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Aug 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VERONICA SPICATA E LA VERONICA VARIEGATA

LA VERONICA SPICATA E LA VERONICA VARIEGATA

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La villa comunale “G. Garibaldi” di Mistretta non finisce mai di stupire il visitatore per le tante essenze vegetali che custodisce. A pochi passi dall’ingresso principale della piazza San Felice, nell’aiuola di sinistra, quasi sotto i piedi dell’altissimo Abies nordmanniana del Caucaso, questa estate la Veronica variegata ha mostrato le sue bellissime spighe fiorite.

La Veronica, dal latino ”vera et unica”, è una pianta originaria dell’Europa Centrale, dell’Asia settentrionale, dell’America del nord e della Nuova Zelanda ed appartenente alla famiglia della Scrophulariaceae. Al suo nome si attribuisce  il significato di ”portatrice di vittoria” perché guaritrice di tante malattie e soprattutto delle ferite della pelle. Nella tradizione popolare cristiana Veronica è il nome della donna che asciugò il volto di Cristo. In Francia era conosciuta come “Herbe aux ladres”,“erba dei lebbrosi”.

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Esistono diverse varietà di Veronica e tutte sono di dimensioni medie. Sviluppano cespi abbastanza compatti costituiti da sottili fusti eretti, semilegnosi. La Veronica spicata è un arbusto di forma arrotondata il cui fusto può raggiungere l’altezza di due metri. Le foglie ovato-lanceolate, dentate ai margini e acuminate all’apice, opposte o riunite in verticilli in numero di tre, sono di un bel colore verde brillante e densamente pelose. Non è una pianta sempreverde, quindi durante i mesi più freddi dell’anno perde la sua parte aerea. Poi, con l’arrivo della primavera, ricomincia rapidamente a rifiorire e a produrre nuovi fusti e nuove foglie. I fiori, piccoli, riuniti in infiorescenze a racemi rivolte verso l’alto, hanno la corolla tubulosa  azzurra. La fioritura avviene in autunno, approssimativamente per la festa di tutti i Santi, ed è rigogliosa e molto prolungata. La Veronica variegata, coltivata nella villa comunale di Mistretta, invece è fiorita abbondantemente durante tutto il mese di luglio.

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Per favorire il protrarsi della fioritura, è bene cimare i fusti che portano i fiori appassiti. Un’antica leggenda racconta che sarebbe stato accecato dall’ira degli uccelli chiunque avesse maltrattato le pianticelle di Veronica distruggendo i delicati fiori. Il frutto è una capsula. La moltiplicazione avviene per semi prelevandoli dalla pianta solo quando sono completamente disseccati. La pianta si riproduce, oltre che per seme, anche per divisione dei cespi che, ogni tre anni, si dividono e si pongono direttamente a dimora tra marzo e aprile, e per mezzo di talee di germogli laterali che vengono sottratti alla pianta a partire dal mese di luglio.

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La Veronica preferisce essere esposta in un luogo soleggiato, o appena in penombra. Resiste al freddo piuttosto intenso, sopporta bene le temperature che scendono sotto lo zero, ma soffre le gelate prolungate. Si adatta a qualsiasi substrato apprezzando un terreno ben drenato, fertile, soffice, sempre umido e senza ristagni d’acqua. Richiede annaffiature abbondanti e regolari durante l’estate e soprattutto in caso di siccità. E’ consigliabile innaffiarla di rado, in abbondanza, piuttosto che spesso e in piccole quantità. La potatura va eseguita solo dopo la fioritura. Pur essendo una pianta rustica, che non necessita di particolari attenzioni, tuttavia può essere attaccata dagli Afidi, che causano una crescita lenta dei fiori e dei nuovi getti, e dai funghi se il terreno è pregno d’acqua.

La Veronica è stata molto usata nella medicina popolare. Il suo impiego si diffuse moltissimo alla fine del XVII secolo. Veniva preparato l’infuso al posto del the che, allora, era assai costoso. L’infuso di Veronica era chiamato “the svizzero”, in ricordo di Fuchs, e la sua diffusione è stata favorita dal medico Frederich Hoffmann che così scrisse “De infusi Veronica efficacia preferenda herbae teae”. In fitoterapia si usano le parti aeree essiccate per preparare misture che, per il contenuto in glicosidi e in tannini, hanno effetti digestivi, tonici, sudoriferi, antinfluenzali, antigottosi, utili anche per combattere la tosse, per alleviare i dolori reumatici e per curare le malattie cutanee pruriginose. Per uso esterno si possono usare per lavare le ferite, come leggero astringente per il viso, e per i gargarismi.

Aug 16, 2015 - Senza categoria    Comments Off on Il PINUS LARIX CANARIENSIS

Il PINUS LARIX CANARIENSIS

 

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La villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta oltre al Pinus pinea ospita anche il Pino laricio.

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Il Pino laricio è una delle più interessanti conifere europee appartenente alla famiglia delle Pinaceae. Autoctono nell’arcipelago delle Canarie e nell’Africa nord-occidentale, è un albero notevole, che stupisce per la sua maestosità.
Larix” è il termine già usato dai Romani per indicare la pianta che ha scelto il suo areale sulle Alpi austriache, francesi, italiane e svizzere, e sui Carpazi. In Italia vive ad altezze comprese tra i 1200 e i 2600 metri, ma può colonizzare zone meno alte, fino a 500 metri.
Può considerarsi l’albero d’alto fusto che, più d’ogni altro, si spinge in alto, coraggioso pioniere delle grandi altezze, in sfida perenne contro le asperità del suolo e le avversità dei fenomeni atmosferici. Trova il clima ottimale nelle regioni calde del meridione, soprattutto in Sardegna dove l’albero è particolarmente diffuso.
Per il suo elegante portamento, per la sua robustezza, per il suo legno pregiato, per i suoi colori autunnali, è attribuito al Larix l’appellativo di “conifera nobile”. In Sicilia è chiamato con i nomi: “Pinu ri vuoscu”, “Zappino”, ”Pino della Calabria.” Il Pino laricio siciliano è una varietà particolare detta “aetnensis” che differisce dai cugini calabresi e corsi.
Una prima identificazione del Pino laricio risale alla fine del ‘700, ma solo nel 1904 fu accertata l’appartenenza degli individui alla specie “canariensis”. E’ ipotizzabile una sua introduzione in Italia al tempo delle Repubbliche Marinare, quando Pisa aveva relazioni e possedimenti in Corsica e quando il legname di Pino laricio canariensis era preziosissimo per le costruzioni navali della Repubblica.
Il Pino laricio canariensis è un albero sempreverde, molto longevo, che può raggiungere i 300 anni d’età. Presenta un portamento eretto, piramidale, un tronco diritto, regolare e slanciato, alto circa 25 metri, poco ramificato e con rami sottili, espansi, disposti a palchi, come un candelabro, e con rametti penduli. I rami più bassi muoiono e cadono portando la pianta a raggiungere altezze sempre più elevate. L’apparato radicale, con un robusto fittone centrale, è esteso.

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La pianta, da giovane, ha un ritmo di sviluppo piuttosto rapido, di 30-40 centimetri l’anno, ma, raggiunta la maturità, cresce molto più lentamente. Il tronco è ricoperto dalla corteccia liscia nella pianta giovane che, in età adulta, diventa molto ruvida e fessurata in placche longitudinali. Nelle fessure la corteccia si colora di rosso, mentre sulle placche compaiono alcuni puntini bianchi.

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Le foglie, aghiformi, persistenti, fino a 3 anni, raggruppate in fascetti di tre, sottili, flessibili, scarsamente pungenti, lunghe 20-30 centimetri, pendule, sono di colore verde chiaro nelle piante giovani e di colore verde scuro nelle piante adulte. L’insieme delle foglie forma la chioma stretta, leggera, rada che, in autunno, muta il suo bel colore verde pisello in splendide tonalità dorate che fanno risaltare la sua presenza in mezzo al verde cupo del Pinus nigra. Gli aghi cadono durante l’inverno. Il Pino laricio è, infatti, l’unica conifera cosiddetta spogliante dei nostri climi. In estate, a causa delle elevate temperature e della ridotta piovosità, il Larice potrebbe perdere le foglie, naturalmente per preservare la pianta dalla disidratazione. Infatti, l’essenza, in questo periodo, consuma più acqua delle altre conifere poichè gli aghi fanno traspirare velocemente quella quantità accumulata.

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 I fiori sono grandi e ovoidali. La fioritura avviene tra i mesi di marzo e di maggio. Gli strobili maschili sono allungati e appuntiti, raggruppati nella parte terminale del ramo. I coni femminili, quasi cilindrici, visibilmente molto più piccoli, si trovano soprattutto nella parte superiore della chioma disposti verticalmente verso l’alto. Sono lunghi circa 20 centimetri, riuniti in gruppi fino a 5, resinosi e di colore bruno lucido. All’interno della squama risiedono 1 o 2 semi provvisti di una grande ala che permette loro di essere trasportati dal vento fino a coprire cospicue distanze. I semi scuri maturano ogni due anni. Nonostante la perdita dei semi, le piccole pigne possono persistere sui rami anche un paio d’anni prima di distaccarsi dalla pianta con le piccole squame molto aperte e ricurve. La moltiplicazione avviene per semina.
Il Pinus laricio canariensis è una conifera che si distingue dalle altre per la capacità di riprodursi anche per via agamica, cioè attraverso il prelievo di polloni o di parti del fusto e della corteccia che, dopo il taglio e anche dopo l’aggressione del fuoco, danno vita ad una nuova pianticella. Per questo motivo il Pino delle Canarie è un albero che rivegeta anche dopo gli incendi perché non è mai intaccato gravemente dalle fiamme e le sue parti rimangono vitali.
Il Pino delle Canarie è un albero di notevole pregio ornamentale non solo per la sua forma slanciata, per la chioma dall’aspetto piacevole, per la leggerezza degli aghi, per cui è felicemente apprezzato nel giardino, ma anche per la sua straordinaria rusticità, per la sua grande semplicità, per la sua capacità di adattamento e di resistenza alle condizioni ambientali e climatiche difficili e avverse. E’ una pianta eliofila, predilige le posizioni asciutte, soleggiate o a mezz’ombra, e gli inverni freddi e nevosi.
Nonostante la neve abbia il suo peso, scivola via senza danneggiare la pianta grazie alla sua ramificazione particolarmente elastica. Solo qualche fulmine, che vuole scaricare a terra la sua carica elettrica, potrebbe colpire la punta dell’albero isolato. Per fortuna, all’interno della villa comunale, questo regale albero è molto “socievole“, quindi consorziato con l’Abies excelsa, col Pino nero d’Austria, con l’Abies pinsapo, con il Cedrus deodara, con l’Abete del Caucaso, col Faggio e con le Betulle. Il fulmine, se proprio si deve appoggiare a qualche albero, ha un’ampia possibilità di scelta!
Preferisce un terreno ben drenato, sufficientemente umido, ma mai acido, al quale si aggrappa saldamente con le sue robuste radici. Colonizza terreni poveri ai quali apporta, con gli aghi che perde in autunno, la materia organica che renderà possibile l’attecchimento di altre essenze. Inoltre, è importante sapere che, in simbiosi con le sue radici, vivono dei funghi simbionti, chiamati micorrize, fondamentali per aiutare l’assorbimento di sostanze nutritive dal terreno.
In genere l’albero è molto resistente alle malattie. A volte è attaccato da parassiti, insetti, funghi e licheni che soffocano la sua vegetazione. La Cocciniglia lanuginosa è la più frequente e porta alla comparsa di fitte macchioline, dapprima decolorate e poi scure, sugli aghi che si deformano ed ingialliscono. La Cloroflora laricella, un afide che sverna nei rami, durante la stagione estiva si alimenta della linfa dell’albero succhiandola dagli aghi che s’indeboliscono fino a cadere.
Oltre ad arricchire il paesaggio, il Pinus larix canariensis è una fonte di preziose risorse. Il suo legno rosso è pregiato, resinoso, profumato, molto duro, compatto, flessibile, resistente agli agenti atmosferici. Sotto la dominazione veneta, con i suoi tronchi si rafforzavano le fondazioni delle chiese e dei palazzi, si costruivano navi e imbarcazioni e relative alberature perché, anche se immerso a lungo nell’acqua, il legno non si decompone. Ancora oggi il legno è impiegato per costruzioni edilizie, navali e idrauliche e per lavori fini di falegnameria, come combustibile e  per ricavare la cellulosa. La resina abbondante, di cui il legno è impregnato, aumenta la durezza e la resistenza all’azione dell’acqua.
Dalla resina si ricava un antisettico utile per il trattamento dei più svariati disturbi di carattere bronchiale o respiratorio. La trementina è usata come solvente nella fabbricazione di tinture e di vernici. Dalla sua corteccia si ricava il tannino. Non sono neanche da trascurare i bellissimi fiori femminili dai quali traggono origine i frutti, le decorative pigne, che bene si prestano per arricchire addobbi e confezioni natalizie. Albero pieno di risorse, quindi, il Pinus larix canariensis, è da conoscere e da valorizzare. Nel corso della sua storia l’uomo ha ricevuto molto da quest’albero e l’Uomo lo ha saputo ringraziare? Lo ha saputo amare e rispettare?
Nel linguaggio floreale il Pino laricio è simbolo di “disinvoltura”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aug 7, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL PINUS PINEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

IL PINUS PINEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta si fa notare, perché è alto e perché con la sua chioma si affaccia in via Scalinata, il Pinus pinea.

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Appartenente alla Famiglia delle Pinaceae, il Pinus pinea è il Pino conosciuto con moltissimi altri sinonimi: “Pino domestico, Pino italico, Pino mediterraneo, Pino parasole, Pino da pinocchi, Pino da pinoli”. E’ l’albero più caratteristico delle zone circostanti il mar Mediterraneo perchè è la specie originaria dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in particolare sulle coste settentrionali dove forma vasti boschi. Sa regalare alle creature un’ombra molto gradita nel clima caldo dell’estate mediterranea. Vive bene tra i 500 e i 1000 metri d’altezza. Il Pino domestico si trova distribuito in quasi tutta l’Europa. E’ stato coltivato da oltre 6000 anni per i suoi pinoli che sono diventati merce di scambio. Si è naturalizzato in Africa meridionale, dove è considerata una pianta invasiva, e piantato comunemente anche in California e in Australia. In Italia è coltivato praticamente ovunque, ad eccezione delle zone molto montuose. Forma estese pinete associandosi ad altre piante della macchia mediterranea. Le più belle pinete italiane si trovano a Ravenna, a San Rossore, a Grosseto. Per l’alto numero di esemplari presenti in Italia, da molti è considerato l’albero simbolo del nostro paese tanto che dagli anglosassoni il Pino domestico è denominato “Italian stone Pine” e dai francesi “Pin d’Italie“. Nel 1966 fu designata dal Ministero del Turismo la “pianta emblematica italiana”.

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l Pinus pinea è facilmente riconoscibile per il suo portamento ad ombrello, aspetto che assume precocemente per potatura naturale e poiché presto si ramifica in getti tutti approssimativamente della stessa vigoria. Possiede l’apparato radicale robusto, all’inizio lungamente fittonante, il tronco eretto, alto da 20 a 25 metri, spesso biforcato e spoglio nei due terzi inferiori, mentre è ramificato in alto con rami verticillati ed espansi, disposti a raggiera come le aste di un ombrello tanto da fargli attribuire il nome di “Pino ad ombrella“. La corteccia, spessa, di colore rosso bruno, è divisa da larghe placche verticali di forma romboidale.

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Le foglie, aghiformi, sempreverdi, morbide, flessibili, molto appuntite, riunite in coppie di due, decidue, di colore verde scuro, lunghe 12-15 centimetri, avvolte alla base da una guaina trasparente e persistente, formano la chioma. E’ una pianta monoica dicline. I fiori, meglio indicati come sporofilli, sono riuniti in infiorescenze. I macrosporofilli femminili, in strobili ovoidali, di color rosa-viola, crescono all’estremità dei nuovi germogli e, a maturazione, diventano legnosi e liberano i semi. I microsporofilli maschili, in piccoli strobili giallo – dorati, più evidenti di quelli femminili, sono posti alla base del germoglio. La fioritura avviene da aprile a giugno e, nell’autunno dello stesso anno o di quello successivo, nascono le pigne. Il frutto, lo strobilo,lungo fino a 15 centimetri, solitario, grande, pesante, di forma conica, globosa, formato da tante squame romboidali, matura ogni tre anni, il tempo più lungo di qualsiasi altro Pino. Ogni squama, schiudendosi, libera due semi. I semi sono protetti da un guscio osseo di colore rosso scuro ornato da un’ala brevissima che si stacca facilmente. I semi, i pinoli, lunghi 2 centimetri, sono oleosi, commestibili, molto gradevoli e gustosi. In varie zone d’Italia sono chiamati con altri nomi come “pinoccoli” o “pinocchi“. I semi sono dispersi dagli animali, dagli uccelli e anche dall’uomo. La raccolta degli strobili si compie da ottobre fino alla fine dell’inverno lasciandoli esposti al sole per favorire l’apertura delle squame.

