Feb 7, 2017 - Senza categoria    Comments Off on UN DONO GRADITO, PIACEVOLE – SPIACEVOLE

UN DONO GRADITO, PIACEVOLE – SPIACEVOLE

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Un dono può essere gradito ma, nello stesso tempo, dolce – amaro.
Ricevere un libro in regalo è sempre un’esperienza piacevole, ma apprendere la notizia dell’improvvisa morte dell’autore è causa di molta tristezza.

Da parte del mio amico Carmelo Federico ho ricevuto il dono dell’importante suo libro, scritto assieme al figlio Rocco,
LA GUIDA ALLA FLORA VASCOLARE DEL COMPLESSO COLLINARE CATALFANO-SONUNTO”,  con dedica.

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Nella mail mi aveva scritto: “Carissima Prof.ssa Nella, nonché amica mia carissima, questa mattina ti ho inviato “LA GUIDA ALLA FLORA VASCOLARE DEL COMPLESSO COLLINARE CATALFANO-SONUNTO” con la prefazione di Pino Giaccone, il Prof. algologo che tu hai conosciuto al tempo dei laboratori di anatomia vegetale assieme al prof.Sortino, al prof.Trapani, e il libro sulle Orchidee Siciliane con la prefazione di Silvano Riggio.
Se ben ricordi era, ai nostri tempi, l’assistente del Prof. Reverberi, mentre oggi è titolare della cattedra di Ecologia. Sto curando una seconda edizione aggiornata delle Orchidee siciliane. Vorrei continuare a dialogare con te, ma rimandiamo a tempi migliori. Un forte abbraccio, un sincero augurio, un caro saluto
. Carmelo Federico”.
Carmelo Federico è stata la prima persona che ho conosciuto quando sono venuta a Licata, ancora studentessa universitaria, e col quale è nata una sincera, leale e profonda amicizia.

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Amicizia! Una parola ricca di molti significati. Epicuro ci ha insegnato: “Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia“. L’Amicizia esiste ed è un bene reale. Grazie, amico mio, per esserci stato!
Carmelo Federico e Carmelo De Caro erano molto amici. Alla loro indissolubile amicizia si è aggiunta anche la mia. Avevamo molti interessi in comune. La Natura soprattutto! Ricordo le lunghe escursioni che facevamo nel territorio di Licata, muniti di macchine fotografiche, alla ricerca di piante spontanee dalle quali volevamo conoscere il nome scientifico consultando subito la Guida Botanica D’Italia. Tutti e tre eravamo appassionati dello studio della Botanica. Sono ricordi di tanti ani fa, ma indelebili.
La sua prematura scomparsa, avvenuta il 24 novembre del 2016, il giorno di Santa Flora, mi ha pietrificata anche perché il nostro ultimo dialogo è avvenuto pochissimi giorni prima del suo decesso.
Tempi migliori che, purtroppo, non ci sono stati.
Il prof. Carmelo Federico era il licatese, trapiantato a Palermo, che possedeva i veri valori della vita: la generosità, l’onestà, la modestia, l’amore per la Natura. Valori che rendono la vita degna di essere vissuta pienamente e che possono lasciare la traccia e il ricordo incancellabile negli altri. Era studioso e divulgatore delle piante che faceva conoscere attraverso i suoi numerosi articoli di argomento naturalistico e attraverso le sue pubblicazioni di argomento floristico: “La Flora della Riserva dello Zingaro, la Flora del Parco delle Madonie, la Flora della Riserva di Torre Salsa (AG), la Flora della Riserva di Vendicari (SR), la Giuda alla Flora Vascolare del complesso collinare Catalfano-Solunto”. E’ stato membro del Direttivo dell’Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali (A.N.I.S.N.) sez. di Palermo. E’ stato socio della O.P.T.I.M.A. “Organization for the Phyto-Taxonomic Investigation of the Mediterranean Area”. E’ stato socio della Società Botanica Italiana e della Società Siciliana di Scienze Naturali.
Carmelo, riposa in pace! Lassù sei la stella più luminosa. Tutti noi ti saremo sempre vicini con la preghiera.
Nella nota del paragrafo “Un cenno alla Geo-idro-logia della zona” del libro “ Giuda alla Flora Vascolare del complesso collinare Catalfano-Solunto (Pa) ho letto: “Linaresii perché questa piccola e precoce Iridacea è stata dedicata dal suo autore il Botanico Filippo Parlatore al suo grande amico Vincenzo Linares”.

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Il fatto che all’illustre licatese VincenzoLinares è stato reso omaggio con l’attribuzione del suo nome a questa bellissima pianta è una gioia per tutti i licatesi e per me in particolare che, leggendo la nota, la comunico con entusiasmo nel mio blog.
Filippo Parlatore, nato a Palermo l’8 agosto 1816, è stato un famoso studioso di Botanica. La sua attenzione per la botanica nacque dalla conoscenza dei botanici palermitani Vincenzo Tineo, direttore dell’Orto botanico di Palermo, e Antonino Bivona Bernardi. Il Comune di Palermo lo ricorda intitolandogli una via cittadina che porta il Suo nome. Desiderando approfondire le sue conoscenze botaniche, Filippo Parlatore viaggiò molto in Italia, in Svizzera, in Francia, dove ebbe come maestri de Candolle, St.Hilaire, Brogniart, e fece  amicizia con Webb e von Humboldt. Nel 1842 il Granduca Leopoldo II gli conferì la cattedra di botanica all’Università di Firenze e lo nominò direttore del Giardino dei Semplici annesso al Museo di Botanica dove è esposto il suo busto.

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Nel 1844 fondò il “Giornale botanico italiano” e, nel 1845, l’Erbario Centrale Italiano. Diresse il Museo di Storia Naturale di Firenze dal 1868 fino alla morte avvenuta il 9 settembre del 1877. Fu autore di diverse pubblicazioni scientifiche.

La Romulea linaresi subsp. Linaresii, lo Zafferanetto di Linares, è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Iridaceae.

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Si fissa al suolo mediante un piccolo bulbo dal quale s’innalza il fusto, alto 8-10 cm, che termina con 1-2 fiori.  Le foglie, di colore verde intenso, sono filiformi e strette. Il fiore è di colore violaceo e con venature bluastre. Fiorisce prematuramente nei mesi tra febbraio e marzo.

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 Il frutto è una capsula ovoidale, lunga circa 1 cm, divisa in tre setti, contente i semi.
La Romulea linaresii è una pianta endemica delle aree costiere della Sicilia nord-occidentale. Facilmente s’incontra nei territori di Palermo e di Marsala.
I suoi habitat preferiti sono le rupi e i prati prospicienti il mare e fino a un’altitudine di 600 metri. Ama essere accolta da un terreno calcareo o sabbioso.

La figura di Vincenzo Linares, giornalista e scrittore italiano, è stata egregiamente raccontata dal prof. Calogero Carità nel suo libro
” IMMANIS GELA NUNC ALICATA URBS DILECTISSIMA AC…”

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Vincenzo Linares nacque a Licata il 6 aprile del 1804 da Filippo e da donna Nicoletta Lenzi.
Dopo i primi studi seguiti nella città natale, assieme al fratello Antonino si trasferì a Palermo per frequentare il Collegio Casalanzio retto dallo zio materno Carlo Lenzi. Subito si applicò nello studio della filosofia e delle materie umanistiche prevalendo nelle gare scolastiche organizzate dai professori del collegio.
Quindi intraprese gli studi di diritto non portati a termine perché, suo padre, avendo subito un rovescio di fortuna, lo fece ritornare a Licata, in famiglia.
Da Licata ritornò nuovamente a Palermo e, nel 1827, cominciò a lavorare presso la Gran Corte dei Conti.
Ai momenti di lavoro e di studio alternava momenti di rilassamento suonando la chitarra. Assieme al fratello Antonio nel 1834 fondò una gazzetta settimanale pubblicata fino al 1837.  Il periodico, dal titolo “Il Vapore”, istruttivo, gradevole, accompagnato da un figurino di mode, collaborato da alcuni tra i maggiori uomini intellettuali palermitani dell’epoca, dando ampio spazio agli scritti di Felice Bisazza e di Giuseppe La Farina, godette di grande simpatia e di larga diffusione in Sicilia. Per quanto i fratelli Antonio e Vincenzo Linares abbiano scelto il quieto vivere, è dalle colonne del loro giornale che prendono evoluzione le più disparate manifestazioni di pensiero. I fratelli Linares furono i proprietari, i fondatori e i redattori principali del giornale avendo come collaboratori, anche se per poco tempo, i fratelli Francesco, Paolo e Vincenzo Mortillaro. Destinato alle “colte e gentili siciliane di ogni specie di bello e di sapere desiose”, in un primo momento non ebbe grande successo, considerato giornale elegante, ma poi ben presto si impose.
A rendere il giornale ancora più interessante contribuirono i disegni di Giuseppe Patania, i rami di Tommaso Aloisio, di Francesco Saverio Cavallaro, le incisioni di Pietro Waincher, il pennello dei fratelli Burgio per colorare il figurino di mode. Ebbe molti consensi.
Anche il marchese Tommaso Gargallo, che tutelava la cultura siciliana dell’epoca, fu ammiratore de “Il Vapore” e scriveva da Napoli a Vincenzo Linares: “Del Vostro foglio vi assicuro che resto assai contento sentendone anche le lodi da bocche che, trattandosi di cose siciliane, non vogliono essere molto eloquenti”. Alternando la poesia, al racconto, alla novella fornì utili notizie letterarie, economiche, igieniche.
La critica teatrale, pur mettendo in luce i difetti dei teatri siciliani e la scarsa valenza degli artisti, espresse parole di lode per i pochi artisti meritevoli, che onoravano veramente l’arte del canto, ed evidenziò le insufficienze delle amministrazioni teatrali.
A causa del diffondersi dell’epidemia del colera a Palermo, ogni attività letteraria si bloccò e anche “Il Vapore” cessò le pubblicazioni nel 1837.
Nel 1838 Vincenzo Linares fece stampare il romanzo “Maria e Giorgio, ossia il colera a Palermo”, dove è evidente il richiamo alla peste manzoniana. L’opera fu elogiata dai più valenti critici contemporanei: da Filippo Parlatore, da Ottavio Lo Bianco, da Filippo Minolfi, da l’Ambrosioli.
I racconti popolari”, scritti durante la sua permanenza a Canicatti, dove svolgeva il suo lavoro di notaio, pubblicati nel 1840 presso la stamperia di Bernardo Virzì, e che l’autore dedicò al Principe di Sant’Elia, sono un’altra produzione letteraria del Linares. In essi Vincenzo descrive, nella loro cruda realtà, le tradizioni, le superstizioni, le credenze, gli usi, i costumi, i difetti e le virtù del popolo siciliano.
Nel 1840, sempre presso la stamperia di Bernardo Virzì, pubblicò il racconto “I Beati Paoli” i quali “col manto dell’ipocrisia coprivano le loro buone o cattive azioni”.
Nominato ufficiale di carico nella cancelleria della Gran Corte dei Conti a Palermo, nel 1841 Vincenzo Linares pubblicò il racconto “ Il masnadiero siciliano” dedicato al fratello Antonio. In esso racconta la storia del brigante Antonio Di Blasi detto il “Testalonga”.
Egli è uno sventurato uomo perseguitato dalla sfortuna che, per l’invidia umana, è stato costretto a darsi alla macchia. E’ un bandito gentiluomo che, coraggioso per natura, feroce per necessità, difende i poveri costringendo i ricchi ad aiutarli e imponendo ai vessatori di restituire ciò che hanno derubato.
Anche il racconto “L’avvelenatrice” riscosse notevole successo.
Il Linares assume l’atteggiamento di un progressista legalitario, che condanna la mafia, che si rammarica dello stato di arretratezza economica della sua terra e che si augura che si aprano nuove strade per affrontare gli affari, per aumentare i traffici e per riunire gli abitanti della Sicilia incoraggiando a far cessare i delitti, i privilegi, gli asili.
Nel 1844 collaborò con “La Gazzetta dei Saloni” di Palermo e con i giornali “L’Occhio” e “L’Oreteo”.
Fu, inoltre, biografo di illustri personaggi siciliani tra i quali il botanico Antonino Bivona Bernardi e il fisico Domenico Scinà, entrambi deceduti durante l’epidemia del colera.
Ammalatosi, nel 1845, improvvisamente colpito da apoplessia, morì a Palermo il 18 gennaio del 1847 a soli 41 anni d’età.

Nel 1902, durante la rievocazione di Vincenzo Linares, organizzata dal rag. Angelo Aquilino, nella Piazzetta Elena di Licata la lapide in sua memoria fu collocata sul muro del prospetto meridionale dell’antico ospedale San Giacomo d’Altopasso il cui epitaffio fu suggerito da Gaetano De Pasquali.

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Il liceo classico “V. Linares” di Licata porta il suo nome.

