Nov 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on PER RICORDARE SALVATORE E CARMELO DE CARO, PADRE E FIGLIO

PER RICORDARE SALVATORE E CARMELO DE CARO, PADRE E FIGLIO

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Ogni anno il calendario ripropone ricorrenze che vengono celebrate con gioia o con tristezza. Il 2 novembre, secondo la Chiesa Cattolica Romana, ricorre la Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum, cioè la Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti, di quelle anime che sono ritornate alla casa del Padre. Per i parenti è un giorno di grande fede nel quale il dolore per la morte dei propri cari è sostenuto dalla speranza cristiana. Da Cristo Gesù loro hanno ricevuto la vita eterna passando dalla morte terrena alla vita immortale. Infatti Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno” (Gv. 5, 24-25).
A Marta, che piangeva per la morte del fratello Lazzaro, Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;  chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” Gli rispose:”Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio che deve venire nel mondo”  (Gv. 11, 25 -27).
In questo giorno di commemorazione è obbligatorio andare al cimitero per visitare le persone care, per deporre sulla loro tomba fiori e ceri accesi, per assistere alla funzione religiosa a beneficio di tutti i defunti.
In questo triste giorno desidero commemorare Salvatore e Carmelo De Caro, padre e figlio, che sono state per me due persone molto importanti. Voglio ricordarli a tutti coloro che li hanno conosciuti in vita.
Voglio ricordare la figura di Salvatore De Caro non a chi visse la sua epoca, perché sono trascorsi tanti anni, oltre un secolo, ma a chi forse non ne ha sentito parlare perché troppo giovane.
Salvatore De Caro nacque a Licata il 13 settembre del 1904. Nono di quindici figli, Salvatore nacque in piena “belle époque“.
Periodo d’oro per la città di Licata poiché una borghesia illuminata e sensibile al gusto estetico promuove e incoraggia le manifestazioni artistiche. Dopo il periodo scolastico, trascorse gli anni dell’adolescenza nel laboratorio artigianale ebanistico del padre, in via Frangipane, dove si dedicò precocemente alle arti figurative. Del 1922 è un suo autoritratto che colpisce l’osservatore per la sapienza del tratto e per il gioco delle luci.

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Per le arti è un periodo di intensa, febbrile attività di ricerche e di scoperte; gli echi delle nuove correnti artistiche arrivano fin quaggiù e il giovane Salvatore ne è coinvolto. Gli è da stimolo l’atmosfera, ricca di fervida attività, della bottega del padre ove già dipingono tre fratelli maggiori. Vi si realizzano lavori come altari in legno, sontuosi addobbi in uso allora per le chiese nei giorni di festa, e vi si organizzano in tutti i dettagli festeggiamenti religiosi e civili. E ai fratelli De Caro si rivolge l’emergente borghesia locale che vuole le proprie case decorate nel nuovo stile che conquista l’Europa: il Liberty.
Collaborando per parecchi anni con una rivista dell’epoca, “L’Artista Moderno“, Salvatore De Caro evolve il suo modo di concepire l’espressione artistica di provincia non più limitandosi al semplice lavoro artigianale. Negli anni della maturità, dopo varie esperienze che lo portano anche volontario in Africa Orientale, si dedica alla decorazione e al restauro di molte chiese di Licata e dei paesi vicini: dagli affreschi e oli, alla progettazione di altari e pulpiti, agli stucchi, all’applicazione dell’oro zecchino.

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Adotta le tecniche dei grandi maestri apprendendole da libri e da riviste. Si prepara il “mordente“, una colla speciale, per l’applicazione dell’oro zecchino in fogli mediante una formula di sua invenzione, che non rivela a nessuno poiché non ha seguaci a cui insegnare.
E’ l’ultimo decoratore che, senza travisare o distorcere lo stile originario, rifinisce molte decorazioni chiesastiche rimaste incomplete in epoche precedenti. Subito dopo si afferma il concetto di restauro conservativo che limita drasticamente gli interventi sui beni artistici e monumentali.

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Nella foto Salvatore De Caro con il vescovo di Agrigento, mons. Lauricella, mentre viene consacrato un nuovo Altare da lui progettato.
E’ sulle tele, prodotte in gran numero tra gli anni ’40 e ’60, che si può meglio leggere la sua personalità.
Nella sua pittura rifiuta le nuove correnti contemporanee restando legato al figurativo, ma riuscendo a trasfondere sulla tela uno studio di costume, fatto, a volte, in chiave di sottile ironia, e una grande ammirazione per la Natura e per la figura umana che definisce “la più alta creazione di Dio“.

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All’apparenza i suoi paesaggi sono sereni e pacati: vi affiora la commozione sempre viva per la bellezza delle marine e delle campagne della sua Licata, ma non può sfuggire, ad un attento esame, la presenza di una forza creativa a volte travagliata e insoddisfatta, a volte momentaneamente appagata nella contemplazione profondamente riflessiva del soggetto.

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E’ al suo unico figlio Carmelo, autore del libro “Sintiti, Sintiti”, che il papà Salvatore trasmette l’amore per l’arte, per la Natura, per il bello estetico.
Negli ultimi anni della sua vita Salvatore De Caro ha intrapreso l’attività di architetto e di costruttore di tombe gentilizie nei cimiteri di Marianello e dei Cappuccini. Ma, nel pieno della sua maturità artistica, il 22 maggio del 1969, a soli 64 anni, l’artista Salvatore De Caro muore a Licata colpito da infarto.

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 Sul suo tavolo di lavoro sono rimasti incompiuti numerosi progetti, bozzetti, schizzi che non vedranno mai la luce.

 

CARMELO DE CARO, come è stato descritto  dagli amici nel suo libro “Sintiti, Sintiti” ,pubblicato dalla moglie  Nella Seminara dopo la sua prematura scomparsa.

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 Chi ha conosciuto Carmelo De Caro ne ricorda sicuramente lo sguardo acuto, vivo.
Non era necessario porgli domande. Le risposte giungevano rapide e sicure. Si trattasse di un problema matematico o di un argomento di scienze o di tecnica, non c’erano dubbi. La soluzione era pronta, a portata di mano.
Se poi si trattava di didattica o, in specie, di didattica della matematica per i preadolescenti delle medie o gli adolescenti delle superiori, ancora meglio: metodologia chiara, operativa, senza fronzoli, essenziale ed efficace.
Se, infine, si faceva scienza, le ricerche sul campo, il laboratorio, gli esperimenti, le immagini, le videocassette, l’elaboratore.
Un docente amabile ed amato, capace, di spessore, e sensibile, eccezionalmente sensibile: i ragazzi e le ragazze, anche se a volte difficili, lo apprezzavano, lo rispettavano, gli volevano un mondo di bene. E il suo rigore e il suo essere esigente, preciso, puntuale, senza sconti, non pesavano: compensavano con la disponibilità e la comprensione.
Sapevo di Carmelo De Caro docente. Sapevo di lui uomo pulito, aperto, ambientalista senza schemi, sportivo leale e curioso, appassionato di archeologia e di mare, sempre attento ai fatti scientifici e sociali, perché le scienze sono e non possono non essere che al servizio della società e dell’umanità.
Scopro ora, a distanza di anni, che era anche poeta e narratore, giovane che si fa adulto e avvia una riflessione, che è un misto di speranza e il contrario di essa, su se stesso, sulla sua vita, sulla coscienza del suo stato.
Lo scopriranno con piacere i tanti amici che si troveranno tra le mani il libro “Sintiti, Sintiti”,

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e anche quanti si avvicineranno per la prima volta a questa figura semplice, lineare, ma versatile, dagli orizzonti mai chiusi.
Carmelo De Caro soffriva fisicamente, ma combatteva la sofferenza con l’intelligenza, con il cuore, con l’amore grande per la vita.
Non si rassegnava, reagiva: Mandami il dolore, / L’abbraccerò, compagno / di viaggio inseparabile”.
Si apriva a Nella, la moglie affettuosa, agli amici cari, ma senza lamenti, con il sorriso, e lanciava proposte, iniziative, progetti.
Nei momenti di stanchezza scandiva il ” lento fluire del tempo” e chiedeva alla luna di accendere le stelle: bianca, tersa, vecchia luna, / accendi stasera tutte le stelle, / voglio il cielo in abito da sera”.
Guardava le pietre provate da mille temperiee si desiderava comunissimo passero che  “ saltella di tegola in tegola”.
Si vedeva, infine,”là dove riposa cullato dalle morbide ombre avvolgenti/ del falso pepe il padre di mio padre”.
Leggere le righe che Carmelo De Caro non ha avuto modo di rivedere, e che vedono ora la luce, è un tornare indietro nel tempo, ma anche un muoversi in avanti. Ricordare è anche vivere e, attraverso queste righe di poeta e narratore di polso impegnato a maturare la sua esperienza, riviviamo una stagione che è anche nostra e che può essere di tutti: una stagione di sofferenza, ma anche di amore, intelligenza, volontà di essere uomini fino in fondo.

Grazie, Carmelo.
Carmelo Incorvaia  Già dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “A. Bonsignore” di Licata

L’Associazione Archeologica Licatese, partecipa al commosso ricordo che, attraverso la pubblicazione di questi scritti, la moglie rivolge a Carmelo a tre anni dalla prematura scomparsa.
Rimangono vivi nella mia memoria la lunga frequentazione iniziata in seno all’Associazione e il rapporto di cordiale amicizia che si instaurò immediatamente e che rimase sempre reciprocamente vivo.
La passione per lo sport subacqueo aveva avvicinato Carmelo e il Centro Attività Subacquee, di cui era presidente, all’archeologia sottomarina e a instaurare l’appassionata collaborazione con l’Associazione Archeologica Licatese per la valorizzazione del patrimonio culturale licatese.

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Nella foto da sx: Roberto Alaimo, Carmelo De Caro, matteo Re

L’insorgere prima e il progredire successivamente della malattia lo costrinsero ad abbandonare anzitempo lo sport a lui tanto caro e a dedicarsi con impegno all’Associazione collaborando intensamente a tutte le sue attività, soprattutto a quelle rivolte alla realizzazione del nuovo Museo Archeologico nella nostra città.
Chi ha avuto modo di frequentarlo, in tutti quegli anni, ne ricorda l’impegno e la generosità, come quelli profusi per l’avvio della Cooperativa Alicata, fondata all’interno dell’Associazione con la finalità di dare un futuro ai soci più giovani privi di lavoro, e di cui fu il primo, disinteressato, presidente.
Ma non solo in questo fu d’esempio a tutti coloro che lo frequentarono: lunghi anni di sofferenze sempre più gravi ed evidenti, non spensero in Carmelo la disponibilità verso gli altri e non ne fecero neanche una vittima della vita, da commiserare. Una sofferenza vissuta all’interno, la sua, mai fatta pesare sugli altri. La sua forza interiore ritengo che sia stata un grande insegnamento per tutti coloro che lo conobbero: non un lamento, non un segno di vana ribellione contro un destino certamente non generoso, uscì mai dalle sue labbra.
Desidero sottolineare, degli scritti di Carmelo, l’aspetto intimistico delle poesie, forse neanche concepite per la pubblicazione, e quello invece didascalico dei racconti, che nascono, oltre che per il diletto personale, proprio con l’intento di raccogliere e tramandare credenze, fatti e personaggi popolari: “A trovatura”, “Sintiti! Sintiti”, “Michelangelo”, “Mastro Cola e lo zolfo”, hanno le loro radici nel passato di questa terra, dalla quale Carmelo è stato orgoglioso di derivare.
Nel leggere le poesie mi ha colpito ritrovare due stesure dello stesso testo, con titoli diversi. La prima stesura, con il titolo “Il muro”, datata ottobre1996, composta per la morte della cugina Danila. La seconda stesura, con poche variazioni, datata maggio 2000, e intitolato “Mondo di silenzio”. Non so quale necessità abbia spinto Carmelo, a pochi giorni dalla conclusione della sua vita terrena, avvenuta il 22 maggio del 2000, a riprendere quel testo, nel quale, alla rabbia che chiude la sua prima stesura, si sostituisce la disillusione della fine, alla quale si sentiva, probabilmente, ormai vicino.
Pietro Meli  Associazione Archeologica Licatese

 Un filo sottile, ma gentile, lega la tematica di questi versi e racconti: la visione ottimistica del mondo, il sentire cioè oggettivamente una realtà seguita, per ragioni logiche, da altre in modo forte e con una tensione emotiva quasi fanciullesca che spinge l’autore e caro amico verso una luce di bontà ed amore.
Carmelo De Caro, al quale sono legato da profonda stima e grande affetto, lascia, con questi scritti, il suo personale messaggio catartico di assoluta pace e armonia verso questo piccolo mondo.

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L’amore che lo lega alla sua terra, al suo amato paese, è la testimonianza reale di un valore inestimabile e mai fragile: la libertà dei sentimenti.  Angelo Biondi Sindaco della città di Licata

 Carmelo, mio carissimo e indimenticabile amico, tardi, molto tardi ti ho conosciuto!
Questo poco tempo mi è stato sufficiente per conoscere e apprezzare le tue grandi doti di animo e di intelligenza.
Subito ho richiamato alla mia mente il tuo papà, il caro Totò De Caro, apprezzato concittadino licatese per la sua moralità, per la sua arte e la sua genialità.
Tu hai riportato tutte le sue doti di intelligenza e le hai meglio sviluppate servendoti dei mezzi moderni. Hai sviluppato queste doti soprattutto nel tratto umano, nella professione di docente valente e scrupoloso, ancora nell’accoglienza e nel trattare come fratello il ganese Joseph che hai curato, sollevato, assieme alla tua cara Nella, materialmente e moralmente accogliendolo a casa tua.

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Ti guardavo e ti ammiravo quando ti venivo a trovare in casa e mi facevi subito i lavori al computer per il nostro Oratorio e per la nostra Parrocchia. E’ stato il tuo giocattolo preferito, lo manovravi con destrezza e ne ricavavi tanta soddisfazione per le cose meravigliose che ne tiravi fuori. Quando hai cominciato a navigare in Internet, ti sentivi immerso nel Creato, spaziavi a destra e a manca e qui, con la tua grande fede, lodavi il Signore. Carmelo, grande è stata la tua fede.
Fede che ti ha dato sempre coraggio, pazienza, forza, soprattutto nella tua sofferenza sempre crescente e che ti ha accompagnato fino alla fine. Carmelo, ti ricordo così e più ancora porto per sempre con me il tuo sorriso, il tuo sguardo penetrante e il tuo abbraccio nel quale ancora mi sento stretto.

Padre Cologero Bonelli  Tuo Parrocco della parrocchia di Santa Barbara.

 “Se il chicco di frumento caduto a terra non muore, rimane solo, se muore, invece, produce molto frutto”(Giovanni 12,24).
Non si può produrre vita senza dare la propria. La vita è frutto dell’amore e non sgorga se l’amore non è pieno, se non giunge al dono totale. Amare è donarsi senza lesinare, fino a sparire, se necessario, come individuo.
Nella metafora del chicco di frumento che muore in terra, colgo, caro Carmelo, amico mio, tutta la tua vita, la tua sofferenza vissuta e la morte come condizione perchè si liberasse tutta l’energia vitale che contiene. Carmelo, ti ho conosciuto in vita gli ultimi anni della tua sofferenza e adesso conosco ancor più le mille potenzialità che possedevi molte di più di quante ne apparivano. Si, perchè il dono totale della tua vita le ha liberate e con questi tuoi scritti si esercitano in tutta la loro efficacia. Il frutto comincia nello stesso chicco che muore, colgo la tua morte come il culmine di un processo di donazione di te stesso; ultimo atto di una donazione costante a chi ti legge in questi scritti e che sigilla definitivamente la dedizione rendendola irreversibile.

Padre Gaspare Di Vincenzo

Carmelo: amico, fratello, compagno di vita e di avventure. Riunendoci sotto le grandi ali del “Centro Attività Subacquee” di Licata, sei stato il nostro insostituibile coordinatore e maestro insegnandoci i valori dell’amicizia, della cordialità, della lealtà umana e sportiva, guidandoci, con la tua inesauribile volontà e tenacia, a calcare gli scenari dei campi di gara locali, provinciali, regionali e nazionali.

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Cosi come hai vissuto, sei andato via delicatamente, in punta di piedi, lasciandoci orfani del tuo buonsenso e della tua abnegazione, dei tuoi consigli e delle tue esperienze maturate e vissute.
Memori di quanto ci hai insegnato e donato, fraternamente, ti ringraziamo e ti salutiamo con un arrivederci, poiché presto o tardi saremo nuovamente insieme, facendoti inoltre sapere (ma crediamo che tu già lo sappia) che in questa vita terrena rimarrai per sempre nei nostri cuori.
Ci hai semplicemente preceduto in mari più calmi e tranquilli, essendo pioniere della nostra grande famiglia, (speriamo) in una nuova vita eterna e serena.

Matteo Re  Per il gruppo del “Centro Attività Subacquee”

Nella Scuola Media Statale “Antonino Bonsignore”  di Licata il nome del prof. Carmelo De Caro è sempre vivo perché il 15 settembre del 2004 gli è stata intitolata l’aula di informatica e al prof. Vincenzo Rollini la biblioteca dell’Istituto.

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Il ricordo dell’alunna Carmela Grillo Decaro:
 Ho letto l’articolo tutto di un fiato. Un inaspettato tuffo nel passato..in questa domenica sera di questo nuovo e strano anno.
Che meraviglioso ricordo è venuto fuori, mio caro ed indimenticabile prof. Carmelo De Caro!
Io alunna di scuola media e tu un’insegnante come pochi altri. Impeccabile la tua umiltà, memorabile la tua generosità che mettevi a disposizione di tutta la classe, non di meno il tuo ESSERE INSEGNANTE.
Non sapevo della tua dipartita avvenuta cosi prematuramente e così, alla gioia di scoprire che parlavano di te, si è aggiunta l’amara notizia della tua perdita. Ma chi vive nel cuore degli altri non muore mai, prof.
Non morirà mai il ricordo della tua gentilezza, di quel sorriso che si nascondeva dietro ai tuoi grandi occhiali, le nostre chiacchierate durante la ricreazione.
Quanto tempo è passato e quante cose son cambiate dall’ora; oggi ne avrei di cose da raccontarti, di quella scienza che continua a incuriosirmi e a sorprendermi.
Avrò, ancor di più, cura di quei ricordi e del tuo esempio di resilienza che mi hai lasciato.
Grazie mille professoressa Seminara per questo articolo che ha pubblicato e condiviso nella memoria di un Grande Uomo.
Spero accetti il mio forte abbraccio che desidero La raggiunga con tutta la stima che provo.
P.S Accanto ad un Grande Uomo c’e sempre una Grande Donna.
Grazie.Grazie.

 Carmelo De Caro è nato a Licata il 03/01/1945 da una famiglia di artisti, pittori e scultori noti. Città che ha amato e dove ha scelto di vivere e di operare.

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Laureatosi  in Scienze Naturali presso l’Università di Palermo,

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i quattro neolaureati in Scienze Naturali di quella sessione

ha iniziato la sua carriera scolastica all’Istituto Tecnico per Geometri di Agrigento, ha continuato il suo lavoro all’Istituto Magistrale di Casteltermini, ha insegnato per molti anni nella Scuola Media Statale “ Luigi  Milani” di Palma di Montechiaro fermandosi per oltre un ventennio nella Scuola Media Statale “Antonino Bonsignore”, oggi Istituto Comprensivo, di Licata fino al 1996.
E’ stato un professore molto apprezzato per la preparazione culturale, per la disponibilità al dialogo, per la collaborazione e soprattutto per la sua grande umanità.
Innamorato della Natura, del mare innanzitutto, ha praticato per molti anni lo sport subacqueo dirigendo il circolo sportivo “Centro Attività Subacquee”di Licata. Ha costituito e diretto per un lungo periodo anche la Sezione Provinciale FIPS di Agrigento coordinando tutti i circoli sportivi della provincia, partecipando e organizzando gare di pesca di vari tipi a livello provinciale, regionale e nazionale.

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E’ stato anche un attivo e valido collaboratore dell’Associazione Archeologica Licatese per la realizzazione del Museo Archeologico.
Si è impegnato pure nel volontariato collaborando con l’associazione “Centro 3P”, con l’Oratorio e con la  parrocchia di Santa Barbara.
Marito affettuoso, ha saputo instaurare con la moglie un intenso rapporto di stima, fiducia, fratellanza, amicizia, solidarietà e amore.
Sostenuto dalla fede, ha accettato con pazienza e forza la sua sofferenza fisica arrendendosi il 22/5/2000.
E’ sepolto, assieme al papà Salvatore, alla mamma Dorotea Lauria, al cimitero di Marianello a Licata.

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“L’eterno riposo dona loro, o Signore,

e splenda ad essi la luce perpetua.

Riposino in pace. Amen”.