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 Il Pino domestico è una conifera molto utilizzata nei viali e nei giardini pubblici. E’ una pianta rustica, a crescita abbastanza rapida, xerofila. Poco esigente nei riguardi del suolo gradisce, però, quelli sabbiosi, sciolti, non aridi ed evita quelli argillosi o troppo calcarei. Pianta eliofila, predilige un’esposizione sufficientemente soleggiata, un clima di tipo La moltiplicazione avviene, quindi, per seme da praticare in qualsiasi periodo dell’anno, preferibilmente in primavera. La fragilità dei giovani esemplari, che sono attaccati facilmente da parassiti e da malattie, rende poco probabile la possibilità di ottenere dal seme nuove piantine.  Più facile è la propagazione per talea in primavera o in estate inoltrata. costiero, non troppo esposto ai venti e resiste ai freddi invernali. Richiede annaffiature solo se il clima è particolarmente siccitoso e raramente ha bisogno di qualche concimazione. Teme l’attacco di Afidi e di Acari e spesso anche la Processionaria del Pino danneggia gravemente la pianta. Come quasi tutte le pinaceae, anche il Pinus pinea produce una resina che allontana la maggior parte dei parassiti. Essendo piante resinose, tutti i Pini si lasciano attraversare dal fuoco con molta facilità. Il fuoco, talora di natura dolosa, ma molto spesso provocato dalla disattenzione dell’Uomo, è uno dei maggiori pericoli per le pinete che vengono enormemente danneggiate o distrutte. Il legno non è un ottimo combustibile poichè produce una fiamma viva e dal colore intenso, ma poca carbonella. Il Pino domestico produce un legno rossiccio e venato di scuro, leggero, tenero, poco resistente, resinoso, non di gran pregio, pertanto non molto ricercato. E’ adatto per lavori di falegnameria comune, per travature, per traverse, per paleria, nell’industria cartaria e per costruzioni navali.

Ugo Foscolo, ne ”I Sepolcri”, ha inserito l’episodio di Nelson, l’inglese che avrebbe tagliato l’albero maestro di una nave francese nemica, costruito con il tronco di Pino, e si sarebbe fabbricato la propria bara.

[…] Pietosa insania che fa cari gli orti

De’ suburbani avelli alle britanne

Vergini dove le conduce amore

Della perduta madre, ove clementi

Pregaro i Genj del ritorno al prode

Che tronca fe’ la trionfata nave

Del maggior pino, e si scavò la bara.[…]

Dalla sua corteccia si estrae il tannino, composto utilizzato per la conciatura di pelli. I suoi frutti, i pinoli, ricchi di proteine, consumati in Europa sin dalla preistoria, hanno notevoli impieghi nell’industria dolciaria e farmaceutica.

I pinoli sono utilizzati per impreziosire torte e per preparare moltissimi piatti della cucina mediterranea italiana. Non possono mancare nel piatto di pasta con finocchietti ricci e sarde della cucina palermitana. Attualmente il Pinus pinea è coltivato anche come pianta ornamentale. Piccoli esemplari sono cresciuti in grandi piantagioni e usati per i bonsai. Pianticelle di un anno d’età, che hanno raggiunto il metro d’altezza, sono usate anche come alberi di Natale da appoggiare sul tavolo. Sacro a Bacco, a Cibele, a Diana e a Nettuno, nella tradizione greca simboleggiava la “resurrezione”.

 

 

 

 

Aug 1, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DEL PINO

LA STORIA DEL PINO

L’articolo sul Pinus nigra mi stimola a raccontare la storia del Pino.

Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta vegetano bene tante specie di Pini.  I Pini sono alberi veramente belli! Il colore sempre verde e le audaci forme delle chiome conducono la mente ad immaginare luoghi montagnosi e tempi invernali quando la neve li ricopre e li rende affascinanti. Sono le piante preferite dagli uccelli e con queste eccezionali creature vivificano l’ambiente che abitano.

Alcune specie di Pino da tempi antichissimi vegetano sui monti e sulle valli del nostro Paese e, più in generale, di tutta l’Europa. L’ampia distribuzione geografica di queste piante le vede rappresentate in regioni molto differenti, anche se la concentrazione più importante si rileva nella fascia a clima temperato o temperato-freddo dell’emisfero boreale arrivando a superare il circolo polare artico a nord e le zone subtropicali a sud. Sono circa una settantina le specie facenti parte del genere Pinus.

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Pinus nigra

 Si tratta della famiglia di conifere più estesa e di maggior importanza economica e forestale. Morfologicamente si tratta di piante arboree sempreverdi. Nella prima fase del loro sviluppo sono caratterizzate da una bella forma piramidale differenziando poi gradualmente parecchie impalcature: invecchiando, mutano la propria sagoma da piramidale in altra con figure più aperte e globose. Col tempo la corteccia della maggior parte delle specie s’ispessisce e si fessura più o meno profondamente. Le foglie sono aciculari e perenni. Gli strobili femminili e maschili sono presenti sulla stessa pianta. Il frutto è un cono che, maturando, si schiude lasciando fuoriuscire i semi alati, a coppie su ciascuna scaglia, protetti da una squama molto lignificata. Tra l’impollinazione e la fecondazione può passare anche un anno di tempo, mentre la maturazione dei semi richiede circa due anni.

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Pinus larix

Pinus è un termine d’origine controversa: forse deriva dal latino ”pix, picis”, “pece, resina”, un prodotto della pianta. Potrebbe anche derivare dalle radici indoeuropee “pic”, “pungere”, in riferimento agli aghi, oppure “pi”, “stillare”, emanare la preziosa resina, oppure ancora dal celtico “pen”, “testa” alludendo alla forma della chioma, oppure dal celtico “pin”, “montagna, roccia” per la capacità della pianta di vivere in terreni pietrosi. Secondo la mitologia latina, fu la ninfa Pitis ad attribuire il nome alla pianta.

 La ninfa Pitis chiese agli dei di essere trasformata in un albero di Pino per sfuggire al dio Pan che voleva violarla. Secondo un’altra versione, Pitis era contesa tra il dio Pan e Borea, il vento del nord. Allorquando Pitis scelse Pan, il vento Borea, per vendicarsi, la gettò giù da una rupe con un impetuoso soffio. La Terra, impietosita, la trasformò in un albero di Pino. Quando, in autunno, il vento soffia forte tra i boschi, staccando la resina dalla corteccia, allora è Pitis che stilla le sue lacrime.

 Nelle mitologie latina e  greca il Pino ha avuto un valore ambientale e storico davvero importante sfruttando ampiamente il simbolismo ed il suo nome. È menzionato spesso nelle citazioni poetiche di Ovidio, di Virgilio, di Plinio, di Orazio ritenendolo spesso un albero sacro. Molti sono i miti legati a questa pianta maestosa, ma tutti collegati a grandi eventi luttuosi del mondo maschile. Ovidio, nel libro X de “Le Metamorfosi”, così racconta il mito di Attis, il giovane mutato in un Pino: “E voi pure veniste, edere dalle radici aggrovigliate, e le viti piene di pampini, gli olmi avviluppati di viti, e ornielli, pìcee, corbezzoli carichi di frutti rosseggianti, tranquille palme che si danno in premio ai vincitori, e il pino che si erge con la sua chioma arruffata raccolta in cima, il pino, caro a Cibele, la madre degli dei, se è vero che per lei Attis si spogliò del suo corpo per fissarsi in quel tronco”.

 Nella mitologia greca il Pino è testimone del sacrificio del giovane Attis. Attis era un fanciullo di straordinaria bellezza di cui si era innamorata Cibele, la dea frigia che lo assisteva nella caccia assicurandogli prede abbondanti. Attis, tuttavia, si era innamorato della figlia del re Mida. Alle nozze di Attis, Cibele, innamorata tradita, manifestò la sua gelosia provocando disordine fra tutti gli invitati presenti alla festa e facendo impazzire Attis. Attis, allora, rinunciando al matrimonio con la figlia del re Mida, si evirò, morendo dissanguato, all’ombra di un albero di Pino. Cibele, addolorata, trasformò il corpo di Attis in un Pino sacro. Ogni goccia del suo sangue caduto a terra si trasformò in un fiore di viola. Cibele ottenne poi da Zeus che il corpo di Attis non marcisse, che i capelli continuassero a crescere e che potesse muovere il dito mignolo della mano. Cibele diede sepoltura ai genitali di Attis che diventò così il dio della vegetazione che sboccia a primavera dopo la sospensione della vita durante l’inverno. Una festività funebre, istituita in suo onore, si celebrava ogni anno il giorno dell’equinozio di primavera per ricordare che il Pino moriva e resuscitava.

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Pinus pinea

La pianta di Pino, con la sua eleganza, simboleggia “la rinascita della vita” e trasmette il senso d’immortalità considerato che sopporta il freddo invernale e mantiene la chioma verde in tutte le stagioni. E’ anche simbolo “di fecondità e di buon augurio”. In Grecia il Pino era consacrato a Rea, la Grande Madre, come simbolo di “morte, ma anche d’immortalità”: di morte perché, se tagliato, non riesce a ricrescere, d’immortalità per la sua straordinaria capacità di resistenza e d’adattamento agli ambienti più sfavorevoli. Per i Romani il Pino era simbolo di “verginità” e lo dedicarono a Bacco, il dio della vegetazione e della fertilità. In Giappone lo strobilo, fino a non molto tempo fa, compariva nelle cerimonie nuziali rappresentando la costanza e la fedeltà dell’amore coniugale e la perpetuità del genere umano. In Giappone ancora oggi il Pino evoca l’immortalità ed il suo legno è utilizzato per costruire i templi scintoisti e gli strumenti rituali. Per gli Assiri il Pino era il guardiano della vita. La tradizione medievale europea racconta del paladino Orlando, l’eroe perito sotto le sue fronde nella battaglia di Roncisvalle.

 Oltre all’importanza mitologia, il Pino è utile perchè fornisce il legno e la resina. La raccolta della resina è legata alla storia dell’uomo già dall’epoca preistorica ed è sopravvissuta fino a pochi decenni fa per i molteplici utilizzi di questo materiale naturale. L’uomo preistorico fissava le sue frecce e i suoi strumenti litici a manici di legno utilizzando un impasto di resina mescolata al carbone e alla cera d’api e i cui resti sono ancora oggi reperibili negli scavi archeologici. Le ferite a lisca di pesce, finemente incise, che ancora oggi si possono vedere su alcuni vecchi pini, riconducono ad un antico mestiere praticato in Maremma fino alla metà degli anni 60: quello del resinatore. Questa attività è oggi totalmente scomparsa essendo l’industria chimica in grado di estrarre la resina dai legnami in lavorazione e di produrla con processi di sintesi. Con la pece si trattavano i legni per le navi, s’impermeabilizzavano le corde e gli spaghi per cucire le calzature, si calafatavano le imbarcazioni. Dalla resina si ricavava l’essenza di trementina, un materiale usato per preparare le sostanze balsamiche.

In fitoterapia, secondo le antiche ricette, il Pino trovava impiego nei casi d’impotenza, come a significare che “il simile cura il simile”. Chi ne faceva uso rinasceva a nuova vita maschile, proprio come la pianta. Le parti della pianta di Pino avevano anche altre applicazioni. Gli indiani d’America utilizzavano il decotto degli aghi per prevenire lo scorbuto e i soli aghi per riempire i giacigli dove dormivano e per tenere lontani insetti e pulci. Nella tradizione popolare i germogli si aggiungevano all’acqua del bagno per curare disturbi circolatori, ferite, infezioni della pelle e dolori artritici. Alla fine dell’800, quando era diffusa la tubercolosi e si avevano pochi mezzi per combatterla, i “sanatori” erano costruiti in luoghi temperati, soleggiati e vicini ai boschi di Pini per sfruttare le proprietà balsamiche delle piante. La moderna fitoterapia utilizza i derivati del Pino per la cura delle vie respiratorie, dei reumatismi e della sciatica. I pinoli sono degli ottimi ricostituenti soprattutto per le persone malate o convalescenti. Plinio esaltava le proprietà del seme come rinvigorente delle forze debilitate e come ottimo rimedio per guarire le affezioni delle vie urinarie. Fin da tempi remoti i pinoli sono considerati potenti afrodisiaci. Galeno, nel II secolo d.C., raccomandava agli uomini di bere un bicchiere di miele e di mangiare 20 mandorle e 100 pinoli prima di mettersi a letto. L’utilizzo più poetico della trementina, ancora oggi non superato dal tempo, è rappresentato dal trattamento delle corde degli archi per suonare gli strumenti musicali. In un raffinato evento musicale dal vivo, le note che si sprigionano da viole, violini e violoncelli scaturiscono dall’inimitabile attrito che la resina del Pino produce sulle tese corde metalliche. E’ stata data grande importanza anche al legno del Pino utilizzato per la costruzione delle navi da guerra, ambiente esclusivamente maschile. Era usato per fabbricare sponde e fondi di carri agricoli, per cassapanche e, raramente, per costruire mobili. Plinio il Vecchio parla di arnie delle api costruite con assi di legno di Quercia, di Faggio, di Pino e di Fico. Il legno di Pino era anche utilizzato come combustibile facilmente infiammabile.

Nemico del Pino, dalla quale rischia di essere danneggiato, è la processionaria, la Thaumetopoea pityocampa, un insetto parassita le cui larve si nutrono delle foglie di diverse specie di Pini e che, durante la loro vita larvale, si rifugiano entro bianchi nidi sericei che costruiscono sulle chiome degli alberi. Queste larve possono defogliare la chioma dell’albero indebolendolo anche pesantemente. Le larve sono provviste di peli urticanti che provocano dermatiti e infiammazioni agli occhi ed alle mucose delle vie respiratorie alle persone che, inavvertitamente, vengono in contatto con loro.

 

Jul 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL PINUS NIGRA

IL PINUS NIGRA

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Ogni volta che mi  trovo al  mio paese, a Mistretta, giornalmente mi reco alla villa comunale “Giuseppe Garibaldi” per incontrare le mie amiche PIANTE che saluto, ammiro e chiamo ciascuna con il proprio nome. Nell’agorà, seduta su uno dei tanti sedili, in particolare oggi osservo il Pino nero. E’ maestoso, è bello! Ammiro la sua cima, fitta di rametti e di foglie, già affacciandomi dal balcone belvedere.

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Da questo magnifico giardino non vorrei uscire mai! Le emozioni che ricevo sono tante! Al primo posto c’è l’amore per la Natura. Seguono:i buoni rapporti sociali intrattenuti con le persone che entrano nella villa, la piacevolezza della frescura, molto apprezzata da me che fuggo da Licata dove il caldo è insopportabile, il profumo e i colori dei fiori che inebriano l’olfatto e la vista, la sensazione di riposo e di benessere generale. Vincenzo Consolo, scrittore appartenente a quella particolare specie di intellettuale siciliano di consistenza così essenziale e compatta, così scrive:”Ma tant’è: dal giardino e dal labirinto si esce con le ali, sia pure attaccate con la cera, coi voli della fantasia, si esce attraverso la ricerca, la conoscenza, per la porta che dalla Natura immette nella storia”.

Il Pinus nigra è una specie del genere Pinus presente esclusivamente nelle regioni montuose mediterranee. Il nome scientifico è “Pinus nigra”, il nome comune è “Pino austriaco” perché appartiene ad una sottospecie originaria dell’Austria e della Croazia. Il Pino nero d’Austria è una conifera di rapida crescita appartenente alla famiglia delle Pinaceae. I rametti, tipicamente grigio-brunastri con sfumature nere, insieme alle foglie formano la chioma verde, scurissima da cui l’appellativo di “Pino nero”.

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I Pini sono stati introdotti in Europa da Maria Teresa d’Austria e, inizialmente sono stati i primi a proliferare. Successivamente si è dato ampio spazio alle Querce e ad altri alberi ad alto fusto. Così, il Pino nero si trova quasi dovunque, come l’Abete. Il Pinus nigra ha esteso il suo areale dall’Europa meridionale all’Asia Minore, alle montagne dell’Africa settentrionale fino all’Anatolia. Si è naturalizzato in qualche area dell’America settentrionale. In Italia è presente con tre sottospecie spontanee nelle Alpi orientali, nell’Appennino centrale e nell’Appennino meridionale. E’ spontaneo nel Veneto, nel Friuli, in Calabria e in Sicilia vegetando bene nelle zone più fredde dell’area del Castagno e del Faggio. Sotto il aggruppamento tassonomico di “Pino nero” in Italia rientrano molti Pini che presentano alcune varietà con adattamenti geografici e con condizioni morfologico-strutturali diversi fra loro. Sono esempi: il Pino laricio in Calabria, il Pino di Villetta Barrea in Abruzzo, il Pino d’Austria in Sicilia che è presente anche nella villa comunale di Mistretta.

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 Il Pinus nigra è un albero sempreverde, longevo, che può contare 250 anni d’età, dalle dimensioni elevate di circa 30 metri. L’albero è fissato al suolo mediante una radice fittonante dotata di notevole capacità penetrativa. Presenta lo sviluppo del tronco colonnare e diritto che si eleva verso l’alto ed è rivestito dalla corteccia ruvida, grigio-scura, quasi nera, profondamente fessurata e suddivisa in placche irregolari e allungate.

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5 okE’ ramificato sin dalla base con palchi secondari orizzontali. I rami sono ricoperti da lunghi aghi di colore verde scuro. Le foglie, aghiformi, rigide, persistenti, erette e poco innervate, di colore verde intenso, sono appaiate ed avvolte da una guaina. Gli aghi, lunghi da 8 a18 centimetri, hanno l’apice appuntito e pungente. Le foglie formano la chioma asimmetrica, densa, molto scura e dall’aspetto pesante. Il Pinus nigra è vestito di un abito verde anche nella stagione fredda. D’inverno, quando tutto dorme e la Natura si rinchiude in se stessa e i colori sfumano e si disperdono nella neve, il Pino nero è sempre bello e verde. I suoi rami fitti e spioventi formano un ombrello sempre aperto, una tettoia sotto la quale si rifugiano gli uccelli quando scoppia il temporale. Le infiorescenze maschili sono formate da piccoli coni ovoidali giallastri riuniti in gruppi che crescono alla base dei getti nuovi; le infiorescenze femminili, che crescono sulla stessa pianta, sono costituite da piccoli coni solitari o a piccoli gruppi di colore rosato e sono posti in cima ai rami. La fioritura avviene da maggio a giugno.