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foto della prof. Rosaria Merro

Jan 27, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL MARE NEGLI OCCHI

IL MARE NEGLI OCCHI

Gentile prof. Calogero Carità, ho apprezzato moltissimo il Suo post pubblicato su facebook “PER NON DIMENTICARE” dove mette in evidenza uno spaccato di vita cittadina licatese di molti anni fa e che anch’io ho vissuto.

https://www.youtube.com/watch?v=S7VTPimU4JU&t=8s

CLICCA QUI

 

In nome della nostra grande amicizia, e per ricordare i nostri comuni amici, vorrei condividere con te, che sei stata una delle prime persone che ho conosciuto quando sono arrivata a Licata alla fine degli anni ’60, i miei ricordi attraverso il mio racconto:

IL MARE NEGLI OCCHI”.

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Quella sera di fine ottobre Lilia era appena ritornata a casa, da Palermo, dopo aver superato brillantemente gli esami di Botanica e di Zoologia all’università, per commemorare i suoi cari defunti.

 La terra tremò all’improvviso.

 Un forte boato risuonò nell’aria, l’eco si diffuse nelle strade, fra le case, rimbombò nel campanile della chiesa di San Sebastiano che crollò. Furono momenti terribili. Dopo qualche minuto, il paese fu avvolto da un silenzio tombale. Pioveva a dirotto e imperversava un vento impetuoso. La gente, atterrita, correva, correva, ancora vestita o in abbigliamento notturno e in ciabatte, portando in braccio i piccoli addormentati e ignari.

Lilia, entrata nella stanza per avvertire la sorella Anna che stava cullando la figlioletta Lucia, vide le stelle. La parete, dove era appoggiato il letto, era crollata, la culla colma di calcinacci, la bimba miracolosamente illesa.

Con cappotti e coperte, afferrati in fretta, gli scampati al terremoto cercavano di difendersi dal freddo intenso della notte in montagna. I bagliori dei falò erano visibili anche da lontano. Le fiamme alte, rosse e bordate di giallo, liberavano tanta energia termica e luminosa che rischiarava la notte buia senza luna e riscaldava i corpi intirizziti delle persone che, negli ampi spazi lontani dal paese, dove minore era il pericolo di crolli e di frane, si erano riunite per trascorrere insieme la notte all’addiaccio. Disposte a cerchio intorno al fuoco, raccontavano con emotività la traumatica esperienza appena vissuta.

Per alimentare la pira, ciascuno collaborava portando sacchi di carbone, pile di vecchi giornali, sedie e tavoli sbilenchi, raccogliendo rami secchi degli alberi nel boschetto della Neviera, smontando ponteggi lignei dei muratori.

 Ogni materiale era utile per produrre calore che riscaldava il corpo e incoraggiava il cuore. C’era tanta solidarietà anche nel portare acqua da bere, viveri e, soprattutto, la radiolina che trasmetteva le ultime, aggiornate notizie.

Il papà di Lilia era andato a visitare la sua mamma novantenne che non aveva capito niente dell’accaduto.

Gran parte della popolazione mistrettese, fiduciosa e devota, si era rifugiata all’interno della chiesa Madre, davanti all’altare della Madonna dei Miracoli, per pregarLa, con ardente fede cristiana, di ripararla sotto il Suo manto. I fedeli, dopo, Le hanno offerto un medaglione d’oro in segno di ringraziamento.

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Il terremoto, che aveva devastato la Valle del Belice e anche parte di Mistretta, “regina dei Nebrodi”, splendida cittadina costruita su uno sperone di roccia, non aveva procurato nessun ferito, nessun morto, solo un mulo, dentro una stalla, vide finire i suoi giorni coperto dai detriti del tetto crollato.

Sotto le macerie della sua casa Lilia aveva perso gli oggetti più cari e, in particolare, tutti i suoi libri, che gelosamente custodiva.

Lilia, in seguito, arrivò a Licata di notte, col treno proveniente da Palermo e diretto a Siracusa. Era la prima volta. Fu ospite di Salvatore e di Dorotea, gli splendidi genitori di Carmelo a cui Lilia era legata dal sentimento dell’amore e dalla passione per lo studio delle Scienze Naturali che li aveva fatti incontrare nell’ateneo di Palermo.

Ad aspettare l’arrivo del treno, per la venuta del figlio e della sua ragazza, c’era il papà Salvatore che, durante il tragitto, dalla stazione ferroviaria di Licata fino a casa, in Via San Francesco di Paola, nel quartiere della Marina, dove le case si abbracciano, si era sostituito alla più preparata guida nell’illustrare le bellezze della città: i corsi principali, i palazzi signorili, le chiese, la villetta “Giuseppe Garibaldi”, il Palazzo di città.

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Mamma Dora aspettava paziente a casa l’arrivo dei due giovani.

I larghi corsi della città impressionarono favorevolmente Lilia abituata a percorrere le strette e contorte stradine del suo paese.

L’affettuosa accoglienza dei licatesi, socievoli e cordiali, facilitò il suo inserimento e consentì il confronto di idee. Poi, con la sua permanenza stabile a Licata, Lilia riuscì ad unire la sua vita alla loro integrandosi nel contesto sociale e culturale della città.

Era affascinata dalla conoscenza del nuovo mondo etnografico e paesaggistico.

Le ragazze licatesi avevano la pelle abbronzata e nera, Lilia invece aveva la carnagione bianchissima e trasparente.

La gente dl Licata l’accolse offrendole semplici ma espressivi doni: tre dalie violacee raccolte nel vaso del balcone, un centrino lavorato all’uncinetto, un piatto di pesci appena pescati, un segnalibro, una cartolina antica, un variopinto cardellino domestico dal gradevole canto. Lilia avrebbe voluto regalargli la libertà aprendo la gabbia ma, incapace di procurarsi il cibo e maldestro nel volare, sarebbe stato sicuramente un boccone prelibato per qualche gatto affamato. Lilia gli si era subito affezionata.

Lo aveva chiamato Fragolino per una macchia rossa sull’ala sinistra.

 Al ritorno dal lavoro lo chiamava: Fragolinooooo! Fragolino un giorno non rispose. Non saltellò.

Lilia, dopo tanto tempo, lo ricorda ancora con nostalgia e con affetto.

Lilia era un’attenta osservatrice dei comportamenti di un popolo diverso dal suo.

Ammirava la generosità di quella famiglia che, imbandendo la tavola nella via San Francesco di Paola, fuori della porta del basso dove abitava, la invitava a condividere la cena e a bere un bicchiere di vino rosso locale.

La penuria d’acqua fu, per Lilia, la vera esperienza negativa a Licata: non era abituata a risparmiare quel liquido prezioso che vedeva scorrere dai rubinetti in media una volta ogni venti giorni.

U zza’Saru”, un furbo vecchietto, passava per le vie della marina a vendere l’acqua, a caro prezzo, prelevandola da qualche pozzo. Il suo carretto, sormontato dalla botte e trainato dallo stanco e acciaccato cavallo, con il rumore delle ruote e con lo scalpitio degli zoccoli dell’animale, rivelava la sua presenza in strada.

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Olio su tela di Salvatore De Caro

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Le donne gridavano: “a vutti c’è, a vutti c’è”. Le massaie, dal balcone, fermavano U zza’Saru con la botte. L’acqua, misurata con le “lancedde”, era trasportata nei piani alti delle case attraverso le scale. Che fatica anche per me!

Per Lilia, nata e vissuta in montagna, trapiantarsi a Licata fu un’emozione meravigliosa: il cielo, dal colore del lapislazzuli, di solito limpido e trasparente, era un elemento di diversità rispetto al suo paese dove la nebbia spesso avvolge, nasconde e rende tutto invisibile, anche se non è inverno.

Il mare fu la sua principale attrazione. Il mare, con le sfumature dell’azzurro e del verde. Il mare che, in un amplesso di tenerezza, lambisce le larghe spiagge dalla sabbia fine e chiara, dove s’insinua con dolcezza regalando emozioni degne di un paesaggio caraibico.

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 Dopo la mareggiata, Lilia, appassionata di malacologia, andava a raccogliere le conchiglie abbandonate sulla spiaggia.

Ama tuttora passeggiare sulla banchina del porto di levante, che profuma di sale e puzza di alghe putride; osserva, preoccupata per l’inquinamento, il gasolio che nuota a ventaglio fra le barche, miraggio dell’uccello negli abissi.

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Cominciò a praticare il mare, a partecipare alle battute di pesca subacquea con Carmelo e con gli altri amici del “Centro Attività Subacquee”,

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Da sx in I° piano: Pino Russo, Angelo Malfitano, Carmelo De Caro. 2° piano: Agostino Profumo, Matteo Re

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Da sx: Carmelo De Caro, Matteo Re, Roberto Alaimo

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Da sx: Roberto Alaimo, Carmelo De Caro

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ad organizzare gare di pesca subacquea e di pesca con canna con altri centri sportivi,

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a frequentare il porto, a parlare con i pescatori, a conoscere il mondo di chi il mare lo affronta ogni giorno e che del mare vive da sempre.

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Negli occhi, nel cuore, nell’anima d’ogni marinaio ha visto sempre il mare, una realtà difficilmente condivisa con gli altri, fatta di fatica, di ansia, di speranza. Il mare vive in ogni cellula del loro corpo mentre, tra i capelli, il vento attorciglia storie che sembrano fantasie come quelle che le raccontavano quando le avverse condizioni meteorologiche costringevano le barche a rimanere inattive dentro il porto e i marinai sul molo intenti a riparare gli strappi delle reti.

 

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Salvatore De Caro Olio su tela (82×126)cm

I pescherecci, le barche, i pescatori, con i pantaloni arrotolati alle ginocchia, con il torso nudo, levigato e bruciato dal sole, i pesci esposti nei piatti, le urla dei venditori, la gente che contrattava sul prezzo, la vendita all’asta del pescato, prove d’autentica vita marinara, i ragazzi, esperti nuotatori, che si tuffavano dalla banchina del Cuore di Gesù, usando la forza delle loro gambe e delle loro braccia, suscitavano la sua curiosità e il suo stupore.

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Un giorno, dall’isolotto della Rocca di San Nicola Lilia, in piedi sul canotto durante una escursione, perdeva lo sguardo tra cielo e mare nella linea dell’orizzonte quando si accorse che, in lontananza, la superficie del’acqua s’increspava stranamente. Erano due piccoli delfini che, con il loro movimento sinuoso, la ondulavano. Comparivano e scomparivano, si tuffavano e riemergevano.

Utilizzando un potente canotto a motore, Carmelo, Cesare e Lilia li seguirono fino a Punta Bianca, navigando sotto costa.
Poi i delfini presero il largo.

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I vecchi marinai licatesi chiamano ancora questi cetacei “A fera, u malu pisci” perché, seguendo la scia delle barche, con i loro denti strappano il sacco delle reti per rubare il pesce. I pescatori al porto parlano sempre dei loro incontri con i delfini.

Nelle sere d’inverno alcuni pescatori avevano l’abitudine di recarsi nella sede sociale del circolo sportivo “Centro Attività Subacquee”, vicino al porto, dove discutevano su fatti avvenuti in mare.

I delfini erano i principali protagonisti delle storie.

Lilia intratteneva i marinai, esponendo le sue conoscenze storiche, mitologiche, antropiche che si riferivano a questo splendido cetaceo. Tutti ascoltavano attenti, mentre raccontava, “ripescando” dai testi antichi le mitiche immagini del delfino, da sempre “signore dei mari”, animale particolarmente intelligente, dotato di un’elevata capacità d’apprendimento, sensibile alla musica, socievole, compagno dei marinai ai quali preannuncia acque calme e rotte sicure, “complice” dei pescatori, caro agli Dei, simpatico agli uomini, che lo hanno considerato amico anche per il notevole senso ludico. Con Aristotele conoscevano la credenza secondo la quale i delfini sorvegliavano i giovani bagnanti per evitare loro calamità; se accadevano, essi si prodigavano per riportare pietosamente le vittime a riva. Apprendevano che i delfini erano ben visti anche dai navigatori che interpretavano i loro fischi come presagi propizi.

Ogni sera Lilia aveva una storia da raccontare. Simili ai grani del rosario, le leggende scorrevano affascinando i marinai, che, come “bambini curiosi”, le commentavano animatamente.

Durante le sere d’estate i pescatori, seduti fuori del bar “di Vili” dove gli ultimi raggi di sole intiepidivano la sedia dove si riposavano, si incontravano con gli altri marinai per parlare di lavoro, di mare, di qualità del pescato, di povertà, di provvidenza, di tempeste, di naufragi, di venti dei quali sono esperti conoscitori. “Sciroccu chiaru e tramuntana scura mettiti a mari senza paura” dicevano. Raccontavano che il marinaio più anziano, appena avvistata la ddraunara, la terrificante tromba marina, cercava di esorcizzarla e di allontanarla tagliandola con un coltello appuntito, facendo con le braccia una grande croce e recitando in silenzio un’orazione. Nessun altro membro dell’equipaggio doveva ascoltarla.
L’esorcismo altrimenti sarebbe stato nullo.

