano in luoghi solitari e dentro le grotte.
Nel 1700 il santuario rupestre fu incluso in una chiesetta oggi non più esistente.
San Calogero (Calcedonia, 466 – Monte Kronio – Sciacca, 18 giugno 561) è stato un monaco eremita, seguace di San Basilio, venerato come santo taumaturgo dalla Chiesa cattolica, dalla chiesa ortodossa e patrono di moltissimi paesi della Sicilia.
Il nome “Calogero” deriva dal greco “καλόγηρος”, termine composto da “καλός” “bello” e da “γῆρας” “vecchiaia”col significato di uomo “bel vecchio”.
Calogero, nato da genitori cristiani, colloca la sua esistenza tra il V e il VI secolo d. C.
Sin da bambino abbracciò gli insegnamenti del Cristianesimo. A vent’anni, secondo l’innografia composta dal monaco Sergio, fuggì dalla Tracia a causa delle persecuzioni scatenate dai monofisiti contro i fedeli al dogma proclamato nel 451 nel concilio di Calcedonia. Si recò in Sicilia, dove abitò per qualche tempo predicando e curando gli ammalati con le acque sulfuree dell’isola, convertendo molti abitanti alla religione cristiana e vivendo la sua vita di eremita e di taumaturgo.
San Calogero, in dialetto siciliano chiamato San Calòjiru o San Caloriu, è il patrono di Naro e compatrono di Agrigento. E’ particolarmente venerato a Caltavuturo, a Favara, a Sciacca, a Frazzanò, a San Salvatore di Fitalia, a Santo Stefano di Quisquina, a Cesarò, a Petralia Sottana, a Casteltermini, a Campofranco, a Canicattì, a Torretta, a Porto Empedocle, a Mussomeli, a Villalba e a Vallelunga Pratameno.
Si festeggia il 18 Giugno di ogni anno.
Auguri di buon onomastico a tutti coloro che si chiamano Calogero, Calogera, Caloriu, Caloria, Caluzzu, Caluzza, Caliddu, Calidda, Lillo, Lilla, Rino, Rina, Gero, Gera.
Si venerava anche a Licata nella chiesa rupestre, detta della “Santa Croce”, in località “Collura”, oggi Pompei. L’immagine del Santo nero fu trasferita nella chiesa di Santa Maria La Vetere.

La filastrocca a San Calogero
SAN CALORIU OGNI PAISI
San Caloriu da marina
Fa i grazii sira e matina
San Caloriu d’ Agrigentu
Fa i grazii a centu a centu
San Caloriu di Naru
Fa i grazii a migliaru
San Caloriu di Caniattì
Ni fici una e sinni pintì
San Caloriu da Licata
fà i grazii a na vùlata.

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Una leggenda devozionale racconta che durante la sua vecchiaia, non potendo più raccogliere le erbe di cui nutrirsi, Calogero si cibava del latte di una cerva che gli sarebbe stata mandata da Dio.
Un giorno il cacciatore Siero, detto Arcario, perché cacciava con l’arco e le con frecce, involontariamente uccise la cerva.
Addolorato per la cattiva azione, divenne discepolo del santo.
Alla morte di Calogero, avvenuta dopo quaranta giorni, Arcario lo seppellì in una caverna sul monte solo da lui conosciuta. Egli stesso trasformò la grotta in cui era vissuto il Calogero in una piccola chiesa dove alloggiò insieme ad altri discepoli. In seguito furono scavate nella roccia le cellette che costituirono i dormitori. Furono chiamate “Eremo” o “Quarto degli Eremi”.
A causa delle invasioni Saracene in Sicilia, il vescovo agrigentino del tempo, per non far disperdere le reliquie, le fece trasportare nel monastero basiliano di San Filippo di Fragalà, nei pressi di Frazzanò, nel messinese. Ai giorni nostri le sacre spoglie di San Calogero riposano nella chiesa Madre di Frazzanò, Diocesi di Patti, custodite in una cassa lignea.

 

 

Jun 17, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTE DI SILYBUM MARIANUM DALLE PUNGENTI SPINE NELLE CAMPAGNE DI LICATA

LE PIANTE DI SILYBUM MARIANUM DALLE PUNGENTI SPINE NELLE CAMPAGNE DI LICATA

Il fusto eretto e vigoroso, le foglie spinose, la forma stellata del fiore hanno suscitato in me una grande ammirazione.

Nella mia campagna, in contrada Montesole, a Licata, ho raccolto molti semi che, germogliando, hanno prodotto tante piante molto utili perchè hanno circondato una superficie di circa 2 metri quadrati per proteggere l’Elicrisum italicum, la specie botanica molto amata dal prof. Carmelo De Caro.



E’ il “SILYBUM PYGMAEUS”.
Sinonimi sono: “Carduus marianus, Centaurea dalmatica, Mariana lactea”.

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In Italia la specie è conosciuta in quasi tutte le regioni ed è chiamata con diversi nomi: “Cardo di Santa Maria, Latte di Maria nel Veneto, Card d’ le maccie, Card Marianu in Piemonte, Gardo santo in Liguria, Cardo lattario in Lombardia, Cardo macchiato, Cardo Mariano, Cardo Santa Maria, Erba del latte, Cardo asinino inToscana,Carduni, Cocas in Calabria, Muganazzi, Maganazzi, Magunazzi veri, Cardunazzu,Cardalana, Battilana in Sicilia, Cardu tuva Cima de carduin Sardegna“.
Etimologicamente il termine del genere “SILYBUM” deriva dal greco “σίλυβον/σίλλῠβον”, nome con cui Dioscoride chiamava alcuni cardi commestibili. Anche Plinio ha dato il nome “Sillybus”, un tipo di cardo.
Il termine della specie “marianum“, letteralmente di “Maria”, trae origini dalla leggenda secondo la quale le bianche striature presenti sulle nervature delle foglie dei cardi sarebbero le scie lasciate dalle gocce di latte della Vergine Maria scivolate sulle foglie mentre allattava il Figlio Gesù durante la fuga in Egitto per sottrarLo alla persecuzione di Erode. La mamma Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù hanno trovato riparo in una vegetazione di cardi.


Il Silybum marianum è una pianta erbacea, biennale,con portamento vigoroso, appartenente alla famiglia delle Asteracee. Originaria del continente eurasiatico, presente anche in limitate zone dell’ America, dell’Australia e dell’Africa, si è diffusa in diversi Paesi del bacino del Mediterraneo.
In Italia è distribuita in altitudini comprese tra i 100 e i 1100 metri, vegetando dalle zone costiere fino alla zona submontana.
Più rara al nord e più frequente al sud e nelle isole fino a diventare invadente.
Anche a Licata è diventata infestante. Infatti vegeta bene nei ruderi, lungo le strade, nei terreni incolti.

Il Silybum marianum possiede la radice robusta e fittonante, capace di dissodare i terreni compatti.
Nel primo anno di vita emerge dalla radice solamente una rosetta basale di foglie laterali grandi, lobate e picciolate. Nel secondo anno spunta lo scapo fiorale che può raggiungere i 1,5 metri. Esso è robusto, striato e ramificato, con rami eretti.


Le foglie che si sviluppano sullo scapo sono sessili, amplessicauli, più piccole e meno divise delle basali, espanse alla base in due orecchiette. Le foglie superiori sono pennatifide, con margine ondulato e sinuato-lobato, con i lobi triangolari che terminano con robuste spine. La lamina fogliare, di colore verde-scuro, variegata di bianco lungo la nervatura, è glabra, coriacea, e cerosa.
Il rivestimento ceroso agevola il deflusso dell’acqua per mezzo di grosse gocce.