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 I frutti, gli strobili, di forma ovale-conica, riuniti in gruppi di 2 e di 4, sono lunghi fino a 15 centimetri e larghi anche 3 centimetri. Gli strobili, formati da squame con un’unghia nera e con un rilievo al centro, sono verdi in età giovanile, giallastri a maturazione. Maturano alla fine del secondo anno dalla fioritura o nella primavera del terzo. Contengono dei semi alati lunghi circa 8 millimetri che si aprono poco dopo e favoriscono la riproduzione.

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 Il Pinus nigra è una pianta molto diffusa dall’uomo a scopo ornamentale e paesaggistico per la sua adattabilità, per il suo rapido e vigoroso sviluppo, per la capacità di colonizzare ambienti difficili e per il notevole effetto estetico. Pianta estremamente rustica, moderatamente termofila, resiste bene al freddo e alla neve e sopporta temperature minime molto rigide. Vegeta dalla pianura fino a 2000 metri di quota ma, di solito, predilige un’altezza da 200 a 1500 metri. Il Pino nero è una pianta che si può coltivare in giardino per tutto l’arco dell’anno. Ama i terreni abbastanza soffici, tendenzialmente calcarei, non troppo profondi, poco fertili, non eccessivamente drenati dove le radici, che si diramano anche per decine di metri, trovano i nutrienti necessari. Mal sopporta la competizione spazio-luce con altre essenze vicine e l’inquinamento atmosferico. Ogni 2-3 anni, in primavera o in autunno, è consigliabile aggiungere al terreno, ai piedi del tronco, una certa quantità di fertilizzante in modo da garantire il giusto apporto di sali minerali. Specie eliofila, necessita di almeno alcune ore al giorno d’irradiamento solare. Il Pinus nigra è attaccato dalla Processionaria, il Thaumetopoea pityocampa, un insetto che deve il suo nome all’abitudine di muoversi sul terreno in fila formando una sorta di “processione” quando è alla ricerca di un luogo dove deporre le uova. La processionaria è attiva solo durante i periodi freddi dell’anno dal momento che trascorre i mesi estivi in bozzolo sotto terra. Riemerge a settembre. Ogni femmina produce un cumulo di uova che si fissano alla foglia.Dopo circa quattro settimane, si schiudono le larve che, dotate di forti mandibole, fagocitano i duri aghi di Pino spogliando completamente il ramo, quindi si muovono in fila alla ricerca di un nuovo ospite. Le femmine, per prime, si recano sugli alberi dove sono fecondate dal maschio. Il ciclo ricomincia. La vita è molto breve: 2 giorni appena. La processionaria causa gravi danni alla pianta fino a procurarle la morte.

 Il Pino nero può essere utilizzato come essenza da legno o per rimboschimenti nelle zone montane. Il legno è tenero e resinoso e dal quale si possono ricavare delle ottime tavole da impiegare solo all’interno delle abitazioni. Il legname, che non ha molto valore commerciale, può essere utilizzato per lavori edili, ma, in prevalenza, s’impiega per la produzione di carta e di cellulosa. Dalla macerazione degli aghi si ricavava una sorta di lana che serve per riempire i materassi; l’acqua della macerazione degli aghi era riutilizzata anche per usi medicinali. Dalle gemme si ricavava un olio utile nella cura delle affezioni respiratorie. Un ottimo liquore si otteneva dalla fermentazione degli strobili giovani.

Nel linguaggio dei fiori il Pino è simbolo di “audacia”.

 

Jul 16, 2015 - Senza categoria    Comments Off on IL CONVOLVULUS ALTHAEOIDES DAI BEI FIORI VIOLACEI

IL CONVOLVULUS ALTHAEOIDES DAI BEI FIORI VIOLACEI

 

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 Quale emozione si prova nell’osservare i gioielli che madre Natura regala a noi umani che, molto spesso, neanche li ammiriamo?
Le dico soltanto GRAZIE!
Il Convolvulus althaeoides è uno di questi gioielli.
Esso è una piacevolissima ed allegra pianta che incontro molto facilmente osservando le campagne di Licata.
Infatti preferisce vivere nei luoghi aridi e aperti della macchia mediterranea. Vegeta bene da zero e fino ad un’altitudine di 600 metri sul livello del mare.
E’ una pianta che facilmente tende a diventare invadente.
E’ poco esigente, gradisce un terreno povero, ma ben drenato e una buona esposizione al sole.
In Italia è conosciuto con i sinonimi: Vilucchio rosso, Convolvolo.
Etimologicamente il nome del genere deriva dal latino “convolvo” “avvolgere” per i suoi fusti volubili ed avvolgenti.
Il nome della specie “althaeoides” deriva dal greco “αλθαίνομαι” “guarire, risanare

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Il convolvulus althaeoides è originario del bacino del Mediterraneo limitando la sua distribuzione all’Europea meridionale, alle isole Canarie, all’Africa settentrionale. In Italia è presente in Toscana, in Emilia Romagna, nei territori centro-meridionali a partire dal Lazio e dall’Abruzzo. Nelle isole è presente in Sicilia e in Sardegna. E’ assente in Umbria. E’ stato trovato anche in altre zone, dove il clima è favorevole, come in California.

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Appartenente alla famiglia delle Convolvulaceae, il Convolvulus althaeoides è un pianta erbacea rustica, perenne, alta da 5 a 8 cm e dal portamento semi-rampicante o prostrato. Possiede lunghi rizomi e fusti, sottili, lunghi, flessuosi, striscianti e rampicanti, legnosi alla base, totalmente ricoperti da una fitta peluria bluastra, quale espressione di adattamento agli ambienti aridi. Si allargano per un ampio raggio. Le foglie, delicate, di colore verde argentato, sono picciolate e con la lamina variamente conformata.
Le foglie inferiori hanno la lamina a forma di cuore o irregolarmente triangolare, quelle superiori sono profondamente divise in 5-9 lacinie molto differenti tra di loro. A partire dal  mese di aprile la pianta si riveste di numerosi fiori, solitari o appaiati, di grandi dimensioni, posti all’ascella delle foglie e sostenuti da lunghi peduncoli. La corolla dei fiori, a forma di imbuto e lunga 4 volto il calice, è di un bel colore rosa- lilla più intenso al centro. Il calice è formato da sepali a denti lanceolati e ottusi I fiori si chiudono di sera. L’antesi si protrae fino al mese di giugno. L’impollinazione è favorita dalle api, dalle farfalle e dagli insetti pronubi. Il frutto è una capsula tetrasperma mono o biloculare, sferica-acuminata dal diametro di circa 6 mm.

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Il Vilucchio rosso viene usato poco in cucina.
Nel Salento i suoi teneri germogli vengono raccolti e utilizzati come gli asparagi selvatici. Si preparano ottime frittate con le uova. Si possono conservare sott’olio. Inoltre, lessati e conditi con olio e aceto di vino sono ottimi in insalata. Non bisogna eccedere con le quantità perché è una specie leggermente tossica.
Il Vilucchio rosso possiede qualche proprietà officinale. Le foglie e le radici, raccolte nei mesi di aprile e di maggio, contengono amido, gomme, resine, zuccheri, sali, saponine con effetti lassativi. Nella medicina popolare gli estratti del Vilucchio rosso erano usati per curare le febbri di origine epato-biliare, nell’idropsia epatica, nell’inerzia intestinale causata da insufficienza epatica. Infatti, i fiori sono ritenuti febbrifughi.

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Curiosità: Ovidio racconta che la ninfa  Smilax, innamorata del giovane guerriero Krocus, in un primo periodo di amore idilliaco è lusingata dalle sue attenzioni ma presto comincia a stancarsi fino ad allontanarlo. Krocus, che non vuole rassegnarsi alla fine dl loro amore, continua ad attirare l’attenzione dell’amata fino a perseguitarla. Krocus, per disperazione, si suicida. Smilax impazzisce.
Poiché il legame univa una divinità immortale e un uomo mortale e questo amore, diventato causa di infelicità, rendeva gli amanti  litigiosi, gli Dei, impietositi della sorta toccata ai due sventurati giovani amanti, li trasformarono in due bellissime piante. La ninfa  Smilax  è trasformata nella pianta di Smilax aspera, volgarmente chiamata “stracciabraghe“, dalle foglie a forma di cuore e dai rami flessibili e spinosissimi, simbolo di un amore tenacissimo, ma esasperato.
Krocus è trasformato nella pianta di  Crocus sativus, dal fiore viola come la passione superba per aver osato innamorarsi di una divinità, ma dal cuore dal colore del sole. A ricordo di questa infausta passione di Smilax e di Krocus, nell’antica tradizione il Croco diventò il fiore simbolo del desiderio d’amore e, per questo motivo, fu posto sulla tomba dei morti. Questa  tradizione si tramanderà fino ai tempi di Roma.
Anche Plinio il Vecchio attribuiva al genere Convolvulus lugubri significati. Con i rametti carichi di fiori erano allestiti ornamenti sacrificali e ghirlande mortuarie. Credevano che  in essi fosse rimasto imprigionato lo spirito della ninfa Smilax trasformata in pianta per essersi innamorata del giovane Krocus.
Euripide Le Baccanti (III episodio 700) “Tutte si incoronavano con ghirlande di edera, di quercia e di smilace in fiore”

 

Jul 4, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA STORIA DELLA DEVOZIONE ALLA SS. VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO, LA SUA CHIESA E LA SUA FESTA A MISTRETTA

LA STORIA DELLA DEVOZIONE ALLA SS. VERGINE MARIA DEL MONTE CARMELO, LA SUA CHIESA E LA SUA FESTA A MISTRETTA

Il monte Carmelo, in aramaico “Karmel” “giardino, paradiso di Dio”, è un rilievo montuoso calcareo alto 528 metri che si trova nella sezione nord-occidentale di Israele, nell’Alta Galilea. Si estende da SE a NW tra la piana di Esdraelon e quella di Sharon giungendo fino al mar Mediterraneo e articolando la costa nell’omonimo capo ai piedi del quale sorge la città di Haifa.
Possiede una vegetazione bella e rigogliosa.
E’ ricoperto di boschi, uliveti, vigneti. E’ citato più volte nell’Antico Testamento, in connessione con la vita del profeta Isaia (III Re 18,19 ss) e di Eliseo (IV Re 2,25), rispettato, per questo motivo, dagli israeliti, dai cristiani, e da musulmani.
Al monte Carmelo è legato l’Ordine dei carmelitani. Fin dal tempo dei Filistei il monte Carmelo fu luogo di sosta di asceti. Dopo la morte di Gesù su questo monte si ritirarono alcuni cristiani per attuare i suggerimenti evangelici.

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Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si legge che Elia, il primo profeta d’Israele, raccogliendo proprio sul monte Carmelo un insieme di seguaci, operò in difesa della purezza della fede in Dio vincendo il confronto contro i sacerdoti del dio Baal. Elia, dimorando sul monte Carmelo, ebbe la visione della Vergine che, come una piccola nube, si alzava dalla terra verso il monte portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In seguito, sul monte Carmelo si stabilirono alcune comunità monastiche cristiane.
La Tradizione racconta che già prima del Cristianesimo sul monte Carmelo si ritirarono gli eremiti vicino alla fontana del profeta Elia. I crociati, nell’XI secolo, incontrarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di San Basilio.
Il monte Carmelo, data l’affluenza di quanti si raccoglievano intorno ai primi Carmelitani, divenne incapace di ospitarli tutti. Così molti eremiti, devoti alla Vergine, si diffusero prima in Palestina e, successivamente, in Egitto ed in tutto l’Oriente. Verso il 1150 finalmente gli eremiti si organizzarono a condurre una vita comune e realizzarono dei monasteri carmelitani che si diffusero anche in occidente, in Sicilia e in Inghilterra. Attorno al 1154 sul monte Carmelo si ritirò anche il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina assieme al cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia. Insieme decisero di riunire sul monte Carmelo alcuni eremiti invitandoli a trascorrere una vita monastica. Gli eremiti continuarono ad abitare sul monte Carmelo anche dopo l’avvento del cristianesimo.
Alcuni eremiti sul monte Carmelo, vicino alla fontana di Elia, edificarono il primo Tempio dedicato alla Vergine che, per questo motivo, si chiamò Madonna del Carmelo o del Carmine. Questo gruppo di eremiti prese il nome di “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”. Il monte Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame alla Vergine Maria.
Iniziò così il culto a Maria, “amata da Dio”, il più bel fiore del giardino di Dio, laStella Polare”, la “Stella Maris” del popolo cristiano.
Nella seconda metà del sec. XII giunsero alcuni pellegrini occidentali, probabilmente al seguito delle ultime crociate del secolo che, continuando il culto mariano, si riunirono in un Ordine religioso, l’ordine carmelitano, fondato in onore della Vergine alla quale si professavano particolarmente legati. L’Ordine non ebbe, quindi, un vero e proprio fondatore, anche se considera il profeta Elia il suo patriarca. Il patriarca di Gerusalemme Sant’Alberto Avogadro (1206-1214), originario dell’Italia, dettò la “Regola di vita” dell’Ordine Carmelitano.
Veglie, digiuni, astinenze, pratica della povertà e del silenzio furono i principi dominanti della “Regola di vita”.
Essa fu approvata da papa Onorio III con la bolla “Ut vivendi normam” il 30 gennaio del 1226. Nel 1251 papa Innocenzo IV approvò la nuova Regola e garantì all’Ordine anche la particolare protezione da parte della Santa Sede. Una conferma più solenne dell’Ordine Carmelitano fu data nel 1273 con il Concilio di Lione che aboliva tutte le nuove Congregazioni facendo rimanere in vita solo i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani.
Intorno al 1235, a causa delle incursioni dei saraceni, i frati dovettero abbandonare la Palestina per stabilirsi in Occidente. Il loro primo monastero trovò dimora a Messina, in località Ritiro. Altri monasteri sono stati edificati a Marsiglia nel 1238, a Kent nel 1242, a Pisa nel 1249, a Parigi nel 1254 diffondendo il culto di Colei a cui “è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron” (Is 35,2).
Il 16 luglio del 1251 la Vergine Maria, circondata dagli angeli e con il Bambino in braccio, apparve a San Simon Stock, il primo Padre Generale dell’Ordine inglese, al quale consegnò lo “Scapolare” dicendogli: “Prendi, o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno.
Chi morrà vestito di questo abito, non soffrirà il fuoco eterno”.

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Detto questo, la Vergine Maria scomparve in un profumo di Cielo lasciando nelle mani di Simon Stock il pegno della Sua Prima “Grande Promessa”. La Madonna, dunque, con la Sua rivelazione ha voluto dire che chiunque indosserà e porterà questo Scapolare, la divisa carme­litana, non solo sarà salvato eternamente, ma sarà anche difeso in vita dai pericoli. Non bisogna credere, però, che la Madonna, con la sua Grande Promessa, voglia ingenerare nell’uomo l’intenzione di assicurarsi il Paradiso conti­nuando a peccare, oppure generare la speranza di salvarsi, anche senza meriti, piuttosto Lei si adopera per la conversione del peccatore che indossa con fede e devozione l’Abitino fino al giorno della sua morte.  Lo scapolare consiste nella promessa della salvezza dall’inferno per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Queste parole pronunciate dalla Vergine Maria, quindi, non ci dispensano dal vivere secondo la legge di Dio; ci promettono soltanto l’intercessione della Beata Vergine Maria per una santa morte. Lo “Scapolare” detto anche “Abitino”, non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di “rivestimento” che richiama la veste dei carmelitani, l’affidamento alla Vergine per vivere sotto la sua protezione e in comunione con Maria e con i Suoi fedeli.
Fu San Simon Stock, dunque, a diffondere il culto per la Madonna del Carmelo. Compose per Lei il “Flos Carmeli” “Fiore del Carmelo”, una delle preghiere più importanti e famose dedicate alla Madonna del Monte del Carmelo:

Flos Carmeli, vitis florigera, splendor coeli, Virgo puerpera, singularis.

Mater mitis, sed viri nescia, carmelitis esto propitia, stella maris.

Radix Iesse, germinans flosculum, hic adesse me tibi servulum patiaris.

Inter spinas quae crescis lilium, serva puras mentes fragilium, tutelaris!

Armatura fortis pugnantium, furunt bella tende praesidium scapularislo

Per incerta prudens consilium, per adversa iuge solatium largiaris.

Mater dulcis, Carmeli domina, plebem tuam reple laetitia qua bearis.

Paradisi clavis et ianua, fac nos duci quo, Mater, coron

Fior del Carmelo, vite fiorita, splendore del cielo, tu solamente sei vergine e madre.

Madre mite, pura nel cuore, ai figli tuoi sii propizia, stella del mare.

Ceppo di Jesse, che produce il fiore, a noi concedi di rimanere con te per sempre.

Giglio cresciuto tra alte spine, conserva pure le menti fragili e dona aiuto.

Forte armatura dei combattenti, la guerra infuria, poni a difesa lo scapolare.

Nell’incertezza dacci consiglio, nella sventura, dal cielo impetra consolazione.

Madre e Signora del tuo Carmelo, di quella gioia che ti rapisce sazia i cuori.

O chiave e porta del Paradiso, fa’ che giungiamo dove di gloria sei coronata. Amen.

Scarse sono le conoscenze sulla vita di San Simon Stock (Aylesford, 1165 circa – Bordeaux, 16 maggio 1265). Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, egli maturò la decisione di entrare a far parte dei Carmelitani e, completati gli studi a Roma, fu ordinato sacerdote. Intorno al 1247, quando aveva 82 anni, fu scelto come sesto priore generale dell’Ordine. Si adoperò per riformare la regola dei Carmelitani facendone un ordine mendicante.
Un secolo dopo l’apparizione a San Simone Stock la Beata Vergine del Carmine apparve al Pontefice Giovanni XXII e, dopo avergli raccomandato l’Ordine del Carmelo, gli promise di liberare i suoi confratelli dalle fiamme del Purgatorio il sabato successivo alla loro morte.

