Jun 1, 2020 - Senza categoria    Comments Off on IL PHILADELPHUS VIRGINALIS, IL FIORE DEL PARADISO NELLA VILLA “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL PHILADELPHUS VIRGINALIS, IL FIORE DEL PARADISO NELLA VILLA “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, in una parete, seminascosta dietro la fontanella dell’acqua, è appoggiato un poco appariscente arbusto, ma che richiama l’attenzione dei passanti per l’intenso profumo emanato dai suoi fiori.

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Il suo nome scientifico è “Philadelphus virginalis”, ma la pianta è chiamata anche “fiore del paradiso” o “fiore dell’angelo” perché i suoi fiori emanano all’inizio dell’estate una fragranza assai intensa che ricorda quella dei fiori d’arancio.Appartenente alla famiglia delle Saxifragaceae, proviene dal Centro e dal Nord America e anche dall’Asia Minore. Il termine del genere “philadelphus” deriva dal greco “φιλάδελφος” vale a dire “amore fraterno”.
Il termine della specie “virginalis” per il candido colore della fioritura.

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La pianta di Philadelphus virginalis ha il portamento arbustivo e vigoroso, il fusto eretto, che può raggiungere anche i due metri di altezza. In genere nella parte bassa il fusto è abbastanza spoglio, mentre nella parte alta si sviluppano molte ramificazioni. Le foglie, di colore verde scuro, caduche, di forma ovale, sono lunghe da 8 a10 centimetri. La pianta, in inverno, si spoglia della sua chioma.
Il fiore è grande, doppio, con i petali appuntiti, di colore bianco puro, profumato. La pianta fiorisce a partire dal mese di maggio ininterrottamente e fino alla fine dell’estate.

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Dopo la fioritura, dal giardiniere aspetta la carezza della potatura per togliere i rami vecchi e i fiori appassiti per dare alla pianta un aspetto elegante e armonioso. Si moltiplica per interramento dei semi da ottobre a marzo.
La pianta, per la sua rusticità, molto diffusa in Italia, è di facile coltivazione e non richiede cure particolari per cui è utilizzata nei parchi e nei giardini come esemplare isolato oppure a gruppi o in siepi miste, ma può essere anche coltivata in vaso per abbellire patio, balconi e terrazzi.

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Preferisce vegetare in un terreno neutro, ben drenato, dove le irrigazioni avverranno ogni 2-3 settimane, quando il terreno è inaridito da alcuni giorni. Se la stagione dovesse essere molto calda e asciutta, allora sarebbe necessario intensificare le annaffiature evitando di lasciare il terreno inzuppato d’acqua. Per ottenere uno sviluppo rigoglioso della pianta é bene concimare periodicamente il suolo in modo da garantire un corretto apporto di tutti i principi nutritivi durante il periodo vegetativo e di fioritura.
. Gradisce un luogo riparato dal vento forte ed una esposizione alla luce diretta del sole o a mezz’ombra, da sola o in gruppi di altre piante.
Resistente al gelo, riesce a sopportare temperature minime molto rigide, anche di molti gradi inferiori a O°C. E’ resistente anche alle malattie, però, all’inizio della primavera, con l’innalzarsi delle temperature diurne, è bene praticare trattamenti preventivi usando insetticidi e fungicidi adatti.  Per proteggere la pianta dalle malattie favorite dall’elevata umidità ambientale, gli interventi si devono praticare quando nel giardino non sono presenti fioriture, oppure prima che le gemme ingrossino notevolmente.

 

 

May 22, 2020 - Senza categoria    Comments Off on 20 ANNI! CARMELO DE CARO NON SI DIMENTICA.

20 ANNI! CARMELO DE CARO NON SI DIMENTICA.

22/05/ 2000- 22/05/2020
Sono trascorsi 20 Anni!
Il tuo ricordo è sempre vivo, carissimo Carmelo.
Sono le tue poesie che hai scritto pochi mesi prima di arrenderti alla sofferenza.
Sono tratte dal libro “Sintiti, Sintiti” di Carmelo De Caro

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TI HO CERCATO

Ti ho cercato negli occhi dell’uomo

ti ho cercato nel gesto sconsolato

della vecchiaia senza domani.

Ti ho cercato negli occhi

dell’infanzia violata

nelle mani artigliate di una madre.

Ti ho cercato tra le lenzuola sudate

di un letto d’ospedale.

Ti ho cercato.

Ti spio nel dedalo avviluppato

dei miei pensieri,

nel fragile castello di carta

della scienza dell’uomo,

nel nicchio della sofferenza

senza fine.

Vorrei dire parole di certezza

e le mie labbra si aprono

a dire un solo bisillabo: forse.

Ed è tutto l’universo,

e solo questo.

                 Aprile 99

 

ALLA SOFFERENZA

Sofferenza parlami,

dimmi della tenerezza

nel pianto di un bimbo,

del dolore del profugo

a guardar le stelle aliene,

della struggente nostalgia

del marinaio sul deserto

e freddo oceano.

Sofferenza, sono pronto,

mandami il dolore,

l’abbraccerò, compagno

di viaggio inseparabile.

Dimmi, sofferenza,

dimmi almeno questo:

È forse questa la via?

                  Aprile 99

May 8, 2020 - Senza categoria    Comments Off on L’HOYA CARNOSA NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

L’HOYA CARNOSA NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Le piante più belle nel mio giardino a Licata!
Sono le Hoye.
Ce ne sono tante, poste nei vasi, nelle giare, anche nelle aiuole.

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Il Nome del genere “Hoya” è dedicato a Thomas Hoy, (c.1750-1822), appassionato ed esperto giardiniere inglese che curò il parco Sion House, di proprietà del duca di Northumberland, nei dintorni di Londra, in Inghilterra. Fu il botanico prof.Robert Brown ad attribuire questo nome alla pianta in suo onore.
Il genere Hoya comprende circa 200 specie conosciute con il nome di “fiore di cera” per la spettacolarità e per la delicatezza dei fiori che sembrano, appunto, di cera, e con il nome di “fiore di porcellana” per la forma dei fiori che ricorda un lavoro di porcellana fatto artigianalmente.

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 Tutte le specie di Hoya sono originarie delle zone più calde del sud-est dell’Asia, dell’Australia, dell’Oceania e di diverse isole del Pacifico.
Sono diverse specie: perenni sempreverdi, rampicanti o cespugliose, arbustive o striscianti e alcune epifite.
La caratteristica che accomuna tutte le specie è il fiore stellato che comprende una vasta gamma di colori che va dal bianco al rosa pallido, con al centro un nucleo di colore rosso, oltre ad essere caratterizzato da una leggera peluria che lo rende ancor più delicato al tatto.
Le piante che vivono nella mia campagna sono le “Hoye carnose”, il genere più diffuso alle nostre latitudini, coltivato da più di 200 anni e facilmente riscontrabile nei vivai.
L’Hoya carnosa, appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, originaria dell’India e del Giappone, è una pianta a crescita molto rapida.
E’ la specie che più di ogni altra si può coltivare nei nostri climi, sia nei vasi, sia dentro gli appartamenti, sia nel terreno perché l’inverno è mite. E’ una pianta molto generosa, che fiorisce ininterrottamente dalla fine della primavera e per tutta l’estate.
Presenta il portamento rampicante, con fusticini erbacei, lunghi, sottili e volubili che si aggrappano, nel crescere, a un tutore, a dei fili o a dei sostegni intorno ai quali si attorcigliano.

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Le grandi foglie sono di colore verde scuro, di forma ovale-oblunga, lucide, rigide, acuminate e di consistenza carnosa. Sono ricoperte da un rivestimento ceroso che, nelle zone d’origine, le protegge dai raggi del sole e dal deterioramento dovuto alle frequenti piogge torrenziali.

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I fiori, stellati e cerosi, di colore bianco con la parte centrale rosata, molto belli, riuniti in infiorescenze a ombrella, pendule, attaccate all’ascella delle foglie, fioriscono da aprile/maggio fino a settembre/ottobre.
Ogni infiorescenza è formata da grappoli di 15-20 fiorellini e i suoi petali sono ricoperti da una leggera peluria simile al velluto di seta.
I fiori, all’imbrunire, emanano un profumo intenso e dolce. Talvolta dallo stesso fusto la pianta emette una fioritura multipla, quindi, nel processo di potatura, è bene eliminare solo i fiori appassiti e le parti danneggiate. Per questo motivo è importante evitare di asportare i fiori.