L’antesi avviene nei mesi tra aprile e maggio del secondo anno.
La parte più manifesta è l’infiorescenza a capolino, globosa, formata da piccoli fiori ermafroditi, con corolla tubulosa di colore rosso-purpureo e profumata.
L’infiorescenza è circondata da brattee spinose che hanno una base slargata che si prolunga in un lembo patente, rigido, stretto e acuminato, provvisto di una serie di spine sui margini e terminante con una robusta spina apicale.
Le brattee tendono a curvarsi verso il basso durante la fruttificazione.
Nell’insieme la pianta si presenta interamente spinosa.



I sepali del calice del fiore sono ridotti ad una coroncina di squame. La corolla è formata da un tubo filiforme terminante in 5 lobi.
Nell’ androceo i 5 stami sono formati da filamenti liberi, papillosi o raramente glabri e distinti. Sorreggono le antere saldate in un tubo che circonda lo stilo. Il polline è sferico o schiacciato ai poli.
Nel gineceo lo stilo è filiforme con due stigmi divergenti.
L’ovario è infero, uniloculare, formato da 2 carpelli. L’ovulo è unico e anatropo.
La fecondazione avviene tramite l’impollinazione dei fiori mediante gli insetti e le farfalle diurne e notturne.
I frutti sono degli acheni penduli, obovato-compressi, più stretti alla base e compressi lateralmente, di colore bruno-nerastro o screziate di giallo. Sono lucidi e glabri, inodori e dal sapore amaro, provvisti di pappo setoloso all’apice composto da lunghe setole, scabre, caduche, bianche, saldate in un anello basale con la funzione di disperdere il seme. I frutti maturano in piena estate.


Contengono i semi che vengono disseminati dal vento o cadono direttamente sul terreno.


La disseminazione è favorita anche dagli insetti, dalle formiche secondo la disseminazione mirmecoria.
La pianta ha anche una facile diffusione spontanea.
Il Silybum marianum è una pianta che si adatta a qualsiasi tipo di terreno gradendo una esposizione in pieno sole. Non necessita di essere irrigata se non in periodi di prolungata siccità.
I principali impieghi fitoterapici del Silybum marianum riguardano l’uso contro le affezioni del fegato e come galattogeno per la stimolazione del latte materno.
L’utilizzo, a scopo terapeutico, di questa pianta è noto fin dall’antichità.
Già gli antichi rilevavano la sua efficacia sulle cellule epatiche. Successivamente questa fama terapeutica fu confermata dalla taumaturgica Santa Ildegarda.
Tuttavia l’affermazione dei principi attivi è stata completata negli anni settanta.
Già nel Cinquecento Pietro Andrea Mattioli, noto umanista e medico italiano, descrisse le qualità curative del Silybum marianum: “La radice scalda, monda, apre e assotiglia. La cui decottione dà utilmente nelle oppilationi del fegato e delle uene, per prouocar l’orina ritenuta…Prouoca la medesima i menstrui non solamente beuta, ma anchora sedendouisi dentro…”
Il Silybum marianum è una pianta officinale.
Pertanto, grazie alle proprietà antiepatotossiche, è utilizzato in caso di sofferenza organica e funzionale del fegato dovuta a patologie come epatiti, cirrosi e steatosi.
Ha, inoltre, proprietà colagoghe, perchè favorisce l’escrezione della bile, e capacità diuretiche. I suoi benefici per il fegato sono stati attribuiti alla silimarina, una miscela di flavonolignani, (silibina, silidianina, isosilibina e silicristina), che si estraggono dagli acheni, e si basano si meccanismi antiossidanti, antinfiammatori, citoprotettivi e rigenerativi sulle cellule epatiche. La moderna fitoterapia utilizza il decotto o l’infuso delle radici.
L’uso è consigliabile con cautela di pazienti sofferenti di ipertensione arteriosa per la presenza della tiramina.
Le radici hanno, inoltre, proprietà diuretiche e febbrifughe. Le foglie hanno proprietà aperitive. Le applicazioni farmaceutiche e gli usi alimurgici sono indicati a scopo informativo.
In campo alimentare l’estratto dalle radici è usato nella preparazione di liquori d’erbe.
Le radici bollite sono commestibili, i capolini si cucinano come i carciofi, le giovani foglie si consumano in insalata e i fusti si mangiano crudi o cotti.
Curiosità: In Germania, in Prussia e in Boemia il Silybum marianum era considerato un protettore magico che allontanava gli influssi negativi di ogni genere. Le ragazze innamorate potevano indagare se erano veramente amate dal partner con questo sortilegio: bruciavano un fiore lasciandolo immerso nell’acqua in una bacinella per una intera notte. Se il fiore rifioriva, le innamorate avevano la certezza di essere amate.
Il De Gubernatis riporta una leggenda secondo la quale in un certo luogo cresceva uno strano cardo dall’aspetto umano. Quando sbocciava il dodicesimo capolino, allora il Cardo svaniva.
Un giorno un vecchio uomo si avvicinò proprio allo sbocciare del magico fiore.
Il vecchio, incuriosito dalla strana sembianza umana, si avvicinò e lo toccò col suo bastone.
Il bastone di legno prese fuoco e il braccio del vecchietto si paralizzò, chiaro segno della Potenza inceneritrice del dio Sole.

 

Jun 1, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTE DI BUPLEURUM FRUTICOSUM NEL BOSCHETTO DELLA NEVIERA A MISTRETTA

LE PIANTE DI BUPLEURUM FRUTICOSUM NEL BOSCHETTO DELLA NEVIERA A MISTRETTA

Ho incontrato una grande estensione di terreno coperta da tantissime piante dai fiori gialli ad ombrella percorrendo, la scorsa estate, la regia trazzera nel boschetto in contrada Neviera che conduce alla chiesetta “A Matri Tagliavia”, “Madonna Tagliavia”, una piccolissima chiesa rurale extra moenia, distante dal centro abitato di Mistretta appena 2,5 chilometri e ad un’altezza di 1100 metri.

A Mistretta, sui monti Nebrodi, questa specie evidenzia la tendenza a costituire arbusteti connessi con formazioni forestali a querce caducifoglie termofile.
La vegetazione osservata, e che riempie quell’area, è la “BUPLEURUM FRUTICOSUM”. Uno spettacolo della Natura!
Come dice J.J Rousseau: ” C’è un libro sempe aperto per tutti gli occhi: la Natura”.
Il nome italiano è “Bupleuro cespuglioso”.
Il sinonimo “Tenoria fruticosa”.
Etimologicamente il nome del genere “Bupleurum” deriva dalla parola greca composta da “βούπλευρος” e da “βοῦς” “bue” e da “πλευρά” “costola” in riferimento alle pronunciate rigature longitudinali delle foglie.
Il nome della specie “fruticosum” ” frutice” perchè ricco di germogli.

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Il genere Bupleurum comprende circa 200 specie. Allo stato spontaneo si estende in un’area dal Marocco alla Grecia. Principalmente è originario dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa boreale e delle Isole Canarie ed Azzorre.
In Italia le specie di Bupleurum sono poco comuni e sono presenti in Sicilia, in Sardegna e in Liguria.
Alcune specie sono : “Bupleurum fruticosum, Bupleurum montanum, Bupleurum elatum, Bupleurum odontites, Bupleurum gibraltarium, Bupleurum lancifolium, Bupleurum baldense”.
Il nome “Bupleurum ” fu usato per la prima volta da Ippocrate e ripreso, in tempi relativamente moderni, dal Tournefort e da Linneo. Però fu il botanico francese Antoine-Laurent de Jussieu (1748-1836) che introdusse questo genere di piante nella famiglia delle Umbelliferae.
La specie che ho incontrato io a Mistretta e che ho fotografato è la “BUPLEURUM FRUTICOSUM“.