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Ogni racconto, arricchito da molta fantasia, era ascoltato con superstizioso silenzio perché ricordava il terrore di un’esperienza vissuta o, nell’immaginario, creava l’incubo di un probabile  incontro.

Spesso, Carmelo e Lilia, insieme, aspettavano al porto il rientro dell’ultima barca accompagnata dal sole che moriva e dai gabbiani in volo.

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Si fermavano a guardare il mare con le barche illuminate dalle lampare che davano loro la sensazione di uno sciame di lucciole che si muovevano nel buio, mentre il faro spezzava l’oscurità con una sventagliata di luce sfiorando i pescatori che, a quel fascio di luce inafferrabile sicuramente affidavano un volto, una preghiera per coloro che dal mare sono stati inghiottiti.

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Sono lontani ricordi, nostalgie  per tutte le persone care e per tutto ciò che non c’è più che aiutano, però, il percorso della vita di Lilia, anche se essi hanno le ali e potrebbero volare!

Ogni ricordo è un tornare indietro nel paesaggio della labile memoria. Essa è lo strumento per l’agire nel presente e nel futuro e le pagine tratte dalla realtà diventano semplici barlumi e frammenti del vissuto.

Dopo tanto tempo, Lilia contempla ancora con occhi incantati il mare rilucente sotto il sole del mattino o sotto la scia luminosa della luna.

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Sulla sponda della costa licatese viene ad ascoltare il respiro del mare, a sentire l’odore, ad udire il mormorio delle onde che lo animano come una piacevole melodia, a scrutarlo quando è calmo e quando è arrabbiato e a lasciarsi sfiorare dagli spruzzi d’acqua salata.

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Jan 20, 2017 - Senza categoria    Comments Off on IL MANTO DI NEVE SUGLI ALBERI DELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL MANTO DI NEVE SUGLI ALBERI DELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Il mio amico, il giornalista Peppe Cuva, con questa sua fotografia ha saputo registrare un momento particolare della vita della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta. Ha fotografato il meraviglioso scenario degli alberi coperti di neve.

E’ il 15 gennaio del 2017.

A partire dalla destra gli alberi sono: il Pinus nigra, l’Abies picea, il Pino laricio, il Cedrus deodara.

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 Ringrazio Peppe Cuva per la sua sensibilità ad apprezzare le meraviglie di nostra Madre Natura.

 PINUS NIGRA

 Il Pinus nigra è una specie del genere Pinus presente esclusivamente nelle regioni montuose mediterranee. Il nome scientifico è “Pinus nigra”, il nome comune è “Pino austriaco” perché appartiene ad una sottospecie originaria dell’Austria e della Croazia.

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E’ una conifera di rapida crescita appartenente alla famiglia delle Pinaceae. I rametti, tipicamente grigio-brunastri con sfumature nere, insieme alle foglie formano la chioma verde, scurissima da cui l’appellativo di “Pino nero”.

Introdotto in Europa da Maria Teresa d’Austria, il Pino nero si trova quasi dovunque.

Il Pinus nigra è un albero sempreverde, longevo, che può contare 250 anni d’età, dalle dimensioni elevate di circa 30 metri.

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L’albero è fissato al suolo mediante una radice fittonante dotata di notevole capacità penetrativa. Presenta lo sviluppo del tronco colonnare e diritto che si eleva verso l’alto ed è rivestito dalla corteccia ruvida, grigio-scura, quasi nera, profondamente fessurata e suddivisa in placche irregolari e allungate.

E’ ramificato sin dalla base con palchi secondari orizzontali. I rami sono ricoperti da lunghi aghi di colore verde scuro.

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Le foglie aghiformi, rigide, persistenti, erette e poco innervate, di colore verde intenso, sono appaiate ed avvolte da una guaina.

Gli aghi, lunghi da 8 a 18 centimetri, hanno l’apice appuntito e pungente.

Le foglie formano la chioma asimmetrica, densa, molto scura e dall’aspetto pesante.

 Il Pinus nigra è vestito di un abito verde anche nella stagione fredda. D’inverno, quando tutto dorme e la Natura si rinchiude in se stessa e i colori sfumano e si disperdono nella neve, il Pino nero è sempre bello e verde. I suoi rami fitti e spioventi formano un ombrello sempre aperto, una tettoia sotto la quale si rifugiano gli uccelli quando scoppia il temporale.

Le infiorescenze maschili sono formate da piccoli coni ovoidali giallastri riuniti in gruppi che crescono alla base dei getti nuovi; le infiorescenze femminili, che crescono sulla stessa pianta, sono costituite da piccoli coni solitari o a piccoli gruppi di colore rosato e sono posti in cima ai rami. La fioritura avviene da maggio a giugno.

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I frutti, gli strobili, di forma ovale-conica, riuniti in gruppi di 2 e di 4, sono lunghi fino a 15 centimetri e larghi anche 3 centimetri. Gli strobili, formati da squame con un’unghia nera e con un rilievo al centro, sono verdi in età giovanile, giallastri a maturazione. Maturano alla fine del secondo anno dalla fioritura o nella primavera del terzo. Contengono dei semi alati che si aprono poco dopo e favoriscono la riproduzione.

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Il Pinu snigra è una pianta molto diffusa dall’uomo a scopo ornamentale e paesaggistico per la sua adattabilità, per il suo rapido e vigoroso sviluppo, per la capacità di colonizzare ambienti difficili e per il notevole effetto estetico.

 Nel linguaggio dei fiori il Pino è simbolo di “audacia”.

 ABIES PICEA

Abete rosso, Picea excelsa, Peccia, Pezzo, Abete moscovita, Abete comune” sono sinonimi della stessa pianta il cui nomescientifico è Picea excelsa, una conifera perenne, sempreverde, appartenente alla Famigliadelle Pinaceae.

 Il nome “Picea”, attribuito da Plinio, deriva dal latino “pix“, che significa “pece, resina”.

 Il termine “eccelsa” è stato assegnato per l’altezza che possono raggiungere i suoi tronchi regolari, diritti, molto resinosi.  il nominativo ”rosso” per fare notare le sfumature rossastre della corteccia e dei rametti.

L’albero ha un portamento imponente, molto slanciato, che può raggiungere altezze fino a 50 metri.

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Il fusto, poco rastremato, diritto e cilindrico, largo alla base, sostenuto da un apparato radicale debole e superficiale, è rivestito dalla corteccia rosso-bruna, sottile e squamosa che, con l’età, diviene bruno-grigiastra e si divide in placche rotondeggianti o poligonali dalle quali fuoriesce la resina che scende in rivoli lungo il tronco ed emana il caratteristico profumo.

La chioma, piramidale, con apice allungato, è formata dai rami un po’ inclinati verso il basso, con rametti secondari spesso penduli ricoperti dalle foglie aghiformi di colore verde-chiaro brillante nella pianta giovane, ma che si colorano di verde scuro quando invecchia, leggermente curve, tetragone, appuntite, ma non pungenti.

Le foglie persistono per più anni sulla pianta. Gli aghi sono lunghi circa 2 centimetri, resistenti, disposti a spazzola o a ventaglio sui rametti.

In inverno, sulle ramificazioni spiccano le gemme grosse e poco resinose. Gli aghi, cadendo, lasciano delle cicatrici sporgenti che rendono i rametti scabri.

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L’Abete rosso è una pianta monoica ma dicline, ossia porta fiori maschili e fiori femminili in diverse partidello stesso individuo. I fiori si aprono da maggio a giugno. Quelli maschi sono gialli, quelli femminili di colore rosa. I microsporofilli maschili, riuniti in brevi e duri amenti ascellari, formano coni lunghi un centimetro. Sono di forma ovale, di colore giallo-rossiccio e posti all’apice dei rametti dell’anno precedente nella parte superiore della chioma, al disotto dei coni femminili. I macrosporofilli femminili formano coni sessili posti nella parte apicale dei rami. Sono  riuniti in gruppi di tre o quattro. Si sviluppano in primavera e appaiono dapprima eretti, di colore rosso-violaceo. Dopo l’impollinazione, diventano penduli, legnosi, lunghi anche 15 centimetri.

A maturazione avvenuta assumono un colore bruno-chiaro quasi lucente.

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Le pigne mature, dopo aver liberato i piccoli semi alati, cadono a terra intere, ma possono rimanere sulla pianta appese ai rami per lungo tempo.

La pianta comincia a fruttificare tardi, dai 20 e fino ai 50 anni d’età. La propagazione avviene per semi, che vanno raccolti all’inizio dell’autunno e seminati in primavera, e per propaggini da radici. In primavera si possono prelevare anche talee semilegnose.

La crescita della pianta, lenta nei primi anni di vita, diventa poi veloce fino ad età avanzata. La pianta è longeva potendo vivere fino a 500 anni.

L’Abete rosso è una specie tipica delle zone fredde e, poichè è una pianta montana, è resistente al freddo e alle gelate tardive e può adattarsi a forti escursioni termiche,

Nei calendari nordici all’Abete rosso era riservato il primo giorno dell’anno, che allora era quello del solstizio d’inverno, della rinascita del Sole, che poi fu scelto dai cristiani come quello della nascita di Gesù. Per festeggiare il passaggio dall’autunno all’inverno i Teutoni piantavano davanti alle case un Abete rosso ornato di ghirlande di fiori e bruciavano un enorme ceppo per dare nuova forza al tiepido sole di dicembre.

E’  nato l’albero di Natale! Carico di luci e di addobbi colorati e multiformi, simboleggia “sapienza, ricchezza e benessere”.

PINUS  LARIX

Il Pino laricio è una delle più interessanti conifere europee appartenente alla famiglia delle Pinaceae. Autoctono nell’arcipelago delle Canarie e nell’Africa nord-occidentale, è un albero notevole, che stupisce per la sua maestosità.

Larix” è il termine già usato dai Romani per indicare la pianta che ha scelto il suo areale sulle Alpi austriache, francesi, italiane e svizzere, e sui Carpazi. In Italia vive ad altezze comprese tra i 1200 e i 2600 metri, ma può colonizzare zone meno alte, fino a 500 metri.

Può considerarsi l’albero d’alto fusto, coraggioso pioniere delle grandi altezze, in sfida perenne contro le asperità del suolo e le avversità dei fenomeni atmosferici.

Per il suo elegante portamento, per la sua robustezza, per il suo legno pregiato, per i suoi colori autunnali, è attribuito al Larix l’appellativo di “conifera nobile”.

In Sicilia è chiamato con i nomi: “Pinu ri vuoscu”, “Zappino”, ”Pino della Calabria.

Il Pino laricio è un albero sempreverde, molto longevo, che può raggiungere i 300 anni d’età. Presenta un portamento eretto, piramidale, un tronco diritto, regolare e slanciato, alto circa 25 metri, poco ramificato e con rami sottili, espansi, disposti a palchi, come un candelabro, e con rametti penduli. I rami più bassi muoiono e cadono portando la pianta a raggiungere altezze sempre più elevate. L’apparato radicale, con un robusto fittone centrale, è esteso.

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La pianta, da giovane, ha un ritmo di sviluppo piuttosto rapido, di 30-40 centimetri l’anno, ma, raggiunta la maturità, cresce molto più lentamente. Il tronco è ricoperto dalla corteccia liscia nella pianta giovane che, in età adulta, diventa molto ruvida e fessurata in placche longitudinali. Nelle fessure la corteccia si colora di rosso, mentre sulle placche compaiono alcuni puntini bianchi. Le foglie, aghiformi, persistenti, fino a 3 anni, raggruppate in fascetti di tre, sottili, flessibili, scarsamente pungenti, lunghe 20-30 centimetri, pendule, sono di colore verde chiaro nelle piante giovani e di colore verde scuro nelle piante adulte.

 L’insieme delle foglie forma la chioma stretta, leggera, rada che, in autunno, muta il suo bel colore verde pisello in splendide tonalità dorate che fanno risaltare la sua presenza in mezzo al verde cupo del Pino nero. Gli aghi cadono durante l’inverno.

Il Pino laricio è, infatti, l’unica conifera cosiddetta spogliante dei nostri climi. In estate, a causa delle elevate temperature e della ridotta piovosità, il Larice potrebbe perdere le foglie, naturalmente per preservare la pianta dalla disidratazione.

 I fiori sono grandi e ovoidali. La fioritura avviene tra i mesi di marzo e di maggio. Gli strobili maschili sono allungati e appuntiti, raggruppati nella parte terminale del ramo.

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 I coni femminili, quasi cilindrici, visibilmente molto più piccoli, si trovano soprattutto nella parte superiore della chioma disposti verticalmente verso l’alto. Sono lunghi circa 20 centimetri, riuniti in gruppi fino a 5, resinosi e di colore bruno lucido. All’interno della squama risiedono 1 o 2 semi provvisti di una grande ala che permette loro di essere trasportati dal vento fino a coprire cospicue distanze. I semi scuri maturano ogni due anni. Nonostante la perdita dei semi, le piccole pigne possono persistere sui rami anche un paio d’anni prima di distaccarsi dalla pianta con le piccole squame molto aperte e ricurve. La moltiplicazione avviene per semina.