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La moltiplicazione avviene per seme, utilizzandoli in autunno. Il frutto, a maturazione, tende a “esplodere” scagliando i semi lontano.
E’ anche possibile praticare talee di fusto e di foglia. Le talee più praticate sono le talee apicali che si ottengono tagliando dai fusti maturi alcuni rami di 10-15 centimetri di lunghezza nei mesi compresi tra maggio e agosto che andranno piantate in un vaso con torba e sabbia.
La comparsa di nuovi germogli indicherà che le talee avranno radicato e potranno quindi essere trapiantate nel vaso definitivo.
La radicazione avviene in genere dopo due o tre settimane.
Io, personalmente, pratico la moltiplicazione per propaggine.
Sotterro una porzione di ramo e aspetto che emetta le radici. Quindi taglio il ramo radicato separandolo definitivamente dalla pianta madre.
Rinvaso la giovane piantina in un vaso di coccio e aspetto l’occasione per regalarla a qualche persona a me cara. La piantina fiorirà intorno ai due anni di età.
Le Hoye sono piante abbastanza rustiche, facili da col­tivare.
Prediligono essere poste su terreni sabbiosi e ben drenati in un luogo molto luminoso dove la temperatura garantisce i 27°C in estate e non scende sotto i 10°C d’inverno.
I fiori fioriscono più numerosi sulla parte della pianta rivolta alla luce del sole. Particolare attenzione bisogna prestare alle annaffiature che vanno effettuate con regolarità. Durante il riposo vegetativo la pianta riesce a sopportare anche lunghi periodi di siccità.
Infatti, le radici tendono sia a seccare sia a marcire se la quantità di acqua non è quella esatta. Le irrigazioni eccessive frequentemente causano asfissia radicale e deperimento generalizzato.
Nel periodo primaverile-estivo bisogna aggiungere un fertilizzante completo all’acqua delle annaffiature. Nel periodo autunnale-invernale invece bisogna sospendere le concimazioni. Con il tempo queste piante possono assumere un aspetto poco gradevole a causa della spogliazione della parte bassa: è bene quindi intervenire in ottobre accorciando tutti i tralci tagliandoli al di sopra di una coppia di foglie.
Bisogna eliminare anche i rami morti o troppo vecchi. Nella cura quotidiana è fortemente sconsigliata la rimozione dei fiori appassiti e dei loro peduncoli. Spesso, infatti, le fioriture si ripetono nello stesso punto, anno dopo anno.
Ripeto: è importante tener presente che i peduncoli che reggono i singoli fiorellini delle om­brelle fiorali non devono essere tagliati quando le corolle appassiscono; infatti è pro­prio da questi peduncoli che, l’anno succes­sivo, nasceranno i nuovi fiori.
Sebbene siano piante molto resistenti, le Hoye necessitano di particolari cure e attenzioni. Infatti, alcune manifestazioni fogliari possono essere causate dalle condizioni di coltivazione.
Se le foglie diventano scure o sembrano bruciate, vuol dire che non sopportano i raggi diretti del sole. E’ opportuno spostare la pianta in un altro luogo. L’ingiallimento delle foglie può essere la causa di annaffiature troppo abbondanti. Bisogna diminuire le innaffiature, far asciugare il terriccio e fare drenare meglio il terreno.
Se le foglie cadono e si seccano vuol dire che soffrono la carenza di acqua.
Le radici possono marcire facilmente se c’è ristagno d’acqua.
I parassiti che si riscontrano più frequentemente sono: gli Afidi, il ragnetto rosso, che decolora le foglie e poi le ricopre di sottili ragnatele, e la cocciniglia cotonosa, un insetto molto piccolo che si attacca principalmente ai fusti e alle nervature fogliari depositando piccole formazioni bianche simili a ciuffi di cotone.
Regaliamo le Hoye.  Sono sicuramente gradite!

 

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Apr 24, 2020 - Senza categoria    Comments Off on IL FICUS BENJAMIN NELL’AIUOLA DAVANTI AL PORTONE DEL MIO CONDOMINIO A LICATA

IL FICUS BENJAMIN NELL’AIUOLA DAVANTI AL PORTONE DEL MIO CONDOMINIO A LICATA

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Il mio alberello di Ficus Benjamin, posto nell’aiuola davanti al portone d’ingresso del mio condominio, a Licata, ha una bella storia da raccontare.

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E’ stato il gradito dono che i nostri carissimi amici, l dott. Giustino Meli e la signora Pina Graci, sua moglie, ci hanno portato quando sono venuti a congratularsi per l’acquisto della  nostra nuova casa in via Honduras prendendo esempio dall’Asia dove il Ficus Benjamin è simbolo di accoglienza e di  benvenuto.
In Thailandia è considerata la pianta nazionale.
La religione buddhista lo ritiene un albero sacro.
Carmelo ed io ci siamo trasferiti in via Honduras nel mese di settembre del 1997 perché era diventato difficoltoso abitare in un palazzo del centro di Licata e in un appartamento al 10° piano, soprattutto quando l’ascensore spesso si guastava, in considerazione delle non buone condizioni di salute del prof. Carmelo De Caro.
Siamo stati costretti a cambiare abitazione!
La scelta di risiedere nel quartiere Montecatini, distante dal centro circa 900 metri, e in questo condominio è stata motivata da diverse ragioni: dal presupposto  di coabitare con le brave famiglie già residenti, formate da persone con le quali abbiamo instaurato rapporti di rispetto, di amicizia e di solidarietà, dagli spazi esterni molto ampi, per cui è sempre facile trovare il posteggio per la macchina, dai viali alberati, dalla tranquillità e dal silenzio della zona che permettono l’ascolto dei piacevoli cinguettii degli uccelli.
Abbiamo pensato che il posto migliore dove l’alberello poteva vegetare bene non era collocato in un locale all’interno del nostro appartamento che, grazie al suo portamento elegante, al colore e alla lucentezza delle sue foglie, avrebbe reso l’ambiente elegante e decorativo, o nel balcone di casa nostra, ma nell’aiuola più ampia del condominio affidato non solo alle nostre cure, ma anche a quelle degli altri condomini.

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Bernardo di Chiaravalle, il monaco cristiano, abate e teologo francese dell’ordine cistercense, nella sua famosa citazione: ”Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” rievoca un’ancestrale necessità dalla quale l’uomo contemporaneo si è quasi del tutto allontanato: l’amore per la Natura.
Noi amiamo le Piante! Noi amiamo la Natura!

Il nome del genere “Ficus” deriva dalla similitudine delle foglie di alcune specie di Ficus con il comune fico da frutto.
Il nome della specie  “benjamin” deriva dal termine “benyan” con cui questa pianta è conosciuta in India.
Il Ficus benjamin, appartenente alla famiglia delle Moraceae, è una specie vegetale perenne, sempreverde, robusta, piuttosto longeva, ornamentale, decorativa, originaria delle zone tropicali dell’Asia, ma è molto diffusa anche in India, in Cina meridionale, nella Malaysia, nelle Filippine, nel nord dell’Australia e in alcune isole del Pacifico meridionale.
Nelle zone d’origine può arrivare a un’altezza di 25-30 metri.
Il mio alberello, che ha circa 30 anni di età, ha raggiunto l’altezza di appena due metri.

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Le radici sono poco profonde. Spesso, per coprirle, aggiungo del buon terriccio prelevato dalla mia campagna.
Il tronco, legnoso, cilindrico, leggermente incurvato, è rivestito dalla corteccia di colore grigio chiaro, che tende al marrone più intenso man mano che la pianta raggiunge la sua maturità.

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I molti rami, sottili, flessibili, leggermente arcuati, da qui il nome comune di “Ficus piangente, sono ricoperti dalle foglie pendenti, di forma ovale, appuntite, lucide, di colore verde brillante che diventa di colore più scuro con l’avanzare dell’età e che donano alla pianta una folta chioma.

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Fiorisce durante la stagione calda.
I frutti sono dei siconi neri, dalla forma globosa e, al loro interno, ospitano i semi.
Il sicono è un’infiorescenza tipica del genere Ficus costituita da un complesso di numerosi piccoli fiori maschili e femminili, privi di petali, che tappezzano la parte interna del ricettacolo, detto anche talamo, ingrossato, carnoso e cavo, dotato di un’apertura situata nella parte apicale che consente l’impollinazione da parte degli insetti pronubi o impollinatori, soprattutto dalle api.
Nella mia campagna di Licata ci sono due alberi di Fichi bianchi. I primi siconi maturi sono per gli uccelli, che bucano i frutti  attratti dalla loro dolcezza.
La riproduzione del Ficus benjamin avviene anche per talea apicale o fogliare, e per margotta.
Le talee sono prelevate dalla pianta madre nei mesi da aprile ad agosto.
Devono avere una lunghezza di circa dieci centimetri e tagliate con un coltello affilato e pulito.
Quando le piantine emettono le radichette, si potranno trapiantare.
La moltiplicazione per margotta si compie nei mesi di maggio e di giugno sui rami posti più in alto.
Consiste nel praticare un taglio nella corteccia del ramo scelto per la moltiplicazione, quindi si avvolge la torba intorno alla parte dove è stato praticato il taglio e si riveste il tutto con della pellicola bucherellata per permettere all’aria di passare e di apportare l’acqua. Al taglio di alcune parti della pianta fuoriesce il lattice, una sostanza opalescente.
Il Ficus benjamin è una specie molto diffusa e presente soprattutto nei viali cittadini.
A Licata abbellisce tutti i corsi principali.
Vi sono stupendi esemplari di Ficus nei giardini botanici siciliani e di Ischia con moltissime varietà di cui il Ficus dispone, anche bonsai.