E’ una pianta arbustiva, rustica, perenne e sempreverde, dalla crescita veloce e dal portamento folto e regolare.
La singola pianta, sostenuta dalla radice rizomatosa, assume l’aspetto di un grosso e folto cespuglio alto fino a due metri formato da numerosi fusti rigidi, legnosi, eretti, sottili, rivestiti da corteccia brunastra che, dividendosi ripetutamente ed orientandosi in ogni direzione, conferiscono alla pianta una forma globosa.
Nelle vecchie piante i fusti tendono a ramificarsi, a diventare intricati e ad assumere una tonalità grigia.


Le foglie, semplici, intere, coriacee, persistenti, a disposizione alterna, con il picciolo ridottissimo, sono quasi sessili e abbraccianti il fusto. La lamina fogliare è ellittico-lanceolata (molto più lunga che larga) ed è attraversata da una nervatura mediana evidente in entrambe le pagine. La pagina superiore è lucida e di colore verde, la pagina inferiore è opaca e glauca. Spesso le foglie basali sono riunite in una specie di rosetta. Il margine fogliare è intero e liscio. L’apice della foglia è acuto. Le foglie, se stropicciate, emanano un persistente odore aromatico.


In estate, nel periodo compreso tra il mese di luglio e il mese di settembre, proprio durante il mio soggiorno a Mistretta, nella parte terminale dei rami compaiono abbondanti infiorescenze ad ombrella composte da piccoli fiori ermafroditi, pentameri, con calice e corolla formata da 5 elementi, di colore giallo e dall’aspetto carnoso.


Dai fiori nettariferi fecondati si sviluppano in autunno i frutti, i diacheni, divisi in due acheni saldati lungo un asse centrale, di forma ovoide, lunghi pochi millimetri, costoluti, brunastri che ospitano i semi che garantiscono una facile diffusione della specie.
La Bupleurum fruticosum è una pianta diffusa soprattutto nei paesi a clima freddo o temperato adattandosi bene alle più disparate condizioni di vita. Non necessita di particolari cure colturali.
Gradisce vegetare su habitat di rupi, di luoghi sassosi, ma anche su spazi erbosi asciutti, aridi, sterili su terreni grassi, sabbiosi e argillosi e, soprattutto, freschi e ben drenati. Gradisce l’esposizione luminosa, in pieno sole, ma si accontenta anche della mezza ombra. L’irrigazione non è un’operazione frequente da fare. Sopporta temperature minime invernali solo di alcuni gradi inferiori allo zero.
Le infiorescenze della Bupleurum fruticosum, per la loro bellezza, sono ornamentali per cui la specie si può coltivare in vasi e in contenitori per abbellire terrazze, balconi e giardini pensili. I giardinieri piantano alcuni cespi nelle ville comunali come siepi di separazione delle aiuole.
La medicina farmaceutica popolare consiglia l’uso delle foglie delle piante di Bupleurum che sono capaci di un’azione psicotropa e ansiolitica. I decotti delle foglie sono utili per rilassare i tendini. Inoltre, prodotti erboristici di questa specie vengono usati in chimopuntura, per combattere i reumatismi autoimmuni.
In cucina, per uso alimentare, in Occidente tali piante non sono molto conosciute come specie eduli, mentre in Giappone si consuma a scopo alimentare il Bupleurum falcatum perchè là esiste una normale coltivazione orticola di questa pianta.

 

May 17, 2023 - Senza categoria    Comments Off on RAPSODIA, LA POESIA DI CARMELO DE CARO

RAPSODIA, LA POESIA DI CARMELO DE CARO

23 ANNI!
Carmelo carissimo, il tuo ricordo è sempre vivo!

RAPSODIA
Brilla l’Astro dorato
dopo la greve pioggia
portata dalle nuvole
che ora, squarciate, mi
feriscono gli occhi.
Nell’aria pungente,
tersa, limpida, è la
Natura che si sveglia
dopo il monotono pianto della pioggia.
E la vita ritorna a fiorire
sui verdi davanzali,
nell’azzurro profondo
del cielo.
Ho voglia di correre,
ho voglia di volare,
ho voglia di salire
sempre più in alto,
ho voglia di volare
lassù, fino a quell’astro dorato.
27 novembre 1963

“RAPSODIA” è la poesia, tratta dal libro “SINTITI SINTITI”, di CARMELO DE CARO,
che lui ha scritto nel lontano 1963.

May 1, 2023 - Senza categoria    Comments Off on GLI ALBERELLI DI NICOTIANA GLAUCA LUNGO LE STRADE DI LICATA

GLI ALBERELLI DI NICOTIANA GLAUCA LUNGO LE STRADE DI LICATA

Percorrendo alcune strade di Licata, soprattutto la via Principe di Napoli, si possono osservare tanti arbusti di questa meravigliosa pianta dai fiori gialli dalla forma particolare di lungo imbuto.
Veramente, pur essendo una pianta rara, tanti altri esemplari della stessa specie si possono osservare lungo il Corso Argentina, nella baia di Marianello, davanti alla sede dei Vigili Urbani nella pazzetta Libia, e all’Istituto Comprensivo “Guglielmo Marconi” in via Egitto, in via Gen.le Dalla Chiesa, in via Gela, in via Umberto II, sempre a Licata. Ciò significa che è una specie di facile riproduzione e poco esigente nella scelta del suo habitat. I piccoli semi,dispersi d vento, favoriscono la diffusione della specie.
Il nome scientifico e “NICOTIANA GLAUCA”
Il nome italiano è “TABACCO GLAUCO”.
Sinonimo è “TABACCO SELVATICO”


Etimologicamente il nome del genere “Nicotiana” è in onore di Jean Nicot, Signore di Villemain (1530-1600), accademico e ambasciatore francese in Portogallo che, nel 1559, spedì alla corte di Caterina de’ Medici un esemplare di questa pianta allora considerata un efficace farmaco contro diverse patologie.
Il nome della specie “glauca” deriva dal greco “γλαυκός” “glauco, azzurro verdognolo” per il colore delle foglie verde-azzurro.

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La Nicotiana glauca, chiamata comunemente “Falso tabacco o tabacco glauco”, è una specie vegetale perenne della famiglia botanica delle Solanaceae originaria dell’America meridionale e diffusa in Argentina, nel Paraguay e in Bolivia , ma ormai inselvatichita e divenuta naturalizzata in tutto il mondo.
Probabilmente è arrivata in Europa all’epoca della colonizzazione spagnola dell’America meridionale. In Italia, introdotta come essenza ornamentale, è possibile trovarla in Sicilia, in Campania, nel Lazio, in Liguria, nelle Marche, in Puglia, in Sardegna in Toscana.
Vegeta bene nelle zone calde, appoggiata al muro, sui suoli sabbiosi, nei greti dei torrenti e lungo le scarpate a quote che variano tra 0 e 600 metri sul livello del mare.
La pianta, legata al suolo mediante una robusta e profonda radice fittonante, si solleva dal terreno assumendo uno sviluppo di arbusto ascendente.  

Il fusto, alto fino a 2 metri, legnoso e molto ramificato, è ricoperto da una corteccia liscia di colore marrone scuro.
I numerosi rami semilegnosi, che dal colore marrone virano al verde chiaro nelle estremità apicali, formano la chioma irregolare.