Oct 20, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LE ANIME PURGANTI E LA CHIESA DEL PURGATORIO A MISTRETTA

LE ANIME PURGANTI E LA CHIESA DEL PURGATORIO A MISTRETTA

 

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Che cosa è il Purgatorio?

Il Purgatorio è un elemento importante nella dottrina escatologica della Chiesa cattolica romana secondo la quale il Purgatorio, insieme all’Inferno e al Paradiso, è uno dei luoghi o condizioni ai quali vengono accolte le anime dei defunti.
La dottrina del Purgatorio fu definita esplicitamente nel secondo Concilio di Lione del 1274, in quello di Firenze del 1438 e, infine, nel Concilio di Trento del 1563.
Essa afferma che coloro che muoiono nella Grazia di Dio, pur potendo entrare nella gloria del Cielo, guadagnare il Paradiso e la salvezza eterna, dopo la morte devono essere accolti nel Purgatorio per riparare i lievi peccati commessi in terra. Solo attraverso la purificazione spirituale potranno accedere al Paradiso ed essere in comunione con Dio. Tale purificazione consiste nel sopportare pene simili a quelle infernali con la differenza che, mentre  le pene del Purgatorio sono temporanee, quelle infernali sono eterne.
Nel purgatorio c’è la luce della Speranza Divina che scende dal Paradiso!
Per guadagnare la purificazione, le anime del Purgatorio sono in perenne e incessante preghiera. Infatti, la dottrina cattolica, in suffragio dei defunti, per favorire il loro trasferimento in Paradiso per godere della gloria di Dio Padre Onnipotente, raccomanda ai viventi: la recita della preghiera, la celebrazione delle Sante Messe  e le indulgenze.
Le preghiere dei viventi in favore dei morti salgono al Cielo, muovono la misericordia di Dio diminuendo il tempo di permanenza delle loro anime nel Purgatorio. La preghiera più semplice e più frequente è l’Eterno Riposo:

“L’eterno riposo dona loro, o Signore,

e splenda ad essi la luce perpetua.

Riposino in pace. Amen”.

 Libera le anime purganti anche la lettura del  Salmo 129 (130, 1-8) Canto di pentimento

Canto delle ascensioni

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia preghiera.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi potrà sussistere?
Ma presso di te è il perdono;
così avremo il tuo timore.

Io spero nel Signore,

l’anima mia spera nella sua parola.
L’anima mia attende il Signore
più che le sentinelle all’aurora.

Israele attenda il Signore,
perché presso il Signore è la misericordia
e grande presso di lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

E’ il canto alla misericordia divina e alla riconciliazione tra il peccatore e il Signore, il Dio giusto, ma sempre pronto a svelarsi  “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà”.

Un’altra preghiera in suffragio di tutti i defunti è:

O Dio, onnipotente ed eterno,

 Signore dei vivi e dei morti,

 pieno di misericordia verso tutte le tue creature,

concedi il perdono e la pace a tutti i nostri fratelli defunti,

perché immersi nella tua beatitudine

ti lodino senza fine.

Per Cristo nostro Signore.

Amen.”

E anche la preghiera:

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 Oltre alla preghiera, un efficace suffragio per le anime del Purgatorio è la  partecipazione alla Santa Messa.

Già San Tommaso, tre secoli prima che si pronunciasse il Concilio di Trento, aveva scritto che la Messa è la migliore offerta a Dio per liberare le anime dei defunti che soffrono in Purgatorio: “Le Anime del Purgatorio sono sollevate dai suffragi dei fedeli, ma soprattutto dal prezioso sacrificio dell’altare”.
Anche
San Gregorio, in suffragio dei defunti, ha esaltato il Sacrificio Eucaristico. L’introduzione della pia pratica delle messe gregoriane, celebrate in continuità per trenta giorni dopo la morte del defunto, si deve a San Gregorio. Sono i familiari, assieme al sacerdote, che pregano ogni giorno per un mese per l’anima del caro estinto.
Le indulgenze, sebbene siano delle elargizioni gratuite, tuttavia sono concesse ai vivi e ai defunti solo a determinate condizioni: “che il fedele ami Dio, allontani il peccato, ponga la sua fiducia nei meriti di Cristo e creda fermamente nel grande aiuto proveniente dalla comunione dei Santi”.
Il tema sulle indulgenze il primo gennaio del 1967 è stato trasformato dal Papa Paolo VI che ha proclamato la nuova Costituzione Apostolica “Indulgentiarum Doctrina”. Un criterio fondamentale contenuto nella Costituzione “Jndulgentiarum Doctrina” recita: “Il fine che l‘Autorità ecclesiastica si propone nella elargizione delle indulgenze è non solo di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingere gli stessi a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e al bene comune”.
La dottrina della Chiesa, che presuppone l’immortalità dell’anima e la resurrezione dei corpi, ha la sua fede nel Purgatorio, come si riscontra in alcuni testi patristici.
Nel Pastore di Erma, un testo del II secolo, vi sono chiari ed espliciti riferimenti ad uno stato, successivo alla morte terrena, in cui l’anima del defunto deve necessariamente purificarsi prima di entrare nel regno del Paradiso. Per la Chiesa, quindi, il Purgatorio ha la funzione di riflessione, di pentimento, di espiazione per l’anima del defunto che aspira alla redenzione. E’ la purificazione degli eletti.
Nel Nuovo Testamento, nel Vangelo secondo  Matteo (12, 31-32) si legge: “Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.” In questi versetti di Matteo San Gregorio Magno intravede un accenno alla purificazione dopo la morte.
La dottrina del Purgatorio viene giustificata anche dalle parole dell’apostolo Paolo nella lettera prima ai Corinzi (3,11-15): “ Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da  quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce  con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento  resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”.
Dante Alighieri, il sommo poeta della Divina Commedia, descrive il viaggio nell’oltretomba accompagnato da Virgilio.
Dante e Virgilio arrivano nel Purgatorio attraverso la “natural burella” che parte dal centro della terra, cioè dall’Inferno, e che lo congiunge con l’emisfero australe su cui, sola in mezzo alle acque, si erge la montagna del Purgatorio. Qui si soffermano prima sulla spiaggia, custodita da Catone, poi nell’Antipurgatorio dove le anime dei negligenti attendono di poter iniziare la loro espiazione. Infine superano la porta del Purgatorio e iniziano la salita della montagna.
Il Purgatorio è diviso in sette cornici.
Sulla prima cornice espiano le anime dei superbi appesantiti da enormi massi. Il peso che sono costrette a portare corrisponde all’alterigia della loro condotta: qui sono chine nello sforzo di sostenerlo, mentre in vita stavano diritte e a testa alta. Camminando recitano il Padre Nostro.
Sulla seconda cornice espiano le anime degli invidiosi che tengono gli occhi cuciti dal fil di ferro per significare lo sguardo carico d’invidia verso il prossimo.
Sulla terza cornice espiano le anime degli iracondi. Camminano immerse in un denso fumo, simbolo dell’ira che  acceca le capacità intellettuali.
Sulla quarta cornice espiano le anime degli accidiosi. Corrono senza tregua, per contrasto alla pigrizia nell’amore per i beni spirituali.
Sulla quinta cornice espiano insieme le anime degli avari e prodighi. Giacciono in terra con mani e piedi legati. Durante la loro vita non si rivolsero mai ai beni celesti, ma esclusivamente ai beni terreni. Ora sono costrette a guardare a terra. Poichè non operarono il bene sulla terra, hanno le mani legate, quelle che maneggiavano i denari. I piedi sono legati per costringerle all’immobilità.
I penitenti della sesta cornice sono le anime dei golosi. Corrono senza sosta sotto alberi carichi di frutta e sulle rive di limpidi ruscelli che, però, non possono toccare. Sono magre, affamate e assetate.
Nella settima cornice si trovano le anime dei lussuriosi.  Camminano nel fuoco, simbolo di amore e di lussuria. Sono divise in due schiere: quelle che hanno peccato di amore secondo natura e quelle che hanno peccato di sodomia. Quando  le due schiere di penitenti s’incontrano, si scambiano un casto bacio sulla rapidità del quale Dante pone particolarmente l’accento.
In ogni cornice Dante e Virgilio incontrano un angelo.
Superato il muro di fiamme, Dante e Virgilio incontrano un altro angelo che li invita a salire cantando Venite, benedicti patris mei.  Sta a guardia del Paradiso terrestre, là dove giungono le anime che hanno compiuto l’espiazione dei loro peccati nel Purgatorio. Qui scorrono due fiumi: il Lete, che toglie la memoria del male commesso, e l’Eunoè, che rinnova la memoria del bene compiuto. Le anime bevono le loro acque scortate da Matelda, allegoria dello stato d’innocenza dell’uomo prima del peccato originale, purificandosi prima di accedere finalmente in Paradiso.

LA CHIESA DELLE ANIME PURGANTI A MISTRETTA

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La chiesa delle Anime Purganti si trova nel centro di Mistretta, all’inizio di via Libertà, molto vicina  alla chiesa della SS.ma Trinità, meglio  conosciuta come la chiesa di San Vincenzo. L’edificazione della chiesa delle Anime Purganti risale al 1669 come si legge sul portale principale dove è incisa questa data.

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Il portale è molto caratteristico perché in alto si notano quattro statue in bassorilievo, due a sinistra e due a destra, due delle quali con le mani giunte in atteggiamento orante e altre due con la mano poggiata sul cuore. La loro espressione evidenzia il terrore con cui i mistrettesi guardavano alla morte e alla punizione divina.

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 Sopra la chiave di volta quattro volti scheletriti ricordano ancora la Morte.

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L’allegoria delle morte un tempo fu fastigio del portale principale ma è stata rimossa a causa del terremoto del 1967. Adesso è custodita al museo polivalente del palazzo Mastrogiovanni -Tasca.

Allegoria della Morte, un tempo fastigio del portale principale. Rimossa a causa del terremoto (1967) si trova oggi presso il Museo Civico ok.

Il portone ligneo è finemente scolpito.

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 Si accede all’interno della chiesa, sita in via Libertà, tramite alcuni gradini esterni. Un altro ingresso laterale, sempre chiuso, è in via Donizzetti. L’interno è a navata unica.

Interno, vista sulla navata ok

L’arco trionfale e il presbiterio sono affrescati con affreschi risalenti alla prima metà del XVIII secolo.

l'arco trionfale e il presbiterio affrescati, prima metà del XVIII secok.

Presbiter1 io affrescato e Anime deokl Purgatorio, olio su tela, G

9 Interno chiesa purgatorio ok

Importante è l’’altare in pietra, in legno e in oro. La chiesa custodisce affreschi, stucchi risalenti al XVII-XVIII sec. e statue policrome di Santi.
Bellissimi sono gli stucchi  dell’altare di San Gregorio

Altare di S Gregorio, particolare degli stucchi, prima metà del XVIIIok

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Sopra l’altare maggiore, circondato da una cornice di stucco, notevole è la pala di Giuseppe Tomasi da Tortorici che raffigura le anime del Purgatorio salvate dal sangue di Cristo.

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Le statue di stucco, policrome, pensili, poste ai lati dell’altare maggiore, raffigurano i Santi Pietro e Paolo, le altre statue raffigurano Santa Apollonia e Sant’Agata.

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Le altre statue sono: Santa Barbara, Sant’Agnese, Santa Lucia

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Le statue sono opera di Francesco Li Volsi che, per questi suoi lavori, rappresentava l’eccellenza artistica del tempo.
L’altare di Maria SS.ma degli Agonizzanti ospita il dipinto su tela con la cornice di stucco e ai lati le  vergini  Santa Margherita e Sant’Orsola

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Nel frontespizio c’è l’altare di San Gregorio taumaturgo che ospita il quadro di tela, opera del XVII secolo, con  l’immagine di Maria Vergine in mezzo a molti angeli.

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 La tela di San Tommaso d’Aquino

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il Crocefisso ligneo fra le due donne, Maria e la Maddalena, del 1600, opera di Li Volsi, arredano le pareti laterali. Importante è il panneggio del perizoma che cinge i fianchi del Cristo Crocifisso.

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Un inventario del 1750 descrive il SS.mo Crocifisso fatto da legname incarnato alla loghesa. Purtroppo la primitiva incarnatura è stata ricoperta maldestramente con diversi strati di vernice. Entrambe le mani presentano tracce evidenti di reintegrazione.
Nel 2009 il Crocefisso ligneo è stato restaurato dalla restauratrice Elisabetta Carcione di Palermo grazie alla’impegno della Confraternita. Il restauro è stato finanziato dall’ Amministrazione del  Comune di Mistretta, allora diretta dal sindaco avv. Iano Antoci, dal Rotary club di Sant’Agata di Militello e dalla stessa Confraternita.
L’arco trionfale e il presbiterio sono vivacemente dipinti con affreschi databili al decennio 1720-1729 che raffigurano il Giudizio Universale, il Trionfo della Morte, l’Immacolata, la Gloria del Paradiso sulla volta.

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 La chiesa possiede l’organo situato tra due finestre.

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Recentemente la Sovrintendenza ai BB.CC. di Messina ha provveduto a restaurare alcuni affreschi custoditi all’interno della chiesa. La chiesa ha ospitato i vecchi “giganti” che accompagnano la Madonna della Luce, ora trasferiti al palazzo Mastrogiovanni-Tasca.

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La chiesa del Purgatorio, danneggiata dal sisma del 1967, fu riaperta al culto nel 1990 in occasione del bicentenario della parrocchia di “Santa Lucia”. Oggi non più aperta al culto, funge da auditorium dedicato a San Tommaso d’Aquino. Diverse sono state le cause che hanno portato per molti anni alla chiusura della chiesa: la soppressione degli ordini religiosi, la scomparsa della confraternita, ed il terremoto del 1967. Accanto alla chiesa, dove è il museo delle tradizioni silvo-pastorali, c’era il convento dove si svolgevano gli esercizi spirituali.

 

LA CONFRATERNITA DELLA CHIESA DELLE ANIME PURGANTI

La chiesa delle Anime Purganti, governata dalla Confraternita del Purgatorio, probabilmente coetanea della Chiesa, è stata istituita nel sec. XVII dai contadini, ma è stata cancellata nel 1946. Grazie all’impegno dell’arciprete mons. Michele Giordano e alla rivalutazione della stessa Chiesa, la confraternita è ritornata in vita. Regolata da un preciso statuto, impone la preghiera di suffragio per tutti i defunti, dagli iscritti, ai familiari, ai benefattori. La confraternita, come simbolo, su una t-shirt nera porta una croce rossa quasi quadrata.

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 In origine il suo ingente patrimonio comprendeva: terreni, case e rendite censuarie misteriosamente scomparso dall’ufficio del catasto dopo l’ultima guerra. La Confraternita partecipa alla processione del Corpus Domini, a quella dei Misteri della Passione del Venerdì Santo, trasportando la statua del Cristo sulla Croce, e a quella della processione della Madonna della Luce.

Oct 13, 2016 - Senza categoria    Comments Off on ALCUNI PRODOTTI GASTRONOMICI LOCALI DI MISTRETTA

ALCUNI PRODOTTI GASTRONOMICI LOCALI DI MISTRETTA

 

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A Mistretta oltre alla presenza di artisti, scultori della pietra e del legno, un’altra forma di cultura artistica è la gastronomia che racchiude nei sapori e nei profumi la genuinità, la semplicità e la ricchezza dei prodotti tipici locali. Dai primi piatti, ai dolci, ai formaggi, alle carni, all’olio d’oliva essa riesce a soddisfare i palati più esigenti grazie anche all’uso degli aromi che la Natura elargisce spontaneamente in questa zona nebroidea quali: il finocchietto selvatico, l’origano, l’alloro, le verdure e i funghi spontanei. E’ stata presentata a Milano la piramide dei prodotti alimentari dei Nebrodi. La dott.ssa Lo Prinzi, durante la manifestazione, così si è espressa: “Orgogliosa di questo lavoro che rappresenta e indica la strada verso la salute e il benessere comune!  Orgogliosa del mio territorio e della mia Mistretta!

 Molto apprezzati sono soprattutto i dolci prodotti a Mistretta e realizzati da pasticcieri o da persone capaci che sanno produrre queste piccole opere d’arte.

La regina dei dolci è la “pasta reale”, un caratteristico ed elegante dolce tipico della produzione amastratina. Preparato con la squisita pasta di mandorle, il dolce poggia su una base di pasta frolla sulla quale sono sovrapposte le figure rigorosamente modellate a mano. Il dolce è di colore bianco come la neve perchè si fa cuocere pochi minuti dentro il forno e si cosparge di zucchero a velo. Il delicato profumo, per l’aggiunta di qualche chiodo di garofano, esalta la fragranza delle mandorle.

La bontà dell’antica ricetta e la bravura del pasticcere si esprimono nella fantasia delle forme sagomate dalle sue mani. Piccoli fiori, rose, foglie, grappoli d’uva, sono le forme più frequenti.

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In ogni festa di matrimonio, di battesimo, di comunione, di cresima, di laurea, di compleanno la tavola è sempre imbandita e arricchita dal vassoio di pasta reale messo bene in evidenza.

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Lucia Lorello ha inaugurato la sala da ballo “BAILAMOS” a Mistretta in Via Anna Salamone,11

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La pasta reale è un’attrattiva per i turisti che ne comprano grandi vassoi che regalano ad amici e parenti come souvenir.

Anticamente la produzione della pasta reale alimentava una consistente attività artigianale insieme alla produzione di altre specialità come “gli scattati, i napuli, i vucciddati, i cannoli”.

  I napuli e gli scattati sono dolci che si preparano con le amigdale delle mandorle tritate e bene amalgamate con altri aromi naturali.

L’impasto di mandorle per i “napuli” è modellato in barocche figure di rami che il forno a legna cuoce.

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Gli scattati si preparano con lo stesso impasto in forma di cialda rotonda spessa circa un centimetro e larga circa 10 centimetri e dal gradevole odore di vaniglia e cannella.

I “torroncini” sono di forma conica e l’impasto di mandorle, nocciole, farina e zucchero è grossolanamente tritato e meno raffinato.

Questi dolci apparivano frequentemente durante la festa nuziale, quando l’evento del matrimonio si festeggiava in casa.  Una donna, esperta nell’arte dolciaria, regolarmente ricompensata, già qualche mese prima del matrimonio era accolta in una delle case dei fidanzati, in genere in quella della futura sposa, per preparare questi dolci tipici. Un vassoio contenente tutti i tipi di dolci, secondo il numero dei componenti, tramite un ragazzo staffetta, consegnato in casa di una tal famiglia, era l’invito di partecipazione al matrimonio. Oggi il vassoio di dolci è stato sostituito dalla partecipazione scritta. Ancora oggi, dove si festeggia un matrimonio, un battesimo, un compleanno, una comunione, una cresima, una laurea il vassoio di pasta reale abbellisce sempre la tavola imbandita.

I ricciolini sono dolci di mandorla, buonissimi che, per la particola lavorazione, assumono la forma arricciata.

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Non mancano i dolci specifici di alcune festività religiose. “I vucciddati” sono dolci prettamente natalizi. Si realizzano usando un impasto di farina riempito di pasta di fichi, a cui si dona la forma di rametti, o riempiti all’interno di pasta reale, a cui si dona la forma di semisfere.

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I varate“ sono dei grandi dolci caratteristici che si preparano nel periodo attorno alla Santa Pasqua. Sono preparati come i biscotti usando un impasto di farina, di strutto e di uova. Si modellano a mano conferendo le forme più varie: a cestino, a rametti, a maschera.

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L’agnello pasquale è il dolce più moderno che sostituisce “i varate“.

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La frutta martorana è il dolce che si offre soprattutto ai bambini durante la ricorrenza dei Morti. L’impasto base è la pasta di mandorle finemente tritate, modellata secondo le forme della frutta colorata con i colori più svariati.

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Un altro prodotto conosciuto a Mistretta è la “Cuccia”, il frumento bollito che si consuma per devozione esclusivamente il 13 dicembre, data della ricorrenza del martirio di Santa Lucia. Quel giorno sono banditi dalla tavola dei mistrettesi tutti gli alimenti che contengono carboidrati: pane, pasta, biscotti e si mangia solo la cuccia accompagnata da legumi e da verdure.

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 Una leggenda racconta che nel 1646 la Sicilia, e la città di Siracusa in particolare, durante la dominazione spagnola furono colpite da una grave carestia. Il popolo siciliano, lungamente provato dalla fame, sperando nella provvidenza divina e invocando Santa Lucia, vide giungere nel porto di Siracusa per alcuni, nel porto di Palermo per altri, una nave carica di frumento che affondò. Quel prezioso carico, fuoriuscito dalla stiva della nave, ben presto si allargò nel mare e le onde lo trasportarono fino a riva. La gente ne ha potuto prendere in gran quantità e, poiché era necessario molto tempo per trasformare il grano in farina e in pane, mangiò direttamente il frumento già macerato dalla permanenza in acqua.