Le più diffuse sono:
il Ficus Benjamin Exotica, che presenta foglie lucide con nervature scure.
Il Ficus Benjamin Golden King, che presenta foglie grandi con margini di color giallo-avorio con macchie verdi.
Il Ficus Benjamin Nuda, che ha foglie di forma stretta e margine ondulato.
Il Ficus Benjamin Mini Gold, che ha foglie di dimensioni molto piccole di colore verde chiaro contornate dai margini bianco-avorio.
Il Ficus Golden Monique che ha foglie di colore verde intenso e margini ondulati.
Il Ficus Danielle che ha foglie dal colore verde intenso e margine ondulato.
Il Ficus Midnight Beauty che ha foglie dal colore molto scuro.
Il Ficus Danita che ha  foglie lucide e di colore verde scuro.
Il Ficus Indingo che ha foglie spesse di color verde scuro.
Il Ficus Starlight che ha foglie di colore bianco-crema.
Il Ficus Natasja che ha  foglie di colore verde chiaro.
Il Ficus Barok che ha foglie arricciate.
Il Ficus Too Little è pianta nana usata per i bonsai
Il Ficus Benjamin si può coltivare anche all’interno degli appartamenti, dentro i vasi, ma con i dovuti accorgimenti.
In genere la sua coltivazione non richiede eccessive attenzioni.
Coltivato in piena terra, si adatta a qualsiasi tipo di terreno purchè soffice, ben drenato utilizzando ciottoli, argilla espansa, sabbia grossolana in modo da fare defluire velocemente l’acqua per evitare i marciumi radicali.
Per avere una bella crescita vegetativa necessita di somministrazioni periodiche di un buon fertilizzante liquido ricco di azoto, elemento necessario allo sviluppo delle foglie, ma anche di tutti gli altri elementi necessari a un ottimo sviluppo di tutta la pianta quali: fosforo, potassio, ferro, manganese, rame, zinco, boro, molibdeno.
Gradisce la luce del sole indiretta e abbondante.
Sopporta la temperatura calda delle estati, preferibilmente  tra i 14° e 16°C, ma, in inverno, non deve scendere al di sotto dei 10 °C poiché non sopporta il freddo.
Non bisogna essere generosi con le annaffiature! Devono essere moderate senza, comunque, fare asciugare del tutto il terreno.
Devono essere più frequenti in estate e meno frequenti durante il periodo invernale.
La pianta ama avere le radici umide, ma soffre i ristagni idrici.
Infatti, la troppa acqua potrebbe favorire il proliferare di funghi dannosi per le radici con effetti negativi sulla buona salute della pianta stessa.
Nel suo ambiente naturale l’apporto idrico non è dato solo dalle piogge, ma anche dall’alta umidità atmosferica.
Questa pianta si è adattata e può assorbire l’acqua anche dalle foglie o dalle radici aeree.
Teme il vento e le correnti d’aria, che fanno cadere le foglie.
Per avere una pianta con una chioma armoniosa e più ordinata nel periodo primaverile è bene eseguire la potatura per togliere i rami secchi, danneggiati o malati, per ridurre le parti cresciute troppo, per dare aria e luce uniformemente a tutte le foglie.
Per quanto riguarda i rami di grandi dimensioni sarebbe opportuno procedere alla loro potatura durante il periodo invernale perché, durante questo periodo, il latice prodotto dalla pianta è in quantità minore.
Il lattice è una sostanza  biancastra, densa e appiccicosa che può provocare irritazioni cutanee, lievi o intense, e bruciori agli occhi.
Nei soggetti più sensibili può essere la causa di shock anafilattico.
Bisogna, quindi, fare attenzione e usare tutte le precauzioni necessarie prima di iniziare le operazioni di potatura.

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Il Ficus benjamin può essere attaccato da varie malattie provocate da parassiti vari.
I parassiti più frequenti sono: i tripidi, le cocciniglie e gli acari.
I tripidi sono dei piccoli insetti che pungono la pianta e succhiano la linfa provocando la deformazione delle foglie, lo scolorimento e anche il rallentamento della crescita.
Si combattono con l’uso di insetticidi sistemici.
La cocciniglia bruna e la cocciniglia farinosa attaccano le foglie e, attraverso la produzione di melata, vi depositano una sostanza bianca appiccicosa, zuccherina che attira altri parassiti provocando l’indebolimento strutturale della pianta.
Le cocciniglie si eliminano nebulizzando con un insetticida specifico.
Gli acari sono insetti che creano delle ragnatele bianche nella parte inferiore delle foglie provocando l’ingiallimento e la loro caduta.
La moltiplicazione degli acari è favorita da un ambiente secco.
Il ragnetto rosso provoca macchioline gialle o marrone sulle foglie che cominciano a scolorire e poi a cadere.
La riproduzione di questo parassita è favorita da un ambiente povero di umidità.
E’ sufficiente bagnare le foglie con acqua perché l’aumento dell’umidità fa si che l’ospite indesiderato, che predilige luoghi caldi e secchi, si allontana da solo. In casi di grave infestazione bisogna somministrare gli antiparassitari specifici.
Il  Ficus potrebbe perde le foglie per altri motivi: per l’esposizione alla luce diretta del sole, per uno sbalzo improvviso della temperatura, per un colpo di freddo o di caldo eccessivo, per l’essiccamento delle radici.
Anche le abbondanti annaffiature possono causare la caduta delle foglie, il marciume e l’asfissia radicale.
Tutti i Ficus sono considerati antismog, cioè validi purificatori dell’aria per cui sono indicati per umidificare gli ambienti chiusi.
In particolare, la pianta del Ficus Benjamin è una buona consumatrice di formaldeide, nota anche con il nome di formalina o formolo, una delle principali sostanze responsabili dell’inquinamento atmosferico.
La sua formula chimica è CH2O.
Questa sostanza è prodotta dal fumo delle sigarette, dal gas dei fornelli, dai sacchetti di plastica, dagli smalti, dalle vernici, dalle stoffe e dai tendaggi.

Apr 14, 2020 - Senza categoria    Comments Off on GLI ALBERI DI SCHINUS MOLLE NEL VIALE PRINCIPALE DI VIA HONDURAS A LICATA

GLI ALBERI DI SCHINUS MOLLE NEL VIALE PRINCIPALE DI VIA HONDURAS A LICATA

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Il viale principale della via Honduras, nel quartiere Montecatini a Licata, è abbellito dalla presenza di 6 alberi di “Schinus molle” piantati, a scopo ornamentale, dai costruttori negli anni ’90 del secolo scorso quando è iniziato a sorgere il nuovo quartiere residenziale.

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I due alberi, posti davanti alla mia abitazione, sono amorevolmente curati da me e dai miei vicini condomini.
Periodicamente li facciamo potare per abbassare la chiama e per dare una forma più elegante.
Le energiche potature biennali non danneggiano la sua vegetazione che riprende vigorosamente.

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Ne apprezziamo la forma, i fiori, i frutti, l’essenza odorosa emanata da ogni parte della pianta, il cinguettio degli uccelli, lo svolazzare dei colombi che vi si rifugiano e vi costruiscono i loro nidi.

 

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Al genere Schinus appartengono circa una trentina di specie di alberi e arbusti sempreverdi.
La specie più diffusa è “Schinus molle”.

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Il nome del genere “Schinus” deriva dal greco “σχίνος”  lentisco” per la somiglianza dei loro frutti.
Gli Inca ritenevano lo Schinus molle un albero sacro.
Lo chiamavano “mulli”, da cui la denominazione botanica della specie “”molle”.
Lo Schinus molle è conosciuto comunemente come “Pepe rosa, falso Pepe”. “Pepe rosa” perché il suo frutto ha il caratteristico colore rosa, falso Pepe” perché tutta la pianta emana un intenso aroma pepato.
Lo Schinus molle, appartenente alla famiglia delle Anacardiacee, è un albero originario dell’America del Sud, anche se le zone in cui è più diffuso allo stato spontaneo sono la parte meridionale del Brasile, l’Uruguay, il Nord dell’Argentina. il Cile, Perù, la Bolivia, il Paraguay dov’è conosciuto con il nome di “falsa Pimienta”, “Lentisco del Perù o Aguaraib”. E’ diffuso anche in Africa.
Nei luoghi di origine è considerato di grande interesse sia per le sue qualità ornamentali, sia per i frutti che produce. In Europa è stato introdotto alla fine dell’”800.
Lo Schinus molle è un albero sempreverde, molto decorativo e necessita di pochissime attenzioni.

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Di taglia media, ha il portamento leggermente pendulo che ricorda quello del salice piangente. Le radici sono poco profonde e da esse inizia il fusto eretto, singolo o doppio, che si può innalzare dai 7 ai 15 metri.

6 TRONCO DOPPIO OK ok

E’ rivestito dalla corteccia, i cui colori vanno dal marrone al grigio. Con l’età diventa molto ruvida, si sfalda in placche piuttosto grandi e mostra zone rosso-bronzacee. Se fessurata, emette un lattice colloso.

7 CORTECCIA ok

E’ molto ramificato e i rami, flessuosi, lunghi, donano all’albero un elegante aspetto piangente e, armonicamente, quasi raggiungono il suolo.
Le foglie, di colore verde scuro, pendule, pennato-composte, lunghe 20-25 cm, con molteplici foglioline, in numero da 10 a 39, lanceolate, con apice appuntito o arrotondato, formano la chioma ampia e disordinata.
E’ ritenuto un albero “pulito” in quanto non perde le foglie che sporcherebbero il suolo.

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I fiori, raccolti in infiorescenze a pannocchie molto ramificate, che compaiono sia agli apici sia all’ascella fogliare, fioriscono nei mesi di giugno e di luglio.  Sono piccoli, di colore bianco verdastro o giallo chiaro. Sia le foglie, sia le infiorescenze, se sfregate, rilasciano un forte odore pepato.

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I frutti sono delle drupe tondeggianti di colore rosso e permangono sull’albero per molto tempo. Contengono i semi di forma ovale.