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Questa seconda promessa della Vergine porta il nome di “Privilegio Sabatino” che ha origine dalla Bolla Sabatina dello stesso Pontefice Giovanni XXII e datata il 3 marzo del 1322 ad Avignone.
Per usufruire della Grande Promessa fatta a San Simon Stock, bisogna ricevere lo Scapolare da un sacerdote, portarlo sempre addosso devotamente e iscriversi alla Confraternita. Per usufruire del Privilegio Sabatino bisogna osservare la castità del proprio stato e recitare alcune preghiere assieme al sacerdote nell’atto di consegnare e di ricevere lo Scapolare.
Durante la Novena della Madonna del Carmelo il coro “Fiore del Carmelo“, appartenente alla chiesa della Madonna del Carmelo di Licata, ha recitato cantando il santo rosario:

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I mistrettesi dicono: ” Staiu o carminu,  e pieri mi curcu” fiduciosi nella protezione della Madonna del Carmelo.

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LA CHIESA DELLA MADONNA DEL MONTE CARMELO A MISTRETTA

Alla Madonna del Carmine sono dedicate un po’ ovunque chiese e santuari.
Anche a Mistretta c’è la caratteristica piccola chiesa intitolata alla Madonna del Carmelo col Bambino.
La chiesa della beata Vergine Maria Santissima del Monte Carmelo, meglio conosciuta col nome di chiesa del Carmine, sorge alle falde del castello, nel quartiere arabo-normanno, e vi si accede da una stretta stradina laterale quasi alla fine di via Libertà.
Vista da lontano, la chiesa e il quartiere attorno sembrano un presepe vivente.
Fu il conte Ruggero che ha dato l’impronta alla chiesa.  Adelaide, la moglie del conte Ruggero, ha finanziato non solo la costruzione degli edifici vicino al castello, ma anche il ritorno dei monasteri, dei sacerdoti e il ripristino di quella religiosità che era venuta a mancare durante la dominazione araba. C’erano i carmelitani, forse religiosi, forse laici.

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Data la  posizione elevata della chiesa, dall’ampio balcone, che si conquista salendo una larga scala, lo sguardo attento del visitatore ammira i meravigliosi paesaggi di montagne, dove spicca la vetta del monte Soro, di boschi, di casette, di tetti rossicci, di stradine contorte e può toccare con mano il campanile della chiesa di San Nicolò e della chiesa Madre.

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La chiesa, molto piccola, del XVI secolo, è stata costruita sulla roccia e si possono ammirare nel lato destro le antiche fondamenta.

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Originariamente era un piccolo tempio della comunità cristiana di Mistretta con un altare adornato in basso dal paliotto.
Si venerava l’immagine della Madonna col Bambino.
Nel 1675, data riportata sul portale, l’interno della chiesa fu ingrandito di almeno tre volte rispetto alla costruzione precedente.
L’ampliamento della chiesa si deve a Domenico Cinnirella che si occupò di arricchirla con stucchi barocchi e con contemporanei dipinti murali. Nell’originaria cappella dell’altare, in stile tardo barocco in stucco dipinto, della scuola di Li Volsi, si conserva l’antica immagine della Madonna col Bambino dipinta su lastra di ardesia“a balata”, ante 1593.

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La cappella della Madonna col Bambino è affiancata da due colonne tortili e dalle statue delle Sante Agata e Apollonia.

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Sopra la volta dell’originaria cappella è rimasta la parte centrale dell’affresco che rappresenta la Vergine Maria incoronata dalla Trinità.

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Dalla cappella della Madonna si accede, attraverso il superamento di alcuni scalini, ad un ampio spazio adibito a sagrestia e per le riunioni dei confrati.
La pianta della chiesa, così ampliata, ad un’unica navata, diventa a croce latina.
L’attuale altare maggiore, posto in fondo alla navata, è di stile neoclassico.

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La facciata mostra il portale in arenaria locale, opera di ignoto scalpellino siciliano,  realizzato nel 1675,  i due oculi ed il fregio del cornicione decorato a palmette e la costruzione del campanile .
Nel 1903, come recita una lapide posta all’interno della chiesa, la facciata, il campanile e il cornicione interno sono stati sottoposti a interventi di restauro.
Il campanile, di stile normanno, e  la chiesetta sembrano due realtà diverse.

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Grazie al contributo dei fedeli, dei benefattori laici e dei membri della confraternita, che ne cura la conduzione dal 1793, attualmente la chiesa custodisce importanti opere d’arte figurativa e decorativa fra le quali: il singolare regale paliotto, che porta la data del 1665, prima posto sotto l’altare della Madonna col Bambino e poi spostato sulla parete destra per proteggerlo, fatto realizzare dal committente Domenico Cinnirella con minuscole scaglie di paglia intrecciate a mosaico e unite da un particolare collante.
Era un segno devozionale del committente Cinnirella per uno scampato naufragio.
In questo mirabile lavoro, opera di maestranze locali, sono ricamate: una scena di naufragio,  la pianta di una città e del suo territorio e sopra di essa la Madonna del Carmelo, tra sole e luna, che benedice, Domenico Cinnirella in atteggiamenti devozionali, e sua moglie, l’imperatore Costantino, Carlo II re di Sicilia, Sant’Anna, San Gioacchino, angeli e anime purganti.
Probabilmente la pianta della città è quella di Mistretta o quella di Palermo.
Ciò si evince dalla presenza nel paliotto di una chiesa locale, di una fonte con Nettuno, denominata “fonte aquarum gratie”, forse in riferimento alle vasche purificatrici del tempio di Cerere di cui Vito Amico confermò l’esistenza per averle viste nel 1759 alle porte di Mistretta, e dalla presenza di altre chiese.

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Sono presenti anche alcune statue che risalgono ai secoli XVI e XVII.
Il presbiterio, nell’edicola dell’altare maggiore, di stile neoclassico, in stucco e legno, della fine del XVIII secolo, custodisce l’antica statua della Madonna del Carmine col Bambino.
E’ lignea, dorata e policroma e non è più portata in processione durante la Sua festa del 16 luglio di ogni anno.
E’ condotta in processione una seconda statua policroma, databile agli inizi del XIX secolo.

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Simmetricamente alla cappella della Madonna, a sinistra del transetto fu realizzata la cappella dove fu sistemata la statua del Crocefisso spirante, con Maria e l’Apostolo Giovanni, dall’espressione sofferente, ma serena. E’ una scultura lignea risalente alla metà del XVII secolo. Il gruppo partecipa alla processione del Venerdì Santo.  I Dolenti, opera di Giuseppe Barbera, della metà XX secolo, sono di moderna fattura.

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Le statue in legno raffigurano San Benedetto Abate con il puttino che gli regge la mitria, proveniente probabilmente dalla locale chiesa di San Rocco in seguito alla soppressione e alla demolizione dell’abbazia benedettina di Santa Maria del Soccorso (1866-1881),

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 Santo Stefano primo martire della chiesa.
E’ una scultura lignea, policroma, del XVI secolo realizzata alla lucchese.  Il vestito è ricamato con oro zecchino.

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 Sant’Alfonso Maria dè Liquori, che si venera nel secondo altare di destra, è una statua lignea, policroma di post 1839 .

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L’altare di Santa Teresa d’Avila accoglie il dipinto ad olio su tela, ante 1750,  di Santa Teresa col Bambino.
Il tempo ha scolorito i colori degli stucchi e degli affreschi barocchi, pertanto sarebbero necessari urgenti interventi di restauro.

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 E’ da ammirare la cantoria in legno dipinto con l’organo  a cassa policroma attribuibile ad Onofrio Guzzio (Lo Gussio) da Castelbuono che lo ha realizzato alla fine del XVIII secolo.

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Dal 1780, per decreto del papa Pio VI, la chiesa gode di tutte le indulgenze accordate alle chiese carmelitane.

 

LA CONFRATERNITA E L’ASSOCIAZIONE FEMMINILE

La Confraternita di “Maria SS.ma del Monte Carmelo”, meglio conosciuta come la “Confraternita del Carmine”, formata da artigiani e da operai, è associata alla chiesa di Maria SS. ma del Monte Carmelo e si regola tramite la stesura dello statuto.
E’ stata costituita nel 1793 ed attualmente il suo superiore è il signor Franco Lo Menzo.

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Lo stemma della Confraternita

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La confraternita ha la funzione di gestire principalmente la chiesa omonima e il suo patrimonio immobiliare, anticamente molto consistente e oggi molto impoverito, fonte di sostegno per la manutenzione della chiesa e per l’esercizio del suo culto.
La Confraternita organizza la festa della Madonna del Carmelo, che cade il 16 luglio.

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Parallela alla confraternita maschile è l’Associazione femminile della Madonna del Carmelo fondata dal sac. Filadelfio Longo nel 1962.
Il merito di avere continuato a gestire l’Associazione femminile di “Maria SS.ma del Monte Carmelo” dal 1967 è anche della signorina Maria Lo Stimolo che ha lasciato l’incarico di gestire l’attuale presidenza alla signora Luisa Lo Menzo.
L’Associazione femminile ha il compito di curare l’ordine della chiesa e degli arredi sacri.
La confraternita e l’Associazione partecipano alla processione del Corpus Domini e a quella dei Misteri del Venerdì Santo con il trasporto del simulacro di Gesù spirante in Croce.
La confraternita del Carmine possiede la cappella funeraria al cimitero monumentale per la sepoltura dei confrati defunti.

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LA FESTA E IL CAMMINO PROCESSIONALE DELLA MADONNA DEL MONTE CARMELO

La devozione alla Madonna del Carmelo è uno dei più antichi e amati culti dalla cristianità perché è legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati carmelitani.
La festa liturgica della Madonna del Carmelo, molto importante nella tradizione della Chiesa, ricorre il 16 luglio per commemorare l’apparizione della Vergine a San Simon Stock nel 1251 e al quale consegnò lo scapolare rivelandogli i notevoli privilegi connessi alla sua devozione.
Il culto della Madonna del Carmine comincia a Mistretta con la novena nella sua chiesa dove i fedeli recitano  “Le sette allegrezze di Maria SS. del Carmelo”.

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Fino a poco tempo fa, esattamente fino agli anni ’90 del secolo scorso, il 15 luglio, giorno anteriore alla festività, la festa della Madonna del Carmelo era preceduta dalla processione dei “busci”, mazzi di spighe che incorniciavano il quadro della Madonna del Carmelo.

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Il popolo, portandoli in processione, simbolicamente ringraziava la Dea Cerere, molto venerata dal popolo amastratino, per l’abbondante raccolta del frumento.
Fino a qualche anno fa le spighe mature e appena raccolte si sistemavano in eleganti canestri di vimini e, dopo essere state benedette dal sacerdote, erano distribuite ai fedeli.
Oggi, purtroppo, a Mistretta il frumento non è più coltivato per cui le spighe sono sparite e così anche la tradizione della processione dei “busci”.
La mattina del giorno 16 di luglio il sacerdote celebra in chiesa la funzione liturgica.

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Foto do Mattia Lo Iacono

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Foto da Mistretta.info

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Esattamente a mezzogiorno avviene la consacrazione dei nuovi “consacrati” alla Madonna del Carmelo, anche dei bambini, ai quali sono consegnati lo “Scapolare” e il foglietto delle preghiere de “Le sette allegrezze di Maria SS. del Carmelo”.
Il sacerdote, imponendo lo scapolare, recita la sacra formula di consacra­zione alla Beata Vergine Maria denominato “rito di imposizione dello scapolare”.
O Maria, Madre e decoro del Carmelo, a te con­sacro oggi la mia vita, quale piccolo tributo di gratitu­dine per le grazie che attraverso la tua intercessione ho ricevuto da Dio. Tu guardi con particolare benevolenza coloro che devotamente portano il tuo Scapolare: ti supplico perciò di sostenere la mia fragilità con le tue virtù, d’illuminare con la tua sapienza le tenebre della mia mente, e di ridestare in me la fede, la speranza e la carità, perché possa ogni giorno crescere nell’amore di Dio e nella devozione verso di te. Lo Scapolare richiami su di me lo sguardo tuo materno e la tua protezione nella lotta quotidiana, sì che possa restare fedele al Figlio tuo Gesù e a te, evi­tando il peccato e imitando le tue virtù.
Desidero of­frire a Dio, per le tue mani, tutto il bene che mi riu­scirà di compiere con la tua grazia; la tua bontà mi ottenga il perdono dei peccati e una più sicura fedeltà al Signore. O Madre amabilissima, il tuo amore mi ottenga che un giorno sia concesso a me di mutare il tuo Scapolare con l’eterna veste nuziale e di abitare con te e con i Santi del Carmelo nel regno beato del Figlio tuo che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen” .
Chi indossa l’Abitino, pur non essendo obbligato, è bene che reciti la supplica: “O Maria Santissima del Carmelo pregate per noi”.
Lo scapolare è formato da due pezzi di stoffa di saio, di colore marrone, di forma quadrata o rettangolare, uniti da una cordicella o da un lungo nastro bianco come quello dei confrati di Mistretta.
Il nastro bianco lega due immagini sacre. In un’immagine è incisa la Madonna del Carmelo, nell’altra la Madonna che consegna lo scapolare a San Simone Stock.
Lo scapolare si appoggia sul petto e sulle scapole del consacrato, del confrate, dell’associata, da cui il nome “scapola” “spalla”.

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Lo Scapolare è segno dell’amore di Maria, specchio della bontà e della misericordia della SS.ma Trinità.
L’impegno di vita è la risposta a questo amore ed è frutto delle ricchezze e delle energie spirituali riversate nel cuore dei devoti.
La consacrazione alla Madonna, mediante lo Scapolare, si traduce nello sforzo generoso di imitarLa.
Esso è un richiamo a penetrare il mistero della Sua vita interiore, del Suo servizio amoroso e della Sua unione continua con Cristo Gesù.
Colui che indossa lo Scapolare s’impegna ad ossequiare Cristo e Maria come è inteso e vissuto secondo il carisma dell’Ordine carmelitano.
La consacrazione alla Vergine Maria richiede di operare in Suo onore.
Come figli affezionati, i fedeli di Maria cercheranno sempre di farLa amare anche dagli altri e coopereranno alla diffusione del suo culto.
È, quindi, una devozione che si vive in profondità, una devozione che si inserisce nel tessuto della vita cristiana come motivo di speranza e come stimolo ad una maggiore fedeltà nel servizio di Dio e della Chiesa.
Il pomeriggio dello stesso giorno la Madonna del Carmelo esce dalla sua chiesa per percorrere le principali vie di Mistretta accompagnata dai sacerdoti: da mons. Michele Placido Giordano o da padre Giovanni Lapin o da padre Giuseppe Capizzi, dalla banda musicale del paese e dalla folla festosa dei fedeli.
La Madonna del Carmelo ritorna nella sua chiesa in tarda serata.

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A tutte quelle persone che portano il nome della Madonna del Carmelo auguro Buon Onomastico.
Un augurio particolare esprimo a Carmelo De Caro perchè la Madonna del Carmelo lo tenga stretto fra le sua braccia perché anche lui è un angelo del paradiso.
Ringrazio la signora Luisa Lo Menzo per la sua preziosa collaborazione nel fornirmi le notizie riportate in questo articolo.

 

 

 

 

Jun 23, 2015 - Senza categoria    Comments Off on I FIORI DI KERRIA JAPONICA PLENIFLORA NEL GIARDINO DI MISTRETTA

I FIORI DI KERRIA JAPONICA PLENIFLORA NEL GIARDINO DI MISTRETTA

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 Nella villa comunale “G.Garibaldi” di Mistretta è possibile ammirare in questo periodo alcuni bellissimi e ricchi esemplari di Kerria japonica che, grazie alle costanti cure del giardiniere, il signor Orazio Scilimpa,  contribuiscono a vivacizzare, con una luminosa nota di colore giallo dorato, il verde delle piante circostanti.

Il genere Kerria comprende una sola specie, la Kerria japonica, con diverse varietà, tra cui si conoscono: la Kerria pleniflora e la Kerria picta. Nel giardino di Mistretta è presente la Kerria pleniflora, che tanto regala all’ornamento del giardino. E’ una pianta originaria del Giappone, come indica la denominazione latina, e non solo, poichè si è diffusa in modo spontaneo anche in Cina. La Kerria appartiene alla grande famiglia delle Rosacee. Il suo fiore non sembra quello tipico della famiglia perchè è “doppio”, termine botanico che indica un numero di petali superiore alla norma, e di colore giallo dorato, tinta insolita per le Rosacee. La Kerria fu introdotta in Europa, più precisamente nell’orto botanico inglese di Kew nel XVIII secolo, da Wiliam Kerr dal quale prese il nome. Giunse in Italia nell’800 tramite l’esperto botanico Saccardo.

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La Kerria japonica pleniflora, denominata così per i fiori doppi, conosciuta anche col sinonimo “Corchorus japonicus”, è un delizioso arbusto molto decorativo dall’aspetto cespuglioso, espanso,fittamente ramificato, a crescita rapida, che può raggiungere i 2 metri d’altezza. Presenta fusti sottili, arcuati, scarsamente ramificati. I rami, snelli, eretti e di colore verde, rivestiti da una lucente corteccia verdina, si ramificano abbondantemente e tendono ad allungarsi. Ogni pianta produce numerosi germogli basali che si sviluppano abbastanza rapidamente. Le foglie, caduche, di piccole dimensioni, di colore verde scuro che in autunno cambia in violetto, presentano il margine seghettato o dentellato. La Kerria è famosa per la sua fioritura che avviene precocemente in primavera, da febbraio ad aprile, e prima dell’emissione delle foglie. La pianta si ricopre di tantissimi fiori del colore del sole che illuminano il giardino ancora in riposo vegetativo. L’allegra e precoce fioritura della Kerria è uno dei primi fenomeni ad annunciare la fine dell’inverno. I numerosi e vistosi fiori doppi di colore giallo dorato, con la corolla a cinque petali, sono simili a piccoli pompon.