Le foglie, portate sui rami da lunghi piccioli, alterne, coriacee, e di colore verde – azzurrino, hanno la forma lanceolata e il margine intero.


I fiori, a di forma trombetta, con la corolla gamopetala di colore giallo intenso, sono disposti in vistose infiorescenze a pannocchie che, durante il periodo della fioritura, sbocciano nelle parti apicali dei rami. Le infiorescenze della Nicotiana sono composte da 20–40 fiorellini lunghi 4 cm e larghi 0,5 cm circa. I fiori non profumano.
La fioritura avviene nel corso della stagione estiva e i fiori si mostrano sulla pianta fino all’arrivo dell’autunno. Considerando la lunga durata della fioritura la Nicotiana glauca è utilizzata per lo più come pianta ornamentale.







Il frutto è una piccola capsula ellissoidale, coriacea, pendula, lunga fino a 1 cm, contenente numerosissimi semi scuri. La pianta si propaga per seme in primavera. L’ impollinazione avviene tramite farfalle diurne e notturne. Dai semi germogliano in poco tempo piante capaci di fiorire già dal terzo mese di vita.
La Nicotiana glauca predilige i terreni sciolti, ricchi e ben drenati posta in luoghi soleggiati dove possa ricevere la luce del sole per molte ore al giorno, ma prospera abbastanza bene anche nei luoghi semi-ombrosi e più freschi. Vegetando spontaneamente in piena terra, si accontenta delle scarse piogge sopportando anche lunghi periodi di siccità. Teme i venti freddi.
La Nicotiana glauca è una pianta facile da coltivare e non richiede accorgimenti particolari per regalare il meglio della sua bellezza per gran parte dell’anno.

Si può coltivare anche nei giardini, nelle villette private sia in piena terra, sia nei vasi abbastanza capienti. Per ottenere una fioritura abbondante bisogna annaffiare quando il terreno è asciutto e somministrare un concime per piante da fiore. Per quanto riguarda la potatura, per dare una forma più ordinata all’arbusto all’inizio della primavera bisogna accorciare i rami di circa la metà della loro lunghezza. Si favorisce l’emissione di nuovi getti floreali.
Le foglie della Nicotiana glauca vengono fumate dai nativi americani. La pianta possiede anche delle presunte proprietà medicinali per l’alto potere cicatrizzante. Serve anche per combattere le malattie reumatiche, e come pomata per curare gonfiori, ematomi, ferite e infiammazioni.
Come le altre piante ornamentali e quelle coltivate per la produzione del tabacco, anche la Nicotiana glauca contiene anabasina, un alcaloide estremamente tossico e velenoso.
L’ingestione delle foglie di Nicotiana glauca può infatti causare convulsioni, vomito, coma e anche la morte.
Con gli estratti della pianta si producono insetticidi.

 

 

 

Apr 19, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTE DI OSTEOSPERMUM ECKLONIS E DI OSTEOSPERMUM FRUTICUM ADDOSSATE ALLA RECINZIONE DELLA MIA CAMPAGNA A LICATA.

LE PIANTE DI OSTEOSPERMUM ECKLONIS E DI OSTEOSPERMUM FRUTICUM ADDOSSATE ALLA RECINZIONE DELLA MIA CAMPAGNA A LICATA.

Durante la passeggiata nelle campagne di contrada Montesole-Giannotta a Licata, la mia attenzione è stata attratta dalla colorazione bianco-violacea di moltissime piante fiorite che, prepotentemente, occupano ampi spazi delle recinzioni, anche attorno al cancello della mia campagna, creando un ambiente colorato.
Sono i fiori di Osteospermum che mettono allegria, perché sono l’esplosione della vita.
Formano pareti intense, ampie e ondeggiano al primo alito di vento.

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Esistono circa 80 specie di Osteospermum, ma la più frequente è “l’Osteospermum di Ecklon o Dimorfoteca di Ecklon”.
Questa specie è nota con altri nomi: “Margherita sudafricana, Margherita del Capo, Margherita dagli occhi azzurri, Margherita dei Carpazi”.
Etimologicamente il nome del genere “Osteospermum” deriva dall’unione delle parole greche “όστεον”  “osso” e “σπερμα” “seme” per via dei semi duri, che sembrano di osso.
Il nome “Dimorphotheca” deriva dal greco “δίς” “due volte” e da “μορφή” ” forma”, “apparenza”, e da “θήκη” “cassa, scrigno, capsula” per i frutti o i semi di duplice forma.
Il nome della specie “ecklonis” è stato attribuito in onore del Dr. Christian Frederik Ecklon (1795-1868), studioso botanico tedesco.
Si tratta di piante originarie dall’Africa meridionale, ma anche dalla penisola arabica, ritrovate nelle praterie, nelle montagne rocciose, ai margini dei boschi.
L’Osteospermum, per bellezza e per la raffinatezza dei suoi fiori, dal colore bianco, rosa,violetto, ha conquistato molti floricoltori non solo con il bell’aspetto, ma anche per la fioritura a lungo termine.



L’Osteospermum è un genere botanico composto da circa 85 specie appartenenti alla grande famiglia delle Asteraceae maggiormente originario dell’Africa meridionale e della penisola arabica.
Alcune specie sono piante erbacee, altre sono arbusti.
La specie più nota e più coltivata è la “Osteospermum ecklonis”, una pianta erbacea perenne, se il clima è mite in inverno, altrimenti è annuale, se il clima è freddo.



Possiede radici profonde, con le quali si lega al terreno, e dalle quali si sollevano i fusticini, eretti, alti fino a 1 metro, da dove emergono densi cespi di foglie disposte a rosetta alla base della pianta, sessili, lanceolate, ghiandolari, di colore verde chiaro, cerose, cuoiose, leggermente succulente, aromatiche e con il margine intero.


Fra le foglie sbocciano i fiori, simili a margherite, di colore viola che iniziano a fiorire in primavera prolungando la fioritura fino all’inizio dell’estate.



Durante i mesi invernali la pianta si concede un lungo periodo di riposo entrando in una sorta di “letargo” per poi rifiorire durante la stagione successiva.
Nella stessa ringhiera della mia campagna vegetano bene  anche fiori di Osteospermum fruticosum dal colore bianco.

Se le foglie o il gambo sono danneggiati, il fiore emette un odore piuttosto sgradevole che, altrimenti, non c’è.
La pianta di Osteospermum può essere propagata per seme o per talea.
Il frutto è una piccola bacca con la superficie rugosa.

La riproduzione per seme si esegue in primavera.
Si usano i semi raccolti in autunno dai fiori appassiti e si conservano in un luogo fresco ed asciutto.
Seminati in semenzai o nei vasi, su un substrato universale, germoglieranno dopo 10-15 giorni circa.
La moltiplicazione per talee semilegnose si esegue all’inizio della primavera.
Bisogna tagliare alcuni steli teneri, lunghi circa 10 cm, che vanno interrate in un miscuglio di sabbia e di torba nel terreno o nei vasi. Radicheranno in circa 20 giorni.
Nella stagione autunnale è possibile effettuare la divisione dei cespi.
L’Osteospermum è una pianta rustica, ornamentale, facile da coltivare sia in giardino, in piena terra, per formare bordure e aiuole, sia nei vasi, per abbellire le terrazze e i balconi delle case private creando un fenomeno spettacolare allegro in primavera e in autunno.