Secondo un’altra narrazione la tradizione popolare racconta che, appena il grano fu scaricato nel porto di Siracusa, la gente dispose le caldaie nelle piazze, bollì il prezioso alimento e lo distribuì. Il frumento bollito da allora si chiama “cuccia” da “còcciu” “cosa piccola, chicco”.

Il piatto originale è la cuccia condita con un pizzico di sale e con un filo d’olio d’oliva. Oggi la cuccia è un dolce perché si condisce con la crema al cioccolato, con la crema di ricotta fresca, col vino cotto, con pezzi di cannella e di frutta candita, con granelli di pistacchio, col miele, col latte.

 L’uso di mangiare la cuccia nella ricorrenza della festa di Santa Lucia probabilmente era collegato alla festa di Cerere per la raccolta del grano. Nella tradizione cristiana la festa alla dea Cerere, divinità pagana, è stata sostituita da quella a Santa Lucia con l’usanza di mangiare la “cuccia”, il grano di nuova raccolta.  Una certa iconografia raffigura la Santa che sostiene un mazzo di spighe e un vassoio dove sono appoggiati gli occhi. A volte il vassoio reca una fiaccola, ed è per questo motivo che viene accostata alla dea greca Demetra o alla romana Cerere rappresentate con un mazzo di spighe e con una fiaccola.

 I prodotti alimentari trovano la loro massima espressione in quelli caseari. Mistretta, città dall’antica tradizione di pastorizia, ma che oggi sta attraversando un periodo di grande crisi perché sono cambiate le leggi europee riferite ai metodi di produzione e alla riduzione dei benefici contributivi, fondava la sua economia sull’allevamento degli animali e sulla realizzazione dei prodotti caseari.

La lavorazione del latte, per la preparazione dei formaggi, della ricotta e della provola, seguiva un procedimento tradizionale, antico da millenni. La produzione di questi prodotti oggi è diminuita e scrupolosamente controllata soprattutto da un punto di vista igienico-sanitario. Pertanto non tutte le aziende zootecniche presenti nel territorio si sono potute adeguare alle nuove disposizioni di legge.

Elemento d’eccellenza fra i formaggi è stato ed è la Provola dei Nebrodi, formaggio a pasta filata dalla caratteristica forma a pera, sormontata da un breve collo con la testa a palla, e dal peso variabile tra i 1000 e 15000 grammi, che si produce essenzialmente in primavera usando il latte crudo fresco delle mucche che pascolano nei vasti terreni dell’agro di Mistretta coagulato col caglio d’agnello o di capretto. Nei pascoli naturali e incontaminati dei Nebrodi si trova un felice assortimento di diverse essenze odorose, foraggere, spontanee dell’ambiente mediterraneo che conferiscono al formaggio peculiari aromi e sapori.

La provola dei Nebrodi è inclusa nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) stilato dal ministero delle politiche agricole e forestali (Mipaaf) ed è compresa fra i presidi di Slow Food.

La crosta è sottile, liscia e lucida, di colore giallo tendente al giallo ambrato con l’avanzare della stagionatura. La pasta è omogenea, compatta, di colore giallo paglierino, semidura, che si indurisce  se non si mangia durante l’arco di pochi giorni. Il sapore è piacevole, aromatico, dolce e delicato quando la provola è fresca, sapido e piccante se stagionata.

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 La produzione della provola segue un percorso molto particolare e necessita di tanta esperienza da parte degli operatori.

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Oltre ad essere usata come formaggio da tavola, fresco o stagionato, la provola è utilizzata anche per  preparare gustosi piatti tipici locali. Ricordo perfettamente il piatto della “provola all’argentiera” che preparava mio padre ai tempi della mia infanzia. In un recipiente basso e largo faceva aromatizzare l’olio con qualche spicchio d’aglio. Quindi preparava alcune fettine poco spesse di provola stagionata che adagiava sull’olio ben caldo per qualche minuto e che aromatizzava con alcune foglioline di origano e con poche gocce di aceto. Faceva cuocere il tutto ancora per poco tempo a fuoco basso. Serviva le fette di provola ben calde. Una delizia!

Con la pasta delle provole si modellano i caci figurati, “ icascavaddi”, capolavori d’arte pastorale: cavallini, colombe, pecorelle, cagnolini, miniature elaborate dalle mani callose e abilissime dei pastori e destinati ad essere regalati o ad essere esposti nelle vetrine.

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Esistono diversi tipi di formaggi: quelli freschi, di primo sale, e quelli stagionati. Anche la ricotta è fresca e non salata, oppure dura e salata. E’ ottenuta dal siero di latte vaccino o misto, con l’aggiunta di latte caprino e/o di vacca e acido citrico.

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La ricotta, opportunamente grattugiata, dona un sapore caratteristico anche ai più comuni piatti: alla pasta con il pomodoro fresco, alla pasta con la zucchina e alla caratteristica “ parmigiana “ locale.

Si producono anche altri tipi do formaggi quali: il Maiorchino, formaggio a latte misto di pecora, di capra e di vacca, il Canestrato, formaggio a latte misto di capra e di vacca, l’Agrifoglio, simile al Maiorchino. La filosofia del produttore è quella di offrire elementi naturali, ottenuti artigianalmente, nel rigoroso rispetto delle norme, nazionali e comunitarie, poste a tutela del consumatore.

Oct 7, 2016 - Senza categoria    Comments Off on OMAGGIO A ENZA VINCI LA RICAMATRICE DI MISTRETTA

OMAGGIO A ENZA VINCI LA RICAMATRICE DI MISTRETTA

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A Mistretta, tramite la creatività e la tenacia di molte persone industriose, oltre all’arte della scultura della pietra e del legno, opere che si osservano durante le esplorazioni del paese, segni concreti della viva fantasia e della feconda operosità dei mastri artisti, si sono conservate ancora alcune tradizioni artigianali espresse nell’arte del ricamo, del cucito, dell’uncinetto, della gastronomia.

Disse Louis Nizer: “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista“.
Louis Nizer fu un famoso giurista nato il 6 febbraio del 1902 a Londra e morto il10 novembre del 1994 a New York. Oltre ad eseguire bene  il suo lavoro legale, Louis Nizer era scrittore, artista, docente e consulente di molte persone più potenti del mondo della politica, dell’economia e di intrattenimento. Questo suo messaggio, molto profondo, chiarisce come è gratificante essere artisti!

Fin dai tempi dei normanni l’arte del ricamo ebbe un florido sviluppo e una particolare diffusione a Mistretta.

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Le famiglie benestanti accoglievano nei loro palazzi le ricamatrici che lavoravano tutto l’anno al loro servizio.

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Il salario era basso, però potevano soddisfare i bisogni alimentari propri e quelli dei loro cari. Le ricamatrici amastratine realizzavano lavori di indiscusso valore artistico, che preparavano con grande impegno di tempo, spinte dalla religiosità per ornare gli altari delle chiese o sollecitate dalla gioia di realizzare con le proprie mani il corredo anche per la figlia femmina. Un proverbio mistrettese recita: “A figghia nn’a fascia/ u curredu nn’a cascia”, significa che anche se la figlia è neonata e ancora in fasce, la mamma si deve preoccupare di preparare il corredo che, man mano, con impegno e con sacrificio, durante il corso degli anni si componeva e si completava. Conservato dentro la “cascia”, sarebbe stato pronto per il suo matrimonio. Il corredo era la prima dote matrimoniale della ragazza e sottostava a rigorose regole di una rigida tradizione. A quattro a quattro, a sei a sei, a dodici a dodici, a ventiquattro a ventiquattro era una legge che si stabiliva fra i consuoceri e significava che la sposa doveva inserire gli elementi del corredo: lenzuola, federe, tovaglie, asciugamani, camicie, che l’arte femminile del ricamo adornava con i motivi più belli, in numero di quattro, oppure di sei, oppure di 12 o di 24, secondo le condizioni economiche della famiglia, pena la rottura del fidanzamento. Fino ad alcuni decenni fa, qualche settimana prima della data del matrimonio, il corredo matrimoniale doveva essere esposto in bella mostra, come in vetrina, per soddisfare la curiosità di amici e parenti che venivano ad ammirarlo e a contarlo. Oggi, per fortuna, queste tradizioni arretrate sono state superate. Tuttavia i bauli delle ragazze nubili mistrettesi sono stracolmi di lussuosi e costosi corredi dall’altissimo valore affettivo.

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Tale attività, evolutasi nel tempo per stili e per materiali, per secoli è stata la principale forma di occupazione del tempo libero delle donne che, insieme ai fili di cotone e di seta, hanno intessuto una cultura preziosa che oggi va valorizzata e non dimenticata. Ricordo che il periodo della chiusura delle scuole in estate era atteso da noi fanciulle con grande entusiasmo perché volevamo andare ad apprendere l’arte del ricamo dalle sorelle Fontana. Erano tre sorelle: Grazia, Peppina e Ciana, finissime ricamatrici. Trascorrevamo a casa loro, a gruppi di 10-12, gran parte della giornata a preparare il lavoro: a tirare i fili della stoffa, a fare gli angoli e i bordi a punto a giorno o a punto quadro. La signorina Ciana era una brava disegnatrice su stoffa che poi noi fanciulle ricamavamo. Sono ricordi che non si dimenticano.

Oggi la signora Enza Vinci è una delle pochissime donne amastratine che conserva ancora il valore del bello tramite l’arte del ricamo. Ha aperto la porta della sua casa per mostrarmi una piccola parte della sua grande collezione di ricami.

Con il suo paziente lavoro di ago e di filo sa trasformare un pezzo di tela di lino, di seta, di cotone in un giardino fiorito ricamato in un lenzuolo, in una tovaglia, in una coperta, in un asciugatoio, in una camicia.

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Sono tutti lavori realizzati dalle sue mani laboriose!

Oct 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on OMAGGIO A PAOLO MUGAVERO IL MISTRETTESE SCULTORE DEL LEGNO

OMAGGIO A PAOLO MUGAVERO IL MISTRETTESE SCULTORE DEL LEGNO

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Foto di Ugo Maccà

Gaetano Russo è l’artista delle sculture della pietra, Paolo Mugavero era l’artista delle sculture del legno. Era nato a Mistretta il2 ottobre del 1959, ed è prematuramente deceduto il 30 dicembre del 2012. Ho conosciuto il signor Paolo andando a visitare spesso, durante i miei soggiorni a Mistretta, la villa Chalet. Era il giardiniere. Curava le piante della villa con amore, con impegno, con responsabilità. Le aiuole erano pulite, l’acqua della vasca, con i pesciolini rossi, quasi trasparente, i viali spazzolati.

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Faceva quello che riusciva a fare servendosi della mano sinistra, essendo stato, purtroppo, privato della mano destra a causa di un incidente durante il lavoro di apprendista in una macelleria.

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Voleva apprendere da me cognizioni più approfondite sulle piante presenti nella villa ed io, nei limiti delle mie conoscenze, cercavo di soddisfare le sue curiosità. Aveva trasformato la villa in uno zoo modellando le piante di Buxus rotundifolia, attraverso l’ars topiaria, sotto forma di animali che rendevano la villa più armoniosa sotto la custodia di questi esseri viventi inanimati.

 Paolo non aveva frequentato nessun liceo artistico; possedeva la licenza di Scuola Media che aveva conseguito a Mistretta nel 1972. Dopo la sua prematura scomparsa, le piante di Buxus hanno perso la forma di animali e sono diventate informi, disordinate, quasi appassite. Dentro la villa, entrando dal cancello principale e girando a destra, Paolo aveva allestito un piccolo laboratorio dotandolo degli attrezzi per potere scolpire il legno. Sceglieva con cura il pezzo di tronco o il ramo d’albero o la radice, che recuperava nella villa Chalet, dai quali traeva la sua opera d’arte. Soleva dire:“Cerco il legno e le radici sepolte, anche quelle arse dal tempo o bruciate”. Manifestava il suo spirito di osservazione con l’espressione: “Osservo i pezzi di legno d’ulivo e già vedo l’oggetto che deve venir fuori”.

Creava bellissime sculture lignee alle quali conferiva un’anima.E da quel pezzo di legno, colpo dopo colpo, prendevano forma le sculture di Cristi, di Madonne, di Santi.

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Un giorno mi ha accompagnata a casa sua per mostrarmi con orgoglio e farmi fotografare le sue creazioni. Alla mia proposta di acquistare una delle sue opere mi ha risposto:” No! Separarmi da esse è come perdere una parte di me” .

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 Paolo Mugavero era lo scultore mistrettese che traeva dalla Natura le sue ispirazioni artistiche. Appartiene a lui il pensiero: “Ho sempre pensato che la Natura è un’infinita forma artistica ed è l’uomo che deve scoprirla”. Nelle sue creature si apprezza la vivacità d’espressione di ogni scultura non disgiunta da un’ammirevole semplicità.

Sep 19, 2016 - Senza categoria    Comments Off on OMAGGIO A GAETANO RUSSO IL MAESTRO SCALPELLINO DI MISTRETTA

OMAGGIO A GAETANO RUSSO IL MAESTRO SCALPELLINO DI MISTRETTA

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Carissimo Gaetano, mio grande amico, anch’io voglio congratularmi con te per l’autorevole titolo di cui sei stato insignito dall’Assessorato Cultura Dipartimento dei Beni Culturali Patrimonio UNESCO della Regione Siciliana.
Con comunicazione ufficiale della Regione Siciliana del 18/04/2016, dal 25/02/2016 sei stato ufficialmente dichiarato“Tesoro Umano Vivente”, come Scultore, per le capacità lavorative e per la determinazione mostrata in tutti questi anni per la valorizzazione della cittadina amastratina.
Che grande onore!
Nel mese di Giugno del 2016 anche il Consiglio Comunale e l’Amministrazione del Comune di Mistretta ti hanno conferito l’attestato di ”Merito”.
Due riconoscimenti che ti hanno enormemente gratificato, ma meritati.
Bravo Gaetano!
E, poiché molto hanno scritto su di te alcune testate giornalistiche, il TG2, la TV Vaticana, voglio farlo anch’io attraverso il modesto articolo sul mio blog che non cancellerò mai. Mai!
Gaetano non è solo amico mio, ma è amico dei mistrettesi per il suo carattere aperto, socievole e, qualche volta, bonariamente combattivo, determinato nel mettere in luce i problemi di Mistretta con il nobile scopo di valorizzare i tesori posseduti dalla città dove egli vive. Molto spesso si è impegnato gratuitamente in iniziative personali per il restauro di qualche monumento e per il ripristino di luoghi caratteristici della città.

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Le amiche di Gaetano da sx: Fiorella Barbieri, Nella Seminara

Gaetano Russo è nato a Belpasso, nell’ex provincia di Catania, il 23 agosto del 1974. E’ figlio d’arte.
Dopo gli studi, effettuati al Liceo Artistico di Belpasso, iniziò a lavorare come apprendista scalpellino. Seguì, così, le impronte del padre, mastro scalpellino, possessore di una tradizione siciliana con l’uso di antiche tecniche per lavorare la pietra.
E’ stato, infatti, il padre di Gaetano a insegnare al figlio junior i segreti di questo mestiere faticoso, ma, nello stesso tempo, gratificante. Scolpire la pietra, ideare e realizzare figure sono come dare la vita e l’anima al litico blocco.
Con notevole professionalità, Gaetano esercita il mestiere di scultore della pietra, arte manuale che sta scomparendo perchè sostituita da altri mezzi e da altre attività professionali tecnologiche. Col suo sguardo intelligente, con i suoi occhi vivaci, col suo spirito di osservazione, sa cogliere l’essenza delle cose valorizzandole con la sensibilità della bellezza.
Gaetano non è un poeta, non è uno scrittore, è il maestro scalpellino che lavora la pietra con intelligenza, con cuore, con mani, con fantasia, con amore.  E’ duro il lavoro dello scalpellino come lui stesso, con molta modestia, ha dichiarato: “ Sono più che altro un bravo artigiano”.

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4  caminettofrontale con decorazioni ok

 Nel 1994, Gaetano Russo, dal suo paese natale si trasferì a Mistretta, il paese di sua madre, dove si inserì nel lavoro in una cava di pietra presente nel territorio. Cominciò, così, a dare significato alla sua attività creativa finalizzata alla realizzazione di lavori di arredo urbano e di sculture per committenze di privati ottenendo notevoli positive affermazioni che hanno ampliato la sua popolarità.
Nell’espletamento della sua arte di scalpellino, Gaetano, per la sua creatività, è di stimolo e di esempio ai giovani alla ricerca di un lavoro perchè dimostra che il mestiere dello scalpellino è una nuova forma di occupazione professionale che trasforma l’artigianato in ARTE creativa. Il vitale impegno e la forza di Gaetano sono contagiosi.
L’energia che possiede è unica, forte, resistente, non indebolita da qualche delusione, purtroppo, vissuta.
Nel 1996, Gaetano ha aperto il laboratorio di scultura a Mistretta, nella piazza Del Progresso.

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La materia prima utilizzata da Gaetano è esclusivamente la pietra dorata delle cave locali, un’arenaria quarzarenite dal colore dorato la cui durezza e le cui caratteristiche sono state apprezzate con successo anche all’estero.
Ogni volta Gaetano sa scegliere accuratamente il blocco di roccia da cui trarre la sua creatura.
Nel suo laboratorio Gaetano, realizzate dal suo estro, e aiutato dagli attrezzi del mestiere,

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 ha creato numerose sculture in pietra che ha donato a Mistretta per arredare il centro amastratino raccontando, attraverso le sue opere, la storia della città. Sue sono le parole: ” Non ho scelto io di fare lo scultore, è stata la mia cittadina che mi ha indicato questa strada”.
La sua prima opera è la scultura intitolata “l’Occhio sul paese” che si trova nel piazzale della Neviera.

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Leukaspis è la scultura del guerriero, il mitico comandante sicano che cadde nel difendere la Sicilia dall’invasione di Eracle come ha raccontato Diodoro siculo.

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Il medaglione del guerriero

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Astarte, la dea dei boschi e, quindi, anche dei Nebrodi, e fondatrice della città di Mistretta.
La scultura, collocata nel 2010, arreda la parete laterale dell’edificio del  Circolo Unione.

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 Offrendo gratuitamente la sua competenza, ha collaborato con i Lions Club Mistretta-Nebrodi per il recupero delle opere architettoniche di cui Mistretta è ricca. Dal 2010 al 2014 si è attivato per il recupero delle case del centro storico amastratino, soprattutto del quartiere “Casazza”. Ha proposto innumerevoli iniziative istituzionali facendosi promotore di una raccolta di firme per dotare la città del titolo diMistretta Città di Pietra.
Il centro storico di Mistretta è uno dei patrimoni architettonico-urbanistici più notevoli della Sicilia, anche se poco conosciuto e non adeguatamente valorizzato. Ha suggerito l’iscrizione di Mistretta nell’albo dei “Borghi più belli d’Italia”, titolo che meriterebbe pienamente per tutto il patrimonio architettonico, monumentale, paesaggistico, naturalistico che possiede.
Ne sono esempi: il castello arabo-normanno, le chiese, i palazzi, i portali, le chiavi di volta, i balconi, i musei, i boschi, le montagne, le cascate delle fate più alte dei Nebrodi, le ville, in particolare la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.
Essa è un unicum di grande valore naturalistico dove sono presenti importanti essenze vegetali.
Ai piedi dell’Abies nordmandiana Gaetano, nel 2010, ha deposto la “Colonna del muro della legalità

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 e, anche se è stata ripetutamente vandalizzata, l’ha sempre recuperata col suo spirito costruttivo. Gaetano ha collaborato con la locale Associazione turistica Pro Loco per tutelare e valorizzare il patrimonio culturale- artistico della città.
Ha coordinato il “PaeseAlbergo“, un’importante iniziativa necessaria per ospitare dignitosamente i turisti che, giunti a Mistretta, desiderano visitare i suoi tesori artistici, paesaggistici, naturalistici.
Nel 2009 ha collaborato con la Fondazione Antonio Presti presso l’Atelier di Tusa. Nel 2013, nei giorni 23,24,25 agosto, di concerto con l’Associazione Pro Loco e con l’Amministrazione comunale di Mistretta, ha organizzato il “2° Simposio Città di Mistretta” al quale hanno partecipato numerosi artisti provenienti da tutta la Sicilia.

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E’ la finestra sul passato … saluti da Mistretta

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Le opere realizzate durante il simposio sono custodite nella villa Chalet, ma aggredite dall’inclemenza del tempo e dall’attacco dei vandali. Il 15 maggio del 2013 ha donato una sua scultura a Sua Santità Papa Francesco.