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Sono  lunghi circa 3centimetri, solitari e disposti intorno ai rami nudi ricoprendoli interamente. Essi originano da gemme laterali dei rami della stagione precedente. In genere, la fioritura primaverile è molto abbondante e a fine estate è seguita da una seconda fioritura con la produzione di pochi boccioli sparsi. Ai fiori seguono i frutti, le piccole capsule che contengono i semi. La moltiplicazione avviene anche per talea legnosa e semilegnosa. La forte capacità pollonifera, da ottobre a marzo, permette la produzione di nuove piante dal cespo principale che si può dividere. Infine è possibile propagare la Kerria attraverso la propaggine flettendo verso il terreno un giovane ramo e fissandolo al suolo con una forcella. L’anno successivo si saranno già formate le radici e la nuova pianta è pronta per vivere indipendente. La riproduzione per seme può essere eseguita in primavera, anche se non sempre le piante novelle sono geneticamente identiche alla pianta madre. Dopo la fioritura, è necessario potare un poco i rami vecchi recidendoli alla base per favorire la formazione di nuovi polloni. La Kerria pleniflora una volta era una pianta molto diffusa nei giardini del passato ed ora sembra stia riacquistando una seconda popolarità. Infatti, è coltivata per creare bordure e siepi nelle quali le piante adiacenti la sorreggono perché tende ad allargarsi assumendo un portamento un pò scomposto. In commercio molto apprezzati sono i suoi rami fioriti.

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La pianta, rustica, vigorosa, coltivata perchè resistente e decorativa, di facile coltivazione, è davvero preziosa perché si adatta bene alle diverse condizioni ambientali nelle zone di mare e di montagna. Sa resistere all’inquinamento atmosferico, alla siccità e sopporta il freddo del gelido inverno mistrettese e il caldo di Licata. Preferisce essere posta su un qualunque terreno, ma vegeta meglio su quelli sciolti, freschi, molto ben drenati, escludendo quelli troppo umidi e molto calcarei. Pur preferendo il sole pieno, che ne esalta la fioritura, vive bene anche nelle zone di semi-ombra dove sembra trasportare i raggi del sole. Generalmente le piante poste in ombra totale tendono a produrre pochi fiori, mentre i boccioli delle piante poste in pieno sole sono di breve durata e tendono a scolorire. Una posizione scarsamente illuminata potrebbe causare fioriture poco abbondanti o assenti. Poiché le piante fioriscono sui rami dell’anno precedente, si consiglia di effettuare le potature solo dopo la fioritura primaverile.

Teme i ristagni idrici, pertanto bisogna intervenire con abbondanti annaffiature solo se la pianta avvizzisce. Le radici si conservano fresche se protette da pacciamature. Non necessita di concimazioni particolari. In primavera gradisce concimazioni ricche di azoto e di potassio che favoriscono lo sviluppo di una nuova vegetazione e la produzione di tanti fiori.Normalmente piuttosto resistente alle malattie, può subire infestazioni causate da batteri, da insetti e da funghi. Il batterio Agrobactterium tumefaciens provoca la formazione di rigonfiamenti, le galle. Per evitare che la malattia si propaghi alle altre piante è prudente eliminare gli individui colpiti. Particolarmente pericolosi sono i funghi del genere Cylindrosporium che attaccano i germogli e portano al disseccamento delle foglie. La cura consiste nel tagliare gli apici e le foglie malate. Tra gli insetti, i bruchi possono attaccare le radici e causare gravi danni. Acari e Afidi rovinano notevolmente il fogliame. Ammiriamo questa pianta. E’ molto bella!

 

 

 

Jun 12, 2015 - Senza categoria    Comments Off on SAN GIOVANNI BATTISTA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

SAN GIOVANNI BATTISTA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Sant’Antonio di Padova e San Giovanni Battista sono due santi che sono festeggiati dalla chiesa cattolica nel mese di giugno, ed esattamente il 13 e il 24.
Sono molti vicini nell’elenco del calendario pertanto, nel raccontare la loro storia e la loro vita, li tengo ancora vicini nel mio blog.
San Giovanni Battista è l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo Apostolo di Gesù perché gli rese testimonianza quando era ancora in vita. Ciò conferma il grande interesse che da sempre ha suscitato questo grande profeta così da essere tenuto in alta considerazione da Cristo che lo ha definito “il  più grande tra i nati da donna”.
Il nome Giovanni Battista deriva dal greco “Іωάννης”  “Вαπτιστής”, e dal latino “Iohannes Baptista”. Nome molto usato, nella lingua ebraica “Iehóhanan” significava “Dio è propizio, Dio fa grazia”.
Molto hanno scritto gli  evangelisti su Giovanni Battista.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 5-80), in Apparizione a Zaccaria, si legge: “Al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta.
Erano giunti davanti a Dio, osservavano irreprensibili le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni. Mentre Zaccaria officiava  davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso.
Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso. Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse
: <<Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni.
Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto>>. Zaccaria disse all’angelo: << Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni >>.
L’angelo gli rispose: <<Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio>>. Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo>>.
Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava del suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: << Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini>>. Nel sesto mese della sua gravidanza Elisabetta ricevette la visita della cugina Maria”.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 39- 56), in Visita a S. Elisabetta, si legge: “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito santo ed esclamò a gran voce:<< Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore>>.

Allora Maria disse:

<< L’anima mia magnifica il Signore,

e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

E santo è il suo nome;

di generazione in generazione la mia misericordia

si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia,

come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza,

per sempre>>.

Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Sempre nel Vangelo secondo Luca (1, 57- 80), nella Nascita di Giovanni Battista,  si legge:
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei.
All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome si suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne:<< No, si chiamerà Giovanni>>. Le dissero: <<Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome>>.
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: <<Giovanni è il suo nome>>. Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: <<Che sarà mai questo bambino?>> Si dicevano. E davvero la mano del Signore stava con lui.
Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetò dicendo:<<Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente, nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano.
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia, al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi nella via della pace>>.
Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni diverse fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Dell’infanzia e della giovinezza di Giovanni non si sa molto. Quando raggiunse una certa età, conscio della sua missione, si ritirò nel deserto per condurre la dura vita dell’asceta, a predicare la penitenza in preparazione della venuta del Messia, a battezzare nel fiume Giordano. Da ciò il suo nome “Battista”. Indossava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi. Si nutriva di locuste e di miele selvatico.

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Nel Vangelo secondo Luca, nella Predicazione di Giovanni Battista (3, 1 – 6), è scritto: ” Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tretarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide,, e Lisania, tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:

<<Voce di uno che grida nel deserto,

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!

Ogni burrone sia riempito,

ogni monte e ogni colle sia abbassato;

i passi tortuosi siano diritti;

i luoghi impervi spianati.

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio>>.

Da tutta la Giudea, da Gerusalemme e da tutta la regione intorno al Giordano, accorreva tanta gente per ascoltare le sue parole considerandolo un profeta.
Giovanni, in segno di purificazione dai peccati e di nascita a nuova vita, immergeva nelle acque del Giordano coloro che accoglievano la sua parola. Impartiva loro il battesimo di pentimento per la remissione dei peccati e diceva:” Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: <<Abbiamo Abramo per padre!
Perchè io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. Anzi, la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco >>.
Le folle lo interrogavano: <<Che cosa dobbiamo fare?>> Rispondeva:<< Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto
>> (Lc 3, 7-11).
L’evangelista Luca riferisce che tra le folle, che accorrevano al Giordano per farsi battezzare, c’erano anche dei pubblicani esattori delle imposte per conto dell’autorità romana, i quali, per questa loro professione, erano considerati dei pubblici peccatori; c’erano anche dei militari i quali, per la loro provenienza pagana, erano ritenuti dei “lontani da Dio”. C’è in loro la volontà della conversione per andare incontro al Messia.
Giovanni Battista a loro così rispondeva: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno e contentatevi delle vostre paghe” (Lc 3, 14). Molti pensavano che fosse il Cristo, ma Giovanni assicurò loro di essere solo il Precursore. Sacerdoti e leviti, mandati dai Giudei e arrivati da Gerusalemme, lo interrogarono.
Nel vangelo secondo Giovanni (Gv 1, 19-34), in testimonianza di Giovanni, è scritto: <<Chi sei tu?>> Egli confessò e non negò, e confessò:<< Io non sono il Cristo>>. Allora gli chiesero: <<Che cosa dunque? Sei Elia?>>. Rispose. <<Non lo sono>>. <<Sei tu il profeta?>> Rispose <<No>>. Gli dissero dunque: <<Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?>> Rispose: << Io sono voce di uno che grida nel deserto. Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia>>.
Essi erano stati mandati da parte dei farisei. Lo interrogarono e gli dissero: <<Perché, dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?>>.  Giovanni rispose loro: <<Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo>>.
Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando. Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse:<< Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo>>.
Ecco colui del quale io dissi:<<Dopo di me viene un uomo che mi è passato davanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele>>. Giovanni rese testimonianza dicendo: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua, mi aveva detto:<< L’Uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto ne ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio>>.

Matteo, in Battesimo di Gesù, (3,13-17) così racconta:In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?».  Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».
Allora Giovanni acconsentì. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.  Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».  Allora Giovanni lo battezzò.
L’evangelista Luca (3, 21) in Battesimo di Gesù, scrive: “Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo! << Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto>>.Da quel momento Giovanni confidava ai suoi discepoli “Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 29-30).
La sua missione era compiuta.
Gesù cominciò la sua predicazione seguito dagli apostoli, dai discepoli e da una gran folla. Giovanni aveva predicato proprio per preparare un popolo degno, che accogliesse Gesù e il suo messaggio di Redenzione.
Aveva operato senza esitare davanti a niente, neanche dinanzi ad Erode Antipa, il re d’Israele, che aveva preso con sé la bella Erodiade, moglie divorziata da suo fratello. Secondo la legge ebraica, la “Torah”, termine che significa “insegnamento”, ciò non era permesso perché il matrimonio era stato regolare e fecondo e dal quale era nata la figlia Salomè.
Per questo motivo Giovanni, osservante e rigoroso, sentiva il dovere di protestare contro il re per il suo scorretto comportamento. Irritata, Erodiade gli portava rancore anche perché il battesimo che Giovanni somministrava, perdonando i peccati, rendeva inutili i sacrifici espiatori che, in quel tempo, i sacerdoti giudaici facevano al Tempio.Incitato da Erodiade, che avrebbe voluto che fosse ucciso, Erode Antipa fece arrestare e incarcerare Giovanni anche se lo considerava uomo giusto e santo e preferiva ascoltarlo volentieri.
Per festeggiare il compleanno di Erodiade, Erode Antipa preparò un banchetto invitando la corte e i notabili della Galilea. Al lauto pranzo partecipò anche Salomè, la figlia di Erodiade e nipote di Erode Antipa, che si esibì in una conturbante danza.
La sua esibizione piacque così tanto al re e ai commensali che le disse: “Chiedimi qualsiasi cosa e io te la darò”. Salomé, consigliata dalla madre, chiese la testa di Giovanni Battista. Erode Antipa, a tale desiderio espresso dal Salomè davanti a tutti, rimase sorpreso e rattristato. Poiché aveva promesso di concedere qualsiasi cosa pubblicamente, non potè tirarsi indetro. Ordinò alle guardie di portare la testa di Giovanni che si trovava rinchiuso nelle prigioni della reggia.
Giovanni Battista fu decapitato e la sua testa, poggiata su un vassoio, fu consegnata a Salomé che la presentò alla madre. Erodiade trattenne il capo reciso di Giovanni e fece seppellire il corpo in un luogo segreto del palazzo per timore che la testa potesse ricongiungersi al corpo e il profeta potesse ritornare in vita.
L’uccisione di Giovanni Battista suscitò orrore, ma accrebbe la sua fama. I suoi discepoli, venendo a conoscenza del martirio, recuperarono il corpo e lo deposero in un sepolcro. La sua testa fu tenuta come reliquia a Costantinopoli, a Gerusalemme, ad Amiens e, persino, in una moschea di Damasco.
Dopo essere stato sepolto a Sebaste, in Samaria, nel 361-362, al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, i pagani profanarono il suo sepolcro e bruciarono il corpo disperdendo le ceneri al vento. Alcuni affermano che il capo fu sepolto assieme al corpo e bruciato. A Sebaste, il luogo dove era la sua tomba, era venerato dai maomettani fino all’arrivo dei Crociati. Giovanni battista è onorato nel Corano insieme ai suoi genitori Zaccaria ed Elisabetta.
Fu ripreso nel 1187 dal nipote del Saladino, Hussam ed-Din, che vi fece costruire una moschea. In suo onore sono conservate alcune reliquie. A Genova, nella cattedrale di San Lorenzo, si venerano le sue ceneri portate dall’Oriente nel 1098 al tempo delle Crociate. Nel XII secolo una testa di San Giovanni giunse a Roma e, nel XIII, un’altra giunse a Amiens.
Attualmente a Roma, nella chiesa di San Silvestro in Capite, sarebbe custodita una testa di San Giovanni Battista senza la mandibola, mentre il sacro mento sarebbe custodito nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo. Nel mondo si venerano circa sessanta teste di San Giovanni Battista! Una leggenda riferisce che a Roma, a San Paolo fuori le mura, erano conservati tre crani del santo: uno da bambino, uno da adulto, uno da vecchio! Sono oggetto di venerazione anche i calzari del santo, il vassoio su cui fu deposta la testa, il tappeto su cui riposava in prigione, la sciabola che gli recise il capo, la pietra su cui fu appoggiato. Dita, denti, ossa di san Giovanni sono onorati in tutto il mondo cristiano.
Sulla sua tomba avvennero moltissime guarigioni, soprattutto di indemoniati. Per questo è invocato contro l’emicrania.
San Giovanni Battista è patrono di tante città fra le quali: Torino, Firenze, Genova, Ragusa.  E’ protettore dell’Ordine Ospedaliero dei Cavalieri di San Giovanni. e di associazioni benefiche.
Protegge: albergatori, addetti alle mense, cantori e cantanti, cardatori, coltellinai, conciatori, musicisti e fabbricanti di strumenti musicali (Zaccaria, all’atto della nascita del figlio, intonò il cantico Benedictus), lavoratori e commercianti di pelli, carcerati, condannati a morte.
Il suo capo reciso era l’emblema delle Misericordie e delle altre confraternite che assistevano i condannati a morte.Il culto di San Giovanni Battista si diffuse in tutto il mondo, sia in Oriente sia in Occidente e, a partire dalla Palestina, si eressero innumerevoli Chiese e Battisteri a lui dedicati. Normalmente la Chiesa celebra la festa dei santi nel giorno dell’anniversario della loro morte come memoria del loro ingresso nella vita eterna.
Per Giovanni Battista fa un’eccezione poiché, essendo venuto al mondo innocente, celebra la sua festa nel giorno della sua nascita terrena. La festa della natività di San Giovanni Battista è una delle più antiche della Chiesa e risale fin dal tempo di Sant’Agostino (354-430), che, nel suo sermone di commento alla festa, fissò la data il 24 giugno.
Secondo le indicazioni di Luca, la data della festa di Giovanni Battista doveva essere fissata tre mesi dopo l’annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria e sei prima del Natale, essendo la nascita di Gesù fissata per il 25 dicembre. La sua morte è avvenuta il 29 agosto.
Le celebrazioni religiose, folkloriche, tradizionali, legate al suo culto sono diffuse ovunque per la grande popolarità di Giovanni Battista che seppe condensare in sé tanti grandi caratteri identificativi della sua santità, della sua  parentela con Gesù, precursore di Cristo, ultimo dei grandi profeti d’Israele, primo testimone-apostolo di Gesù, battezzatore di Cristo, eremita, predicatore e trascinatore di folle, istitutore di un Battesimo di perdono dei peccati, martire per la difesa della legge giudaica.
A mio papà Giovanni e a tutti coloro che portano il nome di Giovanni/a, Gianni/a  auguro BUON ONOMASTICO.
Giovanni Battista è stato un soggetto largamente rappresentato nell’arte figurativa di tutti i secoli. Nelle pale degli altari, nei quadri di gruppi di santi, da soli o intorno al trono della Vergine Maria, è presente San Giovanni Battista.
E’ rappresentato come una figura irsuta, tipica di un eremita del deserto, coperto con una pelle d’animale e con in mano un bastone terminante a forma di croce.
I pittori Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca lo hanno raffigurato con le sembianze di un bambino  che gioca con il piccolo Gesù, sempre rivestito con la pelle d’animale e chiamato affettuosamente “San Giovannino.