Essendo una pianta di origine africana bisogna tenere presente che il suo principale nemico è il freddo durante il periodo invernale.
Per questo motivo, pur essendo una pianta perenne, spesso viene coltivata come pianta annuale.
La coltivazione in vaso ha il vantaggio che, all’arrivo della stagione fredda, le piante possono essere riparate in un luogo dove la temperatura si mantiene costantemente più alta.
Gradisce una posizione all’aperto, su luoghi molto soleggiati, dove può ricevere alcune ore di luce diretta ogni giorno, ma cresce anche a mezz’ombra, dove la temperatura minima annuale non deve essere inferiore a -4 -5ºC, pur producendo più foglie che fiori.
L’Osteospermum non è una pianta esigente in fatto di terreno, ma preferisce essere posta su un substrato fertile, ricco di sostanza organica, soffice, leggero e ben drenato.
È adatta anche ai giardini di mare, perché sopporta il caldo intenso, la salsedine ed i venti salmastri.
Potrebbe incorrere in una fase di riposo vegetativo durante la stagione avversa, per riprendere la fase di vegetazione quando le condizioni torneranno favorevoli.
Durante il periodo della fioritura la pianta necessita di irrigazioni regolari ed abbondanti evitando i ristagni idrici, che potrebbero provocare la formazione di marciumi radicali.
Durante le altre stagioni occorre bagnare il terreno con moderazione e solo quando è asciutto.
Dall’inizio della primavera e fino alla fine dell’estate è consigliabile concimare aggiungendo dei fertilizzanti organici, come guano o pacciame.
Oppure usare quelli chimici, liquidi per piante da fiore diluiti nell’acqua d’irrigazione in modo da stimolare un migliore sviluppo della pianta e una fioritura più abbondante.
La pianta non ha bisogno di essere potata. Si devono soltanto eliminare i fiori appassiti, accorciare gli steli che crescono troppo, e tagliare quelli secchi o deboli.
Per quanto riguarda i parassiti, le malattie e le altre avversità l’Osteospermum è frequentemente attaccato dagli Afidi, dalla Mosca bianca, dalla Cocciniglia cotonosa.
L’azione preventiva contro eventuali attacchi è quella di intervenire con insetticidi specifici, da somministrare prima della ripresa vegetativa.
Importante: la pianta di Osteospermum contiene acido cianidrico, che la rende velenosa per il bestiame.

Apr 8, 2023 - Senza categoria    Comments Off on “RAMI DI SCIROCCU” – TRILOGIA POETICA IN DIALETTO SICILIANO NELLA PARLATA MISTRETTESE DEL SECOLO VENTESIMO DI FILIPPO GIORDANO.

“RAMI DI SCIROCCU” – TRILOGIA POETICA IN DIALETTO SICILIANO NELLA PARLATA MISTRETTESE DEL SECOLO VENTESIMO DI FILIPPO GIORDANO.

L’amico Filippo Giordano continua la sua instancabile e fruttuosa voglia di scrivere le sue apprezzate poesie in dialetto siciliano mistrettese. Filippo è “Poeta educatore dei sentimenti umani, maestro dell’arte della Poesia”.

Infatti, ha aggiunto, alla sua numerosa collana produttiva, il nuovo libro dal titolo “RAMI DI SCIROCCU – trilogia poetica in dialetto siciliano nella parlata mistrettese del secolo ventesimo”, edito dalla Youcanprint e pubblicato nel mese di Aprile del 2023.

“Rami di sciroccu” è una espressione dialettale siciliana appartenente al gergo pastorale che, pittorescamente, ritrae particolari forme di nuvole le quali, secondo la secolare esperienza contadina, preludono all’imminente arrivo dello scirocco, con conseguente innalzamento della temperatura.
Sotto questo unico nome, il libro riunisce tre piccole raccolte di poesie, già pubblicate, col titolo: “Scorcia ri limuni scamusciata” (anno 2003), “Ntra lustriu e scuru” (anno 2006), “Riepitu” (anno 2015), scritte in dialetto siciliano in uso nel XX° secolo a Mistretta, piccolo comune, di antichissima origine, sito sui monti Nebrodi.
”Da ogni poesia di Filippo Giordano emerge la descrizione di un piccolo mondo perfetto, il mondo che ha visto per primo e che amerà per tutta la vita: il posto dove è nato e cresciuto. Posto del quale il poeta Filippo Giordano conosce ogni angolo del luogo, ogni paesaggio, ogni suono, ogni voce, ogni profumo. Luogo che lo affascina e lo rassicura. In cui ogni cosa parla il suo stesso linguaggio, il linguaggio mistrettese, il linguaggio dei nostri padri, il linguaggio per molti incomprensibile, ma che Filippo comprende e racconta straordinariamente perché è il linguaggio che gli appartiene.
E’ il linguaggio della sua città. Della nostra città. Di Mistretta!
In “SCORCIA RI LIMUNI SCAMOSCIATA” , edito dal giornale “Il Centro Storico” di Mistretta nel 2006, le poesie rivivono i personaggi del villaggio attraverso l’immediatezza vitale del dialetto, così come s’incarna la saggezza popolare in figure elementari che assurgono a spunti di meditazione filosofica: “E quando il tempo / mi salì addosso / capii che era lui a comandare / e che l’asino ero io.”

” NTRA LUSTRIU E SCURU”, edito dal giornale “Il Centro Storico” di Mistretta nel 2006, e arricchito da magnifici disegni di Enzo Salanitro, fa seguito a “Scorcia ri limuni scamusciata”, con la preziosa prefazione di Giuseppe Cavarra , libro di poesie che aveva ottenuto notevoli consensi di pubblico e anche da quella critica attenta a questo tipo di pubblicazioni. Pertanto, il nome di Filippo Giordano si aggiunge alla schiera della grande tradizione di poesia in dialetto siciliano, dalla Conca d’oro, alla sub-regione etnea, passando ora per Mistretta, rappresentata, nell’ultima generazione, dagli ottimi Antonino Cremona, Mario Grasso, Salvatore Di Marco, Nino De Vita, che, in vario modo, dicono la loro esigenza “colta” e “gergale” in una fusione espressiva che qualcuno ha voluto definire neodialettalità.


“RIEPITU”, edito da Youcanprint nel 2015, è il poemetto dove Filippo descrive il ritorno incessante dell’immagine del fratello Enzo scomparso prematuramente.
Ritma la sconsolata malinconia e il cuore, oppresso dal rimpianto, corre al pensiero dell’estrema dimora: “ssu juornu che, ‘nsirata, mentri spaccavi ligna, / l’ummira, a trarimientu, t’agghiaccau / idda, na pussenti rancata / cuomu na rizza bbannotta / sbulazziau”.
Filippo ricostruisce, nel richiamo della memoria, le cose positive della vita che Enzo aveva costruito, unitamente alle sue qualità umane e sociali: “A-ttia ca stavi o terzu pianu / ti piacìa, passannu, spi ssu arrialari / cassette r’aranci, limuni e mandarini / e condomini ri casi popolari”.
Nella nobilissima rievocazione, tutto è sospeso in domande inappagate, alla ricerca di spiegazioni sull’aldilà.
“Po’ essiri ca l’armi ri muorti vanu a pusari / nna npuostu chi nuaddi nun virimu”. Una sequenza di domande, che tessono il ciclo misterioso e attraente della vita, demarca il confine col mistero: “Ma siddu ssu puostu ‘n-cielu c’è, / mu rici, frati miu, cuomu è fattu? / Nni viri rosi, jaloffiri, gerani? / Nni curri acqua nno vadduni ? / Nni sciuscia vientu a mienzu i rami? / Chiovi, corchi bbota, a primavera? / Tu fai u bagnu, a mari, ri stasciuni? Cancinu culura i fogghj nna l’autunnu? / Nni quagghia nivi nna mmirnata? / Cu è dduocu chi ti fa cumpagnia? / C’è a banna musicale nna ssu puostu? / Sona cuomu sona cca / o puru, arrivànnu dduocu, / cancia pi sempri ogni sunata?