Il Pino laricio è un albero di notevole pregio ornamentale non solo per la sua forma slanciata, per la chioma dall’aspetto piacevole, per la leggerezza degli aghi, per cui è felicemente apprezzato nel giardino, ma anche per la sua straordinaria rusticità, per la sua grande semplicità, per la sua capacità di adattamento e di resistenza alle condizioni ambientali e climatiche difficili e avverse.

 Nel linguaggio floreale il Pino laricio è simbolo di “disinvoltura”.

 CEDRUS DEODARA

Il Cedrus deodara è un maestoso albero ad alto fusto di montagna detto “Cedro dell’Himalaya” perché nativo del versante occidentale della catena dell’Himalaya e dove è considerato sacro.

 Per la sua bellezza è chiamato “l’albero degli Dei”, come indica il nome della specie “deodara” che, dal sanscrito “deva-dara”, significa appunto “albero degli Dei”.

 

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Presenta il tronco biforcato, i rametti e i germogli apicali penduli, le foglie morbide, che rendono l’aspetto della pianta particolarmente attraente.

Le sue dimensioni sono notevoli: può raggiungere i 30 metri d’altezza ed una circonferenza della base del tronco di 2 metri. Possiede il troncomassiccio,diritto, colonnare, abbastanza spoglio in basso, mentre in alto sviluppa molte ramificazioni.

E’ rivestito dalla corteccia levigata, grigio-bruna che, col tempo, si fessura finemente. I rami principali sono orizzontali e gracili, con le estremità pendule e ripiegate verso il basso a formare, insieme alle foglie, una chioma a portamento largamente conico d’elevata densità. I getti sono dimorfici: quelli lunghi, i normoblasti, formano la struttura dei rami, quelli brevi, i brachiblasti, portano le foglie aghiformi.

Le foglie  sono singole e inserite a spirale sui rametti apicali giovani, mentre sono riunite in ciuffi di aghi, in numero di 30-40, sui rametti corti. I rametti sono densamente pelosi. I rami più alti degli esemplari più vecchi, in caso di forte vento, possono spezzarsi.

Le foglie, aghiformi, tenere, sempreverdi, di colore verde chiaro tendente al grigio, sottili e flessibili, leggermente pungenti, sono lunghe da 5 a 12 centimetri.

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 Il Cedrus deodara è una pianta monoica. Le infiorescenze fiorali maschili, a spiga, sono erette, lunghe da 4 a 7 centimetri, prima di colore giallo verdastro, poi di colore rosso che, in autunno, liberano il polline.

Le infiorescenze femminili, poco appariscenti, ovali, più piccole di quelle maschili, lunghe un centimetro appena, sono di colore verde che diventa poi bruno rossastro. La fioritura dei fiori maschili avviene nei mesi di settembre e di ottobre. Successivamente fioriscono i fiori femminili. L’impollinazione è anemofila. La pianta fruttifica intorno ai 30-40 anni d’età.

I frutti sono grosse pigne erette sui rami, ovoidali, lunghe fino a 13 centimetri, con apice arrotondato, resinose, legnose e che giungono a maturazione in due anni.

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Disintegrandosi in squame a ventaglio, si disarticolano sull’albero per lasciar uscire i semi alati, triangolari, lunghi da 10 a 15 millimetri. I semi hanno due o tre capsule contenenti una resina dall’odore disgustoso ritenuto una difesa efficace contro i topi campagnoli.

E’ una pianta rustica, che non teme il freddo, le nevicate abbondanti, ma non prolungate, e il gelo fino a circa – 25 °C, che resiste all’inquinamento atmosferico, quindi si può coltivare in giardino per tutto l’anno. Nel linguaggio dei fiori è simbolo “di fertilità, di durezza, di incorruttibilità, di distinzione in santità e in sincerità”.

 

Jan 11, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA CATALPA BIGNONIOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA CATALPA BIGNONIOIDES NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Gentile Simone, ti sono grata per le parole di elogio che hai indirizzato alla mia Mistretta apprezzando le sue bellezze durante le tue brevi fermate.
Personalmente sono molto innamorata delle ville, soprattutto della villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.
Vorrei farti da guida per mostrarti tutte le essenze vegetali presenti. Gli articoli pubblicati nel mio blog sono, comunque, un mezzo di conoscenza.
La Catalpa bignonioides è presente nel giardino “G. Garibaldi” e la  puoi facilmEmte incontrare peRcorrendo il viale di sinistra, quasi all’inizio, addossata al muro.

https://youtu.be/RgCx2QAD-K4

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Catalpa è il nome col quale gli indiani d’America chiamarono questa pianta.
Il termine “Catalpa” deriva da “Catawba”, una tribù di pellirossa presso la quale gli studiosi di botanica osservarono quest’albero per la prima volta.
La pianta è, infatti, originaria delle regioni settentrionali degli Stati Uniti dove esiste l’esemplare più grande al mondo e da dove è stata portata in Europa, intorno al 1726, per i suoi pregi ornamentali e dove si è naturalizzata.
La Catalpa è detta anche “Albero dei sigari” per la forma allungata, fino a 40 centimetri, dei suoi baccelli proprio a forma di un sigaro.

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La Catalpa è un albero non sempreverde, perenne, veloce nella crescita, molto longevo, rustico, appartenente alla Famiglia delle Bignoniaceae dalla quale prese il nome della specie.
Possiede un apparato radicale molto espanso le cui radici, diramandosi orizzontalmente, si allontanano anche per decine di metri.
La pianta è sostenuta da un fusto spoglio, a portamento eretto, alto circa tre metri, molto ramificato, rivestito dalla corteccia di colore grigio chiaro tendente al marrone e divisa in scaglie longitudinali. Il legname è di qualità mediocre, tenace e durevole.

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 Le foglie, molto grandi, che raggiungono i 20-25 centimetri di diametro, di colore verde chiaro sulla pagina superiore, più scuro sulla pagina inferiore, opposte o verticillate, riunite a gruppetti di tre, semplici, cuoriformi, lisce da un lato e rugose dall’altro, sorrette da un lungo picciolo, formano una chioma generalmente folta, larga ed arrotondata che, durante l’estate, assume una colorazione bianca. Le foglie diventano quasi nere in autunno e poi cadono. Se schiacciate, emanano un odore poco piacevole.
Nella tarda primavera, numerose infiorescenze erette a racemo, pendenti, che appaiono solo dove ci sono le foglie più vecchie, portano fiori a forma di campana, bianchi, con puntini arancione e con striature rosse, molto abbondanti e intensamente profumati.

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Alla fine dell’estate maturano i frutti, baccelli di forma cilindrica, molto allungati, pendenti sull’albero, che rimangono sulla pianta per lungo tempo, anche per gran parte dell’inverno. Sono di colore bruno e si aprono la primavera successiva liberando i numerosi semi bianchi e di consistenza cartacea.
La moltiplicazione avviene per seme in primavera; sempre in primavera è possibile praticare delle talee utilizzando delle porzioni di rametti semilegnosi staccati dalla pianta madre e inserendoli direttamente nel terreno.
Non tollera potature rilevanti e vanno eliminati solamente i rami secchi e danneggiati.
La Catalpa è molto resistente alle basse ed alle alte temperature, alle gelate, ma bisogna proteggerla dalle forti folate del vento per evitare che la sua energia spezzi le foglie.
Non ha particolari esigenze di terreni prediligendo, però, quelli fertili, neutri o leggermente basici, profondi, umidi e ben drenati. Necessità di annaffiature solo in momenti particolarmente caldi. Sopporta brevi periodi di siccità.
Allora è bene annaffiare la pianta in modo regolare, ma mai in maniera troppo abbondante.
Può essere posta sia ai raggi diretti del sole, sia in penombra, sia in ombra, anche se predilige la luce e il sole.
E’ coltivata nel giardino di Mistretta, come pianta ornamentale, per le grandi e vistose infiorescenze, per la chioma espansa e per i caratteristici lunghi baccelli.
E’ molto apprezzata anche per l’ampia ombreggiatura che riesce a creare.
Il clima primaverile, con un elevato sbalzo termico tra le ore diurne e quelle notturne, le piogge abbastanza frequenti, possono favorire lo sviluppo di malattie fungine che causano disseccamenti della pianta e, nei casi più gravi, anche la morte.
Qualche volta è attaccata da larve e da bruchi che si cibano delle sue foglie senza provocare, in genere, danni irreversibili.

 

Jan 2, 2017 - Senza categoria    Comments Off on LA VIA PALMA A LICATA ABBELLITA DALLE COCOS PLUMOSE

LA VIA PALMA A LICATA ABBELLITA DALLE COCOS PLUMOSE

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Le Palme sono le creature più eleganti e armoniose del regno vegetale. Evocano scenari tropicali e mantengono il loro spettacolare aspetto esotico anche nei grigi mesi invernali. Comparvero nel Cretaceo dove assunsero un grande sviluppo lasciando bellissimi e importantissimi resti fossili di tronchi e di foglie. L’aspetto delle Palme è molto caratteristico per il portamento del fusto eretto, colonnare, quasi dello stesso diametro per tutta la sua lunghezza. Nell’età classica la foglia di Palma era data in premio, come simbolo di “vittoria”, al vincitore di una gara.

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La via Palma, la strada che collega la periferia al centro di Licata, è una lunghissima arteria che, fino a poco tempo fa, era adornata in entrambi i lati da numerosissime Phoenix canariensis.

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 Il Punteruolo rosso è stato molto cattivo nell’avere aggredito molte di queste preziose e bellissime palme.
Per volere del sindaco della città di Licata, Angelo Cambiano, sostenuto dal consigliere comunale Giuseppe Federico, il responsabile del verde pubblico, collaborato dal personale addetto, non riuscendo purtroppo a salvare le palme ammalate, le ha completamente abbattute sperando di proteggere dal contagio almeno le palme sane.
In ogni aiuola, che prima ospitava la Phoenix canariensis, ha fatto piantare la Cocos Plumosa.

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Foto di Giuseppe Federico

Solo l’osservatore attento ha notato questa sostituzione di palme!
Il Rhynchophorus ferrugineus, il punteruolo rosso delle Palme, è il coleottero curculionide parassita micidiale di molte specie di Palme ornamentali diffuse nel Mediterraneo quali: la Phoenix canariensis e la Phoenix dactylifera. Aggredisce anche specie di interesse economico quali la palma da cocco (Cocos nucifera) e la palma da olio (Elaeis guineensis). Non ha risparmiato altre specie su cui sono stati segnalati attacchi quali: Areca catechu, Arenga pinnataBorassus flabelliferCalamus merilliiCaryota maxima Corypha elataLivistona decipiensMetroxylon saguPhoenix sylvestrisSabal umbraculiferaTrachycarpus fortuneiWashingtonia.
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ccasionalmente può anche attaccare l’Agave americana. Speriamo che preservi le Cocos plumose della via Palma perché anche questa pianta è inclusa tra le specie sensibili al Punteruolo rosso! Gli interventi curativi si dovrebbero propinare immediatamente, ai primi stadi di infestazione. Per necessari consigli bisogna consultare sempre il Servizio Fitosanitario della Regione.
Il Rhynchophorus ferrugineus è originario dell’Asia sud orientale e della Melanesia. A seguito del commercio di esemplari di palme infette, raggiunse negli anni ottanta gli Emirati Arabi e da lì si diffuse nel Medio Oriente. E’ stato segnalato in Iran, in Israele, in Giordania e in Palestina e in quasi tutti i Paesi del bacino meridionale del Mar Mediterraneo a partire dall’Egitto dove fu segnalato per la prima volta nel 1992.
E’ stato accertato che il commercio delle piante ornamentali costituisce un importante mezzo di diffusione di organismi associati alle piante i quali possono essere trasportati da un paese all’altro. Il Punteruolo rosso è arrivato anche in Europa e in Italia dove la prima segnalazione risale al 2004. In Sicilia la sua presenza fu segnalata nel 2005 e, da allora, ha arrecato notevoli danni.
Gli adulti di Rhynchophorus ferrugineus sono attivi sia di giorno sia di notte. Sono abili volatori in grado di raggiungere nuove piante nel raggio di 1 km. Sono attratti dalle piante danneggiate o malate, ma aggrediscono anche le piante sane. Individuata la pianta, i maschi di Rhynchophorus ferrugineus producono un feromone di aggregazione capace di richiamare molte femmine per l’accoppiamento. La deposizione delle uova avviene solitamente in corrispondenza delle porzioni più giovani e tenere della pianta o in ferite del tronco e del rachide fogliare. La femmina chiude i fori in modo da proteggere le uova. Il numero di uova deposte da una femmina varia da alcune decine a svariate centinaia per volta. Dopo la schiusa delle uova, le larve si dirigono verso l’interno della pianta e scavano lunghe gallerie grazie al robusto apparato masticatorio. Il periodo larvale dura in media 55 giorni.
Le larve danneggiano soprattutto la zona del tronco immediatamente sottostante la corona fogliare. SI impupano e formano dei bozzoli utilizzando le fibre della palma all’esterno del tronco. Dopo lo stadio di pupa, gli individui rimangono dentro i bozzoli dai 4 ai 17 giorni raggiungendo la maturità sessuale. Quindi si è formato il nuovo individuo adulto. Il ciclo vitale completo, dall’uovo allo sfarfallamento, dura in media 82 giorni. Gli adulti hanno una durata di vita di circa 6 mesi. È stato stimato che una singola coppia di Rhynchophorus ferrugineus può dare vita, nell’arco di 4 generazioni, a circa 53 milioni di esemplari.