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La moltiplicazione avviene molto facilmente per seme in primavera. Gli uccelli provvedono a disperdere i semi anche in aree lontane da quelle della pianta madre. La riproduzione avviene anche per talea semilegnosa in estate. In alcune zone degli Stati Uniti e anche nel bacino del Mediterraneo la specie è segnalata come pianta invasiva.
Lo Schinus molle è spesso utilizzato come albero da arredo urbano, nelle zone dove il clima è temperato-caldo, posto lungo i viali e nei parchi.
Per quanto riguarda la coltivazione, essendo considerata una specie rustica, la pianta è poco esigente. Cresce bene in suoli poveri, leggeri, ma molto ben drenati. Le radici, infatti, temono particolarmente il ristagno idrico. Sopporta lunghi periodi di siccità.
Gli inverni molto piovosi possono causare danni anche gravi con l’ improvvisa defogliazione, l’appassimento di interi rami, fino alla morte dell’albero.
Ama le posizioni molto luminose e soleggiate, ma vegeta bene anche a mezz’ombra. In primavera è bene interrare ai piedi della pianta del concime organico.
La specie non è soggetta a malattie, tranne il marciume radicale se è coltivata in terreni in cui vi sono ristagni di acqua.
Le drupe prodotte dallo Schinus molle sono conosciute fin dai tempi antichi per le loro proprietà curative e per l’utilizzo in cucina perchè hanno un aroma simile a quello del pepe nero. L’aroma, dolce e speziato, è ideale per insaporire il pesce, le carni bianche, le salse, i risotti, le insalate, i formaggi, le uova, le torte salate. Possono essere consumate solo piccole  quantità poiché contengono sostanze leggermente tossiche.
Anche se oggi il Pepe rosa è considerata una spezia sicura, nel 1982 l’americana FDA (Food and Drug Administtration) decise di vietare le importazione dall’Europa perché le drupe aromatiche ingerite erano considerate nocive alla salute. La FDA, accogliendo le pressioni dei governi esportatori, all’epoca, soprattutto della Francia, eliminò questo divieto. Oggi, i principali produttori di pepe rosa sono: il Brasile, il Perù e il Madagascar.
Da tutte le parti della pianta si estraggono elementi utili alla salute dell’uomo, come è stato confermato dalla medicina naturale popolare.
La scienza moderna, in effetti, ha rilevato che possiedono proprietà antiinfiammatorie, antitumorali, antibatteriche e antidepressive.
Ancora oggi, per le sue proprietà medicinali, gli estratti della pianta sono utilizzati in Brasile, in Messico, in Perù, in Argentina.
Le foglie e i fiori, fatti macerare o polverizzati, sono impiegati per alleviare i reumatismi, i dolori muscolari, il mal di denti e le ulcere orali. Il loro decotto è utile in caso di infezioni respiratorie e urinarie, nonché come cicatrizzante per le ferite.
Il frutto favorisce la digestione grazie al suo potere stomachino, tonico e stimolante. E’ utilizzato anche come antibatterico locale per curare ferite e infezioni. E’ un ottimo antidolorifico soprattutto per combattere i dolori mestruali. Le sostanze volatili, ottenute dallo strofinio delle drupe,  fungono da repellenti per pulci,  per zecche, per zanzare.
La corteccia ha proprietà astringenti, antidiarroiche e antidepressive. Dalla corteccia si estrae la gomma resinosa, dall’odore sgradevole, utilizzata come purgante e contro le infezioni alle gengive, ma anche per la produzione di gomme da masticare e mastici.
Gli indigeni usavano incidere il tronco per farla fuoriuscire.
I primi popoli occidentali a scoprire questi utilizzi furono i monaci gesuiti. Cominciarono anche loro a dedicarsi a questa estrazione e inviarono il prodotto nel Vecchio Continente, dove prese il nome di “Balsamo dei Missionari”, a cui si attribuirono innumerevoli proprietà medicinali.
La resina estratta è di bel colore arancio-marrone e veniva impiegata anche per la colorazione delle fibre tessili, in particolare per creare alcuni tipi di tappeti.
Tutte le parti della pianta (foglie, frutti, semi, corteccia, resina) contengono un olio essenziale molto profumato, simile a quello del pepe nero, ottenuto per distillazione, utilizzato nella medicina popolare e in erboristeria dalle antiche popolazioni sudamericane fin dai tempi più remoti.
Garcilaso Inca de la Vega, il noto scrittore peruviano, figlio del conquistador spagnolo Sebastián Garcilaso de la Vega y Vargas, della pianta di Schinus molle scrisse: “Lo Schinus molle è una panacea per gli indiani del Nuovo Mondo che utilizzano le bacche per fare una bevanda molto buona contro i problemi urinari; un miele molto buono; un aceto; una soluzione lavante contro la scabbia, una soluzione cicatrizzante..Il legno è utile per curare il mal di denti e dà un’ottima carbonella….”
Le drupe devono essere raccolte a maturazione completa, quando hanno raggiunto il colore rosa, alla fine dell’autunno, poi si fanno essiccare al sole e si conservano sottovuoto o dentro un barattolo a chiusura ermetica, in un posto fresco e asciutto, oppure in salamoia, una concentrazione di acqua e di sale.
Dell’albero di  Schinus molle non si getta via nulla: il legno è usato per il suo pregio estetico, per la sua durezza e per l’estrazione della resina.

 

Apr 6, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTE DI DIPLOTAXIS ERUCOIDES NELLA CAMPAGNA DI LICATA

LE PIANTE DI DIPLOTAXIS ERUCOIDES NELLA CAMPAGNA DI LICATA

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Questo grande campo, a Licata, è stato colorato da tantissime piante ondeggianti allegramente spinte dal venticello estivo dell’estate scorsa.
Sono le “Diplotaxis erucoides”, una specie botanica conosciuta a Licata col nome di “Finacciolo”.
Il suo nome comune è “Rucola selvatica”.

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Per la sua grande presenza nei terreni, per il suo carattere infestante, la pianta è conosciuta con tanti altri sinonimi:  Ambulazza (Sardegna, Cagliari), Apullo (Puglia, Lecce), Cauliceddi di Messina (Sicilia), Ciuriddi (Sicilia, Avola), Diplotaxis erucoide (Italia), Euzomi (Toscana), Finacciolu (Sicilia, Avola), Fojje de Criste (Abruzzi), Lassene de senapesche (Abruzzi, Castiglione), Ruchetta violacea (Italia), Rucola salvatica (Toscana, Val di Chiana), Salapune (Abruzzi), Senapa pazza (Abruzzi), Sinacciolu (Sicilia, Avola).
Il nome del genere “Diplotaxis” trae origine da una parola greca composta da “διπλόω” “raddoppiare” e “τακτός” “ordinato” per la disposizione dei semi in doppia fila nel frutto della siliqua.
Il nome della specie “ erucoides” deriva dal greco “εἷδος” “ aspetto” perché simile alla rucola.
E’ una specie assai variabile nella forma, nella divisione delle foglie, nella pelosità e nel colore dei petali tanto che alcuni autori hanno riconosciuto come varietà, o addirittura come specie a se stanti,
la “Diplotaxis erucoides var. apula”, la “Diplotaxis versicolor” che ha foglie col segmento apicale poco più grande dei laterali, la “Diplotaxis erucoides var. hispidula” che ha foglie lirate ed è densamente ricoperta di peli ispidi.
La Diplotaxis erucoides, appartenente alla famiglia delle Brassicaceae, è una pianta erbacea annua diffusa nel bacino del Mediterraneo. In Italia è presente in quasi tutte le regioni.
E’ rara in Liguria e in Toscana, assente in Valle d’Aosta o occasionale in Trentino-Alto Adige. La pianta si aggrappa al terreno mediante una radice a fittone dalla quale partono radichette secondarie. Si erge su un fusto foglioso, di colore verde scuro, eretto, alto 20-60 cm, ramoso e dotato di corti peli.

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Le foglie, dal sapore intenso e lievemente carnose, quelle basali, prima appiattite al suolo e poi erette, sono da pennatosette a lirato-pennatopartite, lunghe sino a 15 cm; quelle superiori sessili, perché prive di picciolo, sono oblunghe, con margine leggermente dentato.

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Gli steli fiorali portano infiorescenze a grappolo di fiori posti all’apice dello scapo fiorale. Ogni fiore, ermafrodita, è composto dalla corolla formata da 4 petali bianchi venati di rosa che vira al colore violetto alla fine dell’antesi, dal calice formato da 4 sepali eretto-patenti, dall’ovario supero con stimma verde; e da 6 stami, di cui 4 centrali più lunghi e 2 laterali fertili più corti, che producono un polline giallo. Fiorisce durante tutto l’anno ma, più abbondantemente dal mese di aprile al mese di luglio.

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Il frutto, sorretto da un pedicello corto, è una siliqua compressa, con valve ellittiche, lineare, ascendente, eretta, terminante con un piccolo rostro, contenente 40-80 minuscoli semi di 1-1,2 x 0,6-0,9 mm, ovoidi o ellissoidi, disposti in due file per loculo.  La riproduzione avviene per seme.  Si autosemina con tale facilità da divenire infestante.
I suoi Habitat preferiti sonoi terreni incolti, gli orti, i vigneti, i muri, a un’altitudine da 0 a 800 metri s.l.m. e un’esposizione in pieno sole.

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Buona pianta commestibile, di essa si usano le foglie e i fiori, che hanno il sapore della senape, lessati in abbondante acqua salata e “ripassati” in padella conditi con olio, aglio e pomodoro.

 

Apr 2, 2020 - Senza categoria    Comments Off on LA BELLISSIMA EUPHORBIA CANDELABRUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

LA BELLISSIMA EUPHORBIA CANDELABRUM NELLA MIA CAMPAGNA DI LICATA

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Per il mio compleanno di alcuni anni fa ho ricevuto in regalo una ciotola di ceramica contenente una piccola pianta.
Ripianta nell’aiuola della mia campagna, in contrada Montesole, a Licata, la piantina si è adattata, è cresciuta fino a diventare così.