Molti letterati, critici d’arte e giornalisti hanno scritto sulla validità dell’opera poetica di Filippo Giordano: “Poesie che riescono a coinvolgere il lettore per l’armonia sonora che sprigionano e per l’atmosfera di mistero che aleggia nei versi” (nc)”, “Un piccolo capolavoro” (gc), “Raccolta effervescente” (pt), “Armoniosa completezza di contenuto e di fattura” (pf), “Insolita commistione di chiarezza e misteriosità” (sa), “Dense e luminose poesie d’amore fraterno, che diviene amore e compartecipazione per il mistero della creazione” (sgp).
Giorgio Bárberi Squarotti commenta: “Mi piace soprattutto, nella sua poesia, la capacità di cogliere con epigrammatica forza le situazioni di vita siciliana fra sociologia e spettacolo ed esplosione dei sensi e dei sentimenti”.
Chi è Filippo Giordano?
Filippo Giordano è nato è nato a Mistretta, un piccolo paese sui monti Nebrodi, il 12 Marzo 1952, dove vive con la famiglia, con l’affettuosa moglie, la signora Pina Sutera, e con dolcissima figlia Maria Laura.
La figlia primogenita, Ilenia, laureata in Scienze della Formazione, vive e lavora a Roma quale docente in una Scuola Elementare di primo grado.
A Mistretta, in via Libertà, Filippo ha gestito l’ufficio sindacale in qualità di Consulente del Lavoro.
In quiescenza, si gode il meritato riposo.

Collabora da oltre un ventennio con diverse riviste specializzate di arte e di cultura varia e con diversi settimanali.
Articoli, sulla sua produzione letteraria, sono stati pubblicati su molteplici riviste del settore, mentre alcuni quotidiani, fra i quali la Gazzetta del Sud e L’Avvenire, hanno riportato notizie sui suoi studi sulla successione dei numeri primi in aritmetica matematica.
Un suo teorema, relativo a una proprietà dei numeri perfetti, è stato inserito nel contesto di una tesi di laurea presentata nel 2005 presso la Facoltà di Matematica della Università di Torino.
Per altri diversissimi interessi, che hanno radici nella matematica combinatoria, collabora da un paio d’anni con un settimanale nazionale.
Filippo, oltre ad essere Poeta e Scrittore, è anche Ricercatore autodidatta di matematica.
Molti sono i premi letterari conseguiti da Filippo Giordano.
Ha vinto il premio di poesia “Città di Marineo”, edizione 1979, e (per la poesia dialettale) il premio “Bizzeffi” (Limina), edizione 1999. Ripetutamente è stato apprezzato e premiato dalla giuria del concorso letterario “Maria Messina” organizzato dal Centro Storico di Mistretta.
Dei tanti libri pubblicati dall’autore Filippo Giordano ne cito solo alcuni:
Il libro “VOLI DI SOFFIONE– piccole storie di minima gente”, Edito dalla tipografia LA CELERE di Messina nel 2001, è una raccolta continente 19 racconti dai titoli: “La valigia del militare, Con gli occhi chiusi, Il funerale del cavaliere Panarea, Pan per focaccia, Nitto, Contadino senza terra, Tempo di Beguine, La mula, Nuvole, Una sera di Marzo, U su-Bastianu, Lisa, Lo specchio del sorriso, Nuccia, L’ombra, Il maresciallo Leonardo, Il fiore che vola, Lingua e dialetto, La foto, La neve. Questi racconti sono stati riuniti per la prima volta in questo volume perchè già singolarmente pubblicati su molte riviste: Alla Bottega Milano, Il Centro Storico di Mistretta, Liberetà (mensile dello Spi-cgil), Paleokastro (sant’Agata di Militello).


“NEBRODIVERSI” , edito da “IL CENTRO STORICO” di Mistretta nel 2016 , che contiene 14 sillogi di poesia, è il titolo che l’autore ha dato al suo libro unendo due termini: “Nebrodi”, i monti della Sicilia, e “versi”, che indicano il suggestivo scenario a cui s’ispira la poesia dell’autore che tratta diversi punti: “Ricordo improvvisamente sbucato / da un tempo di pastori / accovacciati all’ombra di qualche rudere / mentre la nenia delle pecore / si spandeva sulla groppa dei Nebrodi. / Infanzia incavata nella memoria. / Ora l’alba preme sui vetri.” (Sulla groppa dei Nebrodi, da Se dura l’inverno). In questi versi prendono vita “odori e sapori” della terra di Sicilia. Per dirla con Vittorini, le intense fragranze dei limoni, dei fichidindia, delle zagare che evocano il profumo della terra di Sicilia. L’ “amara terra mia” col suo fascino malioso seduce irresistibilmente i suoi figli, ma anche li condanna all’inanità o li costringe all’esilio: “Occhi di operai, occhi di studenti, / gli occhi dei miei amici, / i miei occhi. / Partiranno domani col solito / treno diretto verso il nord. / Saranno gli occhi di un carabiniere, / di un operaio della fiat, / di un laureato. / Saranno gli occhi di uno straniero.” (Autunno). Essa piange i suoi morti, dopo averli abbandonati al loro destino: “Cresce uomini / e subito li espelle, / Mistretta. / E vedove bianche / attendono mariti. / E al morto del giorno / si piangono anche i vivi.” (Mistretta). Le dure condizioni della povertà insinuano la sofferenza nelle famiglie: “Ancora gambe di bambini tremano / sotto il peso eccessivo del lavoro / e il lavoro continua a restare / debitore nei confronti di molti uomini / e molta gente continua a riempire / treni di valige e di speranze / e troppe madri piangono figli lontani / cupidamente falciati dal capitale / mentre uomini vecchi montano / questo nuovo anno.” (Ancora).


“VALLE DELLE CASCATE – il volto sconosciuto di Mistretta” è il libro fotografico che Filippo Giordano ha presentato nella sede della Società Agricola di M:S di Mistretta il 3 settembre del 2015. L’autore scrive: “[…] La valle delle cascate di Mistretta si trova a quattro Km dal centro abitato verso est, al confine delle contrade Pietrebianche, Rescifu, Acquasanta, Ciddia e Farà. Le cascate più alte (Pietrebianche e Rescifu rispettivamente di 33 e 25 metri circa) raccolgono le acque torrentizie provenienti dalla zona a monte, i cui corsi si estendono per circa 3 Km. Guardando da Sud verso Nord, cioè dalle rispettive foci, sul greto del torrente più a sinistra, proveniente dalla contrada Acquasanta, circa 100 metri prima della cascata omonima, si trova il <<doppio salto carrivali>> di circa 6/7 metri alla cui base si forma una ampia vasca profonda quasi un metro. Più sotto, poco prima di giungere alla cascata, l’acqua attraversa altre due ampie vasche. Dalla seconda vasca, l’acqua, a cascata, giunge sul sottostante greto e subito si incontra con l’acqua che precipita, alcuni metri più sotto, dalla cascata Riscifu, ribattezzata <<Cascata delle Fate>> dove alla sua base è abbastanza frequente vedere apparire un arcobaleno che risale lungo la schiuma vaporizzata dell’acqua […]”.