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Il Comune di Mistretta gli ha affidato diversi incarichi a conferma della sua acquisita professionalità. Per conto del Comune, Gaetano ha impresso il suo talento scolpendo nella pietra il volto della dea dell’abbondanza, simile a quello esposto nella chiave di volta del palazzo Pasquale Salamone.
Un bellissimo volto di donna mette in evidenza lo stato di opulenza della famiglia Salamone di allora.
Infatti, dalla sua bocca pende un grappolo di melograni, simbolo di abbondanza e di ricchezza. Gli occhi socchiusi e le narici spalancate danno il senso della soddisfazione e della pienezza.

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La scultura di Gaetano è stata regalata ai suoi familiari durante la cerimonia di intitolazione della Sala Grande della Scuola di Musica al maestro Antonino Di Buono nel 150° anniversario della ricostituzione della Banda  Musicale “Città di Mistretta” avvenuta il 4 agosto del  2012.

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Gaetano ha ricevuto committenze anche da privati e da Enti pubblici oltre i confini della sua amata Mistretta.
Ha realizzato l’Altare delle Chiesa Madre del paese di Motta d’Affermo che gli è stato commissionato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina nel 1998, quando aveva appena 24 anni di età.

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  Ha scolpito la statua dell’Ecce Homo collocata sul colle San Rizzo a Messina. Il 14 settembre di ogni anno si celebra la festa dell’Esaltazione della Croce col pellegrinaggio dei fedeli sul colle San Rizzo.

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Ha realizzato il monumento al donatore “Avis Fonte di Vita”, commissionato dall’Associazione Avis di Viagrande (CT).

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Ha partecipato a molte manifestazioni artistiche. Oggi è convocato a far parte di diverse commissioni a concorsi artistici. Gaetano Russo, per tutti, è “l’ultimo degli scultori-scalpellini”.
Il 18 gennaio del 2015 il palazzo Lo Iacono-Portera, sito nel quartiere San Nicolò, che ospitava già il Museo della Fauna dei Nebrodi, è stato teatro di due importanti avvenimenti: l’inaugurazione del percorso espositivo multimediale e il “MuSca”, il Museo dello Scalpellino.

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Ha tagliato il nastro augurale il dott. Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi.

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 Ha benedetto il luogo il Sac. Rev. Padre Michele Placido Giordano. Erano presenti: il sindaco di Mistretta avv. Liborio Porracciolo, il vice sindaco avv. Vincenzo Oieni, il presidente dell’Associazione Pro Loco signor Giuseppe Lo Stimolo, le autorità militari, le guardie del parco dei Nebrodi, e un folto pubblico.

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Il Museo dello Scalpellino, il laboratorio didattico della pietra, è nato per volontà dell’artista Gaetano Russo, che ha donato a questo museo una parte del suo laboratorio didattico.

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Il Museo della Fauna e il Museo dello Scalpellino sono oggetto di gradite visite da parte del pubblico adulto, di visite guidate da parte degli alunni delle Scuole e dei turisti.

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Alcuni alunni visitano il Museo dello Scalpellino

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Sostenuto dal Parco dei Nebrodi, dall’Amministrazione comunale e dall’Associazione Pro Loco di Mistretta il Museo dello Scalpellino di Mistretta è la prima entità museale sorta in Sicilia dedicata allo scalpellino, il lavoratore che, con l’uso del suo scalpello, ha saputo creare vere opere d’arte.
Il Museo dello Scalpellino, costituto da tre angoli delle sale, poste al terzo piano del palazzo, mostra gli attrezzi dello scalpellino.

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A conclusione della cerimonia il maestro Gaetano Russo, visibilmente commosso, ha ringraziato con queste sue parole: “Grazie a chi ha promosso Mistretta e a chi continua a promuoverla, un grazie a tutti gli artigiani che hanno costruito questa cittadina mettendo pietra dopo pietra anno dopo anno. Grazie a chi mi ha sostenuto e continua a farlo. Grazie a Nino Testagrossa, a Sergio Todesco, a Mariano Bascì, a Eugenio Ferrara, a Vincenzo Provenzale, a Francesco Cuva, a Nella Faillaci e a Vincenzo Sgro’ che in questi anni mi hanno trasmesso saperi e conoscenze. Grazie a tutte le associazioni nuove e storiche, alla politica che lavora per un paese migliore. Grazie agli amici artigiani che non ci sono più, al maestro ceramista Piscitello, recentemente scomparsoanch’egli Tesoro Umano Vivente. Grazie a Laura Romano, mia musa ispiratrice. Grazie alla mia famiglia “.

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Col tempo sicuramente il Museo dello Scalpellino sarà ampliato e perfezionato nell’allestimento e nel possesso di altri reperti. Ammiriamo, valorizziamo l’idea, l’impegno, la volontà, la resistenza di Gaetano e la collaborazione dei volontari che lo hanno aiutato a realizzare questo suo ambizioso progetto. Oggi Gaetano Russo è stato definito “l’ultimo degli scultori-scalpellini”. 

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A Mistretta è evidente la presenza della pietra rosata locale.
I palazzi signorili mostrano le decorazioni a rilievo in pietra intagliata da maestranze locali. Sono decorati da divertenti e grottesche maschere aventi la funzione magica di allontanare o annullare, con il linguaggio figurativo, le influenze malefiche dai loro padroni. Le stesse propiziano abilmente il benessere e la bellezza della vita riproducendo le effigie delle personalità che vi abitavano realmente.

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IL CONVEGNO

Il 17 agosto del 2017 è stato un giorno importante per il Maestro scalpellino Gaetano Russo per aver saputo coinvolgere una grande quantità di persone all’ascolto del tema del convegno da lui promosso in modo eccellente: “ I segni della pietra. Mistretta  e i suoi scalpellini”.

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Luogo favorevole all’evento è  stata la prestigiosa sala delle conferenze del   palazzo  Portera, a Mistretta, sede del Museo della Fauna dei Nebrodi e del Mu.Sca, il museo dello scalpellino fondato dallo stesso M° Gaetano Russo.
Gaetano, per questo convegno,  è  stato sostenuto dall’amministrazione dell’Ente Parco dei Nebrodi  e  dall’amministrazione comunale di Mistretta.
Sono intervenuti:

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il vicesindaco, avv. Vincenzo Oieni, che ha parlato della valorizzazione e della salvaguardia del patrimonio artistico che Mistretta possiede, opere soprattutto di maestranze locali; Gaetano Russo,  che ha ringraziato gli intervenuti  ed ha illustrato l’arte dello scalpellino; il prof. Francesco Cuva, che ha illustrato un po’ di storia di Mistretta; l’arch. Mariano Bascì, che parlato degli stili architettonici, della loro sovrapposizione e delle sculture di maschere, di figure apotropaiche, allegoriche e floreali;

Qualche esempio

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 il geologo Luigi Marinaro, che ha tenuto un’importante lezione sulla geologia della pietra quarzarenite di Mistretta.

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La quarzarenite è la caratteristica pietra estratta delle cave di Mistretta  con la quale sono stati abbelliti i palazzi nobiliari e anche borghesi della città.
La quarzarenite è una roccia sedimentaria composta principalmente da granuli di quarzo che si accumulano al suo interno. Sono presenti anche granuli di altri minerali che scompaiono per effetto dell’azione meccanica e delle alterazioni chimico-fisiche.
I granuli di quarzo, essendo sono molto più resistenti agli urti e non subendo alterazioni chimiche, reagiscono all’azione meccanica semplicemente rimpicciolendosi aumentando la loro percentuale rispetto a quella degli altri minerali.
Il quarzo è un minerale molto duro, che occupa un posto notevole nella scala di durezza dei minerali. E’ prossimo al diamante, il minerale che scalfisce tutti gli altri e non si lascia scalfire da nessuno.
Il quarzo dona alla roccia un elevato grado di resistenza e di impermeabilità, caratteristiche indispensabili per rivestimenti e pavimentazioni.  La lavorazione della quarzarenite richiede, pertanto,  maestria e competenza.
Infatti, i Maestri Scalpellini sono stati definiti “Scultori senza Arte” perchè i loro manufatti,  realizzati nel corso dei secoli,  sono opere d’arte, delle vere sculture lavorate a mano con piccone e scalpello.
Il desiderio del M° Gaetano Russo, dichiarato “Tesoro Umano Vivente dall’UNESCO“, è quello di poter  dare vita a Mistretta a una scuola per alunni scalpellini sull’ esempio delle botteghe d’arte del Medioevo.
Potrabilmente,  la frequenza di questa scuola a Mistretta potrebbe creare una buona opportunità di lavoro a tanti giovani mistrettesi migliorando le precarie condizioni economiche delle famiglie .
L’arch. Antonino Sgrò e il signor Vincenzo Sgrò, che hanno parlato sulle varie tecniche di costruzione e sugli interventi di recupero del palazzo  ex Spoliti lungo la via Libertà;

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il responsabile del Parco dei Nebrodi, che ha rivelato la disponibilità dell’Ente nel promuovere importanti iniziative.
Molto calorosi sono stati gli applausi dei presenti.
La visita al Museo dello Scalpellino, che occupa tre sale al terzo piano del palazzo  Portera, ha mostrato l’esposizione  di nuovi reperti utili per l’espletamento dell’arte dello scalpellino.

La prima sala espone:

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la terza sala espone materiale più recente

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Grazie, Maestro Gaetano, che conservi ancora l’antica arte dello scalpellino!

Alcune foto sono tratte dal profilo di Gaetano su Facebook

Sep 11, 2016 - Senza categoria    Comments Off on PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE “LE SEQUENZE DEL CUORE” DEL POETA ANTONIO OIENI NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ OPERAIA A MISTRETTA

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE “LE SEQUENZE DEL CUORE” DEL POETA ANTONIO OIENI NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ OPERAIA A MISTRETTA

Per gli innumerevoli eventi culturali che si verificano a Mistretta in quasi tutto l’anno, luoghi confortevoli e disponibili sono: il palazzo della cultura Mastrogiovanni-Tasca, anche sede della biblioteca comunale, il Circolo Unione, la Società Fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso, la Società Agricola, la Società Operaia.

Sabato, giorno 8 agosto del 2016 nella prestigiosa sala delle feste della  Società Operaia di Mutuo Soccorso a Mistretta

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 è stato presentato il libro di poesie “LE SEQUENZE DEL CUORE” del poeta  Antonio Oieni, pubblicato da Alletti Editore.

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 Ha introdotto i lavori  il Giuseppe Sgrò,  vicepresidente della Società che, a nome del presidente, il signor  Mario Lutri,  ha  ringraziato Antonio per avere scelto la Società Operaia come luogo adatto per la presentazione del suo libro. Ha, inoltre,  portato i saluti di tutti i soci del sodalizio.

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 Hanno relazionato il prof. Francesco Cuva e il prof. Sebastiano Lo Iacono. Ha coordinato l’evento la  dott.ssa Rosalinda Sirni.

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Francesco Cuva

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Presente  l’ass.re alla cultura l’avv. Vincenzo Oieni.

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Antonio Oieni,  nato a Mistretta il 25 marzo 1968, ha sempre rivolto la sua attenzione alla Natura, laureandosi in Scienze Naturali presso l’ateneo palermitano, lodandola nelle sue poesie che ha avuto il dono di saperle comporre fin dalla sua giovane età. Linea conduttrice delle sue odi  non è solo l’amore per la Natura, ma anche i sentimenti e i ricordi della sua fanciullezza.

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Antonio ha partecipato a diversi concorsi di poesia: nel 2014 al premio letterario di poesia dialettale “Enzo Romano”  con la lirica “I vuci ru core“Le voci del cuore”;
con la lirica “Il desiderio di una creatura” ha attenuto il 4° posto al concorso “Una poesia per la vita” preparato dal centro Italiano Femminile di Mistretta il 13 settembre del 1998;
con la poesia “Sorsi di speranza” ha partecipato al concorso “Una poesia per la pace”, organizzato dal CIF  di Mistretta, classificandosi al secondo posto il 14 settembre del 1999;
nel 2014 ha ottenuto la  menzione speciale con la poesia “E’ tempo” nel premio letterario “Il Federiciano”.
Nell’introduzione al libro il prof. Francesco Cuva così scrive: ” <<Con le sequenze del cuore>> Antonio propone un tema che ha la parola chiave: CUORE. Sceglie la poesia per parlare d’amore considerandola  una compagna con cui sperimentare nuove sensazioni  e vivere nuove emozioni. La poesia è l’amica che gli dà coraggio, conforto e certezze, ma anche l’innamorata con cui dialogare sulla vita e sul destino dell’uomo visto che gli altri legami sono oltre. Il poeta  sceglie come momento d’incontro il crepuscolo, quando le cose si intravedono, quando <<magici  profumi  arrivano  al  naso>>. In tale atmosfera “I segreti bussano al cuore/ e il cuore li libera al cielo”.
Nel crepuscolo, “strascichi di nebbia” invadono lo spazio conosciuto e si trasformano in “giganti trasparenti” , ovvero il surreale domina sul reale e crea la magia della poesia. Proprio allora si può cogliere l’altra realtà che “svela i segreti”. Nello stato di tensione creativa Antonio si affida alla speranza per dare un senso alla vita, e assapora quegli attimi di felicità che ogni essere insegue giorno dopo giorno: importante è mettersi in sintonia col cuore. All’improvviso, però, finisce di fantasticare e va incontro al vero rappresentato dal vento che gli parla, lo scuote, e che “gli sussurra in segreto parole d’aria”. “Mi parlò il cielo  mi disse: tuffati nel vento e respiralo”.
A contatto con la realtà, il poeta s’inebria del “cielo luminoso come non mai di bagliori trasparenti” e all’alba o nel pieno mezzogiorno gode della luce che dà vita a non si stanca di ammirare “le isole lontane risplendenti d’azzurro oltre i confini invisibili del cielo”. Nella dimensione della luce, offre alla compagna le immagini di bellezza, tante volte ammirate ed amate, “le coniche torri della Dimora di San Vincenzo e dei Tre Soli”, “la Chiesa Madre Castellana intessuta d’arenaria”, segni della storia, fari di civiltà. Gli angoli di pietra rappresentano Astarte, la dea mitica, ma pure il mondo delle favole. E Antonio Oieni ne è il cantore per proteggerli dal respiro profano. Ma ora si accorge che la superficialità dominante nella società lascia che quel  mondo crolli: “Le case abbandonate dai cardini/ arrugginiti, memoria del tempo”.
Il degrado è figlio dell’incuria e della noia ed è sotto gli occhi di tutti, perché “banali pupazzi di paglia” passano il loro tempo in cose futili, perfino disgustose, disumane, mentre “una donna arcana nei lineamenti ritornava lenta nel cuore dei suoi legami di pietra”. Le conseguenze sono disastrose e il poeta ne soffre e non può fare altro che lanciare un’apostrofe: “Le barche ancorate sulla spiaggia/ attendono i pescatori con le reti”. Di fronte a tanta insensibilità, Antonio Oieni, come Montale, cerca un varco scegliendo di valicare i confini di un muro che limitano le aspirazioni degli uomini sensibili. Perciò ricorda a se stesso e agli altri che bisogna superare la fragilità umana conazioni degne di ricordo. Per questa invita il lettore ad issare le vele e a  riprendere il viaggio per scoprire il bello della vita e l’incanto del sogno: “Vennero i giorni in cui /ebbri di futuro/issammo le vele dell’immenso oltre l’orizzonte”.  Oltre l’orizzonte, difatti, non ci può essere altro che l’Uomo-Dio, Gesù, che rinverdisce il cuore “di molle erba, tenera erba di Primavera” e che “incide nel cuore dolci parole: pace, amore, tenerezza”. Dunque Antonio Oieni ha scritto poesie d’amore per la vita, la famiglia, la città, il creato e il Creatore.  Come è nel suo stile, ha scelto un linguaggio lineare, comunicativo, vibrante, e, soprattutto, impreziosito da tante figure retoriche, metafore, anafore, iterazioni allitteranti, apostrofe, che rendono le sue liriche vive e piacevoli da leggere e interessanti per gli spunti di riflessione.
L’assessore alla cultura avv.Vincenzo Oieni, nel suo breve intervento, ha ricordato i suoi primi incontri con Antonio, quando, durante la sua frequenza delle scuole elementari, veniva a trovare il papà Benedetto, valido e apprezzato suo maestro. Sono ricordi della trascorsa fanciullezza essendo entrambi quasi coetanei. Ha conosciuto le qualità poetiche di Antonio anche attraverso la lettura di vari articoli pubblicati sui giornali.
La bravissima Rosalinda Sirni,

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con grande emozione, ha letto due poesie di Antonio:

PROFUMI

Ondeggiano lievi,le tenere foglie dei pioppi,

nel cielo voragini di luce.

Gli odori delle erbe alte e dei fiori dei prati,

arrivano fino alle narici.

Filmate dai miei occhi,

vagano le rondini nel cielo,

in ogni direzione.

Illuminate da sole, descrivono impronte nel cielo,

che subito scompaiono.

Da lontano, vedo le coniche torri,

della Dimora di San Vincenzo

e dei tre Soli d’arenaria.

Da lontano, vedo la Chiesa Madre Castellana

intessuta nell’arenaria.

Ed il cuore rientra nelle dimore…

 

VENNERO I GIORNI

Vennero i giorni in cui,

ebbri di futuro

issammo le vele dell’immenso oltre l’orizzonte.

Non ti dimenticare di questi attimi

-Disse la mente al cuore -.

-E tutti quei giorni entrarono nel cuore.

Ampia relazione sulla poesia e, in particolare sulla poesia i di Antonio, è stata esposta dal prof. Sebastiano Lo Iacono che leggiamo integralmente: << Antonio Oieni ha due virtù che qui attesto, oggettivamente e soggettivamente, e che penso da quando lo conosco: è un “bravo ragazzo intelligente”, e scrive poesie dell’anima. C’è, invece, chi scrive SMS sgrammaticati oppure chi, su Facebook e WatsApp, scrive banalità senza limite e senza ortografia>>.

«A cosa servono i poeti?»