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La notte di San Giovanni è la più magica dell’anno perché, secondo molte credenze popolari, nel solstizio d’estate avvengono strani fenomeni proposti dalla fantasia popolare.
Si accendono fuochi, si organizzano veglie notturne. Riti, credenze,  malìe,  incantesimi si fondono e danzano alla luce delle stelle. Il giorno prima i romani si radunavano nei prati della chiesa dei Ss. Giovanni in Laterano, (la chiesa è dedicata a Giovanni Battista e a Giovanni Evangelista), e di Santa Croce in Gerusalemme, accendevano i fuochi e aspettavano di veder passare le streghe.
Queste erano guidate da Erodiade-Salomè fuse in un unico personaggio. Si racconta che pentito per aver fatto decapitare Giovanni Battista, questo doppio personaggio coprì di baci e di lacrime il volto di Giovanni Battista.
Dalla sua bocca si levò un fortissimo vento che lo allontanò  costringendolo a vagare per l’eternità. La notte di San Giovanni è quella che soprattutto parla d’amore.
Sono moltissimi gli antichi “riti” di previsione sentimentale e di matrimonio per le ragazze che attendono di fidanzarsi. Ricordo che a Mistretta noi, fanciulle vicine di casa, il pomeriggio del 24 giugno di tanti anni fa ci riunivamo nel pianerottolo della mia scala esterna, in via San Biagio, per compiere il rito del piombo fuso di “San Giuvanni”.
Sedute in circolo attorno ad un fuocherello acceso, in un piccolo recipiente piatto facevamo sciogliere dei pezzettini di piombo.
Quindi, versavamo il piombo perfettamente liquefatto in una ciotola colma d’acqua fredda recitando l’invocazione: “San Giovanni vinni e San Pietru no. Na cunciriti ‘sta razia si o no? ”. “San Giovanni è venuto e San Pietro no. Ce la concedete questa grazia si o no?
Osservavamo con occhi aperti e con tanta curiosità le forme che assumeva la materia contorcendosi per il suo veloce raffreddamento nell’acqua. Ognuna di queste forme, a uccello con le ali aperte, a foglia aperta, a martello, ecc, era un segno premonitore.
Ognuna di noi, in cuor suo, nascondeva un pensiero segreto! I nostri commenti presagivano: il propizio incontro con la persona del cuore, aspirante fidanzato, l’illusione di essere baciati dalla fortuna, o di essere inseguiti dalla sfortuna.
Allora c’era molta ingenuità! Ricordo che ho partecipato a questo rito con le mie vicine di casa per qualche anno, poi la ragione ha vinto la superstizione.
A Mistretta e in tutta la Sicilia c’è l’usanza del comparatico, il vincolo di quasi parentela che lega compari e comari di battesimo e i loro figliocci, ma anche compari e comari di matrimonio. Questo rapporto di comparatico è più importante della parentela stessa perché sfocia nella sacralità. Infatti si dice “C’è u Sangiuvanni”, per dire che esiste questo rapporto di comparanza, di fedeltà reciproca, fra due famiglie.
Il proverbio “San Giuvanni ‘ un voli ‘nganni” significa proprio che il comparatico non concepisce inganni.In Toscana il proverbio “San Giovanni non vuole inganni” si riferisce al comportamento inflessibile di Giovanni verso il rapporto di amicizia che non dovrebbe mai essere tradito.  In Romagna vi è l’usanza per San Giovanni di regalare alla ragazza un mazzo di fiori che viene ricambiato nel giorno di San Pietro. I due innamorati sono chiamati compare e comare di San Giovanni e, in qualche modo, ufficializzano il loro amore.

Su San Giovanni sono stati coniati moltissimi proverbi.

-“Per le guazze di San Giovanni si miete.

La rugiada della notte di San Giovanni fa molto temere i contadini per il raccolto. Mietono il grano prima ch’essa giunga a maturazione.

A San Marco nato, a San Giovanni assettato”.

Il proverbio si riferisce ai bachi da seta che, alla fine di giugno, salivano nel bosco per fare il bozzolo.

La notte di San Giovanni entra il mosto nel chicco”.

In questo periodo il chicco d’uva diventa dolce.  Gli zuccheri fermentano nel mosto dopo la vendemmia.

A San Giovanni l’alveare spande, a San Martino l’alveare è pieno”.
In estate le api sciamano e tornano per il freddo. San Martino è l’11 novembre.

Per San Giovanni si svellon le cipolle e gli agli
Le cipolle e gli agli sono pronti per essere raccolti.

-“Chi non prende aglio a San Giovanni ,è poveretto tutto l’anno”.

Questo proverbio si riferisce all’uso di acquistare in questo periodo l’aglio da piantare per il prossimo raccolto. L’aglio è un ottimo scaccia-maligni, o per lo meno tiene lontano i seccatori.

-“San Giovanni  col suo fuoco brucia le streghe, il moro e il lupo”.

Come dire che scaccia i malanni del mondo.

– “La vigilia di San Giovanni piove tutti gli anni”.
– “Se piove il giorno di San Giovanni tanta saggina e poco pane”.
– “Chi nasce la notte di San Giovanni non vede streghe e non sogna fantasmi”.

Per indicare che è dotato di poteri speciali.
– “Quando la lavanda sente arrivare San Giovanni vuole fiorire”.
– “A San Giovanni l’alveare spande
”.

Arrivare dopo i fòchi di San Giovanni”.

 A Firenze, a giugno, si festeggia San Giovanni patrono della città. Questa festa comprendeva tornei, il palio di cavalli, la fiera. Alla fine c’erano i fuochi sui quali si facevano saltare uomini e bestie in base alla tradizione della benedizione ‘per ignem’. Arrivare a fuoco spento significava arrivare a cose fatte.

– “La guàza ad san Zvan la guarés ogni malàn”

La rugiada di San Giovanni guarisce ogni malanno.

Oltre ai proverbi su San Giovanni ruotano molte credenze popolari.

La raccolta delle  erbe “magiche”, bagnate dalla rugiada del mattino, trasmette poteri benefici a tutti gli esseri viventi. La rugiada è il simbolo delle lacrime di Erodiade-Salomè ed aveva una funzione fecondatrice. In Normandia era costume rotolarsi sull’erba umida di rugiada, in costume adamitico, per ringiovanire la pelle e preservarla dalle malattie.
Per prevedere il futuro, sotto il guanciale venivano sistemate le “erbe di San Giovanni” legate in mazzetto in numero di nove. La qualità variava secondo la tradizione di ogni paese.
Le “erbe di San Giovanni” sono: l’iperico chiamato anche scacciadiavoli, considerato un antimalocchio, l’artemisia, detta anche assenzio volgare, consacrata a Diana-Artemide, la verbena, simbolo di pace e di prosperità, e il ribes, i cui frutti rossi proteggono dai malefici. Sono dotate di potere magico anche: la ruta, la salvia, la menta, il rosmarino, la melissa, una pianta erbacea spontanea molto ricercata dalle api. Nascoste in soffitta, queste piante esprimono il loro potere benefico contro il malocchio e le malattie.
Chi spera di trascorrere un anno florido deve comperare l’aglio il giorno di San Giovanni. Se vuole possedere molti quattrini, a mezzanotte dovrebbe cogliere un ramo di felce e tenerlo in casa.
Frequente è il sortilegio delle fave. Allo scoccare della mezzanotte si prendono tre fave. La prima non si sveste del tegumento, alla seconda si toglie solo la metà di esso, alla terza si toglie tutto. Dopo aver avvolto le tre fave in un foglio di carta argentato, si nascondono sotto il guanciale. Al mattino la ragazza, appena sveglia, sceglierà a caso una delle tre fave.
Se sceglierà la fava con il tegumento avrà un “marito ricco”, se quella con il mezzo tegumento avrà un “marito benestante”, se quella senza il tegumento avrà un  “marito povero”.
In Veneto la notte di San Giovanni le nubili che avevano diversi corteggiatori su foglietti di carta,tanti quanti erano gli spasimanti, scrivevano i loro nomi. Dopo averli piegati, gettavano questi foglietti in un catino pieno d’acqua. Il bigliettino che, a contatto dell’acqua, si apriva per primo conteneva il nome dell’uomo “giusto”.
I maschietti  devono raccogliere alcune foglie di valeriana, di verbena e di maggiorana, farle seccare, ridurle in polvere e, nella notte di San Giovanni devono gettarle addosso alla donna desiderata, ma ritrosa. Pare che il successo sia assicurato!

Ne “La figlia di Iorio” di Gabriele D’Annunzio, Ornella dice ad Aligi:

E domani è  Santo Giovanni,

fratel caro: è San Giovanni

Su la Plaia me ne vo’ gire

per vedere il capo mozzo

dentro il Sole all’apparire,

per vedere nel piatto d’oro

tutto il sangue ribollire.

E’ il riferimento all’antica abitudine delle ragazze abruzzesi che si svegliavano all’alba per guardare il sorgere del sole. La prima ragazza che avesse visto nel disco luminoso il volto di San Giovanni decapitato dopo la danza di Salomè si sarebbe felicemente sposata nello stesso anno.
La notte di San Giovanni è resa ancor più magica dall’accensione dei falò che illuminano l’oscurità e squarciano le tenebre. Il fuoco era considerato purificatore.
Questa è una antichissima tradizione, comune in quasi tutta l’Europa, tramandata dai Fenici che adoravano il dio Moloch, gestore del Sole e della Paura del Buio. Nella rivisitazione cristiana il fuoco simboleggia la Fede e l’eterno calore dell’Amore. I fidanzati, che vorranno vivere insieme felici per sempre, senza tenersi per mano,dovranno saltare oltre le braci del falò quasi spento ed esprimere desideri di fortuna, di salute, di benessere e di serenità.
A Licata molti ragazzi si riuniscono nelle spiagge, soprattutto in quella di Mollarella, per festeggiare insieme la note di San Giovanni. Accendono un grande falò e, a mezzanotte, si tuffano nella acque del mare per un bel bagno refrigerante. L’acqua assicura buona salute tutto l’anno.
Curiosità: nella pianura Padana, nella notte di San Giovanni le donne staccano la drupa verde delle noci per preparare il nocino, il liquore tipico locale. È una tradizione di origine celtica. Presso i Celti, il noce era un albero sacro.
Per preservare dalle tarme vestiti e coperte la notte di San Giovanni bisogna lasciarli nel balcone affinché si bagnino della rugiada. Pare che funzioni meglio dell’insetticida.

  LA CHIESA DI SAN GIOVANNI BATTISTA A MISTRETTA

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La chiesa di San Giovanni Battista si trova nell’ampia Piazza dei Vespri a Mistretta ed è stata edificata su un precedente tempio pagano dedicato a Bacco o a Diana dell’antica Amistratos.
La data del 1534, riportata sul frontone, non è quella della costruzione, ma quella della ristrutturazione coniugando elementi rinascimentali e gotico-catalani.
Molti caratteri artistico-formali dell’edificio sacro sono riconducibili allo stile romanico.
I due leoni rampanti, scolpiti in pietra, posti alla base delle due lesene che delimitano il portale, sembra che siano a guardia della chiesa.
La chiesa è la casa del Signore e il portale rappresnta il limitare che divide lo spazio sacro da quello profano.
I leoni, pertanto, simboleggiano la forza che atterisce e richiama alla punizione chi osa profanarlo.
Nella simbologa medievale il leone è anche simbolo di Cristo: porlo davanti alla chiesa significa proteggere il popolo di Dio.
Essi sono degli stilofori tipici dell’architettura romanica.
Poggiano le zampe su due tavole che raffigurano le chiavi di San Pietro quella di destra e la mitra quella di sinistra.
Le chiavi richiamano il potere soprannaturale di legare e di sciogliere conferito da Gesù a Pietro.
In (Mt 16,19) è scritto: ” A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai  sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
La mitra è il copricapo liturgico dei vescovi ai quali compete per diritto.
Sia le chiavi sia la mitra sono dei simboli ecclesiastici, ma hanno anche un significato araldico come si apprende consultando l’Araldica Ecclesiastica di Giorgio Aldrighetti.
La chiesa possiede tre ingressi: uno centrale e due laterali.
Vi si accede tramite la caratteristica scalinata a doppia rampa, realizzata in sostituzione dell’antico sagrato, della fine del secolo XIX, protetta dalla ringhiera lavorata in ferro battuto, che conduce all’ingresso principale.

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Il monumentale prospetto principale si pone in una posizione scenografica a cui danno risalto l’unico elegante e svettante campanile, alleggerito dalle raffinate bifore che si aprono nella cella campanaria,

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e il grande portale, con geometrico telaio, a due elevazioni, che associa elementi rinascimentali e gotico-catalani.
Il portale è a due ordini: quello inferiore sormontato da un architrave datato 1534; quello superiore con un arco ad ogiva intelaiato da paraste che si allineano a quelle dell’ordine inferiore.
Lateralmente, sono inseriti due stemmi.

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La chiesa è stata il punto di riferimento del quartiere ebraico costruito intorno ad essa in seguito all’Inquisizione Spagnola nel 1478. Sopra la lunetta è collocata, dentro un tempietto a forma di chiesetta, la statuetta marmorea raffigurante San Giovanni, commissionata ad Antonio Gagini per adornare il frontone principale dell’omonima chiesa. San Giovanni sostiene con una mano il mistico agnello e con l’altra lo addita come colui che lava i peccati del mondo. La statuetta è affiancata da due stemmi.

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Originariamente a pianta basilicale, nel 1818 la chiesa fu trasformata in una struttura a croce latina.
In seguito ad un  violento terremoto che aveva danneggiato la chiesa,  l’edificio fu restaurato con l’impegno della confraternita che allora ne aveva la gestione.
I deboli colonnati in pietra furono rinforzati con massicci pilastri e furono rivestiti le superfici con stucchi che hanno restituito alla chiesa la veste neoclassica e fu realizzata la copertura a volta delle cappelle laterali della zona absidale.

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Entrando a destra è bene leggere la lapide

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La chiesa custodisce diverse sculture di arte sacra e molte tele risalenti ai secoli XVII–XVIII.
La tela centrale, posta al centro dell’abside del presbiterio, all’interno di una monumentale edicola, raffigura il battesimo di Gesù.L’opera è attribuibile a Giuseppe Scaglione, del primo quarto del XIX secolo.

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Nel presbiterio, sopra l’altare maggiore, è raffigurato il martirio di San Giovanni con la testa mozzata.

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Nella cupola è raffigurata La Fede con la Madonna del Santissimo Sacramento.

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La statua del Cristo caduto sotto la Croce, in legno dorato punzonato, del XVII, è la preziosa opera conservata nella cappella a sinistra. La Sua testa è ricoperta da ciocche di capelli che sono stati donati da una devota per onorare il voto promesso per grazia ricevuta.
Le staute del Cristo sotto la croce  e del Cristo alla colonna partecipano alla sfilata delle statue per la rappresentazione dei Misteri durante la processione del Venerdì Santo.
La processione del venerdì santo nasce per annullare il movimento dei flagellati.
Nel 1603 un padre francescano, giunto a Mistretta, ha visto scene di flagellazioni un po’ cruente. Ad essere flagellati erano anche i bambini.
I confrati scendevano dalla chiesa di Santa Caterina e si flagellavano. Il francescano rimase talmente indignato che da quel momento la chiesa tentò di eliminare il movimento dei flagellati sostituendolo  con la processione delle varette. Le varette, provenienti da altre chiese,  si riuniscono davanti alla chiesa di San Giovanni da dove inizia il cammino processionale. Esistevano i cavalieri di San Giovanni. La croce di San Giovanni , scolpita sul pulpito, dimostra che in questa chiesa si riunivano i cavalieri di San Giovanni.

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Poi è stata istituita la confraternita. Gli amastratini nel 1567 hanno partecipato alla difesa di Malta contro l’invasione dei turchi.  I cavalieri di Malta avevano scelto come sede la chiesa dell’SS.ma Trinità, però tra i cavalieri di San Giovanni e i  cavalieri di Malta non c’era sintonia perché solo  loro si consideravano degni di portare Gesù dentro l’urna.
L’altare marmoreo, dentro l’edicola neoclassica in stucco, accoglie la statua lignea dorata e policroma del Cristo che porta la Croce, di ignoto scultore siciliano, del XVII secolo. E’ inginocchiato e porta la croce così pesante per il riscatto dell’umanità.

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L’ altare marmoreo, della fine  del ‘700, accoglie la statua lignea policroma del Cristo alla Colonna, ignoto scultore.

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Di notevole pregio è anche la statua in cartapesta della Madonna Assunta realizzata dall’artista amastratino Noè Marullo. Gli angeli posti ai suoi piedi sono alcuni bambini del quartiere presi a modello dall’artista.  La stauta è accolta nell’ edicola neoclassica sull’altare marmoreo, della fine del ‘700.

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La sua festa del 15 agosto

 

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Le altre statue raffigurano. San Francesco Saverio, statua lignea di  ignoto scultore, della metà XIX secolo,

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la statua lignea, policroma di San Francesco di Paola, di ignoto scultore, del 1750 circa,  posta su altare marmoreo della fine del ‘700,

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San Luigi Gonzaga,  statua lignea policroma di ignoto scultore siciliano risalente alla metà del XIX secolo,

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La statua lignea policroma della Madonna del Carmelo, di Noè Marullo, del 1880,  posta sull’ altare neoclassico.
Le pareti laterali dell’altare della Madonna del Carmelo il 16 luglio sono circondate da ambo i lati da due grappoli di uva nera.
Poiché in questo periodo l’uva a Mistretta non è ancora matura, i possessori di terreni alla “marina” si preoccupano di portare i grappoli d’uva già matura.
In senso laico l’uva rappresenta l’abbondanza.
In senso cristiano rappresenta l’unione dei cristiani in nome di Cristo.

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La Madonna ha la corona in testa, il Bambino sorretto dal braccio sinistro e lo scapolare nella mano destra.

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La statua è stata donata dal dott. Santimaria Panebianco, presidente del tribunale di Mistretta.
Dalle vesti sembra essere San Felice.

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Statua lignea di SAN GIOVANNI BATTISTA ritrovata dentro una nicchia scavata dietro l’attuale pala dell’altare maggiore. Attualmente è custodita nel museo parrocchiale di Mistretta

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Foto di Antonino La Ganga

 La tela raffigura le Anime purganti.
La tela delle Anime del Purgatorio è un olio su tela, di Salvatore De Caro, realizzata agli inizi XIX secolo.