La Cocos plumosa che, per la sua eleganza è chiamata “Palma Regina”, abbellisce non solo la via Palma di Licata,

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ma anche altre strade, ville, giardini privati.

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 Il suo nome scientifico è Syagrus romanzoffiana, ma è conosciuta anche con i sinonimi: Cocos australis, Cocos plumosa, Cocos datil, Cocos zeriba, Cocos acrocomioides, Cocos martiana, Cocos botryophora, Calappa acrocomioides, Calappi ausralis, Calappi datil, Calappa martiana, Calappi ramanzoffiana, Calappi plumosa, Cocos arechavaletana, Arecastrum romanzoffianum in onore del principe russo Nikolay Petrovich Romanzoff (1754-1826) ministro degli Esteri, Cancelliere e notevole finanziatore dei viaggi di esplorazione russi. Ha finanziato la seconda spedizione russa nelle Americhe. Il termine “Syagrus” deriva dal greco “σύαγρος” “cinghiale” perché questi animali mangiano i suoi frutti.
La Cocos plumosa è la palma originaria dell’ America del Sud, del Brasile, dell’Argentina, della Bolivia, del Paraguay. Nei paesi d’origine è conosciuta con tantissimi altri nomi. In Brasile “Coco-babao”, “Coqueiro-gerivà”, “Jerivà”, “Baba-de-boi”, “Cococ-de-catarro”, in Argentina e in Paraguay è chiamata “Chirivà”, ”Pindò”. Nei paesi anglofoni è nota come “Queen palm”, in Francia “Palmier de Romanzoff”, in Germania “koniginpalme”, “Romanzoffianische”, “Kokospalme”.
Appartenente alla famiglia delle Arecaceae, la Cocos plumosa è coltivata in tutte le regioni tropicali, sub-tropicali e mediterranee come pianta ornamentale per il suo aspetto elegante e, per questo motivo è molto usata in ambiti urbani paesaggistici tanto da diventare quasi infestante.

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Purtroppo la Cocos plumosa è assente nella villa comunale ”Giuseppe Garibaldi” di Mistretta perché, essendo scarsamente resistente ai venti di tramontana e alle basse temperature che si registrano a Mistretta nella stagione invernale, la sua attività vegetativa è sfavorita.
La Cocos plumosa è una pianta sempreverde, solitaria, che si salda al suolo mediante radici che si diramano anche per decine di metri. Le radici della pianta giovane, poco profonde, possono essere scalzate dalla forza del vento. Presenta il fusto piuttosto sottile, slanciato, colonnare ed eretto, che può raggiungere l’altezza di 12-15 metri. In età giovanile il fusto è rivestito da una corteccia grigia, che diventa sempre più scura con il passare degli anni. E’ attraversata da scanalature anulari lasciate dalle foglie cadute. Le foglie, disposte alla sommità del fusto in una corona apicale, formano la chioma che rimane tutto l’anno. Sono pennate, lunghe 3-4 metri, di colore cangiante dal verde chiaro brillante nella pagina superiore al verde più spento in quella inferiore. Ricurve in basso dalla metà della propria lunghezza, con numerose pinnule inserite ad angoli diversi e con le estremità pendule, danno all’insieme delle foglie e a tutta la pianta il particolare aspetto piumoso. Tuttavia, le fronde che muoiono devono essere potate per mantenere la pianta visivamente piacevole. La fioritura della Cocos plumosa avviene in estate in esemplari adulti.

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E’ una pianta monoica. Produce appariscenti infiorescenze a pannocchia molto ramificata lunghe fino a 2 metri che si originano all’ascella delle foglie inferiori, avvolte da una spata lignificata e carenata e dove si inserisce una moltitudine di fiori unisessuali, piccoli, di colore giallo crema.

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I frutti, prodotti in gran quantità, sono delle drupe ovoidali lunghe fino a 3 cm che, inizialmente, sono di colore giallo e a maturazione diventano di colore arancio. Ogni frutto, leggermente appuntito, fibroso esternamente, contiene il seme sferico. I frutti maturi sono appiccicosi, commestibili, polposi e zuccherini e sono molto graditi agli uccelli e ad alcuni mammiferi.

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passato, nei paesi d’origine, dal seme si estraeva un olio impiegato per l’illuminazione.
La moltiplicazione avviene per seme in primavera. La germinazione si compie in un mese circa.
La Cocos plumosa è una pianta abbastanza rustica, che si coltiva facilmente e che cresce rapidamente. Ama essere esposta in pieno sole e si adatta a tutti i tipi di terreno preferendo, in particolar modo, quelli ricchi di humus e ben drenati. Richiede molto l’acqua, quindi necessita di abbondanti irrigazioni. Lo sviluppo di un buon apparato radicale nella pianta adulta consente a essa di accontentarsi delle acque piovane senza la necessità di ulteriori annaffiature.
I giovani esemplari, messi a dimora da poco tempo, necessitano di più cure rispetto agli esemplari adulti. In primavera e in estate bisogna nutrire il terreno con un fertilizzante che contiene micronutrienti, soprattutto il manganese. L’osservazione di foglie sfilacciate e lacerate dimostra carenza di questo indispensabile elemento.
Essendo una pianta di origine tropicale gradisce una temperatura del luogo leggermente elevata, anche se sopporta una temperatura di pochi gradi sotto lo zero, ma che non si deve prolungare per molti giorni.
Il clima primaverile, con un elevato sbalzo termico tra il giorno e la notte, le piogge frequenti possono favorire lo sviluppo di malattie fungine, che dovranno essere trattate preventivamente con un fungicida sistemico da utilizzare prima che le gemme ingrossino eccessivamente.
Temibile è il fungo Graphiola phoenicis che provoca la morte precoce delle foglie.

 

Dec 27, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL PALAZZO DEL BARONE PIETRO SCADUTO A MISTRETTA

IL PALAZZO DEL BARONE PIETRO SCADUTO A MISTRETTA

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Gentile Simone, non sei mio paesano ma, come se lo fossi!
Durante un tuo breve soggiorno a Mistretta hai avuto l’opportunità di apprezzare le bellezze architettoniche, paesaggistiche, naturalistiche della mia amata Mistretta.
Principalmente hai rivolto la tua osservazione al palazzo del barone  Pietro Scaduto ed io, modestamente, ti espongo alcune notizie affinchè appaghino la tua curiosità.
Caro Simone, credo che tornerai ancora a Mistretta per ammirare gli altri palazzi e non solo!
Il Palazzo del barone Pietro Scaduto è uno dei più antichi edifici nobiliari di Mistretta.
E’ sorto come residenza di una tra le famiglie più influenti fra il XVI e il XVII sec.

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Infatti i membri del casato furono giuristi, medici e religiosi che  ricoprirono alte cariche nell’Amministrazione Comunale e nelle Istituzioni religiose.
Il palazzo Scaduto fu costruito nel 1660, in stile barocco, come riporta la data incisa sotto la conchiglia.

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Anno Domini in Carnis 1660 è la dicitura impressa anche nelle porte minori del palazzo Scaduto e che indica l’antica data di edificazione dell’edificio che si trova esattamente in Via Libertà, nel cuore della città, molto vicino alla chiesa di San Sebastiano, il santo patrono di Mistretta.
La via Libertà allora segnava la direttrice principale dell’espansione urbanistica di Mistretta.
Subito cattura l’attenzione il notevole portale principale arricchito da due maestose sculture laterali di figure antropomorfe ad altorilievo, il Telamone a destra e la Cariatide a sinistra, che sorreggono la bellissima trabeazione, e da bassorilievi e decorazioni tardo-manieristiche e barocche come anche i cantonali posti lateralmente.

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Il prospetto del palazzo è frutto della composizione di abilissime maestranze locali, che trovarono ispirazione nelle stampe dei trattati di architettura e, più precisamente, nelle opere di Sebastiano Serlio.
All’interno del palazzo saltano all’occhio le tre scale “alla trapanese” di Sicilia: due, situate nell’ambiente dentro il bar, permettono di accedere agli appartamenti del piano ammezzato,

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la terza, nell’originario cortile interno, al quale si accede dalla Via Cairoli, consente di salire al piano nobile e presenta uno sviluppo in altezza tra i più rilevanti in Sicilia.

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Foto di Filippo giordano

L’ideazione e la progettazione della scala “alla trapanese” si devono  attribuire a  Francesco La Grassa, nato a Trapani nel 1876, deceduto  a Roma nel 1952, bravo architetto-ingengere formatosi alla Scuola di Ingegneri e Architetti della Regia Università degli Studi di Palermo e allievo di Ernesto Basile.
La scala “alla trapanese”, che si colloca nella parte centrale dell’edificio e percorre il palazzo Pietro Scaduto per l’intera altezza, in un’unica rampa, ha uno sviluppo quasi elicoidale.
Questo tipo di scala porta il nome “alla trapanese” perchè è diffusa soprattutto negli androni di alcuni palazzi di Trapani risalenti al periodo compreso tra  la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo.
La costruzione della scala “alla trapanese” ha richiesto una notevole perizia costruttiva delle maestranze locali nell’intagliare i gradini, nel raccordare le sovrapposizioni, nella  lavorazione della pietra locale, nell’elevata resistenza del materiale.
La scala “alla trapanese” è una struttura in pietra autoportante i cui gradini sono costituiti da elementi monoblocchi.
I pezzi della scala sono stati montati, con grande abilità delle maestranze, partendo dal  gradino più basso, dal gradino d’invito, che presenta sempre lunghezza e larghezza maggiore rispetto agli altri gradini sovrastanti e inserendo ad incastro, man mano, gli altri gradini. Una volta inseriti nel muro, i gradini erano cementati con un sottile strato di  malta.
Alcuni  pianerottoli interrompono la scala.
L’intero sviluppo della scala è accompagnato dalla  ringhiera, realizzata in ferro battuto, notevole esempio di abilità artigianale locale. Costruito dal Barone Pietro Scaduto, Giurato della Città, alla fine del Settecento, diventò proprietà dei Baroni Bosco che lo acquisirono in eredità.
Nel 1816 passò alla famiglia Lipari, che ampliò il primitivo blocco unendovi altri fabbricati retrostanti.
Infatti il Barone Biagio Lipari eresse un nuovo fabbricato fra l’attuale Vicolo Cuscè e la Via Catania, proprio adiacente al Palazzo Bosco.
Successivamente il Barone Antonino, figlio di Biagio Lipari, acquistò il palazzo e l’area circostante della famiglia Bosco e, inoltre, diventò proprietario della casa beneficiale Cuscè attigua al palazzo.
Nel 1826 ampliò di nuovo il palazzo inglobandovi la casa costruita dal padre costituendo un nuovo corpo in Via Cairoli. Il palazzo fu ereditato dal nipote Giuseppe, che lo ristrutturò nel 1891 in occasione del matrimonio di sua figlia con il Barone Giaconia.
La famiglia Lipari ha lo stemma che raffigura il leone rampante ai piedi di un albero.
E’ scolpito nella chiave di volta sulla porta d’ingresso dalla Via Cairoli.

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Il palazzo, gravemente danneggiato dal terremoto del 1967, è stato salvato dalla demolizione e salvaguardato dai nuovi proprietari: dalle famiglie  Faillaci-Portera e Faillaci-Salamone.

 

 

 

Dec 20, 2016 - Senza categoria    Comments Off on PRESENTAZIONE DEL LIBRO “POESIE DI VINCENZO RAMPULLA”

PRESENTAZIONE DEL LIBRO “POESIE DI VINCENZO RAMPULLA”

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La Kermesse d’Arte è l’Associazione culturale che, nel contesto mistrettese, incrementa la conoscenza delle diverse arti mettendo in luce le abilità possedute da uomini e donne che, con le loro creazioni, hanno dato e continuano a dare lustro alla cultura cittadina locale.

Successivo al secondo incontro Trittico amastratino VIII edizione 2016, tenutosi il 3 settembre nell’aula magna dell’Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa” a Mistretta, per applaudire nuovamente il signor Vincenzo Rampulla, poeta popolare, per le capacità poetiche, oggi, 17 dicembre 2016, nell’aula seminariale “Graziella Idolo” del Liceo Classico Alessandro Manzoni di Mistretta è stato presentato il libro “Poesie di Vincenzo Rampulla” redatto dal prof. Sebastiano Lo Iacono.