Filippo Giordano con Daniela Dainotti presidente dell’Ass.ne “La valle delle cascate”

“MENTRE PIANO RISALI IL TORRENTE” edito da Youcanprint, è il libro dedicato alla Valle delle Cascate, sui Monti Nebrodi, a Mistretta. E’ Poesia musicale, come il mormorio delle cascate. Il libro contiene 13 liriche e 14 splendide fotografie a colori che ritraggono meravigliosi scorci tratti dalle nove cascate della valle sottostante a Montepiano.
È un incontro simbiotico perfettamente riuscito dell’immagine con la parola o, per meglio specificare, si tratta della sinergia tra Poesia e Natura. Filippo Giordano scrive con animo stupefatto e con un sentimento che nasce dal bisogno dello spirito di cercare nuovi aspetti e inaspettate bellezze.
Con l’occhio attento e con una grande capacità espressiva , il suo percorso si snoda lungo gli ambienti delle valli dei Nebrodi in un rapporto tra realtà e sogno. L’incanto dei luoghi, dove l’uomo vive pressoché isolato, il ritmo primordiale dell’esistenza, la bucolica armonia del paesaggio, la purezza e la luminosità dell’aria danno a Filippo un sentimento di intimo appagamento.
Riuscendo a cogliere i profumi e i colori, Filippo fa vivere la bellezza della Natura che lo rilassa dando serenità al suo animo e risvegliando le sue emozioni.
Fa da sfondo una presenza amica e idillica: l’acqua delle cascate di Ciḍḍia, un’area di notevole pregio naturalistico nei dintorni di Mistretta. Sono le fulgide “dieci sorelle, tutte diverse che godono nei giorni che imbiancano le creste del Corvo e della Conigliera e luccica la montagna al lume della luna”.


“MISTRETTA DA SCOPRIRE”, ed. Youcanprint, è la pubblicazione di Filippo Giordano volta a promuovere una nuova visione della “capitale dei Nebrodi” nei suoi aspetti naturalistici, storici e antropologici. Riguarda l’identità mistrettese esprimendo la ricchezza e i valori che la connotano.
L’opera, dalla costruzione grafica originale e dal testo scorrevole, è un ulteriore tassello che va ad aggiungersi al grande mosaico della storia di Mistretta che domina uno scenario ricco di remote suggestioni, arroccata su una rupe in vista delle alte e boscose cime dei Nebrodi che sembrano avvinghiare in un abbraccio passionale il suo cuore. Scorrendo le immagini sapientemente selezionate, Filippo racconta la storicità del suo silenzioso linguaggio: la pietra arenaria dorata, protagonista indiscussa del paesaggio, che contribuisce a dare una immagine uniforme dell’abitato ben adattato all’ambiente.
Il viaggio nel paese consente al lettore di leggere i segni di una vicenda storica e umana di strutture urbanistiche dove le case, sono addossate le une alle altre in pittoresco disordine.
Le enigmatiche vanedde, ripide e tortuose, dove si percepisce il palpitare di una umanità autentica le scalinate, i chiani, le scalette esterne, gli anniti, sono descritti da Filippo con grande entusiasmo. I mascheroni apotropaici, inquietanti e misteriosi, i fregi di tipo naturalistico e le figurazioni dalla funzione propiziatoria, le insegne artigianali, altri elementi decorativi su balconi, mensole e portali, le facciate delle chiese, che sono stilisticamente di un barocco esclusivo, figurativamente legati alla fantasia di anonimi artisti locali e ai momenti più significativi della storia locale, diventano un buon filo per rinascere con la città di Astarte e trovarne l’anima vecchissima.
Con questa riposante rievocazione Filippo vuole rinsaldare nei mistrettesi l’amore per questa misteriosa città con la sua atmosfera intima, dove si risente quel profumo antico della vita e dove il silenzio è infinito, mentre i giorni che passano fugaci lasciano dentro un malinconico affetto per la nostra montagna.  
In “MISTRETTA E MARIA MESSINA: UN LEGAME SECOLARE”, Edito da Youcanprint, Tricase 2016, di 78 pagine, Filippo descrive il rapporto vissuto da Maria Messina e Mistretta, città dove la scrittrice abitò, dal 1903 al 1909, in una casa di Via Paolo Insinga dove ambientò le sue novelle e i suoi racconti.
l’Associazione “Progetto Mistretta” ha rivolto alla scrittrice grande attenzione assegnando a Maria un posto di meritevole rilievo nella cultura amastratina divulgando il suo nome e la sua opera attraverso la promozione del concorso letterario “Maria Messina” con cadenza annuale (già alla XIII edizione) e la cui premiazione avviene nell’elegante sala di rappresentanza del Circolo Unione.
Maria Messina è nata ad Alimena, in provincia di Palermo, il 14 marzo del 1887.
Si arrese alla sofferenza fisica all’alba del 19 gennaio del 1944 morendo a Masiano, una frazione a pochi chilometri da Pistoia, nella casa di contadini della famiglia Tarabusi dove si era trasferita per sfuggire ai bombardamenti della guerra, che aveva diviso l’Italia in due parti separandola dall’amato fratello e dalle nipoti, e dove viveva in solitudine in campagna, “vinta” dal destino, divorata dalla distrofia muscolare.
A Pistoia fu sepolta nel Cimitero della Misericordia Addolorata. Riesumata nel 1966, i suoi resti mortali furono custoditi nella stessa tomba della madre, signora Gaetana Valenza Traina.
Dal 24 aprile del 2009 Maria Messina riposa nel Cimitero monumentale di Mistretta. Il merito di questo “ritorno” in patria si deve attribuire soprattutto al prof. Nino Testagrossa, il presidente dell’associazione “Progetto Mistretta”, che ha messo in risalto il legame della Messina con quelli che lei stessa definì “i miei buoni mistrettesi”. Maria Messina fu una delle più grandi scrittrici veriste, ammirata dal Verga, commentata da Borghese come “scolara del Verga”. Tuttavia, completamente dimenticata, è stata assente dalla letteratura italiana del Novecento.
Abbattere il muro del silenzio attorno a lei, schiudere le porte dell’oscurità, che avevano nascosto per oltre mezzo secolo il nome e l’opera di Maria Messina, aprire quelle della sua fama, furono meriti dello scrittore Leonardo Sciascia che, nei primi anni ottanta, ha ripropo sto la lettura di alcuni dei suoi racconti e alla casa editrice Sellerio per la pubblicazione delle opere.
Da allora le sue opere hanno attraversato una nuova stagione di notorietà e sono state tradotte in diverse lingue. Nelle sue opere ha raccontato, con una commiserazione pervasa di ribellione, la società maschilista dell’epoca, la subalternità dell’universo femminile nella società dell’epoca in Sicilia, quale era fino agli anni della seconda guerra mondiale. Ha decritto diversi temi come quello della gelosia, dell’adulterio, dei maltrattamenti, dell’abuso sessuale, dei pregiudizi, dei costumi, delle contraddizioni, della religiosità.
Nei suoi lavori Maria Messina ha evidenziato anche l’isolamento e la percezione di un destino avverso, a cui non ci si può ribellare, che non dà ai “vinti” la possibilità di evasione e di liberazione in una società dove le regole sono stabilite da sempre.