Pablo Neruda, in una sua Ode per Federico García Lorca, scriveva così: «…diciamo semplicemente come sei tu e come sono io:/ a che cosa servono i versi se non per la rugiada? / A che cosa servono i versi se non per quella notte/ quando un pugnale amaro ci scopre, per quel giorno,/ per quel crepuscolo, per quell’angolo rotto/ dove il colpito cuore dell’uomo si dispone a morire?»
La poesia è creazione e può essere pugnalata e incompresa; è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di parole secondo particolari leggi metriche, un componimento fatto di versi, in cui il significato semantico si lega al suono musicale dei fonemi. La poesia ha alcune qualità della musica e trasmette concetti e stati d’animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa.
Le poesie di Antonio Oieni hanno questo pregio: sono emozioni veicolate da un suono musicale.
A questi aspetti della poesia se ne aggiunge un terzo quando una poesia, anziché essere letta direttamente, viene ascoltata: con il linguaggio del corpo e il modo di leggere, il lettore interpreta il testo, aggiungendo la dimensione teatrale della recitazione. Nel mondo antico poesia e musica erano spesso unite. Accade così in poesie d’autore sotto forma di canzoni e musiche d’autore. Penso a Fabrizio de André, Roberto Vecchioni, Franco Battiato o Francesco De Gregori.
Le poesie di Antonio Oieni sono musica e canto del cuore, a cui manca la musica musicata; ma hanno un’intrinseca musicalità per raccontarci le risonanze e le sequenze del cuore, e andrebbero recitate.
Solo «la poesia ispira poesia». È così nel caso di Antonio Oieni, dove c’è un candido e francescano rapporto con la Natura creata e con la poesia delle cose create.
C’è stato chi ha scritto che «dopo Auschwitz scrivere poesie è inutile», e che, addirittura, sarebbe «un atto di barbarie». Secondo il filosofo tedesco, Theodor W. Adorno2, dopo Auschwitz, la trascendenza non offre più all’immanenza alcun significato. Auschwitz ha avuto lo stesso effetto, nel campo del sociale, che il terremoto di Lisbona del 1755 ebbe nel campo dei fenomeni naturali. La malvagità umana, «l’inferno reale», la natura crudele con la sua cieca violenza, catastrofi naturali e morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, ci indurrebbero a non avere speranza nell’umano.
Dopo Auschwitz, siamo costretti a impegnarci affinché ciò che è avvenuto non si ripeta. Questo è diventato l’«imperativo categorico» della nostra epoca.
Se Auschwitz dimostra inconfutabilmente il fallimento della cultura e dell’interpretazione illuminista della storia, la negazione della cultura non è una soluzione. Neppure il silenzio.
A Mistretta, nella nostra amata, adorata, sventurata e povera città, è avvenuto qualcosa di analogo, dopo il suo svuotamento civile, istituzionale, demografico e politico, che definisco olocausto locale. Che senso ha scrivere poesie a Mistretta o per Mistretta, dopo l’olocausto locale di Mistretta?
L’Olocausto del popolo ebraico s’è rivelato impotente dinnanzi alla bellezza. La storia di padre Massimiliano Kolbe è la prova di come quella bellezza entrata nella sua vita lo rese più forte dei suoi carnefici. Giunto ad Auschwitz nel maggio del 1941, vi morì nell’agosto dello stesso anno prendendo il posto di Francesco Gajowniczek, che diceva di avere una famiglia che l’aspettava.
Si ritrovò tra i condannati alla morte per fame. Nel giro di poche settimane tutti morirono di stenti, tranne quattro di loro, tra cui padre Kolbe, che continuavano a pregare e cantare inni alla Madre di Gesù. Sorpresi da quello che accadeva e dalla serenità di padre Kolbe, i generali delle SS decisero di giustiziarli e, mentre padre Massimiliano porgeva il braccio per l’iniezione letale, guardando negli occhi il suo aguzzino, disse: «L’odio non serve a niente. Solo l’amore crea!».
Arte, musica, amore e poesia non si placarono e non si sono estinte nemmeno di fronte ad una delle più grandi tragedie che la storia dell’umanità ricordi.
Il filosofo Theodor Adorno si è sbagliato.
Questo vale anche per Mistretta, dove l’olocausto locale segna ancora la nostra storia: sicché chiedersi, anche qui, a cosa servano i poeti è necessario.
Le poesie di Antonio Oieni sono canto e scienza dell’amore, segnati dal sigillo stilistico ed estetico della semplicità, dall’innocenza dell’animo, dal candore del cuore e dalla bellezza. Sono, inoltre, attestazione di fede al Signore del tutto e la conferma di un forte legame con la tradizione. Si scrivono poesie, dunque, come quelle di Antonio Oieni, per amore.
Questa è la risposta alla domanda di Neruda «a cosa servono i poeti?».
Contro la morte civile e contro il silenzio c’è chi scrive ancora poesie. Penso ad Antonio Oieni e a Vincenzo Rampulla: quest’ultimo l’ho incontrato recentemente, e continua a costruire linguaggio poetico in dialetto.
La poesia, dunque, è possibile nonostante l’olocausto locale. La poesia è un seme che germoglia in qualsiasi zolla cada. La poesia, però, può essere anche amore non compreso, oltraggiato dai “pupazzi di paglia” e non ricambiato” dalla città dove si vive da pellegrini.
C’è stato, poi, chi ha teorizzato la «morte di Dio». Friedrich Nietzsche è stato il pensatore occidentale che ha costruito la più elaborata riflessione sulla morte di Dio. Essa è, per Nietzsche, una realtà teorica e storica che non fonda le sue radici su un convincimento ideale e personale del filosofo, bensì su una realtà di fatto: la fine di tutte le illusioni, alla quale gli uomini cercano di far fronte creandosi dei sostituti, degli idoli e miti di varia natura, che diano un senso alla vita ma anche alla morte, in modo che ognuno si veda e si senta realmente ricompensato delle proprie fatiche, delle rinunce e degli affanni, immaginandosi di venire un giorno ripagato e premiato nell’oltre-vita. Non ci sarebbero più certezze e il mondo sarebbe soltanto caos e disordine. Tutto sarebbe relativo e questo giustificherebbe il fatto che Dio non esiste più e che oggettivamente non può più esistere.
L’ateismo di Nietzsche diventa nichilismo attivo e denuncia il carattere alienante di ogni religione, tesi che era stata già formulata dal filosofo Ludwig Feuerbach.
L’idea della uccisione di Dio è sbagliata. Anche Nietzsche si è sbagliato.
Si scrivono poesie per dire l’indicibile, che si può ancora e si deve dire; e per testimoniare che Dio non è morto. Le poesie di Antonio Oieni lo confermano quando scrive che il suo cuore è “diventato una primavera”, a contatto quotidiano con il suo Gesù.
La poesia di Antonio Oieni è ricerca intimistica e lirica, sfogo e confessione del cuore; è canto al Signore del creato. Le poesie di Antonio hanno questo valore: dicono l’indicibile.
A che serve, dunque, la poesia? A che serve -mi chiedo ancora- scrivere poesie a Mistretta, nonostante la morte civile e sociale della nostra città?
La poesia è religione e tradizione. La poesia è anche tradimento. Tradimento e tradizione hanno stessa origine etimologica; vengono dallo stesso ceppo ed esprimono varianti di uno stesso segno: derivano da tradere, verbo latino che sta per “consegnare”.
Gesù fu tradito  da Giuda, che lo consegnò ai suoi giudici e carnefici. L’intera verità del nostro mondo giudaico-cristiano ci è stata consegnata fra mille tradimenti, e riposa nel corpo della tradizione. La parola tradizione ha il significato di trasportare, di consegnare ai posteri un sistema, un ordine, un insieme di regole, di norme consolidate, senza perdere di vista che è termine avente in sé il senso di passaggio, di conversione dal vecchio al nuovo, di abbandono, di tradimento di ciò che è stato a favore di ciò che sarà.
«Chi non spera l’insperabile -scriveva Eraclito in un suo frammento- non lo scoprirà».
«Sperare contro la speranza», scriveva san Paolo. Sul valore della speranza come energia per l’avvenire scrisse il filosofo tedesco Ernst Bloch.
Questa speranza c’è nelle poesie di Antonio Oieni quando dice che “l’estate tornerà a dilagare l’immenso” e che “l’arcano pulsare dell’universo” gli dice così: “tuffati nel vento”; questo vento lo chiama e ci chiama, e, “anche se siamo come le foglie”, questo vento parla e ci parla di “arcani segreti”: quelli che le nostre mamme chiamavano “arcan’i Ddiu biniritti”, e che sono custoditi dalle pietre secolari delle nostre chiese e strade, luoghi dove tradizione e poesia hanno continuità.
«Le case di Astarte -scrive Antonio Oieni- diventano sole»; sono «silenzio e memoria»; sono «legami di pietra»; sono legame con la tradizione, che lega come una catena.
La parola tradizione si usa quando si vuole porre attenzione su una cosa o un concetto che richiamano valori ancorati al passato o al patrimonio collettivo. Tradizione, dal latino “tradere”, significa trasmettere: è il peso delle cose del passato tradotte nel presente.
La parola poesia significa creazione del futuro. Anche la religione è tradizione. Religione deriva da religo, che significa legare indietro, legarsi a Dio, leggere, rileggere, raccogliere nuovamente. Mircea Eliade diceva che la religione è percezione del «Totalmente Altro».
Nelle poesie di Antonio Oieni trovo questo sentimento del trasmettere, questo legame alla tradizione e la speranza di creare futuro; trovo sentimenti innocenti e la percezione del «Totalmente Altro», cioè il legame con il Dio dei nostri padri e il soave peso delle cose passate tradotte nel presente.
La tradizione, secondo san Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, «ha un ruolo determinante per una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione non è un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l’umanità. Si potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e progettuale per il futuro».
Le poesie di Antonio Oieni appartengono alla nostra tradizione e ci appartengono. Antonio Oieni scrive «sapendo di vedere oltre la “notte”4» per legarci indietro; per legarsi ai valori della tradizione, ai propri affetti familiari e sentimenti più interiori e proiettarsi nel futuro. Operazione simile a me pare che abbiano fatto Vincenzo Mingari, ristrutturando la “Società Agricola”, e chi apre la chiesa di Santa Rosalia, dove è stata recuperata la devozione a San Liborio o chi, come nel caso della “Società Operaia”, conserva nel sodalizio degli artigiani i valori dell’onestà e del lavoro.
I poeti di Mistretta, anche se, a volte, il deserto civile e culturale scatena censure e pettegolezzi, barbarie e oscurantismo, hanno questo ruolo, dopo l’olocausto civile della nostra città: ricordarci che il futuro passa dalla poesia sincera e genuina, quale quella di Antonio, allorché scrive al vento i «segreti del vento», e quando dice che «non erano ali i miei sogni», bensì «frecce, madido tormento e attese spezzate».

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Da sx. Sebastiano Lo Iacono-Giuseppe Sgrò-Rosalinda Sirni-AntonioOieni- Vincenzo Oieni

 Dalla voce di Rosalinda Sirni, lette con molta sensibilità,  abbiamo ascoltato ancora altre poesie del poeta

ANCHE DOPO L’ALBEGGIARE

Le stelle,

sparse nel planisfero dei segreti

inviano le loro lontane frequenze al cuore,

che si perde in quella tela

intessuta di diademi,

in quella tela immersa nell’attesa

dove i segreti rimarranno

anche dopo l’albeggiare.

SEQUENZE

Cielo informe e sibili ventosi.

Cielo sbiadito e mare colorato d’azzurro.

Barche bianche, da lontano solcano il mare.

Oltre l’orizzonte, isole,dipinte d’azzurro

traslano verso il cuore.

La sera viene ad imbrunire ogni cosa:

alberi, rami rinati, cielo, cuore;

mentre ancora il vento mi parla

e mi svela i suoi segreti d’aria:

respiri verso il cuore.

I legami sono lontani,

chissà se un giorno verranno

ad avvicinarsi al cuore,

per dire forse nuove parole.

Antonio Oieni

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ha ringraziato gli intervenuti con la lettura della poesia:

SIAMO COME LE FOGLIE

Siamo come le foglie che,

schiuse dai primordiali aneliti di vita

stormiscono, accarezzate dai teneri sussurri della notte

e dalle lievi brezze del giorno.

Siamo come le foglie,

che, nel pieno del loro vigore

inseguono il vento ed ali di gabbiani, oltre l’orizzonte.

Siamo come le foglie,

che dopo il loro vigore si spengono lente

e si distaccano dai rami

per tornare dalla madre Terra decomposte

con un filo di speranza.

Noi, come le foglie.

LA SOCIETA’ “OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

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La Società Operaia di Mutuo Soccorso è ubicata a Mistretta in via Libertà. Molto interessante è la conoscenza della vita della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Mistretta per la sua lunga storia istituzionale, sociale, politica, economica, culturale.
Essa è stato un elemento fondamentale nella vita della città mantenendosi rigorosamente dentro la linea della tradizione cattolica e della legalità. L’amico Tatà Lo Iacono, nel suo libro “ La Società Operaia di Mistretta”, ha descritto, in maniera molto minuziosa ed esauriente, tutta la storia della Società Operaia, dall’inizio della sua costituzione fino al 2000, cioè quando è venuta alla luce questa sua pregevole opera.

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La Società Operaia di Mutuo Soccorso di Mistretta nacque in un’epoca di grandi movimenti politici anche per la città di Mistretta. Era il 19 marzo del 1863 quando è stato stipulato l’atto di costituzione della Società. L’iniziativa di creare un sodalizio, che rappresentasse il mondo del lavoro artigianale, è stata avviata dagli artigiani mastro Giuseppe Catania, falegname, don Francesco Marchese, sacerdote, Giovanni Bavisotto, ebanista,

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 personaggi che si sono ispirati al verso della Bibbia, (Mt 22, 39): “Amerai il prossimo tuo come te stesso” e che hanno scelto come simbolo dell’istituzione una mano che ne stringe un’altra a significare lo spirito di fratellanza e di solidarietà fra i soci.

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 L’iniziativa ha riscosso notevoli successi e, nell’arco di breve tempo, i consensi diventarono 86 di cui  27 muratori, 19 falegnami ,13 calzolai, 7 sarti, 2 cordai, 3 ebanisti e altri.

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Attualmente il numero degli iscritti è molto maggiore e, tuttavia, suscettibile di variazioni.
Nell’’articolo N°22 del regolamento della Società Operaia era chiaramente specificato chi poteva richiede di essere ammesso come socio del sodalizio: ” Possono chiedere l’ammissione a socio solo gli operai e gli artigiani” Alla fine del mese di gennaio 2020 il nuovo Consiglio ha deliberato che possono fare parte del sodalizio anche le donne. La cerimonia di ammissione di sei donne, omaggiate con un mazzo di fiori, è stata emozionante e calorosa.

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Ilaria Sidoti, Maria Pia Oieni, Rosalba Coniglio, Erika Renna, Elena Vaccaro, Rita Lutri

Il 29 maggio 1864 l’Assemblea deliberava che i soci dovevano essere nella “capacità di compiere un lavoro nell’arte che professano”.
Tutti erano tenuti a condurre una vita operosa e sobria, a conservare buoni costumi, a restare onesti e puliti sia in famiglia sia nella vita pubblica.
I soci si distinguevano in: effettivi, corrispondenti, temporanei, benemeriti, onorari. I soci effettivi erano quelli che praticavano un’arte, un mestiere e che formavano l’elettorato.
I soci onorari potevano frequentare i locali. Tutti dovevano contribuire economicamente versando la tassa di ammissione e la quota mensile.
L’albo d’onore dei soci promotori, dei soci onorari e dei soci corrispondenti è affollato, come si evince dai quadri appesi alle pareti.
Alcune  cornici che abbelliscono i quadri sono opera dell’intagliatore Pasquale Azzolina di Mistretta.

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 Gli organi principali del sodalizio erano: l’Assemblea, il Consiglio, il Presidente, il Centurione, il Cassiere, il Segretario. Il presidente, eletto dall’Assemblea, presiedeva l’Assemblea e il Consiglio dava esecuzione alle decisioni, controfirmava i mandati di pagamento e d’incasso. Ripetutamente eletti presidenti sono stati: Giuseppe Lo Stimolo, Giuseppe Timpanaro, il più giovane presidente al tempo della sua elezione e rieletto per 13 volte consecutivamente, che hanno dedicato alla Società Operaia grande impegno organizzativo e corretta dedizione amministrativa. La loro presidenza è stata rispettosa del passato, attenta al presente, ma soprattutto attratta dalle novità.
Socio onorario perpetuo fu eletto Giuseppe Garibaldi.

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Con un biglietto inviato da Caprera il 12 ottobre 1863 così scrisse agli artigiani di Mistretta: “Accetto con grata soddisfazione il titolo di Vostro presidente perpetuo e Vi auguro l’avvenire più fortunato. Lasciate che stringa a Voi tutte le mani”. Il 19 marzo del 1865 vicepresidente onorario fu nominato Francesco Crispi.

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La delibera del Consiglio Operaio n° 62 dell’11.3.1865 così recita: “[…] Il presidente ha dichiarato aperta la seduta ed ha invitato il Consiglio a deliberare con votazione a schede segrete sulla domanda del Sig. Avvocato Francesco Crispi di Palazzo Adriano, il quale chiede di essere ammesso come socio onorario nei componenti di questa Società.
Ed il Consiglio considerando che l’avvocato D. Francesco Crispi è una persona distinta, è un cittadino di ottimi principi, che il nostro paese può chiamarsi fortunato nello avere un si bravo soggetto per Sotto-Prefetto di questo capo Circondario. Ha passato alla votazione segreta, e si è risultato che ad unanimità di voti fu ammessa la domanda dell’avvocato Sig. D.Francesco Crispi, il quale da oggi in poi fa parte di questa Società come Socio onorario
”. Con questo precedente, in seguito si sono iscritti altri soci onorari fra cui il barone Antonino Lipari.
Altri personaggi importanti per la vita della Società sono stati: il comm. Edoardo Campisi e l’on. Gaetano Martino

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Negli anni 1866-1877, a seguito della legge sulla soppressione degli ordini religiosi, la Società Operaia occupò alcuni locali del monastero delle suore Benedettine. Il fatto irritò il Vescovo. Un pranzo sfarzoso favorì l’accordo, attenuò il litigio, consentì alla Società di riprendere vigore e slancio operativo. Attualmente la Società Operaia ha la sede adiacente alla chiesa di San Sebastiano.

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Nei locali del sodalizio si sono innalzate le grandi idealità che hanno guidato il percorso della storia dall’Unità d’Italia, al dopoguerra, fino ai nostri giorni. Gli ideali del sodalizio erano improntati ai valori: di fratellanza universale, di solidarietà, di impegno civile, di mutuo soccorso, di esaltazione del lavoro come fattore di dignità della persona, di libertà, di amor patrio, di indipendenza, di autonomia, di scambi culturali, di partecipazione al dolore dei soci in caso di morte.
Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e San Giuseppe, l’artigiano per eccellenza, furono i maggiori riferimenti ideologici degli artigiani che ebbero come fulcro il lavoro.

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Statua donata dal barone De Carcamo

Al centro di questo universo fu posto l’Homo faber, l’artigiano operaio che lavora, che crea, che produce. L’artigiano mistrettese ha sempre rivendicato un titolo di qualità tanto da doversi considerare artista proprio perché crea oggetti che richiedono la stessa genialità di chi dipinge un quadro, di chi scolpisce una statua, di chi scrive una poesia o musica un brano.
Gli antichi arnesi del mestiere artigiano, simboli di una categoria professionale che ha rivendicato il carisma della creatività e quello dell’artista, sono rappresentati nel soffitto.

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Dopo la sua costituzione, con la stesura di un regolare Statuto, la Società Operaia acquistò notevole prestigio nell’ambiente cittadino e mantenne sempre caratteristiche di serietà e di buona organizzazione. Restando apparentemente estranea ad organizzazioni politiche e sindacali di lavoratori, l’associazione è stata palestra di partecipazione, di democrazia, di sviluppo della cultura.
Bisogna liberare dalla miseria e dall’ignoranza gli artigiani e i lavoratori.  “La miseria è delitto. Bisogna sconfiggerla, procedere all’istruzione del ceto artigiano”.  Il 16 novembre del 1863 il Consiglio decise di procedere all’indrottinamento, cioè alla possibilità di fare partecipare i soci, una volta al mese, al catechismo politico morale.
Contemporaneamente fu istituita la “scuola serotina per gli operai” dove si impartivano lezioni di italiano, di matematica, di calligrafia agli adulti analfabeti. L’insegnate era il sac. Giuseppe Maciante. Il sodalizio dapprima affrontò le spese di gestione, successivamente ricevette aiuti finanziari dal Comune, dalla Deputazione provinciale, dalla camera di Commercio di Messina.
La scuola serale per gli operai funzionò per 43 anni. Verso la fine del secolo scorso fu istituita la “Scuola di Disegno” di cui uno dei primi insegnanti fu Noè Marullo.
Fu costretta a chiudere per mancanza di fondi. La presenza di una biblioteca, gestita da un socio e organizzata per il prestito dei libri agli stessi soci, conferma l’alta finalità del sodalizio: potenziare il livello culturale degli operai-artigiani attraverso l’esercizio della lettura.
Altro obiettivo fu quello di “migliorare la qualità della vita dei soci disoccupati, bisognosi, soli, vedovi o abbandonati”. A decorrere dal sesto giorno di malattia il socio poteva usufruire di un sussidio di sostegno giornaliero di lire 1,25. Al momento dell’iscrizione il socio doveva dichiarare di essere in buono stato di  salute.
“Bisogna occuparsi anche dei soci defunti”. La morte è sempre un evento sociale. Ad ogni socio deceduto spettava di diritto una solenne partecipazione degli associati alla cerimonia funebre. La non partecipazione all’accompagnamento funebre era penalizzata con un’ammenda pecuniaria. L’istituzione dell’accompagnamento scomparirà lentamente.
La morte di un membro della comunità era sempre annunziata dal suono delle campane che, un tempo, si distingueva secondo che si trattasse della morte di un bambino, di un adulto, oppure che il decesso era avvenuto in un luogo lontano, ma di cui era giunta la funesta notizia. Nel 1900 fu inaugurata la cripta della Società Operaia realizzata da alcuni soci associati in forma cooperativa.
La realizzazione del monumento ai caduti della Grande Guerra fu una brillante idea della Società Operaia. L’opera progettata e diretta dal commendatore e ingegner Vincenzo Vinci, fu inaugurata nel 1924 e collocata in Piazza Vittorio Veneto.
Il 9 settembre del 1944 il Consiglio approvò l’erogazione di un sussidio pro-fondo assistenza ai reduci della seconda guerra mondiale e si occupò dei lavori di restauro dell’ospedale. Altri impegni della Società Operaia furono: l’inaugurazione del nuovo tribunale, il potenziamento del servizio di erogazione del’energia elettrica e l’abolizione della quota fissa. Dopo 148 anni di vita il sodalizio della Società Operaia è ancora molto efficiente e l’estrazione sociale è sempre quella del ceto medio. Sebastiano (Tatà) Lo Iacono nel suo libro dal titolo “La Società Operaia di Mistretta” così scrisse: ” La storia ha assegnato alla Società Operaia il compito di rappresentare il mondo del lavoro artigianale e quello dell’umanesimo integrale dagli assalti della onnipervadente civiltà industriale. La rivoluzione industriale ha ignorato e ignora i valori dell’uomo e persegue solo la logica del profitto e dello sfruttamento delle risorse del pianeta. Il lavoro artigiano, invece, nell’ottica di una piccola e media imprenditoria, potrebbe riuscire a rivalutare l’uomo nella sua totalità. Forse, anche questa è una utopia”.