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Così scrive di lui il prof. Sebastiano Lo Iacono in quarta di copertina del libro :”Vincenzo Rampulla, classe 1931, agricoltore, contadino, allevatore, armentista, nonché pastore, in quanto tale appartenente alla categoria dei cosiddetti vistiamàra, così definiti nei Nebrodi e nelle Madonie, come Omero e anche Esiodo (quest’ultimo anch’egli era pastore) è ispirato dalle Muse Eliconie per «cantare cose vere». È un aedo della poesia popolare, nonché il nonno che, in un tempo ormai perduto, seduto attorno al focolare, recitava miti, fiabe, cunti e strofe. La sua vocazione di poeta risale a quando aveva cinque-sei anni. È l’ultimo di una lunga schiera di poeti popolari di Mistretta (Messina), la cui voce rende ancora vivo il mito della poesia popolare e della oralità”.

Vincenzo Rampulla partorisce poesie da sempre. La sua poesia è autentica, sia nella forma metrica, sia nel ritmo.  In quanto autentico poeta popolare di Mistretta, lo hanno apprezzato in molti, soprattutto il poeta e scrittore Enzo Romano al quale ha dedicato la poesia:

 STAIO PARLANNO RI ENZO ROMANO

 Staio parlanno ri Enzo Romano,
ca era nu mistrittise e nun paisano,
ogni anno vinia ri luntano.
S’aspittava u iuorno chi vinia,
ca nta Mistretta purtava allegria,
pa so bravura a dire a poesia.
Nu facia telegramme e manco invite,
tutte l’amici sempri riuniti,
ca si vulievino bene cuomo i frate.
Enzo o 12 giugno t’arrivao n’avviso:
ti chiamao Gesù Cristo o Parariso;
dda truaste tutte i pariente tue,
e su contente ca tu nu suoffre chiue.
Enzo n Parariso stae cuntente,
amici e pariente ca nu ci manca nente;
amicu mio tu contente ha stare,
io corche ghiuorno ti viegno a truare,
e Gesù Cristo chi sò passe curte,
a uno a uno ni riunisce a tutte,
e quanno simo tutte riunite,
facimo sempre feste e stornellate.
Amico mio, tu n Parariso stae,
amici e pariente nu ti scordino mae,
ma quanno ti chiama Dio e ti nni vae,
u tò passato nu si cancella mae.
Sta poesia a fice Vicinzino,
ca quanno a legge si sente a tia vicino.

Ha condotto l’evento il signor Dino Porrazzo, presidente dell’Associazione culturale “Kermesse d’Arte”.

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Da sx: Vincenzo Rampulla- Antonietta Amoroso – Dino Porrazzo – Sebastiano Lo Iacono

 Ha fatto gli onori di casa la prof.ssa  Antonietta Amoroso, dirigente scolastico dell’I.I.S. “A. Manzoni” di Mistretta.

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Ha ampiamente relazionato sull’uso del dialetto il prof. Roberto Sottile, docente di Linguistica Italiana e componente del “Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani” del Dipartimento di Scienze Umanistiche del’Università di Palermo. Il dialetto! La lingua tradizionale dei nostri padri. Categoricamente non deve essere dimenticata, abbandonata, ma usata, insegnata e trasmessa ai giovani delle nuove generazioni.

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Sulla poesia del poeta Vincenzo Rampulla ha ampiamente relazionato il prof. Sebastiano Lo Iacono

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 di cui  abbiamo ascoltato le parole. “Guido Massino su Franz Kafka scrive così: «…nell’epoca contemporanea il luogo della poesia è soltanto “l’heimat-losig-keit”, l’“assenza di patria”»: l’essere senza casa, senza tetto, senza patria; il poeta è colui che non ha patria, perché la patria non lo riconosce come tale; è la stessa cosa del non essere profeta in patria, come si legge nel Vangelo diMatteo (13, 57), dove sta così scritto: «Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profetanon è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». Un poeta non ha patria, inoltre, perché la sua patria è la lingua.

Ecco: questo è il luogo, il topos, della poesia di Vincenzo Rampulla; questa è la sua casa, la sua lingua e la sua patria: questo incontro di oggi, voluto dalla volontà tenace di Dino Porrazzo, è una conferma: un poeta può e deve essere apprezzato nella sua patria.

La vera patria di Rampulla è la sua lingua, il nostro dialetto, come furono e sono stati patria e lingua il dialetto e la lingua-dialetto di e per Enzo Romano. Il dialetto, in passato, era un codice linguistico di cui avere vergogna; lo si parlava a casa, nella sfera del privato, in famiglia ed era codice linguistico di origine demotica; l’italiano era la lingua della cultura e di uso e fruizione pubblica.

«La poesia popolare – ha scritto il linguista Antonino Pagliaro- è essenzialmente anonima. Quando ha un nome è solo un caso raro”.

Una forte componente della poesia di Rampulla è quella religiosa e devozionale: in quanto tale la sua voce singolare è voce di tutti, voce collettiva e universale. La poesia di Rampulla è spesso poesia che prega, come il popolo di Mistretta ha pregato nei secoli e prega ancora i propri santi e la nostra Madonna dei Miracoli.

Molti suoi componimenti nascono da occasioni e da avvenimenti di vita quotidiana, familiari e sociali. Queste occasioni e avvenimenti sono gli stimoli a cui Rampulla risponde con un poetare ritmico e cadenzato che ricorda, richiama e riproduce quello dei cuntisti, contastorie e cantastorie di un tempo.

Rampulla è cuntista, contastorie e cantastorie; Rampulla è poeta popolare che sa cantare anche senza musica perché la sua poesia è intrinsecamente musicale.

Vincenzo Rampulla scrive poesie da sempre. Le sue poesie sono rima, ritmo e oralità. Solo in un secondo momento diventano scrittura, la quale, comunque non è da attribuire allo stesso autore-compositore.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura è operazione difficile: per questo, il libro sulle poesie di Rampulla ha visto la luce adesso. Solo in un certo modo, con rigore filologico, si deve conservare un patrimonio poetico che ritengo appartenga alla cultura di Mistretta e di tutta la Sicilia, nonché all’area linguistica del dialetto siciliano.

Le poesie di Rampulla sono anche memoria e storia: nascono nella sua memoria, dove le ha conservate, come in un archivio non digitale di segni, dove risiede la nostra identità, e poi diventano storia individuale e collettiva.

La memoria prodigiosa di Rampulla, anche alla venerabile età di ottantacinque anni, non basta a salvare dall’oblio la sua oralità poetica la quale, in quanto tale, appartiene ai cosiddetti beni immateriali della nostracultura siciliana e di Mistretta.  Pertanto, con il supporto dei figli di Rampulla, soprattutto di Felice, ho assunto l’impegno di scrivere, ovvero di ri-trascrivere, in grafia fonetica e con l’ausilio dei segni diacritici, le poesie di Vincenzo Rampulla. Egli è stato ed è poeta prolifico! il suo poetare in lingua-dialetto è quasi un dono divino, una specie di estro che rapisce e coinvolge quasi fosse uno stato di follia creativa.

Vincenzo Rampulla appartiene non solo alla nostra cultura locale,bensì alla cultura siciliana e universale in quanto uomo-poeta che interroga l’essere e si interroga sul mistero dell’esserci.

Bisogna fotografare l’oralità per conservarla come essa è, onde preservare intatto un patrimonio poetico che merita la lettura, la lode, il riconoscimento e l’attestazione di essere un valore poetico immateriale che va custodito e salvato dall’oblio.

Infine il poeta Vincenzo Rampulla ha ringraziato gli intervenuti recitando un’altra poesia  per ricordare il suo grande amico Enzo Romano col quale condivideva lo stesso amore per la poesia dialettale in mistrettese arcaico.

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CERCAVA PAROLE ANTICHE
A Mistretta c’è nun puosto vacante,
picchì nni manca n’amico importante,
n’amico mistrittise, paisano,
ca ogn’aranno vinia ri luntano,
e u so nuomo era Enzo Romano.
Ora sta seggia cu l’av’accupare,
ca bravo cuomo a riddo nu cci nnere?
Sempre girava curtigghie e vanedde,
ca ia circanno tante vicchiariedde.
Era bravo e intelligente,
circava ddi parole anticamente,
facia tante dumanne a ddi mischine,
e gnuorno s’attruvao i libbra chine,
parole chi circava nte paise,
regalo chi lassao e mistrittisi.
Enzo, ora stu smascio a tia ti passao,
arripuose n Parariso assieme a Dio.
U Parariso è a metà ri via,
i mistrittisi sempre pinsamo a tia.
U Parariso è luntano assae,
i mistrittisi nu ti scurdamu mae.

Molta attenzione e vivo apprezzamento ha mostrato il numeroso uditorio costituito soprattutto dagli alunni delle classi terminali dello istituto superiore” A.Manzoni”.

 

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Il poeta Vincenzo Rampulla, per il prezioso contributo dato alla conoscenza della cultura popolare mistrettese, è stato moltissimo ricompensato con  applausi, applausi, applausi, con il fraterno abbraccio del signor Dino Porrazzo e, virtualmente,  con l’abbraccio di tutti i mistrettesi.

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Personalmente mi congratulo col poeta Vincenzo Rampulla, che conosco da molti anni,  e al quale auguro di portare avanti la sua inesauribile vena poetica.

I miei complimenti anche all’amico Tatà Lo Iacono per la competenza, la bravura, la pazienza a scrivere i testi della poesie del poeta Vincenzo in lingua dialettale siciliana. Compito non molto facile!

Dec 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA PAULOWNIA IMPERIALIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA PAULOWNIA IMPERIALIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta la Paulownia imperialis è l’importante alberello  nascosto dietro la casa dove il giardiniere custodisce gli attrezzi. Questa essenza vegetale meriterebbe di essere maggiormente valorizzata per la grande bellezza delle sue grandi foglie e dei suoi fiori, che cominceranno a fiorire proprio in questo periodo dell’anno.

 

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La Paulownia imperialis è un albero originario della Cina e diffuso recentemente anche in Europa e in Italia nei giardini di tutta la penisola. Inizialmente la specie fu importata dai paesi esotici per scopi ornamentali, poi è diventata infestante. In Cina si ritiene che i fiori della Paulonia, vellutati e profumati, rappresentino la benedizione degli dei e, per questo motivo, presso i templi vegetano enormi esemplari della specie “lilacina” che è la più spettacolare. La pianta prende il nome da Anna Paulowna (1795-1865), figlia di Paolo I imperatore di Russia.

L’albero appartiene alla famiglia delle Scrophulariaceae e si presenta con un portamento maestoso raggiungendo un’altezza fino a 15 metri. Ha enormi foglie cuoriformi, caduche, vellutate al tatto, che compaiono solo dopo la fioritura, in primavera, quando la pianta si ricopre di numerosi racemi di bellissimi fiori dallo splendido colore lavanda-lilla e leggermente profumati.

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I fiori si formano all’apice dei rami e i boccioli appaiono in autunno e permangono sulla pianta per tutto l’inverno protetti da un involucro vellutato e rossastro.

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I frutti sono capsule deiscenti che contengono una grandissima quantità di piccoli semi alati facilmente trasportati a notevole distanza dalla pianta madre per la disseminazione. I frutti rimangono sulla pianta fino all’anno successivo e spesso sono presenti sulla stessa pianta, contemporaneamente, i fiori primaverili e i frutti dell’anno precedente.

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La Paulonia è una pianta abbastanza rustica, adatta ai nostri terreni e al nostro clima e necessita di poche attenzioni colturali annuali. Non molto longeva, dopo una trentina di anni, ammalandosi di vecchiaia, deperisce e muore. Resiste bene alle basse temperature, ma il gelo rischia di far cadere i boccioli fiorali compromettendo così la sua fioritura. Sopporta anche l’inquinamento non eccessivo dell’aria assorbendo una gran quantità di anidride carbonica. Preferisce essere messa a dimora in un terreno profondo temendo quello troppo umido e i ristagni idrici che potrebbero provocare fatali marciumi delle radici.

Ama un’esposizione soleggiata e isolata, in un luogo dove può esprimere al massimo le sue potenzialità. Le sue grandi foglie sanno dare un tocco di esotico alla villa comunale di Mistretta creando una zona d’ombra durante l’estate.

Non necessita di regolari potature ma, se potata drasticamente, vegeta subito emettendo numerosi polloni uscenti dalla base e che crescono velocemente. Essendo una pianta legnosa, produce una buona quantità di biomassa utilizzata come combustibile solido per la produzione di calore e di energia elettrica.

La Paulownia è coltivata in diverse parti del mondo per il suo legno leggero e adatto alla produzione di mobili e di altri oggetti decorativi. Dal suo fusto si ricava legname di notevole leggerezza e di bassa durezza ma di straordinaria stabilità. Il legno ha proprietà di isolamento acustico, termico, elettrico e igroscopico e, da secoli, nell’ebanisteria giapponese è utilizzato per la produzione di armadietti porta kimono e di strumenti musicali poiché è un eccezionale legno di risonanza. Il legno è usato anche per la produzione dei Geta, i caratteristici zoccoli rialzati giapponesi.