Il libro di Filippo Giordano si sofferma sugli avvenimenti che hanno legato il nome di Maria Messina a Mistretta: dall’istituzione del Premio Letterario a lei intestato alla intitolazione di una strada comunale, all’assegnazione della cittadinanza onoraria alla scrittrice, al reperimento delle sue spoglie mortali e alla traslazione delle stesse presso il cimitero monumentale di Mistretta.
Filippo Giordano, nella sua attività di poeta, di scrittore e di ricercatore, nell’ampia raccolta dei suoi scritti ha abbracciato l’intero arco di una vita, dalle primizie di luce della giovinezza all’imbrunire del tramonto, dipingendo i colori, restituendo gli umori e i sapori della sua terra natia, ritraendo i personaggi più caratteristici, spaziando dall’ironia, alla levità poetica, all’indagine gnoseologica offrendo un quadro completo della propria personale esperienza di umana vicissitudine.
Caro Filippo, i commenti elogiativi e gli apprezzamenti sono meritati e tantissimi!
Ti auguro di continuare a seguire la SCIA della scrittura ampliando e arricchendo di nuove conoscenze le menti dei tuoi paesani di Mistretta.

 

 

 

Apr 4, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LA CYMBALARIA MURALIS APPOGGIATA AL MURO DELLA VILLA “DELLE PALME” A PALERMO

LA CYMBALARIA MURALIS APPOGGIATA AL MURO DELLA VILLA “DELLE PALME” A PALERMO

Ho osservato questa pianta appoggiata ad un muretto nella villa “Delle Palme” accanto allo stadio comunale “Renzo Barbera” a Palermo.
E’ la CYMBALARIA MURALIS.
Osservare questa pianta fiorita per me è stato motivo di ammirazione perchè la Natura sa essere sempre incantevole!

Tanti sono i sinonimi della Cymbalaria muralis: “Ciombolino comune, Erba piattella, Erba tondella, Linaria muralis, Parrucca, Cimbalaria, Palomilla de muro“.
Il Genere “Cymbalaria” comprende una decina di specie alcune delle quali sono spontanee.
La specie più diffusa è la “Cymbalaria muralis”.
I primi studiosi  a classificare e a descrivere questa specie furono i botanici e naturalisti tedeschi Philipp Gottfried Gaertner, Bernhard Meyer, Johannes Scherbius.
Etimologicamente, il termine del genere “Cymbalaria” deriva dal greco “κύμβαλον” “cembalo”, in riferimento allo strumento musicale cavo, molto simile a un tamburo, in analogia con la forma concava delle foglie della pianta.
Il termine della specie “muralis” deriva dal latino “murus” “muro” , in riferimento al suo habiat naturale poichè ama appoggiarsi ai muri.
La Cymbalaria muralis, appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae, è una pianta comune che ha origine in Africa, in America, in Asia, in Australia, in Europa.
In Italia è diffusa in quasi tutte le regioni, isole comprese.
Evidentemente, essendo una pianta piuttosto comune, è diffusa in tutto il pianeta Terra.

La Cymbalaria muralis è una piantina erbacea perenne che si salda al terreno mediante un apparato radicale poco sviluppato che permette ad essa di cresce nelle fessure di muri e negli anfratti rocciosi molto umidi.

Dalla radice emerge la parte aerea formata da sottili fusti glabri, esili, striscianti, legnosi, lunghi fino a 60 cm, di colore verde alla base e di colore rosso porpora nella parte apicale e provvisti di ventose.
Proprio per questa caratteristica dei fusti, che si insinuano tra gli anfratti dei muri, per questa particolare forma pendente, questa specie è stata usata dai giardinieri per creare vasi sospesi nelle ville come avviene nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.
Le foglie, portate da un picciolo, di forma reniforme – palmata, le superiori alterne, le inferiori opposte, glabre e carnose, di colore verde lucente nella pagina superiore e rossastre sulla pagina inferiore, sono munite di stoloni, che permettono alla pianta di arrampicarsi.

La “Cymbalaria muralis” produce bellissimi piccoli fiorellini ermafroditi, zigomorfi, solitari o appaiati all’ascella delle foglie.
Il calice, gamosepalo, glabro o debolmente peloso, è diviso in 4 lobi lanceolati-lineari, acuti.
La corolla, gamopetala, trilobata, ha i piccoli petali di colore viola e mostra due prominenze, tinte di un bel colore giallo, nella parte inferiore della fauce.
Queste prominenze sono il punto d’appoggio degli insetti visitatori per aprire il fiore e per penetrare nel suo interno dove è gelosamente custodito il nettare col quale la pianta li ricompensa del loro servizio di impollinazione, di fondamentale importanza per la conservazione della specie.
Il fiore, soggetto al  fototropismo, prima dell’impollinazione si muove verso la luce, come il Girasole.
Quindi, si sposta al riparo dentro le fessure del muro.
La fioritura è molto lunga. I fiori fioriscono generalmente da marzo ad ottobre.


Dopo l’impollinazione, compiuta da piccoli ditteri, coleotteri e formiche, il peduncolo del fiore si allunga, s’incurva e porta in basso l’ovario, sotto le foglie, in cerca di un nascondiglio ove porre al sicuro i frutti.
Sul muro si vedono qua e là tenue righe d’argento. Ciò significa che esso è stato attraversato dalle lumache le quali, involontariamente, rendono un grande servizio alla Cymbalaria muralis  perché trasportano i semi che si sono appiccicati al loro corpo coperto di mucillagine.
Il  frutto è una piccola bacca nera, glabra, globosa, deiscente, con 3 aperture alla sommità, che ospita i piccolissimi semi scuri, ovoidi, rugosi e crestati.

Dopo la fioritura, i peduncoli che portano i frutti crescono si allungano per agevolare la dispersione dei semi tra le fessure dei muri e delle rocce.
La riproduzione avviene per seme e per stolone.
La Cimbalaria muralis è una pianta spontanea, però può essere coltivata nei giardini a scopo ornamentale o nei vasi che abbelliscono le abitazioni dei privati.
Gli Habitat della Cimbalaria muralis sono: i muri, le rocce, le zone ruderali,  i margini dei boschi.
Cresce facilmente e velocemente prediligendo i luoghi semi-ombrosi o poco soleggiati a quote comprese tra 0 -1500 metri sul livello del mare adattandosi a tutti i tipi di terreni, anche se preferisce quelli non calcarei, sciolti e ben drenati.
Si accontenta di poca acqua, quella che cade dal cielo, ma il terreno deve essere sempre umido.
Pertanto, nelle piante coltivate, le annaffiature devono essere regolari e costanti soprattutto in estate e nei periodi di prolungata siccità.
Per favorire la fioritura e l’emissione di nuovi getti a fine inverno è bene somministrare del concime organico a lenta cessione.
Per quanto riguarda le malattie e i parassiti la pianta è resistente e non viene attaccata da parassiti e non è affetta da malattie fungine.
Nella medicina popolare si usava la pianta fresca raccogliendo le foglie nel periodo da marzo ad ottobre recidendo pochi rami per ogni pianta in modo da non danneggiarla.
Per i principi attivi contenuti, tannini e mucillagini, gli infusi delle foglie sembra che abbiano doti lenitive per curare le infiammazioni emorroidali e della pelle e per fare cicatrizzare le ferite.
I fiori sono diuretici e facilitano l’emissione dell’urina.
Dalla radice è possibile ricavarne un colorante rosso.
In India pare che la pianta venga usata per curare il diabete.
Queste applicazioni farmaceutiche sono indicate solo a scopo informativo.
E’ sempre necessario il consiglio del proprio medico.
La Cymbalaria muralis è usata anche in cucina, ma con moderazione, perché le foglie sono leggermente tossiche.
La quantità usata deve essere limitata.
Esse si prestano per impreziosire le insalate perchè hanno un gusto acre e pungente.
Nel linguaggio dei fiori la “Cymbalaria muralis” indica “affetto, fratellanza, amicizia”.

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