Sep 8, 2016 - Senza categoria    Comments Off on OMAGGIO AL POETA DIALETTALE MISTRETTESE VINCENZO RAMPULLA

OMAGGIO AL POETA DIALETTALE MISTRETTESE VINCENZO RAMPULLA

L’Associazione Kermesse d’Arte,  in occasione del secondo incontro Trittico amastratino VIII edizione secondo incontro 2016, tenutosi il 3 settembre nell’aula magna dell’Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa” di Mistretta, ha ricordato la figura del signor Vincenzo Rampulla,  poeta popolare, organizzando un convegno al quale ha partecipato un congruo numero di persone.

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Vincenzo Rampulla, un arzillo giovane di 85 anni,  ha stimolato la sua vena poetica creando i versi lavorando in campagna, o accudendo i suoi animali, o nei momenti di riposo . Ama le sue poesie, che conserva ancora nella sua fervida memoria  e che recitata oralmente.

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Ha condotto l’evento il signor Dino Porrazzo, presidente dell’Associazione Kermesse d’Arte.

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Da sx: Dino Porrazzo- Vincenzo Rampulla- Sebastiano Lo Iacono

L’avv. Sebastiano Insinga ha magistralmente letto la poesia che Vincenzo Rampulla ha dedicato all’amico Enzo Romano:

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CERCAVA PAROLE ANTICHE
A Mistretta c’è nun puosto vacante,
picchì nni manca n’amico importante,
n’amico mistrittise, paisano,
ca ogn’aranno vinia ri luntano,
e u so nuomo era Enzo Romano.
Ora sta seggia cu l’av’accupare,
ca bravo cuomo a riddo nu cci nnere?
Sempre girava curtigghie e vanedde,
ca ia circanno tante vicchiariedde.
Era bravo e intelligente,
circava ddi parole anticamente,
facia tante dumanne a ddi mischine,
e gnuorno s’attruvao i libbra chine,
parole chi circava nte paise,
regalo chi lassao e mistrittisi.
Enzo, ora stu smascio a tia ti passao,
arripuose n Parariso assieme a Dio.
U Parariso è a metà ri via,
i mistrittisi sempre pinsamo a tia.
U Parariso è luntano assae,
i mistrittisi nu ti scurdamu mae.

Ha ampiamente relazionato il prof. Sebastiano Lo Iacono di cui  leggiamo piacevolmente e integralmente la sua relazione: “Guido Massino su Franz Kafka scrive così: «…nell’epoca contemporanea il luogo della poesia è soltanto “l’heimat-losig-keit”, l’“assenza di patria”»: l’essere senza casa, senza tetto, senza patria; il poeta è colui che non ha patria, perché la patria non lo riconosce come tale; è la stessa cosa del non essere profeta in patria, come si legge nel Vangelo diMatteo (13, 57), dove sta così scritto: «Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profetanon è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua».

Un poeta non ha patria, inoltre, perché la sua patria è la lingua.

Ecco: questo è il luogo, il topos, della poesia di Vincenzo Rampulla; questa è la sua casa, la sua lingua e la sua patria: questo incontro di oggi, voluto dalla volontà tenace di Dino Porrazzo, è una conferma: un poeta può e deve essere apprezzato nella sua patria.

La vera patria di Rampulla è la sua lingua, il nostro dialetto, come furono e sono stati patria e lingua il dialetto e la lingua-dialetto di e per Enzo Romano.

Vi devo parlare di questa lingua per parlare della poesia di Rampulla, poeta popolare per eccellenza.

Ma, ancora prima di parlare della poesia di Rampulla, occorre dire qualcosa sulla poesia popolare. Che cosa è la poesia popolare? Rimando a un mio saggio introduttivo, nel libro “Ideologia e realtà della letteratura popolare di Mistretta”, un libro del sottoscritto, rimasto ignorato e misconosciuto, scritto nel 1989. Rimasto, appunto, senza patria.

La poesia popolare è tale perché ha un luogo:

“…un luogo non è solo un luogo, ma le parole e gli eventi che lo abitano…”.

Il luogo della poesia di Rampulla è Mistretta, come è Mistretta il luogo della narrativa di Mariangela Biffarella, e come lo è stato per i racconti di Enzo Romano o come è per le poesie di Lucio Vranca, e come lo fu per Vito Siribuono, Carmelo La Porta, Basilio Filetto, Vincenzo Seminara, Lillo Di Salvo, Francesco (Ciccio) Ribaudo; va citata anche Graziella Di Salvo Barbera proprio per la sua raccolta intitolata “I paroli râ me casciaforti”, come altresì vanno ricordati Gaetano Spinnato, Salvatore Insinga e altri poeti popolari di Mistretta, citati, commentati e analizzati in quel mio libro del 1989, nonché menzionati da Giuseppe Cocchiara, nel suo libro “Popolo e canti nella Sicilia di oggi”. Girando Valdemone, suo primo studio del 1923, a cominciare proprio da Siribuono.

 “…[nel] luogo natale: nella relazione che con esso il poeta intrattiene -relazione di memoria, di ritmo, di angoscia – si può scorgere come di fatto sia messo in scena un altro legame, che è essenza e definizione e sapere della poesia: il legame con il “parlar materno…”

La poesia di Rampulla mette in scena il nostro parlare materno: il suo luogo natale.

“La poesia è forse l’ininterrotto esercizio, e conflitto, per non oscurare questa lingua materna, e reinventarla, ogni volta, persino nella disseminazione e nella babele del senso e del suono. Poiché alla terra materna il poeta può tornare soltanto con la lingua…”

“…per uno scrittore, per un poeta, è la lingua la sola patria”.

“La lingua è il familiare nello straniero, il proprio nell’esperienza di espropriazione e di perdita”.

Senza lingua-dialetto siamo tutti perduti.

“Questo nostro povero paese”, scriveva Leonardo SCIASCIA, ne “Il contesto”, è tale perché è senza lingua.

Rileggiamo brevemente LINGUA E DIALETTU, di Ignazio Buttitt:a

“Un populu mittitilu a catina spughiatilu attuppatici a vucca è ancora libiru. Livatici u travagghiu u passaportu a tavula unnu mancia u lettu unnu dormi, è ancora riccu. Un populo diventa poviru e servu quannu ci arrubbano a lingua addutata di patri: è persu pi sempri. Diventa poviru e servu quannu i paroli non figghianu paroli e si mancianu tra d’iddi. Mi n’addugnu ora, mentri accordu la chitarra du dialetto ca perdi na corda lu jornu. Mentre arripezzu a tila camuluta ca tissiru i nostri avi cu lana di pecuri siciliani. E sugnu poviru: haiu i dinari e non li pozzu spènniri; i giuielli e non li pozzu rigalari; u cantu nta gaggia cu l’ali tagghiati. Un poviru c’addatta nte minni strippi da matri putativa chi u chiama figghiu pi nciuria. Nuatri l’avevamu a matri, nni l’arrubbaru; aveva i minni a funtana di latti e ci vìppiru tutti, ora ci sputanu. Nni ristò a vuci d’idda, a cadenza, a nota vascia du sonu e du lamentu: chissi no nni ponnu rubari. Non nni ponnu rubari, ma ristamu poveri e orfani u stissu”.

La verità è che siamo tutti dentro una lingua, cioè “in una lingua che non so (sappiamo) più dire”, scriveva Stefano D’ARRIGO, in Codice siciliano.

In effetti, la lingua di Rampulla non è più la nostra. Abbiamo perduto il dialetto perché parliamo il politichese, l’inglese, il mass-medio-linguese, il giornalese, scriviamo gli SMS e tentiamo di comunicare con il face-bookkese sgrammaticato, con l’inautentico dialetto siciliano dei film di Cinecittà o con il falso dialetto di Andrea Camilleri, la cui lingua-ccia -lasciatemelo dire: la penso così, nonostante il milionario successo dei libri di codesto scrittore siciliano- ha ucciso il dialetto: lo ha sacrificato sull’altare del successo editoriale e del denaro.

Sicché si può dire con Nazim HIKMET, poeta turco della diaspora e vittima di un governo non-democratico:

“…forse morirò (moriremo) lontano (lontani) dalla mia (dalla nostra) lingua…”.

“Un linguaggio -dunque, aggiungeva Vincenzo CONSOLO-

si abita, nostro malgrado”.

“Qui, in questa lingua-dialetto, dove m’assomiglio, in patria…”. Qui, ci assomigliamo.

Stefano D’ARRIGO, Codice siciliano

Qui, abita la poesia di Rampulla: in questo luogo-lingua natale.

Per questo motivo il libro che avevo promesso al signor Rampulla, con tutte le sue poesie, non è ancora pronto: perché ci sono ardui problemi di scrittura e di trascrizione della sua lingua, da affrontare e risolvere. Perché la poesia di Rampulla, prima di essere scrittura, è oralità pura.

La mia promessa la manterrò, così come ho fatto con il libro sulle poesie di Pietro Di Salvo.

Ad ogni modo, penso che delle poesie di Rampulla se ne potrebbe fare ancora prima un CD audio, sulla base delle mie registrazioni audio, effettuate qualche anno fa.

Il dialetto, in passato, era un codice linguistico di cui avere vergogna; lo si parlava a casa, nella sfera del privato, in famiglia ed era codice linguistico di origine demotica; l’italiano era la lingua della cultura e di uso e fruizione pubblica; sulla base di questa dialettica/conflitto pubblico/privato e vergogna del dialetto/onorabilità dell’italiano, ricordo che ci fu un insegnante di scuola media che imponeva ai suoi allievi una tassa-multa di 100 lire per ogni parola in dialetto proferita, come un delitto, in classe: nella stessa epoca la Regione Sicilia approvava una leggina, mai realizzata, di promuovere il dialetto nelle scuole.

«La poesia popolare -ha scritto il linguista Antonino Pagliaro- è essenzialmente anonima. Quando ha un nome è solo un caso raro”.

Nel caso, appunto, di Vincenzo Rampulla la poesia popolare più autentica, sia nella forma metrica sia nel ritmo, ha un nome e cognome.

Rampulla scrive poesie da sempre. In quanto autentico poeta popolare di Mistretta lo hanno apprezzato in pochi e soprattutto il poeta e scrittore Enzo Romano.

Le poesie di Rampulla sono prima di tutto rima, ritmo e oralità; solo in un secondo momento diventano scrittura, la quale, comunque e sempre non è da attribuire allo stesso autore-compositore. Lodevole il tentativo di Piero Consolato e di alcuni parenti di Rampulla di trascriverne alcune, quelle a cui farò riferimento, ma, in entrambi i casi, la trascrizione è una cattiva traduzione di una oralità che va scritta in un certo modo, modo con cui solo Enzo Romano fu maestro.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura è operazione difficile: per questo, il libro su Rampulla non è ancora compiuto. Solo in un certo modo, con rigore filologico, si deve conservare un patrimonio poetico che ritengo appartenga alla cultura di Mistretta e di tutta la Sicilia, nonché all’area linguistica del dialetto siciliano.

Le poesie di Rampulla sono anche memoria e storia: nascono nella sua memoria, dove le ha conservate, come in un archivio non digitale di segni, dove risiede la nostra identità, e poi diventano storia individuale e collettiva.

La memoria prodigiosa di Rampulla, anche alla venerabile età di ottantacinque anni, non basta però a salvare dall’oblio la sua oralità poetica, la quale, in quanto tale, appartiene ai cosiddetti beni immateriali della nostra cultura siciliana e di Mistretta: sicché, con il supporto dei figli di Rampulla, bisognerà farsi carico di scrivere ovvero ri-trascrivere in grafia fonetica e con l’ausilio dei segni diacritici, le poesie di un autentico poetico della nostra cultura siciliana e dei Nebrodi. In quanto bene immateriale, dovrebbe attivarsi il nostro museo regionale delle tradizioni silvo-pastorali, intitolato a Cocchiara, ma mi pare che non si facciano grandi cose in tal senso.

Rampulla è stato ed è autore prolifico: il suo poetare in lingua-dialetto è quasi un dono divino, una specie di estro che rapisce e coinvolge quasi fosse uno stato di follia creativa.

La scrittura e la trascrizione delle poesie di Rampulla sono, purtroppo, un approccio limitato a uno status poetico che è fatto soprattutto di oralità pura, recitazione, memoria, ritmo e musicalità: sicché ho proceduto alla registrazione dei suoi testi con la sua voce, con la sua singolare cadenza e con l’intrinseca musicalità che essi contengono, la quale non può essere riprodotta mediante la scrittura, ma soltanto attraverso il documento sonoro.

Rampulla poeta ci appartiene e appartiene a quella lunga schiera di poeta popolari e contadini che ho citato. In quanto poeta, Rampulla appartiene non solo alla nostra cultura locale, bensì alla cultura siciliana e universale, in quanto uomo-poeta che interroga l’essere e si interroga sul mistero dell’esserci.

Una forte componente della poesia di Rampulla è quella religiosa e devozionale: in quanto tale la sua voce singolare è voce di tutti, voce collettiva e universale. La poesia di Rampulla è spesso poesia che prega, come il popolo di Mistretta ha pregato nei secoli e prega ancora i propri santi e la nostra Madonna dei Miracoli.

Molti suoi componimenti nascono da occasioni e da avvenimenti di vita quotidiana, familiari e sociali. Queste occasioni e avvenimenti sono gli stimoli a cui Rampulla risponde con un poetare ritmico e cadenzato che ricorda, richiama e riproduce quello dei cuntisti, contastorie e cantastorie di un tempo.

Rampulla è cuntista, contastorie e cantastorie; Rampulla è poeta popolare che sa cantare anche senza musica perché la sua poesia è intrinsecamente musicale, anche se non è musicata come i lied.

Le poesie di Rampulla, analizzate e raccolte dal sottoscritto tramite anche il figlio Felice, provengono da una serie di testi raccolti dall’autore stesso, di cui alcuni consegnati alla Biblioteca comunale in una silloge che porta la data del 14 luglio 2008, e da altre trascrizioni effettuate da parenti e da alcuni estimatori, come nel caso già detto dell’amico Piero Consolato.

Il criterio che bisognerà adottare nella redazione di questa raccolta sarà soprattutto quello cronologico e poi quello tematico, oltre al fatto che la trascrizione in grafia fonetica, secondo quanto prescritto dalla magistrale lezione di Enzo Romano e da altri studiosi del dialetto, senza modificare i testi nella loro forma e nel loro contenuto originario, va fatta rispettando la lezione orale dello stesso autore: quella che è la musica del dialetto.

Bisognerà fotografare l’oralità per conservarla come essa è, onde preservare intatto un patrimonio poetico che merita la lettura, la lode, il riconoscimento e l’attestazione di essere un valore poetico immateriale che va custodito e salvato dall’oblio.

Nelle poesie di Rampulla si parla delle cose di Dio, delle cose della vita e di quelle cose d’oro, che sono appunto le poesie in dialetto siciliano di Mistretta, le quali, come e meglio dell’oro, vanno tutelate essendo inscritte nel cuore di un uomo che porta il nome e cognome di Vincenzo Rampulla, autentico poeta popolare di Mistretta.

Alcuni cenni sul metodo di composizione: a me pare che Rampulla componga le sue poesie solo a memoria e oralmente, allorché c’è un testo scritto è perché ci sono stati uno o più trascrittori. Da qui ne consegue la difficoltà a risalire al dettato originale che gravita a livello di oralità e verbalità pure.

I temi di questi componimenti sono molteplici. Ne faccio un rapido riassunto: la Madonna dei Miracoli, San Sebastiano, la solitudine dei vecchi, la guerra in Iraq, i cani e la mamma, il cattivo governo e Mistretta “cimitero di spazzatura”, il 118, l’ospedale, Telemistretta, la Pasqua e le campane, un ricordo di padre Tano Farina, santa Rita e la parrocchia di santa Caterina, fatti di cronaca (come il dramma dei profughi, le epidemie di aviaria e brucellosi), l’inquinamento, la malavita, il mare e l’ironia sull’abbronzatura delle donne, l’emigrazione, la tempesta, il treno e l’automobile, figure professionali (come il medico, il notaio, il benzinaio, il tabaccaio, il fornaio), la guerra, il conflitto tra tempi moderni e tempi antichi, i costumi e malcostumi di oggi, i giovani e gli anziani, temi agricoli e contadini (la vigna, la vendemmia, l’ulivo), l’infanzia nel 1935 (quando a casa si cenava con la cosiddetta “fedda rassa” e a base di “pani e cipudda”), poesie per varie occasioni familiari e, infine, quelle toccanti dedicate a san Giovani Paolo II (“Giuvanni Paulu secunnu, ca purtava paci n-tutt’ô munnu”, ”unni mittia e pusava i pieri, er’accumpagnatu ru Signuri”), a Peppino Lo Presti e al mitico Enzo Romano.

In queste ultime composizioni, dove il metro e la ricerca della rima, come sempre, sono dominanti, Rampulla ricorda il papa Santo, Enzo e Peppino con versi struggenti: “[Vi] nni istu e mi lassatu sulu. Unni siti, ora? Unni state? Mpararisu stati, e faciti festi e stornellati”, come ai tempi delle belle serate d’agosto; “mPararisu” c’è un tempo senza tempo, dove ci si può dedicare, appunto, solo a “ricitari e fari poesie”; per “arricampare, arricogghijri, arrisittari e arraccamare paroli antichi”; “si corchi gghjuòrnu -dice Rampulla, rivolto a Enzo, che non c’è più, ma c’è ancora nei suoi libri- mi vò mannari, ti fazzu subbitu pubblicari”: (quasi una specie di dialogo tra poeti: quello che sta aldilà e quello che ancora lo ricorda nell’aldiquà); ma nell’aldiquà -aggiunge Rampulla, in un altro contesto- “c’è n sìnnicu ri Mistretta ca tene na cosa segreta: nun ddici c’a-Mmistretta c’è n pueta”.

Difatti, e ritorniamo a quello detto in apertura: a Mistretta, i poeti non hanno casa, patria e tetto.

C’è una casa unica per Rampulla e Romano: quella casa-heimat è il dialetto-lingua: questa è l’unica patria: qui continua ad abitare Enzo Romano e qui abita, dimora, vive e risiede la poesia di Vincenzo Rampulla, poeta di una cittade che ignora i poeti”.

Il poeta Vincenzo Rampulla ha recitato un’altra poesia per ricordare il suo grande amico Enzo Romano a cui era legato dal medesimo amore per la poesia dialettale in mistrettese arcaico.

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STAIO PARLANNO RI ENZO ROMANO

 Staio parlanno ri Enzo Romano,
ca era nu mistrittise e nun paisano,
ogni anno vinia ri luntano.
S’aspittava u iuorno chi vinia,
ca nta Mistretta purtava allegria,
pa so bravura a dire a poesia.
Nu facia telegramme e manco invite,
tutte l’amici sempri riuniti,
ca si vulievino bene cuomo i frate.
Enzo o 12 giugno t’arrivao n’avviso:
ti chiamao Gesù Cristo o Parariso;
dda truaste tutte i pariente tue,
e su contente ca tu nu suoffre chiue.
Enzo n Parariso stae cuntente,
amici e pariente ca nu ci manca nente;
amicu mio tu contente ha stare,
io corche ghiuorno ti viegno a truare,
e Gesù Cristo chi sò passe curte,
a uno a uno ni riunisce a tutte,
e quanno simo tutte riunite,
facimo sempre feste e stornellate.
Amico mio, tu n Parariso stae,
amici e pariente nu ti scordino mae,
ma quanno ti chiama Dio e ti nni vae,
u tò passato nu si cancella mae.
Sta poesia a fice Vicinzino,
ca quanno a legge si sente a tia vicino.

Ascoltiamo:

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 Il signor Dino Porrazzo ha consegnato al poeta dialettale mistrettese Vincenzo Rampulla la Targa premio

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con la seguente motivazione: “Per il prezioso contributo dato alla conoscenza della cultura popolare mistrettese”.Applausi, applausi, applausi!

Sep 4, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA FESTIVITA’ DEL SS.MO ECCE HOMO E LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

LA FESTIVITA’ DEL SS.MO ECCE HOMO E LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

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La festa del SS.mo Ecce Homo è una festa religiosa solenne, che uguaglia la festa di San Sebastiano, il patrono di Mistretta. Si commemora la seconda domenica del mese di settembre di ogni anno con le funzioni religiose che si celebrano nella chiesa di Santa Maria di Gesù e con il cammino processionale del venerato simulacro del SS.mo Ecce Homo e della Varetta per le vie della città di Mistretta.

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 Il culto e la devozione verso il SS.mo Ecce Homo furono istituiti fin dalla metà del 1600 dai Frati Minori Riformati, che abitavano nel convento annesso alla Chiesa Santa Maria di Gesù.