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Di anni ne sono passati!

Il suo nome scientifico è EUPHORBIA CANDELABRUM
Il nome del genere “Euphorbia”, derivante dal greco “Euphórbos”, è stato attribuito da Dioscoride in onore di Euphorbo, il medico di Juba II, il re della Numidia e della Mauritania.
Si racconta che l’imperatore Augusto nel 23 a.C. colpito da una grave affezione epatica, era prossimo alla morte. Il suo medico, il dott. Antonio Musa, avendo constatato l’inefficacia delle fomentazioni calde, gli salvò la vita con una cura idroterapica a base di bagni freddi.
Riconoscente, l’imperatore Augusto, oltre a concedergli la cittadinanza romana, lo onorò facendogli erigere una statua di bronzo che fu posta accanto all’altare privato di Esculapio.
Euforbo, fratello di Antonio Musa, anch’egli medico, era al servizio di Juba II, il re della Numidia e della Mauritania. In contrasto con Augusto, il re Juba II onorò il suo medico ribattezzando “euphorbion” una pianta medicinale, scoperta da Euforbio nella catena dell’Atlante, il cui latice era dotato di potenti virtù medicinali.
Anzi, in onore di entrambi, la pianta prese il nome di “ Euphorbia regis-jubae” .Probabilmente la specie scoperta da Euforbo è l’ Euphorbia resinifera.
Passano i secoli. Della statua di Antonio Musa non rimane neppure il ricordo.
Nel 1753, Carl von Linné, Carlo Linneo in italiano, (Råshult, 23 maggio 1707 – Uppsala, 10 gennaio 1778), medico, botanico, naturalista e accademico svedese, il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, ufficializzando il nome “Euphorbia” nella sua opera “Genera Plantarum” scrive: “Dov’è adesso la statua di Musa? E’ perita, svanita! Ma quella di Euforbo perdura, è perenne, e nessuno potrà mai distruggerla. Le piante sono più durature del bronzo!”.
Carlo Linneo ha assegnato il nome di Euphorbia all’intero genere in onore, appunto, del medico Euforbio. Ma anche re Giuba, appassionato di scienze naturali, oltre che dal nome specifico di Euphorbia regis-jubae, è onorato dal nome del genere “JUBAEA.
In effetti, questa splendida pianta, che il botanico tedesco K.S. Kunth gli dedicò all’inizio all’Ottocento, è degna di onorare il sovrano-naturalista. Un secolo dopo l’omaggio a Giuba è addirittura rafforzato grazie al naturalista italiano Odoardo Beccari che, nel 1913, creò il genere   Jubaeopsis, “di aspetto simile a Jubaea”.
La fama del medico Eufòrbo si era ben presto diffusa in tutta l’Urbe tanto che Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) dedicò a lui e al re Juba II un paragrafo della sua “Naturalis historia” sulla pianta dell’Euphorbia.“…iunctam Aethiopum gentem, quos Perorsos vocant, satis constat. Iuba Ptolemaei pater, qui primus utrique Mauretaniae imperitavit, studiorum claritate memorabilior etiam quam regno, similia prodidit de Atlante, praeterque gigni herbam ibi euphorbeam nomine, ab inventore medico suo appellatam. cuius lacteum sucum miris laudibus celebrat in claritate visus contraque serpentes et venena omnia privatim dicato volumine. et satis superque de Atlante.”
“…Giuba padre di Tolomeo…riguardo all’ Atlante… che qui nasce un’erba chiamata “Euforbia”, dal medico che la scoprì (Euforbo). Il cui succo latteo celebra con lodi di ammirazione nella chiarezza della vista e contro le serpi ed i veleni tutti, avendo dedicato un proprio volumen …” [Plinio, N.H., V (Geografia dell’Africa, Medio Oriente, Cappadocia, Regno d’Armenia, Cilicia), (1,1, § 16).
Il nome della specie “Candelabrum” allude al portamento della pianta che ricorda un candelabro a più bracci.
Il sinonimo è: Euphorbia erythraea. Altri nomi comuni sono: Euforbia a candelabro, Califfa.
Il genere “Euphorbia”, uno dei più vasti dell’intero regno vegetale, comprende oltre 2000 specie di piante dalle caratteristiche polimorfiche molto diverse. Per la sua grande capacità di adattamento il genere Euphorbia include piante erbacee e legnose, suffrutici, piante grasse e carnose, addirittura alberi perenni con molti rami.
Alcune specie crescono in luoghi semi desertici e altre vivono nei sottoboschi ben ombreggiati. Le specie succulente sono originarie principalmente dell’Africa e del Madagascar. Alcune specie, quali l’Euphorbia dendroides 

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e l’Euphorbia bivonae

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sono tipiche della macchia mediterranea.

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L’Euphorbia candelabrum appartenente alla famiglia delle Euphorbiaceae, originaria delle regioni orientali dell’Africa e dall’ Etiopia, è una pianta succulenta sempreverde a portamento arboreo, eretta e ramificata.
I rami, che si allungano verso l’alto, si ramificano formando una chioma larga e dando la caratteristica forma a candelabro, sono quadrangolari, costoluti, a margini sinuosi, muniti di spine rigide, corte, disposte a coppia, lucidi e di colore verde scuro. Sono disposti su un fusto centrale colonnare, eretto, alto fin a 10 metri, che diventa legnoso alla base quando la pianta è molto vecchia. Il legno è fragile e non è raro assistere a un collasso del fusto schiacciato dall ’eccessivo peso della chioma.
Le foglie, piccole, lanceolate, compaiono solo sui giovani getti e cadono precocemente.
I fiori sono riuniti inflorescenze a ciazio.
L’infiorescenza a ciazio, propria del genere Euphorbia, è costituita da un fiore femminile posto al centro con il suo ovario e con attorno almeno 5 fiori maschili formati dagli stami. Intorno agli organi sessuali s’inseriscono le brattee che, con i loro colori: giallo, bianco, rosso, arancione, ne esaltano la bellezza. Il ciazio assomiglia a un unico fiore e tale era ritenuto dagli antichi botanici. I fiori si sviluppano lungo le costolature nella parte alta delle ramificazioni e compaiono in primavera.

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Dai fiori si sviluppano i frutti a tre lobi che scoppiano a maturità lanciando i semi lontano dalla pianta madre. La moltiplicazione avviene per semina all’inizio della primavera o per talea di fusto in primavera.
L’Euphorbia a candelabro, frequente nei giardini della Sicilia, nelle ville di campagna e delle città, non passa inosservata per la bellezza della sua chioma perfettamente tondeggiante formata dalla disposizione ordinata e simmetrica dei rami.
Alcuni esemplari di particolare interesse sono stati censiti dai professori F.M. Raimondo e P.Mazzola, del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali di Palermo, che hanno individuato esemplari di grandi dimensioni nelle città di Marsala e di Cefalù dove una pianta, piantata nel 1975, ha raggiunto l’altezza di 10 metri, il diametro del tronco di oltre un metro e la chioma così grande tanto da essere ritenuta la più ampia in Sicilia. Nei primi anni del 1900 il giardiniere Vincenzo Ostinelli, nel suo l’inventario, dove inserisce i 792 generi e le 2796 specie di piante da lui coltivate nella Villa Trabia del Principe di Butera dal 1882 al 1910, non fa nessun riferimento all’Euphorbia.
L’Euphorbia candelabrum non ha particolari esigenze di coltivazione. Si può coltivare in piena terra, nelle aiuole, all’aperto, gradendo un clima mite come quello che si registra a Licata, dove la temperatura non scende mai al di sotto di 5°C. Preferisce posizioni soleggiate, anche al sole diretto, e un substrato poroso, misto a sabbia, umido, ma molto ben drenato, libero da erbe infestanti. I ciottoli bianchi, posti nell’aiuola alla base della mia pianta, ne esaltano il colore verde.

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Le annaffiature non devono essere frequenti, ma solo quando il terreno è asciutto. Infatti, se le foglie si coprono di macchie, probabilmente la pianta ha ricevuto troppa acqua. Le annaffiature eccessive potrebbero causare il marciume radicale.
Periodicamente va aggiunta all’acqua delle irrigazioni un po’ di fertilizzante liquido specifico per piante fiorite.
La mia Euphorbia durante la primavera viene sfoltita da una leggera potatura.
La pianta va in riposo vegetativo e, in autunno, inizia a produrre nuove gemme e nuovi steli.
In Natura le piante di Euphorbia candelabrum sono protette dalla convenzione internazionale sul commercio delle specie minacciate d’estinzione (CITES).
Resistente alle malattie, può subire attacchi di Cocciniglia che si combattono con prodotti specifici.
Tutte le Euphorbie contengono all’interno dei propri tessuti un latice biancastro, acre, tossico, irritante per la pelle e causa di cecità se entra in contatto con gli occhi.  Anche il fumo, derivante dalla combustione dei rami, è irritante Quando si eseguono dei tagli sulla pianta è opportuno utilizzare guanti protettivi. Da queste piante si estrae la gomma, il caucciù e la tapioca.
Dai fiori, per la presenza dei nettari che attirano le api, si ottiene un miele che provoca una sensazione di bruciore alla bocca e che si intensifica se si beve l’acqua. Nel Burundi è una  pianta officinale. Nella medicina etiopica il latice di questa pianta, mescolato con miele o con altre erbe, è utilizzato per la cura di malattie come la sifilide e la lebbra.
Nei luoghi d’origine la specie è utilizzata per realizzare coperture,suppellettili varie e strumenti musicali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mar 18, 2020 - Senza categoria    Comments Off on I MANDORLI IN FIORE NELLA CAMPAGNA DI LICATA

I MANDORLI IN FIORE NELLA CAMPAGNA DI LICATA

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Cerchiamo di superare questo brutto periodo a causa del COVID 19 rallegrandoci con i regali che la Natura ci dà.
Numerosi, nella mia campagna, in contrada Montesole, a Licata, sono stati i primi alberi a fiorire contemporaneamente quasi alla fine del mese di Febbraio. Hanno annunziato la fine dell’inverno, l’inizio della primavera, il ritorno in vita della Natura.
Di una bellezza affascinante, è stato emozionante per me vedere spuntare sui rami ancora nudi degli alberi i fiori, bianchi e rosa. E’ sempre una fioritura effimera,  basta un alito di vento per far cadere a terra una notevole quantità di questi fiori.