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La cappella della Sacra Famiglia accoglie l’olio su tela, di Salvatore De Caro, degli inizi del  XIX secolo, che raffigura la Madonna col Bambino e Sant’Anna.

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Sull’altare marmoreo, entro edicola in stucco neoclassica, “La Conversione di San Paolo” che scende dal cavallo è un  olio su tela, opera di ignoto pittore realizzata nel periodo ante 1750.

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Sant’Ignazio di Loyola è un olio su tela di Giuseppe Scaglione dipinto agli inizi del XIX secolo.

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Il  piccolo dipinto ottocentesco raffigura San Filippo Apostolo.

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Importante sono anche l’organo posto sopra la cantoria e l’acquasantiera. L’organo, con cassa tardo barocca, è di autore siciliano della seconda metà del XVII secolo. La chiesa necessita di urgenti interventi di restauro.

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Dalla chiesa di San Giovanni Battista inizia la ricorrenza della DOMENICA DELLE PALME

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Jun 3, 2015 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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Sant’Antonio di Padova è il santo più popolare nel mondo anche fuori del cristianesimo. La sua popolarità è così grande che tutta la sua storia potrebbe correre il pericolo di sconfinare nella leggenda. Statue e quadri di Sant’Antonio di Padova sono esposti moltissime chiese.
Auguro a tutti i fortunati che portano il nome di Antonio/a di vivere una vita in santità secondo i suoi insegnamenti.
Antonio di Padova nacque a Lisbona, primogenito di una virtuosa e aristocratica famiglia. Fernando fu il suo nome di battesimo.
Sua madre si chiamava Maria Tarasia Taveira e suo padre Martinho Afonso de Bulhões, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo di Buglione.
Già sulla data di nascita discutono gli storici, anche se la maggior parte di loro concorda che il lieto evento avvenne il 15 agosto del 1195. L’anno di nascita è stato calcolato sottraendo dalla data della morte, avvenuta 13 giugno del 1231, gli anni citati dal Liber miraculorum scritto verso la metà del XIV secolo.
La biografia più antica, sulla base di informazioni concesse da mons. Soeiro II Viegas, vescovo di Lisbona dal 1210 al 1232, fu compilata nel 1232 da un frate Anonimo nell’opera nota come “Vita prima o Assidua” . Essa riporta le poche notizie avute sui primi anni di vita del fanciullo.
“ I fortunati genitori di Antonio possedevano, dirimpetto al fianco ovest di questo tempio, un’abitazione degna del loro stato, la cui soglia era situata proprio vicino all’ingresso della chiesa. Erano essi nel primo fiore della giovinezza allorché misero al mondo questo felice figlio; e al fonte battesimale gli posero nome Fernando. E fu ancora a questa chiesa, dedicata alla santa Madre di Dio, che lo affidarono affinché apprendesse le lettere sacre e, come guidati da un presagio, incaricarono i ministri di Cristo dell’educazione del futuro araldo di Cristo”.
La residenza della nobile famiglia era, infatti, vicina alla cattedrale di Lisbona, dove egli ricevette il sacramento del battesimo e dove fu avviato all’educazione spirituale dai canonici della cattedrale. Si racconta che suo padre, probabilmente, lo voleva indirizzare alla tecnica delle armi.
Fernando crebbe in un ambiente sereno e sano, dove il timor di Dio regnava sovrano. La preghiera quotidiana alimentava e fortificava la sua fanciullezza. Amava il silenzio in modo particolare per poter ascoltare la parola di Dio.
Nel 1210 Fernando, all’età di quindici anni, decise di entrare come novizio nel monastero di San Vincenzo dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino dell’Abbazia di San Vincenzo di Lisbona.
In seguito, nei suoi Sermoni scriverà: ”Chi si ascrive a un ordine religioso per farvi penitenza, è simile alle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recarono al sepolcro di Cristo. Considerando la mole della pietra che ne chiudeva l’imboccatura, dicevano: chi ci rotolerà la pietra? Grande è la pietra, cioè l’asprezza della vita di convento: il difficile ingresso, le lunghe veglie, la frequenza dei digiuni, la parsimonia dei cibi, la rozzezza delle vesti, la disciplina dura, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta… Chi ci rotolerà questa pietra dall’entrata del sepolcro? Un angelo sceso dal cielo, narra l’evangelista, ha fatto rotolare la pietra e vi si è seduto sopra. Ecco: l’angelo è la grazia dello Spirito Santo, che irrobustisce la fragilità, ogni asperità ammorbidisce, ogni amarezza rende dolce con il suo amore”.
Rimase nell’abbazia di San Vincenzo per circa due anni. Temendo che le visite dei parenti e degli amici, che lo andavano ad incontrare di proposito per distrarlo dalla sua vocazione, dallo studio e dalla preghiera, per una più concentrata meditazione chiese di essere trasferito dal monastero di Lisbona al convento di Santa Croce a Coimbra, allora città capitale del Portogallo e distante da Lisbona circa 230 km.
Fernando giunse a Coimbra nel 1212 e rimase nel convento per circa sette anni. S’impegnò nello studio delle scienze e della teologia guidato da ottimi maestri, ampliando la sua vasta cultura con l’ausilio dell’enorme quantità di materiale bibliografico custodito nella biblioteca del convento e preparandosi all’ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, all’età di 24 anni. Il convento, molto esteso, ospitava circa settanta monaci.
Essendo votato alle Sacre Scritture e alla predicazione, gli fu chiesto di esercitare la sua vocazione all’interno dell’Ordine, ma due avvenimenti contribuirono a scrivere diversamente gli eventi.
La storia racconta che sul trono del Portogallo al re Alfonso I succedette il figlio Sancho I e, alla morte di questi, avvenuta nel 1211, il nipote Alfonso II. Alfonso II era un re devoto e rispettoso delle virtù dei religiosi al contrario dei suoi successori che si dimostrarono intolleranti nei confronti del clero. Alfonso II nominò come priore del convento agostiniano di Santa Croce in Lisbona una persona a lui fidata, anche a scapito della sua modesta vita ascetica e spirituale e della sua scarsa capacità di gestire il monastero.
In breve tempo costui dilapidò le ingenti risorse del convento conducendo uno stile di vita mondano e non conforme alle regole di un convento. I frati si divisero in due fazioni: i sostenitori e i contrari. Intanto le cattive voci sulle sue azioni si diffusero rapidamente giungendo a Roma dove il papa Onorio III promulgò la scomunica nel 1220.
Nel 1219, nel fervore delle Crociate, in mezzo ad eccidi ed efferatezze da entrambe le parti, il sultano Elkamil fa all’Occidente un’inaspettata proposta di pace: cedere Gerusalemme ed i luoghi santi ai cristiani a patto che non ne facciano uno stato antagonista dell’Islam, ma un’oasi di pace sacra ad entrambe le religioni  che garantisca la cessazione del fuoco e la libera ripresa dei pellegrinaggi da entrambe le parti.
I confratelli furono entusiasti e ritennero Francesco artefice della pace.
Francesco d’Assisi, infatti, organizzò una spedizione missionaria e giunse in Africa con la precisa intenzione di convertire i musulmani al cristianesimo o di morire martire proponendo al sultano di sottoporlo alla prova del fuoco. Elkamil, al contrario, aveva apprezzato le qualità del santo intelligente ed aveva iniziato quella via d’intesa con l’occidente che culminerà poi nell’alleanza con Federico I. Non pensava di convertirsi al cristianesimo. Francesco, profondamente deluso per la mancata volontà del sultano di convertirsi al cristianesimo, decise di lasciare la direzione dell’ordine ed il suo posto in seno alla comunità francescana e di ritirarsi sul monte Verna dove rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.
Altri membri che parteciparono della spedizione furono: Berardo, Ottone, Pietro, tutti e tre sacerdoti, e i due fratelli laici Accursio e Adiuto. Giunti in Africa, poco dopo l’inizio della loro missione di evangelizzazione, furono decapitati. I loro corpi furono riportati a Coimbra. Fernando, in seguito, riferì che il martirio di questi cinque fratelli francescani suscitò in lui la vocazione per la vita francescana e lo stimolo all’ingresso nell’ordine Francescano del santo d’Assisi nel settembre del 1220. Vinte le opposizioni dei confratelli agostiniani ed ottenuto il permesso dal priore, si unì al romitorio dei francescani e poco tempo dopo chiese a Giovanni Parenti, il suo nuovo superiore, il permesso di partire come missionario per predicare tra i musulmani. Nell’autunno del 1220 Fernando, assieme al confratello Filippino di Castiglia, s’imbarcò alla volta del Marocco. In Africa contrasse la febbre malarica che lo costrinse a ritornare a Coimbra dopo solo alcuni mesi di permanenza. Sono stati i suoi compagni di viaggio a convincerlo a rientrare in patria per curarsi.  Secondo altre versioni Fernado non si fermò mai in Marocco.
I due frati s’imbarcarono diretti verso la Spagna. La nave, durante il viaggio di ritorno, spinta da una violenta tempesta, fu costretta ad approdare sulle coste della Sicilia occidentale e a trovare rifugio nel mare di Messina. Soccorsi dai pescatori, i due frati furono condotti nel vicino convento francescano di Messina. Curato dai francescani della città, Fernando in due mesi riacquistò la salute.
Quindi la missione e la totale disponibilità fino alla morte furono, probabilmente, le forze interiori che lo portarono al francescanesimo.
Tutti i suoi ideali s’infransero sul nascere. Le prediche, preparate con molto fervore per condurre a Dio tante anime, il desiderio sempre vivo del martirio si seppellirono nell’oblio della memoria.
Volendo sottolineare maggiormente questo netto mutamento di vita, Fernando decise di cambiare il suo nome di battesimo: Fernando divenne Antonio d’Olivares.
Etimologicamente  il termine “Antonio” deriva dal latino “anti” “prima” e “natus” “nato” vuol dire “nato prima”.
Scelse questo nome in onore dell’Abate, il monaco orientale a cui era dedicata la residenza francescana di Sant’Antonio degli Olivi di Coimbra che aveva ospitato i primi francescani portoghesi e che Fernando aveva da poco tempo conosciuto.
Qui i due frati, Antonio e Filippino, furono informati che nel mese di maggio, per la Pentecoste, Francesco d’Assisi aveva radunato tutti i frati per partecipare al Capitolo Generale dei Frati Francescani. Nella primavera del 1221 Antonio e tutti gli altri frati si incamminarono a piedi verso l’Italia con l’intenzione di parteciparvi. Arrivarono ad Assisi.
Grazie alla partecipazione al Capitolo Generale, Antonio ebbe l’occasione di incontrare personalmente Francesco d’Assisi di cui aveva conosciuto il suo insegnamento attraverso testimonianze indirette.
Il Capitolo durò per tutta l’Ottava di Pentecoste: dal 30 maggio all’8 giugno 1221. Si analizzarono molti problemi: lo stato dell’Ordine, la richiesta di novanta missionari per la Germania, la discussione sulla nuova Regola.
Le richieste di modifica della Regola primitiva dell’Ordine furono, per Francesco, un rilevante problema. Lassisti e Spiritualisti rischiavano di spaccare l’Ordine in due tronconi. L’Ordine si era troppo esteso.
Ai giovani, accorsi con entusiasmo, mancava una uguale adesione alla disciplina; i dotti contestavano le disposizioni sulla povertà assoluta.
Con la mediazione del cardinale Rainiero Capocci si giunse ad un compromesso che cercava di salvaguardare sia l’autorità morale di Francesco sia l’integrità dell’Ordine. La nuova Regola sarà poi approvata da Papa Onorio III il 29 novembre del 1223. L’ Assidua riporta che: “ Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là l’impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso”.
Il Capitolo Generale ebbe luogo nella valle attorno alla Porziuncola dove si raccolsero oltre tremila frati.
Poiché erano tantissimi, non potendoli ospitare tutti, si disposero alcune stuoie all’aperto per farli riposare. Per questo motivo fu ricordato come il “Capitolo delle Stuoie”. Il fra Giordano da Giano descrisse l’avvenimento: “ Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate”.
Quando quasi tutti i frati partirono per tornare ai loro luoghi di provenienza, Antonio fu notato da fra Graziano, provinciale di Montepaolo in Romagna, che, apprezzando soprattutto la sua umiltà e la sua profonda spiritualità, decise di trattenerlo  e lo assegnò all’eremo di Montepaolo, vicino a Forlì, dove già vivevano altri sei frati. Antonio arrivò nel giugno del 1221 e vi rimase un anno dedito alla preghiera, alla penitenza, al servizio degli altri frati, ad una vita semplice, ai lavori umili. Non è chiaro se fosse già prete, ma sembra che nessuno conoscesse i suoi titoli di studio e il suo dono per la predicazione. Nella seconda metà del 1222 la comunità francescana scese a valle per assistere alle ordinazioni sacerdotali nella cattedrale di Forlì. Alla cerimonia erano presenti sia francescani sia domenicani.
A nessuno di loro era stato affidato l‘incarico di tenere il convenzionale discorso di saluto. L’Assidua racconta che “venuta l’ora della conferenza spirituale il Vescovo ebbe bisogno di un buon predicatore che rivolgesse un discorso di esortazione e di augurio ai nuovi sacerdoti.
Tutti i presenti però si schermirono dicendo che non era loro possibile né lecito improvvisare. Il superiore si spazientì e rivoltosi ad Antonio gli impose di mettere da parte ogni timidezza o modestia e di annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito. Questi dovette obbedire suo malgrado e La sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa
”.
Per risolvere l’imbarazzo, fu chiesto ad Antonio di fare un breve sermone. Egli protestò dicendo che non era capace. Iniziò a parlare, in  modo semplice e con un linguaggio non molto elevato, davanti al vescovo e ai sempre più critici domenicani. Fu la sua prima predica!
La Vita Anonima riferisce: “Come se al suo posto ci fosse un diluvio di eloquenza divina, scaturirono parole brillanti e piene d’ardore”.
La notizia del sermone di Antonio giunse ad Assisi, alle orecchie dei suoi superiori che lo spinsero alla predicazione. Antonio, conosciuto col nome di Antonio da Forlì, cominciò a viaggiare e a predicare.
Scendendo da Montepaolo, Antonio cominciò a predicare nei villaggi e nelle città della Romagna allora funestata da continue guerriglie civili. Predicò anche in Emilia, nella MarcaTrevigiana, in Lombardia e in Liguria. Antonio possedeva una voce bella e affascinante e una particolare abilità nel far sì che i problemi teologici si calassero nella realtà della gente comune.
Nei suoi discorsi rivelò sorprendenti tesori di sapienza. Viaggiava senza sosta esortando alla pace, alla mitezza, debellando le eresie anticattoliche, pacificando le fazioni, riformando i costumi. Il territorio era molto vasto, ma non si scoraggiò.
Sempre a Rimini si colloca il famoso “miracolo” della predica ai pesci. Antonio si era recato a diffondere la parola di Dio quando alcuni eretici tentarono di dissuadere i fedeli che erano accorsi per ascoltarlo. Allora Antonio si portò sulla riva del fiume che scorreva a breve distanza e disse agli eretici in modo tale che la folla presente udisse: “Dal momento che voi dimostrate di essere indegni della parola di Dio, ecco, mi rivolgo ai pesci, per confondere la vostra incredulità”. Incominciò a parlare ai pesci della grandezza e della magnificenza di Dio.
Man mano che Antonio parlava, un numero sempre maggiore di pesci accorreva verso la riva per ascoltarlo, elevando sopra la superficie dell’acqua la parte superiore del corpo e guardando attentamente, aprendo la bocca e chinando il capo in segno di riverenza. Gli abitanti del villaggio accorsero per vedere il prodigio e, con loro, anche gli eretici che si inginocchiarono ascoltando le parole di Antonio. Una volta ottenuta la conversione degli eretici, Antonio benedisse i pesci e li lasciò andare.
Il Fioretti narra:” trascurato dalla gente, Antonio si mette a predicare sulla riva del mare ed i pesci accorrono in gran numero e mettono la testa fuori dall’acqua per ascoltare… inutile dire che tutti quelli che schifavano l’ennesima predica itinerante furono invece attratti dallo strano fenomeno e furono pronti a convertirsi”.
Trattava con particolare rigore quelli che chiamava “cani muti“: i potenti e i notabili che avrebbero dovuto guidare e proteggere le popolazioni, ma di cui si disinteressavano per inseguire gli interessi personali. Nei Sermoni scrisse: “La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti.
Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo”.
 Antonio predicò anche contro i cristiani eterodossi e gli eretici.
Ebbe modo di evidenziare come la riflessione teologica e antieretica era impossibile senza solide basi dottrinali. Per questo motivo, nel 1223,  insistette per ottenere la fondazione del primo studentato teologico francescano a Bologna presso il convento di Santa Maria della Pugliola. Francesco, secondo il quale la preghiera e la dedizione erano sufficienti, approvò la richiesta di Antonio. In una sua lettera scrisse: “Frati Antonio episcopo meo, fr. Franciscus salutem. Placet mihi, quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huiusmodi studium sanctae orationis spiritum non extinguas, sicut in Regula continetur. Vale”.Al mio carissimo fratello Antonio,il fratello Francesco. Approvo che tu insegni sacra teologia ai frati, purché, a motivo di questo studio, essi non spengano lo spirito di preghiera e di devozione, come sta scritto nella Regola. Stammi bene”. Francesco gli scriverà questa breve lettera perché Antonio era indeciso nell’insegnare teologia.