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Dopo la soppressione degli Enti Ecclesiastici, il patrocinio della festa del SS.mo Ecce Homo fu sopportato da alcune devote donne che fondarono, nel 1866, la “Pia Congregazione delle Donne” che si adoprava per non “far venir meno la devozione al santissimo Ecce Homo”.
Fino ai primi anni del 1900 e fino alla sua estinzione, molto meritatamente la Pia Congregazione delle Donne mantenne viva la devozione verso il SS.mo Ecce Homo. Alla Pia Congregazione delle Donne subentrò la “Società Agricola di Mutuo Soccorso”, formata da soci contadini, che continuarono la tradizione devozionale e festosa del SS.mo Ecce Homo per oltre un secolo.
Attualmente il merito di organizzare la festa del SS.mo Ecce Homo spetta ai giovani del Comitato o Associazione Pro Ecce Homo che, con tanta devozione, con notevole entusiasmo e grande impegno, dal 2010 riescono ad realizzare il vasto programma religioso e folkloristico con concerti, tornei e manifestazioni equestri. Il popolo partecipa a tutte le iniziative sostenendoli, lodandoli e applaudendoli.

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Sono i giovani che hanno fatto rinascere la Società Agricola di Mutuo Soccorso a Mistretta e, in particolare, Cicala Vincenzo, Contino Salvatore, Favaloro Francesco, La Ganga Giuseppe, Lipari Luciano, Lo Prinzi Vincenzo, Mazzurco Antonino, Mentesana Giovanni, Mingari Vincenzo, Ruggieri Giuseppe, Ruggieri Vincenzo, Rampulla Vincenzo, Sanzarello Antonino, Sanzarello Vincenzo, Scolaro Giuseppe, Testa Gabriele, Vinci Antonino, Zampino Sebastiano, guidati dal signor Sorbera Giuseppe, attuale presidente della Società.

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Da sx Sebastiano Zampino e Vincenzo Mingari

Un valido contributo alla Società Agricola ha dato il signor Enzo Giordano prematuramente scomparso.

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A centro del gruppo con gli occhiali  in basso

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I fratelli Antonio e Vincenzo Sansarello

 Valida e affettuosa guida è il loro presidente, il signor Giuseppe Sorbera.

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Per citare qualche attività: qualche giorno prima della festa si esibiscono nella piazza San Felice da Nicosia i concorrenti alla gara della corsa agli ostacoli. Nella piazza davanti alla chiesa si esibiscono i partecipanti alla caratteristica “‘ntinna”, il “gioco della pentolaccia”, il gioco diabilità per colpire e rompere, saltando, la pentolaccia di terracotta, posta in alto su una lunga corda, che contiene il premio.

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 La banda locale suona musiche adatte all’avvenimento.

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Dopo la Messa pomeridiana, quest’anno 2016, giorno 11 settembre, la statua del SS.mo Ecce Homo uscirà dalla chiesa di Santa Maria di Gesù.

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salutata dallo sparo dei mortaretti e alla dispersione dei bigliettini con la scritta “Viva l’Ecce Homo

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ed è trasportata in processione dal fercolo magnificamente addobbato con i fiori e con le offerte in denaro dei devoti per grazie ricevute.

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  Il sacro fercolo è accompagnato dal sacerdote, dalle autorità civili, dalla banda musicale, dalla gente. La festa è spettacolare e trasmette tanta emozione!

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Durante il cammino processionale il fercolo del SS. Ecce Homo è preceduto dalla Varetta, che contiene la reliquia della Santa Croce e i ceri votivi offerti dai fedeli per le grazie ricevute.

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Dopo il cammino processionale, la festa si conclude con lo sparo dei fuochi d’artificio e con l’estrazione dei biglietti vincenti i tanti premi messi in palio. Un momento molto atteso è l’esibizione degli artisti sul palco in piazza San Felice. Quest’anno, il 10 settembre, intratterrà il pubblico Annalisa Scarrone con la Band in concerto “Se Avessi Un Cuore Tour“.

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Letteralmente “Ecce Homo” significa “Ecco l’Uomo”, frase che il governatore della Giudea di allora, Ponzio Pilato, rivolse ai Giudei nel momento in cui mostrò loro Gesù flagellato.
Il Vangelo secondo Giovanni (19,5-22) racconta la crocifissione di Gesù: “Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo ». Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: « Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: « Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». Gli risposero i Giudei: « Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio ». All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: « Di dove sei? ». Ma Gesù non gli diede risposta.  Gli disse allora Pilato: « Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce? ». Rispose Gesù: « Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande». Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono: « Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare ». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litostroto, in ebraico Gabba-tà.  Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: « Ecco il vostro re! ». Ma quelli gridarono: « Via, via, crocifiggilo! ». Disse loro Pilato: « Metterò in croce il vostro re? ». Risposero i sommi sacerdoti: «Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Golgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei ».  Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: « Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei ». Rispose Pilato: « Ciò che ho scritto, ho scritto ».

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LA STATUA E IL FERCOLO DELL’ECCE HOMO

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La statua dell’Ecce Homo, coperto dalla mantellina rossa, è una figura di grande rilievo artistico. E’ una scultura lignea policroma attribuita a Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, della prima metà del sec. XVII, dove l’artista è riuscito ad esprimere il sentimento dell’umana sofferenza messo in evidenza dalla testa piegata a destra, dallo sguardo assente, dalle braccia incrociate, dalle mani legate, dalle ginocchia piegate e insanguinanti. Raffigura tutta l’Umanità che Lo ha offeso e martirizzato.

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Il fercolo, dal latino “fero” “portare” e “cultus” “ culto” “portatore di culto”, la macchina processionale per il trasporto del SS.mo Ecce Homo, fu realizzato dal valentissimo scultore intagliatore ebanista Pasquale Azzolina, nato a  Mistretta il 10 gennaio 1859 e deceduto il 15 febbraio 1934 che ha dimostrato di possedere notevole capacità artistica ricevuta in eredità dal padre Michele.

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 L’opera è venuta alla luce da un tronco legnoso di albero di tiglio finemente scolpito negli anni 1913 – 15. Presenta la base di 175×143 cm e l’altezza totale di 300 cm. Le colonne laterali riccamente lavorate, sorreggono la cupola formata da spicchi triangolari alternati e finemente intagliata lungo il perimetro del cornicione. La cupola termina con la croce composita poggiata sopra una sfera dorata.

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Adornano gli archi sotto la cupola paffute facce di angeli alati.

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Le quattro colonne, che reggono la cupola, riccamente intarsiate, nelle nicchie ospitano le statue raffiguranti la passione di Cristo:
Maria, la Madonna Addolorata, avvolta nel manto azzurro, stretta nel suo immenso dolore;

23 ADDOLORATA

 San Giovanni evangelista, nuovo figlio di Maria, in una posizione di statico abbandono.

24 GIOVANNI

San Pietro, il capo della Chiesa cattolica, che stringe in mano un oggetto non identificato;

25 ok PIETRO

Giuda, il traditore, che, nella disperazione del tradimento e nel gesto che prelude al suicidio, poggia una mano sui capelli e l’altra nel collo lasciando a terra il sacchetto con i trenta denari

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Il fercolo è stato dipinto con “l’oro dei poveri”, con la “porporina” una vernice dorata formata da polvere metallica mescolata ad una sostanza oleosa e poi coperta da una vernice trasparente. Recentemente il fercolo e’ stato sottoposto ad un necessario ed urgente restauro, lavoro eseguito magnificamente dall’artista mistrettese il maestro Mario Biffarella, perché la mancanza di manutenzione, le sollecitazioni dinamiche per il trasporto durante il cammino processionale, gli sbalzi termici avevano compromesso la stabilità della struttura.
Il restauro del fercolo è stato finanziato dal Comune di Mistretta grazie all’interessamento del dott. Giuseppe Testa, allora assessore al bilancio, e al contributo della Società Agricola elargito su proposta  dei signori Franco Scarito ed Enzo Giordano.
L’artista Pasquale Azzolina ha prodotto molte altre opere in legno, di grande valore artistico, commissionate dalle chiese, dalle confraternite, dalle famiglie nobili dell’epoca. Recentemente, dopo un’accurata ricerca, il Prof. Domenico Lo Iacono ha rinvenuto diversi lavori da lui realizzati e custoditi nella Chiesa Madre della vicina città di Nicosia  e nella chiesa del convento dei Cappuccini dove è custodito l’altare del Beato Felice. Pasquale Azzolina è il nonno degli illustri fratelli amastratini Domenico e Vittorio Lo Iacono che hanno descritto i tratti artistici e personali del loro congiunto in due libri presentati a Mistretta.
Durante la presentazione del libro “PASQUALE AZZOLINA Scultore” di Domenico Lo Iacono con la Collaborazione Storica Artistica di Mario Biffarella il relatore prof. Francesco Cuva così si espresse:
<< Varia è la produzione dell’artista che ha avuto la sensibilità di aprirsi al mondo dell’arte scegliendo il confronto continuo con gli altri artisti del luogo, in una stagione, a Mistretta, dinamica e ricca di innovazioni, e ricercando nuove tecniche di soluzione. Apparentemente, sembra che il fercolo abbia una funzione di cornice cioè complementare rispetto alla figura dell’Ecce Homo. Invece ne è strumento principale per comprendere la scena nella dimensione temporale e spaziale. Le due realtà, statua e fercolo, ad occhio creano una perfetta simmetria. L’osservatore attento, quindi, è portato ad immaginare l’antica scena drammatica allorché Ponzio Pilato consegna Gesù ai carnefici per farlo crocifiggere. Nello stesso tempo, focalizzando le due statue del fercolo, l’Addolorata e San Giovanni evangelista, ripercorre le vicende della crocifissione, mentre con Giuda, il traditore, e Pietro, il rinnegatore, si rivive la Passione.
Alzando lo sguardo verso la cupola con la croce appare l’immagine della chiesa che tramanda il sacrificio di Cristo per la redenzione dell’umanità. La macchina processionale di Pasquale Azzolina propone, perciò, il mistero del dolore e della pietà. Assistono alla scena, dall’alto, gli angeli, mentre i quattro archi e le quattro figure richiamo la perfezione del creato e del Creatore. Anche la finitura pittorica, “l’oro dei poveri”, oro-ocra spento, si adatta al clima mesto rappresentato dalla scena.
In conclusione, Pasquale Azzolina ha voluto trasmettere un messaggio sempre attuale sulla condizione umana che cerca protezione e trova conforto nella misericordia di Dio; tale conforto era rivolto ai contadini che ne sono stati, per altro, i committenti
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LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

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La chiesa di Santa Maria di Gesù, situata alla fine della via Anna Salamone, risalente ai secoli XVI- XVII, già chiesa dei Frati Minori Riformati, è l’edificio associato a complesso ospedale SS.mo Salvatore. Attualmente la chiesa funge da cappella dell’ospedale e riceve quanti dal nosocomio passano a miglior vita e dove sono vegliati dai parenti prima di essere condotti al cimitero dopo la celebrazione del rito funebre.
I Frati Minori Riformati nel 1610 si insediarono nel convento annesso alla chiesa e nei locali ospitavano ammalati, poveri, bisognosi e pellegrini e,  soprattutto,  i ragazzi ai quali  insegnavano l’apprendimento di  un mestiere.
Vi rimasero fino alla soppressione degli Enti ecclesiastici.
Nel 1874 il convento, costruito attorno ad un ampio cortile circondato da portici,

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dalla Commissione Sanitaria fu destinato ad accogliere una nuova struttura ospedaliera, al posto dell’antico ospedale del SS.mo Salvatore costruito nel 1571 e condotto da sorelle religiose.
Il convento e l’ospedale erano circondati da un esteso orto, l’odierna Villa Chalet, coltivato a frutteto e a giardino.
Da alcuni anni un ampio spazio è stato sottratto all’orto per realizzare la pista di atterraggio dell’elisoccorso.
Probabilmente, anche il “giardino della complessità”, lo spazio verde limitrofo all’ospedale Ss.mo Salvatore e annesso al reparto di salute mentale, diretto dal dottor Antonino Puzzòlo, faceva parte del sopradetto orto. Il 20 novembre del 2015 in questo giardino è stata messa a dimora una giovane Betulla, alta circa tre metri, durante la “Giornata dell’arte in giardino, sezione autunnale” in onore di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano che ha rivoluzionato il sistema della cura delle malattie mentali in Italia. E’ stata scelta la Betulla perché è il simbolo della salute e dell’igiene mentale.
La chiesa di Santa Maria di Gesù esternamente appare molto semplice.
La facciata principale, restaurata nella prima metà del XX secolo, è ornata sul timpano da un bassorilievo in stucco raffigurante la Madonna col Bambino.

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La ristrutturazione dell’interno della chiesa, avvenuta nel 1847, dall’aspetto neoclassico, previde la realizzazione del pavimento e degli altari in marmo.
La chiesa, nel suo interno, presenta una sola navata che conduce al presbiterio dove nell’altare maggiore, entro l’edicola neoclassica dipinta, con le parti a rilievo in stucco, poggiante su balaustra marmorea, è esposta la tela che raffigura la Madonna degli Angeli con il Bambino in braccio che assurge in cielo accompagnata dagli angeli e dai santi francescani San Francesco e Santa Chiara,

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L’opera, del 1796, è di Giuseppe Scaglione da Mistretta, allievo di Agatino Sozzi e di Giuseppe Patania.
Il tabernacolo,  racchiuso fra colonnine, è chiuso dalla porta d’argento riccamente lavorata.

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Un altro dipinto, con tecnica ad olio su tela, di forma rotonda, è posto in alto. Rappresenta lo Spirito Santo sotto le sembianze di una colomba.

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Sulla chiave dell’arco trionfale si può ammirare lo scudo in stucco con l’emblema dell’Ordine dei Frati Minori Riformati.

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 Ai lati dell’altare, entro due nicchie, sono custodite le statue dei Santi francescani San Pietro d’Alcantara e San Pasquale Baylon.

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Realizzati in legno, tela e colla agli inizi del XIX secolo, sono opera di ignoto artista.
Nelle nicchie delle pareti laterali della chiesa sono accolte diverse statue, probabili opere di maestranze locali, che si fanno ammirare per la bellezza delle espressioni e per la cromatura vivace dei colori delle vesti dei santi.
La statua lignea policroma di Sant’Anna e Maria bambina è posta entro l’edicola in stucco.

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Realizzata alla fine del XIX e inizi del XX secolo, è di autore ignoto. Probabilmente la statua fu commissionata dalle suore Figlie di Sant’Anna, che offrivano la loro assistenza ai degenti dell’ospedale SS.mo Salvatore di Mistretta dal 1889 al 1974. Sotto la mensa dell’altare di Sant’Anna è deposta la statua in cera con le reliquie del corpo di Santa Colomba, del XIX secolo.

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La statua marmorea dorata e policroma della Madonna di Ogni Titolo, posta entro edicola in stucco, della scuola dei Gagini (fine del XVI – inizi del XVII secolo), mostra sul plinto lo stemma del committente.

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Sotto la mensa dell’altare della Madonna d’Ogni Titolo è deposta la statua in cera di San Severino, del XIX secolo.

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Arricchisce l’altare, il dipinto, di forma ovalizzata, che rappresenta San Giuseppe e il Bambino, opera della seconda metà del XVIII secolo.

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La statua di San Francesco d’Assisi, posta dentro l’edicola in stucco, è una scultura lignea policroma del XIX – XX secolo.

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Sotto la mensa dell’altare di San Francesco è deposta la statua in cera di Santa Veneranda, del XIX secolo.

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Adorna lo stesso altare l’immagine della Madonna del Santo Aiuto, olio su tela di Giuseppe Minutoli da Messina (1865).
La cornice è opera dell’intagliatore  Pasquale Azzolina di Mistretta.

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La statua di Sant’Antonio di Padova, in legno policromo, custodita dentro l’edicola in stucco, è opera di ignoto scultore del sec. XVII e rielaborata nel sec. XIX.

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 Sotto la mensa dell’altare di Sant’Antonio di Padova è deposta la statua in cera di San Perseverante, del sec. XIX.

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Prezioso è il bel Crocefisso, datato 1634-1635, una scultura lignea policroma, opera dello scultore francescano Giovan Francesco Pintorno, meglio conosciuto come fra’ Umile da Petralia Soprana, il più grande scultore di arte sacra del ’600.
L’artista, in questa intensa rappresentazione del Cristo Crocefisso, è riuscito ad esprimere il sentimento dell’umana sofferenza evocato attraverso i segni cruenti del martirio.
Il Cristo è colto nel momento del trapasso.
La drammaticità è molto accentuata dalla testa inclinata a destra, dalla bocca semiaperta, dagli occhi chiusi, dal corpo che si muove verso sinistra, dalle gambe nel momento di abbandono.
Il volto ha due immagini: da una parte c’è il Dio che si sacrifica per il riscatto dell’Uomo, dall’altra parte c’è l’Uomo che accetta il sacrificio.
Il corpo, asciutto, mostra ampi ematomi e numerose ferite. Si possono contare le costole.
Il Crocifisso è stato restaurato a Catania per opera del dott. Errera. La finitura pittorica non è più quella originale realizzata da fra Umile.

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Il grande realismo è accentuato anche dai solchi ai polsi e alle caviglie provocati dalle funi, dalle piaghe ma, soprattutto, dalla quantità di sangue che sgorga abbondante dalla ferita del costato. Segni distintivi della scultura di Frate Umile sono la grande corona di spine sulla testa e le ciocche di capelli che scendono dalla spalla. Il valore salvifico del sacrificio è percepibile nella serena e sublime compostezza dei tratti fisionomici del volto. L’opera è stata restaurata da Giuseppe Lupo nel 1960. Il Crocifisso dovrebbe essere posto nel Suo altare, nell’affresco fra Maria Addolorata e San Giovanni, ma è stato allontanato per proteggerlo dall’umidità della parete.

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Sotto la mensa dell’altare del Crocifisso è deposta la statua in cera di Santa Chiara, del XIX secolo.

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Di grande rilievo è la statua dell’Ecce Homo posta dentro l’edicola in stucco. E’ una scultura lignea policroma attribuita a Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, risalente alla prima metà del sec. XVII.

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 Sotto la mensa dell’altare dell’Ecce Homo è deposta la statua in cera di San Celestino, del sec. XIX.

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Tutte le statue reliquarie, giacenti sotto le mense degli altari, hanno le mani e il viso di cera e gli abiti ricamati.
Importante, nella sua semplicità, è la cantoria da dove si affacciavano, per partecipare alle funzioni religiose, le suore, le figlie di Sant’Anna, che fino al 1974, come già detto, assistevano gli ammalati bisognosi ricoverati nell’ospedale SS. Salvatore.

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Il Pulpito è formato da una balaustra in legno policromo ad imitazione di pannelli a transetto marmoreo di autore ignoto datato1716.

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Il confessionale in legno laccato con parti dorate  appartiene alla seconda metà del sec. XIX

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Nella cantoria è custodito l’organo a canne con cassa dorata e policroma, della fine del sec. XVIII. Necessita di un necessario ed imminente restauro.

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Sep 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANTA ROSALIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANTA ROSALIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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La tradizione racconta che al conte Ruggero, mentre osservava il tramonto con la contessa Elvira, sua moglie, gli apparve una figura che gli disse: «Ruggero io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine» e, per questo motivo, la neonata si chiamerà Rosalia.
Etimologicamente il nome Rosalia” è composto da “rosa” e “lilium”, “rosa e giglio”, fiori simbolo di purezza e di unione mistica che anticiparono le qualità che contrad­distinsero la giovane nel corso della sua vita. Rosalia nacque a Palermo nel 1130, figlia del Duca Sinibaldode’ Sinibaldi, e della nobildonna Maria Guiscardi.
Il padre era un vassallo del re normanno Ruggero, Il a cui il re aveva donatoun grande feudoalla Sier­ra Quisquina e il Monte delle Rosein contrada Realtavilla, nella ex provincia di Agrigento.La madre era cugina del re normanno Ruggero II.
Quindi apparteneva ad una nota famiglia del XII secolo. Dalla sua fami­glia ricevette una buona educazione e una so­lida formazione cristiana.

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Rosalia, crescendo,  divenne una graziosa fanciulla dalla carnagione chiara, dai capelli biondi e dagli occhi neri. Vissuta in ricchezza presso la corte di re Ruggero, era la damigella più bella fra tutte le altre giovanette che abbellivano il Palazzo con il loro fascino. Un giorno il re Ruggero fu salvato dal conte Baldovino dall’aggressione di un animale selvaggio. Il re, volendo disobbligarsi, gli chiese di esprimere un desiderio. Baldovino chiese Rosalia in sposa.
Rosalia, tagliò le sue lunghe trecce, respinse il pretendente, lasciò la vita di corte, si donò alla vita religiosa e abbracciò la fede di Cristo. I suoi genitori avevano sognato per lei un no­bile matrimonio, come si conveniva alle giovani del suo rango. Una tra­dizione popolare racconta che Rosalia, il giorno in cui avrebbe dovuto incontra­re Baldovino, si guardò allo specchio. Invece di vedere riflessa la pro­pria immagine, vide quella di Gesù Crocifisso con il volto rigato di sangue a causa della corona di spine conficcata nella Sua fronte. Rosalia non ebbe più dubbi.