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Nella mitologia greca il fiore è legato alla speranza, ma anche alla costanza. Il mito della storia d’amore di Fillide e di Acamante racconta che Acamante, un eroe greco, partito per partecipare alla guerra di Troia, durante una sosta a Tracia conosce la principessa Fillide.
I due giovani s’innamorarono subito l’una dell’altro.  Ma Acamante dovette lasciare la sua amata per andare a combattere. A guerra finita, Acamante non fece ritorno in patria, a differenza  degli altri compagni.
Fillide lo attese per 10 lunghi anni ma, quando seppe della caduta di Troia, non vedendo tornare il suo amato, pensò che fosse morto. Non sopportando il dolore, si lasciò morire. In realtà Acamante non era morto.
La dea Atena, impietosita dalla dolcezza della storia, tramutò Fillide in un albero di mandorlo.
Quando Acamante fece ritorno, non trovò più Fillide ad attenderlo.
Avendo saputo di questa trasformazione, si recò nel luogo dove si trovava l’albero. Lo abbracciò lungamente con amore e con dolore.
Fillide, accolto quell’amorevole e tenero abbraccio, fece spuntare dai rami dell’albero tanti piccoli fiori bianchi.
Fin dall’antichità, il Mandorlo è stato un simbolo di promessa per la sua precoce fioritura.
Simboleggia l’improvvisa e rapida redenzione di Dio per il Suo popolo dopo un periodo in cui sembrava che lo avesse abbandonato.
Il mandorlo è citato nella Bibbia diverse volte.
In Geremia (1,11-12), in Visioni si legge: “Mi fu rivolta questa parola del Signore:<<Che cosa vedi Geremia?>> Risposi: <<Vedo un ramo di mandorlo>>.
Il Signore soggiunse: <<Hai veduto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla>>.
 Nella Genesi (43,11), in Beniamino con i fratelli in Egitto si legge: Israele loro Padre rispose: “Se è così, fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti del paese e portateli in dono a quell’uomo: un po’ di balsamo, un po’ di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle”.
Le mandorle sono menzionate come uno dei “prodotti più scelti del paese“.

In Botanica il suo nome scientifico è “PRUNUS  AMYGDALUS ”.

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Originario dell’Asia centrale come specie spontanea, il mandorlo si diffuse nell’antica Grecia, poi nell’Impero Romano, i romani lo chiamavano “noce greca”, e, successivamente, con le invasioni arabe si diffuse in Francia, in Spagna e in quasi tutti i paesi del bacino del Mediterraneo.
In Sicilia fu introdotto dai Fenici. Con la scoperta delle Americhe fu introdotto anche lì.
Praticamente, il mandorlo è diffuso in qualsiasi parte del mondo.  La coltivazione del mandorlo ebbe inizio nel vecchio Mondo dove era utilizzato soprattutto per il consumo alimentare.
Il Prunus amygdalus è un piccolo, rustico albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere prunus.  Alto da 5 a 7 metri, cresce lentamente, ma è molto longevo.
Io ho già trovato alberi di mandorlo piantati nel terreno quando ho acquistato la campagna a Licata 40 anni fa!

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Possiede le radici a fittone e il fusto dapprima diritto e liscio, di colore grigio, poi contorto, screpolato e di colore scuro. Le foglie, di colore verde intenso, sono caduche, picciolate, lanceolate e poco spesse.

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I fiori, ermafroditi, sono di una colorazione bianca o leggermente rosata. Hanno il calice formato da 5 sepali, la corolla da 5 petali unghiati di rosso, di 40 stami disposti su tre verticilli e un pistillo con ovario semiinfero. Sbocciano all’inizio della primavera e prima della comparsa delle foglie che, altrimenti, impedirebbero l’impollinazione del fiore.

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Anche se i fiori sono bisessuali, tuttavia un gran numero di piante ha la particolare caratteristica di essere auto sterili. Ecco il motivo per cui, all’interno degli impianti di coltivazione bisogna considerare diverse varietà impollinatrici per poter garantire un’ottima produzione di mandorle.

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Esiste un gran numero di varietà selezionate nel corso degli ultimi tempi che si caratterizzano per essere autofertili. Esse hanno la particolare capacità di garantire un ottimo livello di fruttificazione.
Il frutto è una drupa di forma ovale piuttosto allungata composta da un guscio esterno, detto mallo, di colore verde chiaro, che si spacca a maturazione scoprendo il seme, cioè la mandorla, formata da due grandi cotiledoni bianchi coperti da una pellicola.

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I mandorli sono distinti nella varietà “dulcis” se producono mandorle dolci, e nella varietà “amara” se producono mandorle amare in base alla presenza o all’assenza dell’amigdalina e dell’enzima in grado di idrolizzarla.
Lo studioso Jared Diamond ritenne che la causa della scomparsa del glucoside amigdalina fu una mutazione genetica. Gli antichi agricoltori cominciarono a coltivare questi esemplari che mutarono geneticamente.
Quindi, il Mandorlo fu uno dei primi alberi da frutto a essere coltivato grazie all’abilità dei frutticoltori e a selezionare i suoi frutti.
I mandorli domestici apparvero nella prima parte dell’Età del bronzo (3000-2000 a.C.).
Nella tomba di Tutankamon in Egitto, circa 1325 a.C., sono stati trovati i frutti di alberi di mandorlo probabilmente importati dal Levante dove è iniziata la coltivazione della specie.
Poiché questa pianta non si presta alla propagazione tramite pollone o talea, essa doveva essere stata addomesticata prima dell’invenzione dell’innesto.
Le mandorle si raccolgono a mano nei medi di agosto- settembre. La raccolta si esegue quando le mandorle sono secche.
Si percuotono le piante con delle verghe, bastoni flessibili lunghi da 3 a 5 metri, facendo cadere le mandorle su reti o teli distesi su tutta la proiezione della chioma. E’“l’abbacchiatura”.
Dopo la raccolta, le mandorle vengono pulite dal mallo che ricopre il guscio legnoso, operazione detta “smallaturae fatte asciugare al sole. L’essiccazione consente la conservazione, anche per lunghi periodi, e la commercializzazione.
Le mandorle dolci sono commestibili. Possono essere tostate, salate, ridotte in pasta o macinate per essere utilizzate in pasticcera, nei torronifici, nelle confetterie.
A Mistretta buonissima e bellissima è la pasta reale, un dolce locale molto apprezzato.