In Cina, un’antica tradizione popolare imponeva alla famiglia di piantare nel proprio giardino di casa un alberello di Paulownia imperialis per la nascita di una figlia femmina.

Giunto il momento del matrimonio, con il legno dell’albero abbattuto costruivano mobili e oggetti utili per la casa dei novelli sposi.

 Recentemente il suo utilizzo si è allargato anche in Italia nell’industria del mobile, degli infissi e del packaging.

Dec 9, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LE PHOENIX CANARIENSIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LE PHOENIX CANARIENSIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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La villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta ha perduto un’altra delle sue importanti creature.
E’ la PHOENIX CANARIENSIS.
Le Palme sono le creature più eleganti e armoniose del regno vegetale. Evocano scenari tropicali e mantengono il loro aspetto spettacolarmente esotico anche nei grigi mesi invernali. Comparvero nel Cretaceo dove assunsero un grande sviluppo lasciando bellissimi e importantissimi resti fossili di tronchi e di foglie. L’aspetto delle Palme è molto caratteristico per il portamento del fusto eretto, colonnare, quasi dello stesso diametro per tutta la sua lunghezza.

 

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Nella sacra Bibbia la Palma è citata molto spesso. La valle di Gerico, la terra promessa a Mosè, è così chiamata per la gran quantità di palme che vi crescevano. Con rami di palme gli ebrei proclamarono la sua regalità acclamando Gesù quando entrò in Gerusalemme come si legge in “Ingresso in Gerusalemme” (Gv. 12,13): “Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: <Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele>“! Giovanni, nell’”Apocalisse” (7,9), fa conoscere l’acclamazione trionfale di una folla innumerevole: “Dopo di ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani.

Nell’età classica la foglia di Palma era data in premio, come simbolo di “vittoria”, al vincitore di una gara. Torquato Tasso nella sua “Gerusalemme liberata” così recita:

Memoria di sue palme or più non serba,

Né più nobil di gloria amor l’accende.

Le vincitrici spoglie e i ricchi fregi

Par che, quasi vil soma, odii e dispregi”.

La Phoenix canariensis è una pianta appartenente alla Famiglia delle Palmae e comunemente nota come “Palma delle Canarie” perché originaria delle isole Canarie, e là, endemica, vive principalmente ad altitudini comprese fra i 200 e i 500 metri. Il nome “Phoenix” ricorda i fenici perché sono stati i primi a diffondere la coltivazione della pianta.

La Phoenix canariensis è la più classica della specie, dal portamento maestoso e dalla forma armoniosa. E’ molto popolare, come pianta ornamentale, nella gran parte delle regioni mediterranee e subtropicali del mondo.

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 E’ una palma sempreverde, solitaria, di notevoli dimensioni, nel suo paese d’origine raggiunge anche i 20 metri, mentre in Italia difficilmente supera i 6 metri d’altezza e i 3 metri di larghezza della chioma.

Ha il portamento dell’albero tipico delle palme, con un unico fusto non ramificato, spesso, eretto, regolare, di colore marrone scuro o grigiastro, marcato da vistose rugosità romboidali dovute alle impronte lasciate dall’inserzione del picciolo delle foglie cadute o recise e sul quale s’inserisce la corona di foglie. Le foglie, pennate, formate da foglioline sottili, opposte ed appuntite, di colore verde scuro brillante, più intenso verso l’esterno, disposte ai lati della nervatura centrale, lunghe anche 4 metri, riunite in un ciuffo terminale, sono sorrette da un picciolo che presenta numerose spine acuminate. Quelle più vecchie si rivolgono verso il basso. Le foglie rimangono sulla pianta anche in inverno.

La Phoenix canariensis è una pianta dioica. I fiori, maschili e femminili, sono portati da piante diverse. I fiori, giallo-bruni, irrilevanti, sbocciano nella primavera avanzata, tra le fronde, riuniti in pendenti infiorescenze a pannocchia lunghe anche un metro; le infiorescenze delle piante femminili sono più lunghe e più appariscenti di quelle maschili. In estate maturano i frutti, grappoli di drupe ovali. Sono carnosi, di colore variabile dal giallo al rosso-bruno, a seconda dello stadio di maturazione, la cui polpa, commestibile, non è particolarmente gradevole al palato dell’uomo, ma accettata dal bestiame.

All’interno di ogni drupa è presente un singolo seme fertile. La pianta si riproduce per seme nei mesi di febbraio e di marzo. E’ possibile utilizzare anche i polloni radicati che si formano spontaneamente alla base della pianta. Togliendo i polloni si assicura alla pianta una forma pulita e raffinata.

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Come era

E’ una Palma a crescita lenta, molto rustica, che ben si adatta a vivere su terreni anche particolarmente poveri. E’ coltivata nei giardini tutto l’arco dell’anno per le sue qualità estetiche e, per le grandi dimensioni, richiede molto spazio attorno ad essa. Resiste ai venti salmastri, quindi è coltivabile nelle zone costiere, ma la sua resistenza al freddo le permette di ben svilupparsi anche nell´entroterra sopportando temperature molto rigide. Durate l’inverno le giovani piante possono richiedere una leggera protezione dal vento e dal freddo. Per uno sviluppo equilibrato è consigliabile porre la pianta in luogo con un’esposizione luminosa, anche se i raggi solari diretti potrebbero causare l’ingiallimento delle foglie. Accetta pure di essere esposta ad una parziale ombra. Può sopportare periodi di siccità anche molto prolungati, pertanto le annaffiature saranno abbondanti da maggio a settembre, ridotte o sospese nei mesi invernali.

La Phoenix canariensis, in genere, non è attaccata dai parassiti. Purtroppo oggi corre il grave pericolo di distruzione e di morte a causa di un temibile coleottero, il “Rhynchophorus ferrugineus”, noto come il “Punteruolo rosso”, un curculionide originario dell’Asia e propagatosi in Medio Oriente e in tutto il bacino del Mar Mediterraneo. E’ stato introdotto in Italia da un vivaista di Pistoia che aveva importato imprudentemente dall’Egitto alcune piante adulte di Phoneix dacylifera dentro le quali ere nascosto il curculionide. In Sicilia, dove è comparso nel 2005, ha attaccato migliaia di Palme distribuite lungo i viali e nei giardini provocando la loro morte perché, sviluppandosi all’interno della pianta, si nutre di essa abbondantemente. Purtroppo il flagello delle Palme è arrivato anche nella villa comunale di Mistretta!

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Come è

Sono veramente dispiaciuta per la grave perdita di questa preziosa palma. Purtroppo ho assistito impotente al graduale appassimento della corona delle foglie apicali. I rigogliosi cappucci verdi, che risplendevano al sole, hanno cedono all’aggressione del parassita che ne hanno rosicchiato l’anima fino a fare cedere il pesante corpo che appare come un grande ombrello piegato. Ciò è avvenuto nell’indifferenza di quanti avrebbero dovuto proteggere non solo la Palma, ma anche tutte le altre essenze vegetali presenti nelle ville di Mistretta   che possiedono un enorme patrimonio naturalistico.

 

Dec 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL PISTACEA LENTISCUS, IL SIGNORE DELLA MACCHIA MEDITERRANEA A LICATA

IL PISTACEA LENTISCUS, IL SIGNORE DELLA MACCHIA MEDITERRANEA A LICATA

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Che piacevole sorpresa! Dopo aver trascorso l’estate a Mistretta, ritornata a Licata, davanti al cancello della mia campagna, in contrada Montesole, ho trovato tante bellissime macchie di Lentisco cariche di tantissimi grappoli di piccoli frutti rossi. Una meraviglia!

https://youtu.be/op41W1DB0dA

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Il Lentisco, nome scientifico Pistacea lentiscus, può chiamarsi il “Signore della macchia”: “Della macchia mediterranea”.
Signore, veramente, perché domina su tutte le altre specie presenti in un ambiente poco ospitale.
Il Lentisco, dal greco Σχίηος, è distribuito in tutto il Bacino del Mediterraneo spingendosi fino alle Canarie.
Vegeta bene prevalentemente nelle regioni costiere, in pianura e in bassa collina, fra i 400 e i 600 metri di altitudine. Cresce allo stato spontaneo nell’Asia meridionale, nelle regioni del continente americano a clima temperato – caldo e tropicale.
E’ particolarmente utile dal punto di vista ecologico per il recupero delle aree degradate e la riqualificazione ambientale di superfici marginali.

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Appartenente alla famiglia delle Anacardiacee, il Lentisco è un piccolo albero cespuglioso a portamento rigido, raccolto e arbustivo alto meno di tre metri. Possiede un sistema radicale formato da masse enormi più grandi della porzione fuori terra che lo legano saldamente al terreno.
Il basso fusticino è rivestito da una corteccia di colore grigio cinerino. Il legno è di colore roseo.
La sua chioma è globosa, irregolare e generalmente densa per la fitta ramificazione dove si attacca il fogliame costituito da un insieme di foglie verdi, coriacee, paripennate, composte da 6-12 foglioline ovato-ellittiche a margine intero e apice ottuso. La pagina superiore è levigata e lucida,  l’inferiore è opaca. Il picciolo è appiattito e alato in alto. L’intera foglia è glabra.
Le foglie resistono anche durante la stagione invernale.
Le foglie contrastano piacevolmente con i fiori rossi, densi, piccoli, disposti in racemi e che sbocciano in primavera da marzo a giugno.

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Il Lentisco è una specie dioica. I fiori femminili e i fiori maschili sono separati e portati da due piante differenti.
In entrambi i sessi i fiori sono piccoli, rossastri, raccolti in infiorescenze a pannocchia di forma cilindrica, portati all’ascella delle foglie dei rametti dell’anno precedente.

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I frutti sono delle piccole drupe lucide e globose, dalla grandezza di un pisello, che cambiano di colore in base alla maturazione passando dal verde, al rosso chiaro, al rosso granato brillante, fino al rosso scuro, quasi nero, quando sono perfettamente maturi.
I frutti rossi sono ben visibili in piena estate e in autunno, maturano in inverno e sono ricchissimi di olio.

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La moltiplicazione può avvenire per semina o talea semilegnosa. Quest’ultima pratica si compie nella stagione primaverile, anche se non è molto utilizzata perché la talea ha maggiore difficoltà a radicare.
Il Lentisco, anche se privato di tutta la parte aerea, getta virgulti, emette teneri polloni, rinasce a nuova vita. I germogli, appena spuntati dal terreno, freschi, sottili, rassomigliano all’erbetta di prato.
Un campo di Lentisco, tagliato raso terra, appare come un agro spontaneo di foraggio gradito ai ruminanti.
Il Lentisco è una pianta eliofila, termofila e xerofila, rustica e selvaggia. Non ha particolari esigenze pedologiche.
Resiste bene a condizioni prolungate di aridità, ma teme le gelate. Sopporta bene il clima arido, il caldo stagionale, la pioggia eccessiva, la luminosità del cielo, l’impeto dei venti. Non ha mai chiesto all’uomo un’attenzione particolare, non chiede l’acqua al cielo perchè nelle sue radici ha quella quantità che gli consente di vivere.
Solitamente predilige terreni sciolti, ricchi di sostanze nutritive e ben drenati. Tuttavia, spontaneo, può vegetare in terre povere e rocciose.
E’ comunissimo sulle coste italiane. Le annaffiature devono avvenire ogni 15 – 20 giorni durante la stagione estiva, in inverno è conveniente ridurle.
In primavera e in autunno è conveniente porre alla base della pianta di Lentisco del concime organico in modo da conferirle il giusto apporto di sostanze nutritive indispensabili alla sua crescita.

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Il Lentisco si presta per essere impiegato come componente di giardini mediterranei e giardini rocciosi. Poiché resiste bene alle potature, è adatto anche per la costituzione di siepi geometriche dal momento che la ramificazione fitta, la vegetazione densa e le ridotte dimensioni delle foglioline si prestano bene a questo scopo.
Al Lentisco sono riconosciute proprietà pedogenetiche ed è considerata una specie miglioratrice nel terreno. Il terriccio presente sotto i cespugli di questa pianta è considerato un buon substrato per il giardinaggio.
Per questi motivi la specie è importante, dal punto ecologico, per il recupero delle aree degradate.