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Poiché Rosalia visse nel periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia dopo aver scacciato gli Arabi che avevano dominato nell’isola dall’827 al 1072, accolse la vocazione religiosa scegliendo di vivere da eremita.In quel tempo l’eremitismo era molto frequente sia fra gli uomini  sia fra le donne e la scelta di una vita in solitudine, in preghiera e in contemplazione era l’espressione più alta della sensibilità religiosa. 
A soli 13 anni Rosalia lasciò la sua famiglia.
All’inizio si rifugiò presso il monastero delle Basiliane a Palermo. Ben presto, però, abbandonò quel luogo per distaccarsi dalle frequenti visite dei genitori e del promesso sposo che cercavano di dissuaderla dal suo intento di abbracciare la fede religiosa. Decise, quindi, di intraprendere la vita anacore­tica per trascorrere le sue gior­nate in solitudine e in preghiera per coltivare con più perfezione la pietà e la vita contempla­tiva.  In assoluta povertà, voleva possedere  il cielo come tetto e la terra come letto in  compagnia della voce della Natura per essere sempre più degna di Cristo Crocifisso, suo Sposo.
Vivendo in solitudine, avrebbe conservato la sua purezza e avrebbe fraternizzato con gli angeli del cielo. Alla morte di Ruggero II chiese ed ottenne di poter vivere in eremitaggio nella Sierra Quisquina, il feudo del padre, luogo che aveva visitato da bambina. Vi si trasferì in una notte buia, con il solo chiarore delle stel­le che guidava i suoi passi.
Portò con sé gli oggetti più cari: una picco­la croce d’argento e una corona per il Ro­sario.
Si rifugiò in una piccola grotta incuneata tra il monte Cammarata ad est e il monte delle Rose ad ovest ,a mezza costa di un dirupo di circa 900 metri di altezza.Un angolo di terra così nascosto tra i boschi che i saraceni lo avevano chiamato Quisquina, dall’arabo “Coschin” che signi­fica “oscuro”.
In quella grotta, nascosta nella cavità della roccia e protetta da una fitta vegetazione, nessuno si sarebbe accorto della sua presenza.

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LA GROTTA

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Il periodo di permanenza in quel luogo, in eremitaggio, è testimoniato  dal ritrovamento di un’epigrafe autografa, incisa su una superficie di roccia ben levigata con lettere alte due dita e disposte su nove linee irregolari, scritta in latino da Rosalia. Così recita: ” Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae Et Rosarum Domini Filia Amore D.ni Mei Jesu Christi In Hoc Antro Habitari Decrevi” “Io Rosalia di Sinibaldi, figlia del signore della Qui­squina e delle Monte delle Rose, per amore del mio Si­gnore Gesù Cristo stabilii di abitare in que­sta spelonca”. Questo mirabile ritrovamento, avvenuto il  24 agosto del 1624, fu attribuito a due muratori palermitani che lavoravano nel convento dei Domenicani di Santo Stefano di Quisquina.
Nel­l’angolo basso, a sinistra, comparve anche il 12,  il numero degli anni  che Rosalia trascorse nella grotta in  solitudine e in preghiera.
Allontanatasi dalla grotta della Quisquina, Rosalia, ritornata a Palermo, si soffermò per un breve periodo nella casa paterna, nel quartiere dell’Olivella.
Successivamente
si trasferì a Palermo, sul Monte Pellegrino,da tempo ritenuto un monte sacro, abitandodentro un’inospitale grotta dove gocciolava l’acqua dalle pareti rocciose,circondata da un paesag­gio selvaggio, accanto ad un antico altare, prima pagano e poi dedicato alla Madonna. Qui Rosalia visse in eremitaggio per circa 8 anni, fino alla morte, vestita  della sua tonaca e cibandosi di ciò che le offriva il suo rifugio.
Il motivo che indusse  Rosalia a la­sciare la Sierra Quisquina e a trasferirsi nella grotta sul Monte Pellegrino è sco­nosciuto. Alcuni autori sostengono che tutti i beni della famiglia furono confiscati in se­guito a una violenta ribellione dei conti e dei baroni contro i Normanni e nella quale fu ucciso anche il duca Sinibaldi. Ro­salia, sentendosi in pericolo nella grotta della Sierra Quisquina, non essendo più di proprietà della sua famiglia, decise di andar via e di ritirarsi sul Monte Pellegrino. Il Monte Pellegrino è una montagna calca­rea alta 606 metri che si affaccia sul golfo di Palermo e che i Greci chiamavano “Ercta”, “Impervio”.
Ro­salia scelse quel luogo considerandolo adatto al suo eremitaggio. Lo raggiunse salendo attraverso un sentiero impervio che, dal bosco della Favorita, portava alla vetta del monte. Trascorreva le giornate nella penitenza e nella continua adorazione di Cristo. Come fosse sopravvissuta con tali disagi ha del miracoloso.
Probabilmente un cacciatore, nativo del luogo, le procurava il cibo. Morì il 4 settembre, presumibilmente dell’anno 1160. Docilmente Rosalia si pre­parò al passaggio alla nuova e migliore vita. Si distese sulla terra della grotta, appoggiò la testa sul­la mano destra, usandola come cuscino, strinse forte al petto con la mano sinistra il piccolo crocifisso.
Rosalia non morì da sola! Una schiera di angeli scese dal cielo sulla terra per seppellire il suo corpo, poi ritrovato sepolto a quindici piedi sotto terra, contenuto in un sepolcro preparato dalla natura. Il 7 maggio del 1624 il viceré di Sicilia, Emanuele Filiberto di Savoia, avido di regali, nonostante il parere contrario del Senato Palermitano, concesse al vascello, proveniente da Tunisi e guidato da Maometto Calavà, di ormeggiare nel porto palermitano.
Trasportava innumerevoli doni e molti schiavi cristiani colpiti dalla peste. La malattia si diffuse rapidamente fra la popolazione palermitana. A causa del contagio, la gente moriva in gran numero e a nulla valsero le suppliche a Sant’Agata, a Santa Cristina, a Sant’Oliva, a Santa Ninfa, le sante protettrici della città. Alla signora Girolama La Gattuta, già ammalata di peste e ricoverata all’Ospedale Grande di Palermo, apparve una giovane fanciulla dal viso d’angelo, vestita da infermiera, che le accarezzò il viso, le raffreddò la fronte scottante per la febbre con un fazzoletto bagnato e le promise la guarigione se fosse salita sul Monte Pellegrino per ringraziarla. La fanciulla era Santa Rosalia.
Per intercessione di Rosalia la donna guarì miracolosamente dopo tre giorni di malattia. Girolama  non si recò  sul Monte Pellegrino, non effettuò il suo voto. Si ammalò nuovamente. Il 26 di Maggio del 1624 era il giorno di Pentecoste e Girolama, di nuovo in preda alla febbre, si recò sul Monte Pellegrino accompagnata dal marito Benedetto e dall’amico Vito Amodeo.
Appena bevve l’acqua, che gocciolava dalle pareti rocciose della grotta, Girolama miracolosamente guarì. Cadendo in un riposante torpore, rivide in fondo alla grotta la fanciulla, che aveva visto già all’Ospedale Grande, vestita con una lunga tunica di arbraxo, la stoffa di sacco vecchio, e con una cintura di cordone bianco intorno alla vita.
Ella pregava in ginocchio davanti ad un Crocifisso di legno posto sopra un masso su un rustico altare. Rosalia le apparve nuovamente per indicarle l’esatta posizione nella grotta dove scavare e dove trovare il “tesoro” delle sue reliquie. Nei primi giorni del mese di giugno del 1624 iniziarono gli scavi, indicati dalla stessa Girolama, ed eseguiti dai contadini dei dintorni e dai monaci francescani che vivevano nel vicino convento e che già nel Cinquecento con il loro superiore San Benedetto il Moro (1526-1589) avevano provato a trovare le reliquie. Il 15 luglio del 1624 gli scavi terminano. Sotto una grande lastra di calcarenite, lunga sei palmi e larga tre, posta a quattro metri di profondità, aderivano bianchissime ossa umane mescolate ad altre ossa di colore scuro, appartenenti probabilmente ad un frate perchè là vicino c’era una chiesetta.
Le ossa, per il loro candido colore e per le modeste dimensioni del cranio, furono attribuite ad una donna.
Emanavano un gradevolissimo profumo di fiori. Le ossa, ripulite, furono portate nella cappella del Palazzo Arcivescovile dove risiedeva Giannettino Doria, il Cardinale e Arcivescovo di Palermo. Il collegio di sei dottori nominati dall’Arcivescovo Doria sembrò poco convinto concludendo che le ossa, per le dimensioni, sembrava appartenessero ad uomini e non a donne. Ottenuto questo primo esito negativo il cardinale Doria non ritenne necessario portare in processione queste “non ancora reliquie”.
La peste continuava a mietere vittime ed il popolo aveva bisogno di sperare. Il 13 febbraio del 1625 il saponaro Vincenzo Bonelli, disperato per la perdita della giovane moglie quindicenne, si vestì da cacciatore e, contravvenendo all’ordine delle autorità che,per motivi di sanità pubblica, l’avevano obbligato a rimanere casa, nell’antico quartiere della “Panneria” dove viveva barattando mobili vecchi, perché, essendo la moglie morta di peste, avrebbe potuto essere probabile causa di contagio, in compagnia del suo cane e col fucile in spalla, si recò sul monte Pellegrino con l’intenzione di suicidarsi gettandosi giùdal precipizio prospiciente il mare dell’ Addaura.Al momento di mettere in atto il suo triste intentogli apparveuna splendida figura di giovane donna bella e colvolto splendente “come un angelo” che fermò il gesto suicida di Vincenzo.
Rosalia  lo condusse verso la grotta,
che ella gli indicò come la sua “cella pellegrina“, e scendendo con lui dalla cosiddetta “valle del porco” verso la città,lo esortò a pentirsi e a convertirsi, glipreannunciò che sarebbe morto di morte e gli promise la protezione per la sua anima se avesse riferito al cardinale Doria che le ossa rinvenute erano veramente le sue e di portare le reliquie in processione per la città di Palermo accompagnate dal canto del “Te Deum Laudamus” poiché lei, Rosalia, dalla gloriosa Vergine Madre di Dio aveva ottenuto la promessa che, al passaggio delle sante reliquie, la peste sarebbe cessata e la città di Palermo sarebbe stata risanata. Colpito dal morbo, come la Santa gli aveva predetto,  prima di morire confessò a padre Don Petru Lo Monaco, parroco della Chiesa di Sant’Ippolito Martire al Capo, le rivelazioni di Rosaliachiedendogli di informare della visione l’Arcivescovo.
Il 22 febbraio del 1625 Il Cardinale Doria, persuaso dal racconto di Vincenzo, dopo la sua morte, e convinto daldirettore della casa Professa, Padre Giordano Cascini, diede l’incarico di riesaminare per la seconda volta le ossa a un gruppo di soli padri Gesuiti, nessuno dei quali medico, ma tutti di incrollabile fede in Dio. I sei Padri, osservando l’insieme di ossa e di pietre, stabilirono che, senza dubbio, uno dei teschi appartenesse ad una donnaper le piccole dimensioni delle stesse, e poi  perché le ossa erano bianche, quasi candide, e le donne “ per il loro temperamento freddo e umido, hanno più bianchezza e morbidezza nelle carni e quindi anche delle ossa”.
Affermarono che quelle preziose ossa appartenevano con certezza a Rosalia Sinibaldi. Gli altri teschi appartenevano ad animali. Poiché sisapeva che l’unica donna vissuta sul monte Pellegrino era Rosalia, fu dichiarata l’autenticità dei resti trovati e a lei attribuiti.Il 9 giugno del 1625 l’arcivescovo Giannettino Doria, seguito da tutto il clero, dal senato palermitano, da molti cittadini eminenti e da tutta la popolazione, con grande solennità portò in processione l’urna contenente le sante reliquie di Rosalia attraverso le strade della città di Palermo. Al passaggio del corteo con le reliquie racchiuse in un’urna d’argento e al canto del Te Deum Laudamus, gli ammalati di peste guarirono miracolosamente.
In pochi giorni la città fu liberata dalla pestee fu ripresa la pubblicacircolazione di “persone, animali e mercanzie.Gli scrivani del re annotarono nei registri comunali il nome, l’età, il luogo della guarigione di tutte le persone guarite. Da allora Palermo ha sempre onorato Santa Rosalia dove il culto è particolarmente vivo.
Proclamata santa, Rosalia si festeggia,secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII che inserì Rosalia nel “Martirologio Romano”, il 15 luglio, perché ricorre l’anniversario del ritrovamento delle sue reliquie, e il 4 settembre, perchè ricorre il giorno della sua morte. Santa vergine dalla Chiesa cattolica, Rosalia fu eletta patrona di Palermo nel 1666, chiamata devotamente a Santuzza“, con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia con l’edificazione di chiese a Lei dedicate. A Palermo, nel mese di luglio ogni anno, si ripete il tradizionale “U Fistinu”.

“Il Festino” è la grande festa dei Palermitani in onore di Santa Rosalia per ricordare il giorno del ritrovamento delle spoglie mortali della Santuzza, avvenuto il 15 luglio del 1624, e il giorno in cui furono portate per la prima volta in solenne processione per la città il 9 giugno del 1625.
Quest’anno 2016 è stato ricordato il 392° Festino di Santa Rosalia  che si è svolto in 5 giorni, precisamente dal 10 al 15 luglio. Il programma è stato molto ricco di avvenimenti culturali, tradizionali, folkloristici.
Il 14 luglio, dopo la celebrazione dei solenni vespri pontificali, la grande “processione popolare“, trainando il carro trionfale a forma di barca, che si rinnova ogni anno e che ricorda il vascello, con in cima la statua di Santa Rosalia, è iniziata dalla Cattedrale, è proceduta lungo l’antico asse viario del Cassaro in Corso Vittorio Emanuele, ha attraversato Porta Felice ed è giunta fino al mare del Foro Italico.
Ai Quattro Canti, come da tradizione, il sindaco ha deposto i fiori ai piedi della statua della Santa gridando “Viva Palermo e Santa Rosalia!”
Un grande spettacolo pirotecnico ha concluso la serata.

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Foto da internet

Hanno accompagnato la processione i canti di devozione:

“Uno. Nutti e jornu farìa sta via!

Tutti. Viva Santa Rusulia!

U. Ogni passu e ogni via!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca ni scanza di morti ria!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca n’assisti a l’agunia!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Virginedda gluriusa e pia

T. Viva Santa Rusulia!”

ed ogni tanto il grido “E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia”. Ilcarro, che si è ispirato al carro del Pitrè, quest’anno è stato ricco di decori. Il pittore Jean Houel, nel 1776, nel descrivere il carro così lo definisce: «È un’arca di trionfo mobile che porta una grandissima quantità di musici e la cui base è come una conca, portata su quattro ruote. Nel mezzo il simulacro della giovane con splendido abito, sospesa su di una nuvola e circondata di raggi di gloria”.
Il 15 luglio per la città di Palermo è il giorno solenne dei festeggiamenti in onore di Santa Rosalia. In Cattedrale, durante la giornata, sono state celebrate varie messe solenni e, nel pomeriggio, è iniziato il cammino processionale delle Sacre Reliquie di Santa Rosalia contenute in un’artistica urna argentea. Hanno partecipato: l’Arcivescovo, il Sindaco, le Autorità civili e militari, il Capitolo Metropolitano, il Capitolo Palatino, il Clero del Seminario Arcivescovile, le Parrocchie e le Confraternite della Città. Il percorso si è snodato lungo il corso Vittorio Emanuele, Piazza Marina, dove l’Arcivescovo ha espresso il suo messaggio alla città di Palermo, e il ritorno dal Corso Vittorio Emanuele, Quattro Canti, Via Maqueda, discesa dei Giovenchi, Piazza Sant’ Onofrio, Via Panneria, Piazza Monte di Pietà per sostare davanti alla prima edicola votiva dedicata alla Santuzza, Via Judica, Via Gioiamia, Via M. Bonello.
I solenni festeggiamenti sono terminati col rientro delle sante reliquie in Cattedrale e con la benedizione eucaristica. Fanno parte della tradizione popolare palermitana alcuni alimenti: la Pasta con le sarde (la pasta chî sardi), i babbaluci (lumache bollite con aglio e prezzemolo), lo sfincione ( ‘u sfinciuni), il polpo bollito ( ‘u purpu), Calia e simenza (‘u scacciu), la pannocchia bollita (pullanca) e l’anguria (detto ‘u muluni). Allietano la festa le moltissime bancarelle allineate al Foto Italico che espongono le loro mercanzie.

Santa Rosalia si festeggia il 4 settembre, giorno della Sua morte, seguendo alcuni riti. Per tutta la notte, tra il 3 e il 4 settembre, i fedeli si sono recati in pellegrinaggio, a piedi scalzi o in ginocchio per grazie ricevute, al  santuario di Monte Pellegrino compiendo la tradizionale “acchianata”, la salita a piedi  per rendere onore a Santa Rosalia. Il santuario, scavato nella roccia, è il luogo dove Rosalia visse da eremita, come recita l’iscrizione sulla parete d’ingresso alla chiesa. Prima di entrare nella grotta si ammirano gli ex voto per grazie ricevute che, nel tempo, hanno riempito le pareti del vestibolo della grotta del santuario.
Una cancellata di ferro battuto divide la prima parte del santuario dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte che ricordano la presenza della santa. La statua di santa Rosalia giacente, in atto di esalare l’ultimo respiro, rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788), si venera sotto una grande teca di vetro trasparente all’interno della quale i fedeli visitatori depositano ori, monili, monete e banconote.

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La “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana. Ancora oggi in qualsiasi parte del mondo i palermitani si incontrano si salutano così: “Viva Palermo e santa Rosalia!” Inoltre Santa Rosalia protegge la città di Palermo dai terremoti, dalle tempeste e dai temporali. E’ anche protettrice dei marinai. I suoi emblemi sono: il giglio, la corona di rose, il teschio.
Auguro Buon Onomastico a tutte le donne che portano il nome di “Rosalia”.

 LA CHIESA DI SANTA ROSALIA A MISTRETTA

La chiesa di Santa Rosalia, comunemente conosciuta dai mistrettesi come la chiesa di Santa Rosa, è stata edificata nel  XVII secolo dalla congregazione allora esistente dopo il rinvenimento del corpo di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino nel 1624. Si trova esattamente all’inizio del paese percorrendo la strada proveniente da Santo Stefano di Camastra verso Mistretta.

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Della originaria costruzione oggi non rimane quasi nulla, però la chiesetta è stata ricostruita nella metà del XVIII secolo.Apparentemente, osservando la  facciata esterna, non sembra essere una chiesa in quanto il prospetto, poco piacevole alla vista, è rivestito dal grigio cemento.
Solo il piccolo campanile dà l’aspetto di una chiesa. Il portale originale è stato ricomposto e collocato sul retro della chiesa. Nell’architrave è incisa la data:1666.

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 Si accede all’interno della chiesa superando qualche gradino esterno. La chiesa è di modeste dimensioni e a navata unica.

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Modifiche strutturali e decorative sono state eseguite nel 1750. Danneggiata dal terremoto del mese di ottobre del 1967, la chiesa è stata riaperta al culto dopo molti anni. All’interno, inoltre, due dipinti dell’ambito di Vito D’Anna, riconducibili alla seconda metà del XVIII sec. La chiesa possiede pochi altari e pochi arredi. Nell’altare maggiore del presbiterio, entro la nicchia è custodita la statua lignea dorata e policroma di Santa Rosalia, opera di anonimo intagliatore siciliano risalente alla prima metà del XVII secolo.

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Adorna l’altare il paliotto in cuoio dipinto e pirografato della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare dell’Immacolata custodisce il dipinto ad olio su tela, dell’ambito di Vito D’Anna, della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare di San Michele Arcangelo custodisce il dipinto ad olio su tela, dell’ambito di Vito D’Anna, della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare di San Liborio custodisce la statua lignea policroma del santo risalente agli anni intorno al 1750. Arricchisce l’altare il sottostante paliotto marmoreo del tardo barocco.

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 L’altare del SS.mo Crocifisso custodisce la pittura murale con le Dolenti Donne risalente ai primi anni del 1750;

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Foto di Antonino La Ganga

Il Cristo in Croce, recuperato dal giovani del nuovo comintato, è stato collocato fra le Dolenti.

Il confessionale è in legno policromo e dorato risalente alla prima metà del sec. XIX.

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Il pulpito è di lego scuro con decorazioni floreali in metallo dorato

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Ringrazio la guida turistica il signor Nino Dolcemaschio per la sua disponibilità a fornirmi le preziose informazioni.

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