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e la frutta martorana

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Dalle mandorle si ricava il “latte di mandorla”, una bibita molto energetica utilizzata soprattutto nelle calde estati dei Paesi mediterranei.
Le mandorle amare non sono commestibili, anzi sono velenose per la presenza dell’olio di mandorla amara, un olio volatile che contiene acido cianidrico derivato dall’idrolisi dell’amigdalina. Se ingerite in quantità, possono provocare cefalee, vomito e, nei casi più gravi, la morte, soprattutto nei bambini.
Tuttavia, usate in quantità moderata in associazione con le mandorle dolci, sono impiegate nella preparazione degli “amaretti di Saronno” e dei “Ricciarelli di Siena”, dolcetti tipici a cui danno un gusto particolare e inconfondibile.
Si usano, inoltre, per produrre liquori, estratti per dolci e per insaporire alimenti tradizionali.
Dal frutto del mandorlo si estrae, tramite spremitura a freddo e senza l’utilizzo di solventi chimici, un olio limpido e inodore che si usa ampiamente in cosmetica per le sue proprietà nutrienti, elasticizzanti ed emollienti per le pelli secche e sensibili, conferendo alla pelle un aspetto morbido e levigato.
E’ usato anche come base per unguenti e per creme da massaggio. E’molto ben tollerato da pelli sensibili e delicate. Giuseppina Bonaparte usava una grande quantità di prodotti di bellezza a base di estratti di mandorle.
Il mandorlo è una pianta da frutto che può essere coltivata sia in giardino, sia nei frutteti per la raccolta delle mandorle.
Fino agli anni ’50 del secolo scorso l’Italia deteneva il primato mondiale per la produzione di mandorle, soprattutto in Sicilia, dove la “mennulara” era la figura femminile di raccoglitrice manuale di mandorle.
Altre regioni produttrici erano: l’Abruzzo, la Puglia, la Calabria e la Sardegna. La mandorla, riconosciuta come un prodotto tipico siciliano, sardo, calabrese, è stata inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.
Purtroppo, con l’importazione di produzioni molto più competitive dagli Stati Uniti d’America e dall’Australia questo primato si è andato perdendo.
Le mandorle sono frutti secchi molto utili alla nostra salute. E’ consigliato un consumo moderato quotidiano per il contenuto di proteine, di grassi, di carboidrati, di vitamine del gruppo B1 e B2, ed E, e molti sali minerali di magnesio. 100 g di mandorle dolci sgusciate contengono:270 mg circa di magnesio, 3 mg circa di ferro, e 220 mg circa di calcio.
Inoltre 100 gr di prodotto edibile forniscono; 571 calorie, 24,19 g di proteine, 50,61 g di grassi, 2,74 g di carboidrati, 26 mg di vitamina E .
Le mandorle che acquistiamo nei supermercati provengono spesso da molto lontano. Una gran soddisfazione per me è quella di raccogliere le mandorle della mia campagna i cui alberi sono generosi!
Il Mandorlo è una pianta facilmente inserita all’interno dei parchi e dei giardini a scopo ornamentale per la sua abbondante e spettacolare fioritura. Se è coltivato soprattutto per la raccolta delle mandorle, è necessario utilizzare un portainnesto, chiamato “mirabolano”, che dona alla pianta una resistenza notevole, che garantisce anche un armonico sviluppo e il raggiungimento di una buona longevità.
In genere come portainnesto è impiegato il pesco, che permette di anticipare la messa a frutto e, nello stesso tempo, garantisce anche un’ottima vigoria, ma non garantisce la longevità.
Il mandorlo è molto adatto a vegetare in un clima mediterraneo.
Riesce a vivere sia nei luoghi caratterizzati da climi tipicamente caldi, sia in quelli con climi più freddi considerata la capacità di resistere fino a temperature che scendono anche di 3-5 gradi centigradi sotto il livello dello zero termico. Possiede una grande facilità di adattamento a ogni tipo di terreno preferendo, comunque, i suoli leggeri e che non presentano un elevato livello di umidità.
I venti possono essere dannosi durante la fioritura perché ostacolano il volo dei preziosi insetti pronubi che favoriscono l’impollinazione. Presenta anche una buona resistenza alla siccità poiché le radici sono molto capaci di inserirsi nel terreno per succhiare l’acqua.
Normalmente il mandorlo non viene irrigato, con una maggiore disponibilità idrica la produzione migliora. Ogni anno conviene distribuire nell’area sotto la chioma una certa quantità di concimi realizzati con azoto, fosforo e potassio .
La potatura richiede un’attenzione peculiare sia nei primi anni di vita della pianta per darle la forma migliore di allevamento, sia successivamente, per regolare l’altezza per la raccolta della produzione delle mandorle. Si sfoltiscono i rami in sovrannumero e intricati, si eliminano le parti secche e ammalate.
I mandorli, pur avendo una grande resistenza alle malattie, riuscendo a difendersi ottimamente anche da tanti parassiti, tuttavia potrebbero essere soggetti a patologie soprattutto nelle zone caratterizzate da una grande umidità.
È importante sapere riconoscere i primi sintomi delle avversità per cercare di difendere la pianta.
Le principali avversità che colpiscono il mandorlo sono: gli insetti e i funghi. Gli insetti più importanti sono: la cimicetta, Monosteira unicostata, una cimice molto piccola, di soli 2 mm, di colore marrone-grigio chiaro, che è capace di arrecare notevoli danni nelle zone calde e in certe annate, a partire dal mese di maggio. La cimice si poggia sulla pagina inferiore delle foglie alle quali sottrae la linfa. Le foglie ingialliscono e iniziano a cadere. Altri insetti sono: la campa, Malacosoma neustria, e il coleottero Anthonomus amygdali.
A partire dalla primavera, soprattutto se la stagione è calda, gli afidi attaccano gli apici, i germogli e le foglioline del mandorlo succhiandone la linfa. Le piante deperiscono a causa della perdita della funzionalità fogliare I germogli mostrano internodi raccorciati, presenza di melata e il tipico aspetto accartocciato.
Le patologie fungine più importanti sono: l’Armillaria, il Corineo, che si distingue per la comparsa di piccole macchie circolari sulle foglie e sui rami e, a volte, anche per le macchie rosse sui frutti, il Cancro delle drupacee e la Moniliosi, una patologia che danneggia in particolare i fiori, ma anche i germogli e i rametti, che disseccano, la Bolla, che attacca sia i germogli più giovani, sia le foglie provocandone la deformazione e lo sviluppo di macchie giallastre e rosse.
Anche il Fusicocco o cancro dei rametti è un batterio nemico dei mandorli e si manifesta con macchie brune sui rami, in corrispondenza delle gemme. Tutte queste patologie si dovrebbero prevenire con l’uso di  estratti di equiseto spennellati sui tronchi. Al manifestarsi dei primi sintomi è necessario intervenire con l’uso di prodotti specifici.
Amiamo e rispettiamo la NATURA. Tutti!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mar 10, 2020 - Senza categoria    Comments Off on FESTA LITURGICA DELLA NASCITA DI SANT’ANGELO MARTIRE E AVVICENDAMENTO PASTORALE NEL SANTUARIO DIOCESANO. PADRE ANTONINO MASCALI E’ ILNUONO RETTORE DEL SANTUARIO DI SANT’ANGELO A LICATA.

FESTA LITURGICA DELLA NASCITA DI SANT’ANGELO MARTIRE E AVVICENDAMENTO PASTORALE NEL SANTUARIO DIOCESANO. PADRE ANTONINO MASCALI E’ ILNUONO RETTORE DEL SANTUARIO DI SANT’ANGELO A LICATA.

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Dopo 28 anni di assenza sono ritornati a Licata i padri Carmelitani per gestire il santuario di Sant’Angelo, martire carmelitano, patrono della città di Licata.

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L’annuncio del ritorno della comunità dei Padri Carmelitani a Licata è stato comunicato alla comunità licatese dall’Arcidiocesi di Agrigento e dall’Ordine dei Carmelitani dell’Antica Osservanza nell’anno in cui ricorre l’ottavo centenario del martirio di Sant’Angelo da Gerusalemme.  L’anniversario sarà ricordato con un Anno Santo Giubilare che inizierà il 5 maggio 2020 e terminerà il 5 maggio 2021.
Molte migliaia di pellegrini giungeranno a Licata per partecipare a questo importante evento religioso.
All’inizio del cammino quaresimale e con la ricorrenza della nascita del Santo Patrono di Licata, la comunità licatese ha accolto con sentimenti di entusiasmante gioia la nuova comunità dei Padri Carmelitani. Ha ringraziato  il Signore Gesù Cristo per i circa 15 anni di servizio trascorsi nel santuario dal rettore uscente, il Rev, don Angelo Pintacorona, appartenente al clero diocesano che, in questi lunghi anni, ha officiato nel  santuario di Sant’Angelo

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Molto ricco è stato il programma degli eventi religiosi, così come annunciato dall’Arcidiocesi di Agrigento e dall’Ordine dei Carmelitani dell’Antica Osservanza.

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 Infatti, hanno comunicato che “l’avvicendamento pastorale nel santuario diocesano” avrà luogo in un periodo compreso tra il 28 febbraio e il 9 marzo 2020.
Nei giorni dal 28 febbraio  al 1 marzo è stato osservato il triduo con il culto dei giorni di quaresima. Celebrazione di sante messe, la Via Crucis, le preghiere, le confessioni, le riflessioni quaresimali sono stati momenti particolari del cristianesimo.
Il venerdì, 28 febbraio, ha celebrato la santa messa Don Saturnino Carta, parroco emerito di Sant’Angelo martire in Osidda, provincia di Nuoro.
Sabato, 29 febbraio, il rev. don Angelo Pintacorona ha celebrato la sua ultima santa messa per la fine del mandato in qualità di Rettore del santuario.

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Lunedì, 2 marzo, è stata ricordata la nascita di Sant’Angelo di Gerusalemme avvenuta il 2 marzo del 1185, nato da Jesse e da Maria, genitori ebrei convertiti al cristianesimo in seguito all’apparizione della SS.ma Vergine che predisse loro la nascita di due figli gemelli.

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La messa solenne è stata celebrata da M.R. P. Roberto Toni, Priore Provinciale della Provincia Italiana dei Carmelitani.
.Martedì, 3 marzo, la Lectio Divina”, “lettura divina”, che  insegna il modo di leggere la Sacra Scrittura.
Le celebrazioni religiose sono proseguite per tutto l’ottavario con la presenza di diversi padri carmelitani tra i quali, oltre al Molto Religioso Reverendo Padre Roberto Toni, anche quella di padre Josef Saliba, priore provinciale di Malta dell’ordine dei Carmelitani.
Sabato, 7 marzo, la veglia di preghiera.
Domenica, 8 marzo, in occasione dell’insediamento della Comunità internazionale dei Padri Carmelitani nel santuario di Sant’Angelo a Licata, per inizio mandato della nuova comunità dei padri Carmelitani di Sant’Angelo, avrebbe dovuto celebrare solennemente la santa messa Mons. Francesco Montenegro, l’arcivescovo metropolita di Agrigento.
Purtroppo l’importante evento è stato rinviato per motivi precauzionali, per tutelare  la salute pubblica per il pericolo del diffondersi del contagio dal Coronavirus.
Durante la santa messa domenicale delle ore 11:00 scarsa è stata la presenza dei fedeli in chiesa.
Hanno concelebrato: Padre Antonino Mascali, Padre Roberto Toni, Padre José Adriano Gomes da Silva.