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Il Lentisco non conosce malattie! Non teme la puntura degli insetti o l’attacco degli animali, dei funghi e dei batteri. É rispettato anche dai denti delle pecore e delle capre, molto gradito è, invece, il suo frutto.
La Natura il Lentisco dà un grandissimo aiuto al corpo umano nel curare piccoli suoi malanni. Per questo motivo è una pianta che raccoglie grandi consensi perché possiede notevoli proprietà balsamiche e curative.
Tutte le parti del Lentisco sono utilizzabili.
Pare che gli uomini antichi conoscessero perfettamente le sue proprietà curative! Gli studi farmaceutici dei diversi Paesi, infatti, apprezzano le straordinarie proprietà emostatiche e cicatrizzanti della resina ottenuta dalla pianta del Lentisco.
Un’importante raccomandazione è quella di raccogliere solo le quantità che servono all’uso personale.
Dioscoride Pedanio, grande medico del I secolo d.C, botanico e farmacista greco, è considerato il padre fondatore della farmacologia avendo posto le basi logico-scientifiche della terapia “farmacologica”.
Esercitò a Roma ai tempi dell’imperatore Nerone come medico personale da Marco Aurelio a Settimio Severo. E’ famoso per la sua opera “De Materia Medica”, in cinque libri, un erbario scritto in lingua greca che ebbe una profonda influenza nella storia della medicina per la chiara e dettagliata descrizione dei medicamenti basata sul metodo razionale valido ancora oggi.
Nel libro I°, Cap. 72° di “De Materia Medica” così descrive le proprietà del Lentisco: “… Ogni parte della pianta ha virtù astringente, ovvero i frutti, le foglie, i rametti, la corteccia e le radici.Con la corteccia, le foglie e le radici se ne fa un liquido in questo modo: si cuociono lungamente nell’acqua; poi si toglie dal fuoco, si raffredda, si filtra e si torna a far bollire finché non assume la consistenza del Miele.
Si beve il Lentisco, con successo, per curare il vomito di sangue, i flussi del corpo e la diarrea; è utile anche nelle emorragie mestruali ed al prolasso uterino e anale.Serve a sostituire l’Acacia e l’Ipocistide, piante fortissimamente astringenti.Lo stesso effetto lo fa il succo spremuto dalle foglie triturate.
La sua decozione applicata esternamente, cura le ulcerazioni e le ferite; consolida le rotture delle ossa, ristagna i flussi mestruali e ferma le ulcere “serpeggianti”. Bevuto è anche diuretico.Lavandosene la bocca, ferma i denti smossi.Si usano i suoi rametti per pulirsi i denti, al posto delle Canne.
Dal frutto si estrae un olio, conveniente quando ci sia da astringere.
Produce il Lentisco una resina chiamata da alcuni “Lentiscina” e da altri “Mastice”.
Questa, bevuta, giova al vomito di sangue ed alla tosse cronica; fa bene allo stomaco, ma fa fare rutti. Si mette nelle polveri che si preparano per i denti e nei cosmetici che si usavano per schiarire la pelle del viso.
Fa rinascere i peli delle palpebre e masticandola fa buono l’alito e rassoda le gengive. Nasce copiosa ed ottima nell’isola di Chio. Lodasi quella che risplende come una lucciola e quella che rassomiglia, nel suo candore alla Cera di Toscana, piena, secca, fragile, profumata , e stridente. Se è verde è meno attiva.Si sofistica con l’Incenso e con resine dei gusci delle pigne”.

Anche Galenodi Pergamo, medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio, vissuto quasi cento anni dopo Dioscoride, nell’ VIII Libro “Le Virtù dei semplici medicamenti” descrive:
Il Lentisco è un arbusto che contiene una essenza Acquea leggermente Calda e di una minore parte Terrestre e Fredda, grazie alla quale è moderatamente astringente.
Dissecca tra la fine del II grado e l’inizio del III, ma è quasi equilibrato tra Calore e Freddezza.
E’ astringente in tutte le sue parti, nelle radici, nei rami, nei germogli, nelle foglie, nei frutti e nella corteccia del fusto e dei rami.
Il succo estratto dalle foglie è anche esso simile e moderatamente astringente.
Lo si assume per via interna da solo o mescolato ad altri ingredienti nella diarrea ed in altre affezioni intestinali; giova nell’emottisi, nelle metrorragie e nel prolasso anale o dell’utero; questa ultima attività lo rende simile, affine e mescolabile conl’ Ipocistide Mastice. Quando è candido, è consuetudine chiamarlo “Chio”.
E’ costituito da virtù contrarie, astringente ma anche emolliente; per questo motivo cura le infiammazioni dello stomaco, dell’intestino e del fegato.
Considerato il bilancio finale delle sue qualità, risulta Caldo e Secco nel II grado.
Quello nero è detto “Egizio” ed è più disseccante e meno astringente e quindi più adatto a disperdere i flussi umorali per traspirazione; sempre per questo motivo è un eccellente rimedio per i foruncoli.
Macerandolo con Olio si ottiene l’ Unguento Masticino, ma lo si prepara solo con il “Chio” e non con l’ “Egizio”.
I derivati ottenuti dal Lentisco sono molti.
Nella stagione calda, l’incisione della corteccia del fusto o di un ramo fa “piangere” al Lentisco lacrime di succo che, alla luce, si rapprendono in gocce ambrate chiare e odoranti. Piange per rimarginare le ferite, per difendersi dai parassiti, dall’umidità dell’aria. Sono lacrime pregiate!
Ogni goccia è una perla di resina tenera e colorata, molto preziosa.
La resina fluida, che si raccoglie dopo che è solidificata all’aria, è nota come “Mastice di Chio”. Prende questo nome dall’isola greca di Chio dove, nell’antichità, si produceva il mastice più puro.
Attualmente, la produzione del mastice di Chio è rivolta a ottenere piccole sfere facili da masticare lentamente che, grazie alla loro azione antisettica, rendono l’alito fresco e profumato.
Nella tradizione popolare il mastice di Chio, masticato energicamente, serviva per rafforzare le gengive e per alleviare i disturbi di stomaco. Tant’è vero che una parte dell’olio essenziale, che si trova nella gommo-resina, molto gradevolmente aromatica, è attiva sull’Helycobacter pylori, il batterio responsabile di molti fastidi della mucosa gastrica.
Nella tradizione popolare i contadini usavano le foglie e i giovani rametti di Lentisco per curare le gengive infiammate, i denti smossi, la piorrea, il mal di gola, il mal di stomaco e la diarrea.
Oggi l’uso del Lentischio a scopo medicinale è sconsigliato per la sua potenziale tossicità. Però, per la grande varietà dei principi attivi che contiene, possiede molte altre virtù sfruttate nell’industria dei profumi, in erboristeria e nell’industria dei colori.
Si producono: bagnoschiuma, oli da bagno e da massaggio, creme nutrienti per il viso e per il corpo, che rendono la pelle più sana, giovane e bella, e aiutano a prevenire l’invecchiamento.
Dai frutti, con la bollitura e con la successiva spremitura, si estrae un gradevole olio aromatico che un tempo era utilizzato come olio alimentare al posto dell’olio di Oliva, più costoso e difficile da trovare, specie nel periodo della guerra e nel dopoguerra.
Quest’olio è balsamico, tonificante, rinfrescante e può essere aggiunto all’acqua del bagno o utilizzato nelle vaschette di acqua dei termosifoni per profumare l’aria delle abitazioni. Confezionato in creme, rende la pelle giovane, fresca e morbida.
I greci lo usavano per ungersi la pelle negli stadi.
Per i numerosi principi essenziali che contiene l’olio, esso svolge anche una funzione terapeutica sul cuoio capelluto che, massaggiato con l’olio rende i capelli luminosi, morbidi al tatto e facili da pettinare.
Nel residuo della spremitura, il frutto offre un verde panello per mangime gradito agli animali di allevamento, soprattutto ai suini.
Sono stimolati a produrre più carne e più latte poiché le proteine possedute dal frutto di Lentisco sono complete, genuine.
Ogni goccia di resina, una perla tenera, colorata, molto pregiata e costosa, è impiegata dalle industrie per dorare il legno, per formare colla adatta al vetro. É usata in fotografia e nella lavorazione della ceramica e della porcellana.
Dalle foglie di Lentisco, sempre verdi, si estraggono il tannino e la potassa usata industrialmente per ottenere un sapone nero, liquido in uso da molto tempo in Algeria per il lavaggio delle lane degli ovini.
Le foglie si raccolgono facilmente poiché un ramo verde reciso, dopo qualche giorno d’esposizione al sole, appena agitato con la mano, si spoglia. Le foglie essiccate conservano i loro poteri.
Poichè la pianta è sempre ben carica di foglie, perché non raccoglierle quando ce n’è veramente bisogno?
I rametti di Lentisco sono usati anche come verde ornamentale.
L’uso copioso, attraverso tagli indiscriminati, sta causando seri danni ai boschi dell’Albania, della Tunisia e dell’Italia meridionale.
Il legno del Lentisco, duro, compatto, è impiegato nell’artigianato per piccoli lavori al tornio e d’intarsio grazie al colore rosso venato.
Come legna da ardere è apprezzato per alimentare i forni a legna dei panifici e delle pizzerie poiché l’alto potere termico permette di raggiungere alte temperature in breve tempo.
E’ impiegato per la produzione di carbone vegetale. Anche il sistema radicale è ottimo come legna da ardere. Il modo di bruciare era osservato dagli antichi come presagio: se sfrigolava velocemente era segno di buon augurio, se lentamente non bisognava aspettarsi grandi prospettive.

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Il Lentisco è citato anche nella Bibbia, per la morale che se ne ricava dalla lettura nel libro di Daniele dell’episodio “Susanna e i perfidi anziani” (Cap. 13, 1-62).
Susanna, donna di rara bellezza e timorata da Dio, era la sposa di Ioakim in Babilonia, uomo molto ricco che possedeva un giardino vicino alla sua casa.
Giudici e guida del popolo erano stati eletti due anziani che frequentavano la casa di Ioakim e accoglievano lì tutti quelli che avevano qualche lite da risolvere. Vedendola spesso passeggiare nel giardino, dopo che il popolo si allontanava dalla sua casa, attratti dal suo splendore, i due anziani, presi da un ardente tormento per lei tanto da perdere il lume della ragione, si nascondevano dietro una grande aiuola; l’uno celava all’altro la propria pena vergognandosi di rivelare il desiderio della passione.
Un giorno, dopo essersi separati per andare a pranzare ciascuno a casa propria, tornati indietro, si ritrovarono insieme.
Decisero, allora, di nascondersi nel giardino per spiare Susanna mentre faceva il bagno. Le ancelle, allontanate per andarle a prendere l’unguento e i profumi, avevano chiuso la porta.
I due anziani, usciti dal nascondiglio, dissero a Susanna: “ Ecco le porte del giardino sono chiuse, nessuno ci vede e noi bruciamo di passione per te; acconsenti e datti a noi in caso contrario ti accuseremo; diremo che un giovane era con te e perciò hai fatto uscire le ancelle”.
Susanna esclamò: “ Sono alle strette da ogni parte. Se cedo è la morte per me; se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. Meglio per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore”. Allora i due anziani giudici, gridando contro di lei, dichiararono falsamente al popolo che si era unita a un giovane nascosto nel giardino: “Di questo noi siamo testimoni”.
La moltitudine prestò loro fede, poiché erano anziani e giudici del popolo, e la condannò a morte.
Allora Susanna ad alta voce esclamò: ”Io muoio innocente di quanto loro iniquamente hanno tramato contro di me”.
Intanto che Susanna era condotta a morte, il Signore suscitò il santo spirito di un giovanotto chiamato Daniele il quale si mise a gridare: “Io sono innocente del suo sangue”! Egli, restando immobile in mezzo al popolo, disse: “Siete così stolti, Israeliti? Avete condannato a morte una figlia d’Israele senza indagare la verità! Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei”. Il corteo, alle grida di Daniele, tornò subito indietro.
Gli anziani dissero a Daniele: ”Vieni, siedi in mezzo a noi e facci da maestro, poiché Dio ti ha dato il dono dell’anzianità”.
Allora Daniele esclamò: “Separateli bene l’uno dall’altro ed io li giudicherò”.
Al primo disse: “O invecchiato nel male! Ecco, i tuoi peccati commessi in passato nascono, quando davi sentenze ingiuste opprimendo gli innocenti e assolvendo i malvagi, mentre il Signore ha detto: «Non ucciderai il giusto e l’innocente». Ora dunque, se tu hai visto costei, dì: sotto quale albero tu li hai visti stare insieme?”.
L’anziano rispose: “Sotto un lentisco.” Daniele disse: “In verità, la tua menzogna ricadrà sulla tua testa”.
Chiese all’altro: “ Dimmi dunque, sotto quale albero li hai trovati insieme”? Rispose: “Sotto un leccio”.
In verità anche la tua menzogna ti ricadrà sulla testa”.
Allora tutta l’assemblea diede in grida di gioia e benedisse Dio che salva coloro che sperano in Lui. Poi, insorgendo contro gli anziani, ai quali Daniele aveva fatto confessare con la loro bocca di aver deposto il falso, fece loro subire la medesima pena alla quale volevano assoggettare il prossimo e, applicando la legge di Mosè, lapidò entrambi. In quel giorno fu salvato il sangue innocente.
La verità è sempre premiata, la falsità punita!
Nell’antica Grecia la pianta di Lentisco era consacrata a Dictymna, una ninfa di Artemide, che amava adornarsene.
Se ne adornavano  anche le vergini elleniche, che la imitavano.
Per tale motivo il Lentisco, nel tempo, è rimasto legato ai simboli di purezza e di verginità.

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