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Da sx: Padre José Adriano Gomes da Silva – Padre Roberto Toni – Padre Antonino Mascali

Partecipiamo tutti alla Santa Messa cliccando su

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La nuova comunità è costituita da padre Gerard Carlos Araujo Tang Choon, della Provincia americana di Sant’Elia e proveniente da Trinidad e Tobago (aspettiamo il suo arrivo), da padre José Adriano Gomes da Silva, della Provincia di Pernambuco, in Brasile, e da padre Antonino Mascali, attuale assistente provinciale del Terz’Ordine Carmelitano.
Lunedì, 9 marzo 2020, la celebrazione della santa messa e il canto del Te Deum di ringraziamento avrebbero dovuto concludere gli eventi programmati.
Il Carmelitano, Padre Antonino  Mascali, è il nuovo rettore del santuario Diocesano di Sant’Angelo e Priore della comunità internazionale di Sant’Angelo a Licata e del convento e dipende direttamente dal Priore Generale dell’Ordine dei Carmelitani.
Padre Antonino proviene dalla comunità “N.S. del Carmine” di Cagliari dove è stato parroco e, attualmente, ricopre anche l’incarico di Assistente Spirituale dei Terz’Ordine Carmelitani della Provincia Italiana (tutte le comunità Carmelitane d’Italia, escluse quelle campane, pugliesi e calabresi).
Padre Antonino Mascali, assieme ai Padri della comunità, è stato presentato ai fedeli licatesi giorno 8 marzo, durante la celebrazione eucaristica domenicale delle ore 11 :00 nel Santuario di Sant’Angelo.

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Alle ore 18:30 dello stesso giorno Padre Antonino Mascali ha celebrato la sua prima Santa Messa in qualità di Rettore-Priore del santuario di Sant’Angelo a Licata.
Padre Antonino Mascali O.Carm. è nato a Randazzo, una cittadina in provincia di  Catania, il 10 luglio del 1969.

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Inizia il suo cammino di formazione nella Provincia Italiana dei Carmelitani il 10 settembre 2001 ad Albano Laziale dopo un anno di esperienza conquistata nel Convento di Santa Lucia alla Castellina a Firenze.
Negli anni 2003-2004 svolge il suo anno di noviziato a Bologna dove ha affermato la sua Prima Professione nell’Ordine Carmelitano il 4 settembre 2004. Il 26 febbraio 2011 da Sua Eccellenza Mons. Pio Vittorio Vigo, Vescovo di Acireale, è stato ordinato sacerdote nella Basilica di Santa Maria Assunta in Randazzo. Nel 2011 è stato nominato Vice Parroco nella Basilica dei Santi Martino e Silvestro ai Monti a Roma.
Nel mese di ottobre del 2014 riceve la nomina di Vice Parroco nella Parrocchia “N. S. del Carmine” a Cagliari.
Dal 2018 è Assistente Provinciale del Terz’Ordine Carmelitano (TOC).
Dal 1 marzo 2020 è Rettore e Priore del santuario di Sant’Angelo a Licata.
Auguri, Padre Antonino Mascali, “padre” e guida della comunità, di un buon inserimento nel santuario di Sant’Angelo a Licata e di un lungo, intenso  e proficuo  ministero del Signore sotto la protezione della Vergine del Carmelo e di Sant’Angelo, martire carmelitano .

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Mar 4, 2020 - Senza categoria    Comments Off on IL REV. DON ANGELO PINTACORONA SALUTATO CON GRATITUDINE DALLA COMUNITA’ LICATESE.

IL REV. DON ANGELO PINTACORONA SALUTATO CON GRATITUDINE DALLA COMUNITA’ LICATESE.

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Il giorno 29 febbraio 2020 una numerosa folla di fedeli si è riunita all’interno del Santuario di Sant’Angelo Martire, il Santo Patrono della città di Licata,

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per abbracciare virtualmente e ringraziare il rettore, don Angelo Pintacorona, per il lavoro, per l’impegno, per la dedizione nel guidare la Rettoria del Santuario per tanti lunghi anni.

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 Su Facebook, nel profilo del Santuario di Sant’Angelo è stato creato un apposito evento dal titolo “Salutiamo con gratitudine Don Angelo Pintacorona”. Infatti, dopo 28 anni di assenza, sono ritornati a Licata, disponibili ad occuparsi del santuario e ospitati sicuramente nei locali del convento, i carmelitani di cui Sant’Arcangelo fu un seguace della loro dottrina.
L’Ordine dei Carmelitani prese il nome dal monte “Carmelo”, in aramaico “Karmel” “giardino, paradiso di Dio”, un rilievo montuoso calcareo alto 528 metri che si trova nella sezione nord-occidentale di Israele, nell’Alta Galilea. Esso fu la culla dell’antico Ordine monastico contemplativo d’origine orientale. Alcuni eremiti sul monte Carmelo edificarono il primo tempio dedicato alla Vergine che, per questo motivo, si chiamò Madonna del Carmelo o Madonna del Carmine.
Il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine Carmelitano inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno.
Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”.

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 Sulla vita di Sant’Angelo, sulla Sue feste religiose, sul santuario a Licata invito i lettori a leggere gli articoli pubblicati nel mio blog nel mese di aprile 2016.
Per festeggiare il ritorno dei Padri Carmelitani a Licata è stato scelto esattamente questo periodo in cui si celebrerà il Giubileo di Sant’Angelo, che  inizierà il prossimo 5 maggio e durerà fino al 5 maggio del 2021. L’evento è stato organizzato dall’Ordine Carmelitano in occasione degli 800 anni del martirio del frate carmelitano Sant’Angelo.
Nel santuario di Sant’Angelo la Santa Messa di ringraziamento, per la fine del mandato pastorale del Can. Don Angelo Pintacorona, Rettore uscente del Santuario Diocesano, è stata concelebrata: dal rev. Angelo Pintacorona, da P. Roberto Toni, da P.Josè Adriano Gomes Da Silva, da P. Salvatore Cardella.

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Durante la sua omelia, visibilmente commosso, Don Angelo Pintacorona ha percorso la storia della sua vita al servizio del Santuario, dell’accoglienza dell’Associazione Pro Sant’Angelo, dell’assistenza spirituale al gruppo dei Carmelitani, dell’ascolto dei giovani, e delle tante altre attività.

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Ha dato, inoltre, il benvenuto ai tre frati carmelitani che svolgeranno il loro mandato a Licata: a P.Antonino Mascali, il nuovo Rettore del santuario, a P.Gerard Carlos AraujoTangChoon di Trinidad e Tobago, al brasiliano Josè Adriano Gomes Da Silva.
Nel corso della celebrazione il M. R..P. Roberto Toni, Priore Provinciale della Provincia Italiana dei Carmelitani, ha letto il saluto di tutta la comunità licatese diretto a Don Angelo Pintacorona. Le sue parole: “Grazie, Padre Angelo, a ringraziarLa non sono le parole di uno, ma sono le parole di tanti”.
Quindi, hanno espresso il proprio pensiero ringraziando Padre Angelo Pintacorona: il prof. Vincenzo Scuderi, il dott. Giuseppe Caci, Presidente del Terz’ordine Carmelitano di Licata a Segretario Provinciale del Terz’ordine Carmelitano della Provincia Italiana dei Padri Carmelitani, la signora Caterina Bonafede, segretaria dell’Associazione  Pro Sant’Angelo.  P. Roberto Toni ha letto la lettera che i giovani Giacomo Vedda e Viviana Giglia hanno indirizzato a Don Angelo.  Il signor Gibaldi Angelo, presidente dell’ Associazione Por Sant’Angelo, e il membro dell’Associazione “Vivere Licata” hanno salutato padre Pintacorona offrendogli anche un omaggio floreale.
La santa messa è stata animata dal coro dei Carmelitani che hanno recitato la preghiera alla Madonna del Carmelo e hanno cantato chiamdoLa “Sorella”.
La visione del filmato, cliccando su

 

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rende tutti noi partecipi della cerimonia come se fossimo stati materialmente presenti.

Chi è Padre Angelo Pintacorona?
Angelo Pintacorona è nato a Licata, in provincia di Agrigento, il 6 settembre del 1939.
Il giorno 3 luglio del 1966 da Mons. Giuseppe Petralia è stato ordinato sacerdote presso la cattedrale di Agrigento.
Nel 1966 è stato nominato Viceparroco della chiesa Madre di Palma di Montechiaro.
Nel 1968 è stato nominato Viceparroco della chiesa Madonna di Fatima di Agrigento.
Negli anni 1972-’73 è stato nominato Viceparroco della chiesa di Santa Maria dell’Annunziata, meglio conosciuta come “Chiesa del Carmine” a Licata.
Dal 1973 è stato rettore della chiesa di Maria SS.ma della Carità, Cappellano del cimitero dei Cappuccini e Canonico dell’Insigne Secolare Collegiata sempre a Licata. A partire dallo stesso anno ha ricoperto l’incarico di docente di religione cattolica presso Istituto “Filippo Re Capriata” di Licata e membro del Consiglio presbiterale diocesano .
Il primo dicembre del 1977 stato nominato parroco della chiesa di Santa Barbara a Licata. Il primo ottobre del 1986 è stato nominato parroco della chiesa di Sant’Andrea Apostolo di Licata. Dal 13 dicembre del 2005 ha ricoperto l’incarico di Rettore del Santuario di Sant’Anglo Martire a Licata. Incarico che ha mantenuto fino al 29 febbraio 2020.
Il mio augurio, Padre Angelo, è quello di continuare a professare la sua Fede cristiana nel silenzio, nella tranquillità e in armonia con se stesso.

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