.Tra la fine del 1223 e l’inizio del 1224 Antonio si recò a Bologna, dove si trovava l’Università. L’università era, soprattutto, sinonimo di concentrazione di giovani. Antonio era un esperto “pescatore di giovani“.
Alla fine del 1224, quando papa Onorio III chiese a Francesco d’Assisi di inviare come missionario qualcuno dei suoi fratelli nella Francia meridionale per convertire i catari e gli albigesi, Francesco inviò, appunto, Antonio. Allora i movimenti considerati ereticali più importanti erano i “Catari”  “i puri”, detti anche Albigesi, dal nome dalla città di Albi nella Francia meridionale, e i “Patarini” diffusi in Lombardia.
Per due anni, all’età di 28-30 anni, come teologo insegnò le basilari verità di fede al clero e ai laici attraverso un metodo semplice ma efficace. Partiva dalla lettura del testo sacro per giungere ad una interpretazione che parlasse alla fede e alla vita dell’uditorio. Per questa sua intensa attività di predicatore antieretico ricevette il famoso appellativo di “martello degli eretici” “malleus hereticorum“.
Antonio rimase nella Francia meridionale alcuni anni, esattamente dal 1225 al 1227. La Provenza, la Linguadoca, la Guascogna furono le regioni dove maggiormente predicò. In Francia sembra che inizialmente si recò a Montpellier, città universitaria baluardo dell’ortodossia cattolica e dove la leggenda narra che Antonio ebbe il miracolo della bilocazione poiché predicò contemporaneamente in due luoghi  distanti dalla città.
In seguito andò ad Arles dove partecipò al capitolo provinciale della Provenza. La leggenda narra che ad Arles, mentre Antonio predicava, ebbe l’apparizione di Francesco d’Assisi ancora vivo, stigmatizzato e benedicente la folla. A Tolosa,  poco tempo dopo affrontò direttamente gli albigesi con la profonda dialettica basata su argomenti chiari e semplici. Alcune fonti riportano che a Tolosa si manifestò il miracolo del giumento.
A Rimini, nel 1223, Antonio cercava di convertire un eretico e la disputa si era incentrata intorno al sacramento dell’Eucarestia, ossia sulla reale presenza di Gesù. L’eretico, di nome Bonvillo, lanciò la sfida ad Antonio affermando: “Se tu, Antonio, riuscirai a provare con un miracolo che nella Comunione dei credenti c’è, per quanto velato, il vero corpo di Cristo, io abiurata ogni eresia, sottometterò senza indugio la mia testa alla fede cattolica”.
Antonio accettò la sfida perché convinto di ottenere dal Signore il miracolo della conversione dell’eretico. Allora Bonfillo, invitando a fare silenzio disse: “Io terrò chiuso il mio giumento per tre giorni privandolo del cibo. Passati i tre giorni, lo tirerò fuori alla presenza del popolo, gli mostrerò la biada pronta. Tu intanto gli starai di contro con quello che affermi essere il corpo di Cristo. Se l’animale, pur affamato, rifiuterà la biada e adorerà il tuo Dio io crederò alla fede della Chiesa”.
Antonio pregò e digiunò per tutti i tre giorni. Nel giorno stabilito la piazza si riempì di tanta gente. Antonio celebrò la messa davanti alla folla numerosa e poi, con somma riverenza, portò il corpo del Signore davanti al giumento affamato che era stato condotto nella piazza. Contemporaneamente Bonfillo gli mostrò la biada.
Antonio impose il silenzio e comandò all’animale: “In virtù e in nome del Creatore che io, per quanto ne sia indegno, tengo tra le mani, o animale, ti ordino di avvicinarti prontamente con umiltà a prestarGli la dovuta venerazione affinché i malvagi eretici apprendano chiaramente da tale gesto che ogni creatura è soggetta al suo Creatore”.
Il giumento rifiutò il foraggio e, abbassando la testa fino ai garretti, si accostò genuflettendosi davanti al sacramento del corpo di Cristo in segno di adorazione.
Tutti i presenti, compresi Bonvillo e gli eretici, si inginocchiarono.
Nel mese di novembre del 1225 Antonio partecipò al Sinodo di Bourges convocato dal primate d’Aquitania per valutare la situazione della Chiesa francese e per pacificare le regioni meridionali. All’arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, Antonio, invitato quel giorno a predicare, disse: “Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale… L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna…”.
Lo stesso arcivescovo Simone de Sully chiese ad Antonio il sacramento della confessione per trovare la forza di mettere in pratica ciò che gli aveva ricordato. Giovanni Bonelli da Firenze, il Provinciale della Provenza, lo nominò prima guardiano del convento di Le Puy-en-Velay e poi superiore di un gruppo di conventi attorno a Limoges. Nei pressi di Brive-la-Gaillarde Antonio scoprì una grotta simile a quella del romitorio di Montepaolo, dove egli aveva trascorso alcuni anni, e lì “amava ritirarsi, da solo, in una grande austerità di vita, applicandosi alla contemplazione e alla preghiera”. L’esperienza francese di Antonio terminò nell’arco di un biennio. Antonio rimase in Francia fino alla morte di Francesco d’Assisi.
Il 3 ottobre del 1226, in una cella della Porziuncola morì, all’età di 44 anni, Francesco d’Assisi. Il vicario generale dell’Ordine, frate Elia, per la Pentecoste dell’anno seguente fissò il Capitolo Generale per la nomina del successore. Fu convocato anche Antonio, allora superiore dei conventi di Limoges.
Antonio, di ritorno dalla Francia, arrivò ad Assisi il 30 maggio del 1227, per la Pentecoste e nel giorno d’apertura del Capitolo Generale durante il quale si doveva eleggere il successore di Francesco. Si prevedeva l’elezione di frate Elia, vicario generale di Francesco e suo compagno di missione in Oriente.  Invece di frate Elia che, pur essendo un valido organizzatore, aveva un temperamento piuttosto impulsivo, i superiori dell’Ordine preferirono il più prudente frate Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna.
Egli, che aveva accolto Antonio nell’Ordine francescano, lo nominò ministro provinciale per l’Italia settentrionale. Antonio aveva 32 anni. Antonio cominciò la visita dei numerosi conventi dell’Italia settentrionale. Si recò a Milano, a Venezia, a Vicenza, a Verona, a Trento, a Brescia, a Cremona, a Varese. Come sua residenza stabile scelse, però, il convento di Padova quando non era in viaggio. Alternò la predicazione al governo dei frati e scrisse i “Sermones dominicales”, la sua importante opera dottrinaria di profonda teologia rimasta, però, incompleta, che gli farà acquisire il titolo di “Dottore della Chiesa” nel 1946.
Una folla numerosa lo seguiva nelle sue prediche. Tra predicazioni instancabili e lunghe ore dedicate alle confessioni spesso Antonio saltava i pasti. Di sermone in sermone aumentava la fama di Antonio a Padova provocando un continuo accrescersi dell’uditorio. Una folla incessante si assiepava intorno al suo confessionale.
Era impossibile farvi fronte sebbene alcuni confratelli sacerdoti e una schiera di presbiteri della città cercassero di alleggerirgli la fatica. Non gli restava che aspettare il deflusso dei penitenti al calar della sera. L’Assidua informa che digiunava fino al tramonto. Molti accorrevano al sacramento della penitenza dichiarando che un’apparizione li aveva spinti alla confessione.
Testimonia l’Assidua: “Riconduceva a pace fraterna i discordi; ridava libertà ai detenuti; faceva restituire ciò ch’era stato rapinato con l’usura e la violenza“.
Antonio intervenne anche a modificare la legislazione comunale di Padova. Si trattava di uno statuto relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, lunedì santo.
A richiesta del venerabile fratello Antonio, dell’Ordine dei frati Minori, fu stabilito e ordinato che nessuno sia detenuto in carcere, quando non sia reo che di uno o più debiti in denaro, del passato o del presente o del futuro, purché egli voglia cedere i suoi beni. E ciò vale sia per i debitori che per gli avallatori. Se però una rinuncia o cessione o un’alienazione sia fatta frodolentemente, sia da parte dei debitori, sia degli avallatori, essa non abbia alcun valore e non porti danno ai creditori. Quando poi la frode non possa venir dimostrata in modo evidente, della questione sia giudice il podestà. Questo statuto non possa subire modificazioni di sorta, ma resti immutato in perpetuo”.
Antonio conduceva un esemplare stile di vita. Nei sermoni scrisse: “La vita del prelato deve splendere d’intima purezza, dev’essere pacifica con i sudditi, che il superiore ha da riconciliare con Dio e tra loro; modesta, cioè di costumi irreprensibili; colma di bontà verso i bisognosi. Invero, i beni di cui egli dispone, fatta eccezione del necessario, appartengono ai poveri, e se non li dona generosamente è un rapinatore, e come rapinatore sarà giudicato. Deve governare senza doppiezza, cioè senza parzialità, e caricare sé stesso della penitenza che toccherebbe agli altri… Inargèntino i prelati le loro parole con l’umiltà di Cristo, comandando con benignità e affabilità, con previdenza e comprensione. Ché non nel vento gagliardo, non nel sussulto del terremoto, non nell’incendio è il Signore, ma nel sussurro di una brezza soave ivi è il Signore”.
In un altro sermone scrisse: “Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi”.
In compagnia del giovane padovano Luca Belludi visitò tutti i conventi fondati nella provincia di Padova che, allora, ricopriva un ampio territorio. Da lì si spostò a Conegliano,  a Treviso,  a Venezia per poi tornare a Padova, prima di proseguire per i conventi dell’Emilia, della Lombardia e della Liguria.
Nella quaresima del 1228 Antonio rientrò a Padova dove instaurò buoni rapporti con gli esponenti di altri ordini. Divenne amico dell’abate Giordano Forzatè, superiore dei benedettini, e del conte Tiso VI da Camposampiero, uomo facoltoso e generoso verso i francescani.
La tradizione colloca la pietra sulla quale Antonio saliva per predicare nel giardino dei conti Papafava e dei Carraresi.
Tra le persone conosciute e più fidate Antonio fondò una sorta di confraternita. Dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba, dove i confrati solevano riunirsi, presero il nome di “Colombini“. Avevano per divisa un saio grigio e si dedicavano ad opere caritative. Antonio soggiornò a Padova pochi mesi, ma decise, una volta scaduto il mandato di Ministro Provinciale nel 1230, di tornarvi definitivamente.
Nel mese di marzo del 1228 fra Giovanni Parenti, il Ministro Generale, lo mandò a chiamare “per un’urgente necessità della sua famiglia religiosa”.
Si era nuovamente infiammata la disputa tra l’ala conservatrice e l’ala riformatrice dell’Ordine. Era indispensabile trovare un accordo che salvaguardasse sia l’unità dell’ordine sia l’integrità del messaggio di Francesco. Fu scelto Antonio. La vertenza gravava attorno a punti diversi: c’era chi spingeva ad un maggior impegno negli studi privilegiando il frate sacerdote a discapito del frate laico; c’era chi voleva mitigare la rigida povertà di Francesco con una regolamentazione più consona ad una comunità che da “girovaga” stava trasformandosi in “residenziale“.
L’Ordine decise che era giunto il momento di informare il Papa.
Antonio fu incaricato di andare a Roma e riferire al papa Gregorio IX l’oggetto della questione.
Le cronache non riportano i metodi usati da Antonio per portare a termine questo suo delicato incarico.
Predicò alla presenza di Papa Gregorio IX il quale, ammirato dalla sua singolare conoscenza delle Sacre Scritture, anziché congedarlo, lo trattenne con sé perché predicasse a lui e ai cardinali le meditazioni quaresimali. Predicò ad una folla cosmopolita. Ognuno lo sentì parlare nella propria lingua.
Le prediche furono un tale successo che il Pontefice Gregorio IX, rompendo ogni protocollo, lo chiamò “Arca del Testamento”, “peritissimo esegeta”, “esimio teologo”. Quattro anni più tardi, canonizzandolo, ricorderà quei giorni di quaresima: “personalmente sperimentammo la santità e l’ammirevole vita di lui, quando ebbe a dimorare con grande lode presso di noi”. L’impressione fu molto forte anche tra i cardinali e i prelati della curia, i quali – scrisse ancora l’Assidua – “l’ascoltarono con devozione ardentissima” e qualcuno di loro lo invitò a predicare al popolo.
Erano i giorni della Settimana santa e a Roma confluivano molti pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Antonio, sebbene conoscesse alcune di quelle lingue, iniziò a predicare nella volgata del popolo di Roma.Da lì a pochi mesi Antonio ebbe modo di incontrarsi nuovamente con il Pontefice che giunse in Assisi per canonizzare Francesco, per dichiararlo santo e per benedire la prima pietra della Basilica dove avrebbe riposato il suo corpo.
La basilica fu completata in due anni. L’ordine scelse la Pentecoste per fissare il Capitolo Generale e per traslare il corpo di Francesco dalla chiesa di San Giorgio alla cripta del nuovo edificio. Ancora una volta i frati a migliaia erano accorsi da ogni parte d’Europa e insieme a loro sfilarono in processione autorità di ogni grado, prelati, vescovi e i tre Cardinali Legati inviati per l’occasione da papa Gregorio IX. La folla fu tale che travolse il servizio d’ordine e si temette per le spoglie di Francesco.
Frate Elia fu costretto a sbarrare le porte e a “mettere in salvo” il corpo sotto lastre di marmo. Lì rimase, nonostante le critiche di cui Elia fu incolpato per la decisione, sino al 1818, quando papa Pio VII ne autorizzò la rimozione.
La folla non gradì per niente la piega che gli avvenimenti avevano preso e la situazione degenerò tristemente in una rissa collettiva con grande scandalo e maggiori proteste che misero in imbarazzo l’Ordine Francescano giungendo sino alle orecchie del Papa.
Se nel periodo di costruzione della Basilica la disputa interna all’Ordine si era sopita, con l’apertura del nuovo Capitolo essa, però, si riacutizzò.
Il testamento di Francesco, infatti, affermava la necessità della povertà assoluta e una parte dei Francescani voleva inserirlo come parte integrante della Regola dell’Ordine.
Nell’impossibilità di dirimere la questione, si decise di nominare una commissione di sette frati per sottoporre la questione a papa Gregorio IX. Antonio, chiamato a farne parte, dovette partire nuovamente per Roma. Gregorio IX prese la sua decisione promulgando la bolla Quo elongati per il 28 settembre.
Tornato ad Assisi, Antonio accusò diversi disturbi. Chiese ed ottenne di essere sollevato dall’incarico di ministro provinciale nel Capitolo del 1230. Si ritirò a Padova.
A Padova, nell’inverno del 1231, terminò la stesura del secondo volume dei Sermoni che gli era stato commissionato dal cardinale Rinaldo Conti che diverrà Papa Alessandro IV. Preferì la predicazione e il confessionale. La quaresima del 1231 fu il suo testamento spirituale.
Antonio predicò in favore dei poveri e delle vittime dell’usura: “ Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L’usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove… E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole”. Il linguaggio della sua predicazione era semplice e diretto: “La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo, nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella trappola tesa dal demonio”.
Durante la Quaresima,  dal 6 febbraio al 23 marzo 1231, la sua predicazione fu una novità per quei tempi; secondo l’Assidua gli fu assegnato un gruppo di guardie del corpo, affinchè formassero un cordone di sicurezza tra lui e la folla.
Il 15 marzo del 1231 fu modificata la legge sui debiti. “Su istanza del venerabile fratello, il beato Antonio, confessore dell’ordine dei frati minori” il podestà di Padova Stefano Badoer stabilì che il debitore insolvente senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non fosse più imprigionato né esiliato.
La Quaresima e la predicazione avevano tanto fiaccato Antonio che, in diverse occasioni, aveva dovuto farsi portare a braccia sul pulpito.
Afflitto dall’idropisia e dall’asma,  forse anche da sintomi di cardiopatia, trovava a volte difficile anche il solo camminare. Acconsentì di ritirarsi per una convalescenza nel convento di Santa Maria Mater Domini. Questo suo breve riposo, tuttavia, si interruppe bruscamente. Spadroneggiava in quel tempo, tra Verona e Vicenza,  Ezzelino III da Romano, emissario dell’imperatore Federico II, contro i liberi Comuni.
Riuscito a farsi eleggere Podestà di Verona, città guidata dai conti di Sambonifacio, aveva intrecciato con loro un doppio matrimonio: lui con Zilia, sorella del conte Rizzardo, e questi con sua sorella Cunizza.
Una volta ottenuto il potere, passò sopra i legami di parentela e ruppe l’alleanza con i Sambonifacio mandando in carcere il cognato. Alcuni cavalieri del conte Rizzardo ripararono a Padova e da lì cercarono di organizzarne la liberazione.
Verso la fine di maggio Antonio partì alla volta di Verona per chiedere ad Ezzelino di concedere la grazia al conte Rizzardo.
Non riuscì ad ottenere nulla. Ezzelino fu veramente irremovibile. Anzi risparmiò ad Antonio la stessa sorte toccata al conte Rizzardo soltanto per rispetto dell’abito che indossava.
Dopo i lunghi ed apostolici viaggi in Italia e in Francia, ormai stanco e malato, per ritemprarsi nel corpo e nello spirito, nel giugno del 1231 Antonio si ritirò nel Veneto, in una località denominata Camposampiero, distante venti chilometri da Padova. Dal conte Tiso VI fu invitato a trascorrere un periodo di meditazione e di riposo nel piccolo romitorio nei pressi del castello.
Qui avvenne un mirabile miracolo visto e descritto dal Conte Tiso, suo amico. Dalla celletta occupata da frate Antonio, con la porta socchiusa, il Conte vide una gran luce; temendo un incendio, egli spinse la porta e, con grande stupore, vide il Bambino Gesù tra le braccia di Antonio.
La tradizione narra che sopra un grande albero di Noce Antonio predicava alle folle. Nel bosco del conte Tiso VI, convertito dalla predicazione del Santo, sorgeva un noce poderoso. “L’uomo di Dio, avendone un giorno ammirata la bellezza, tosto, su indicazione dello Spirito, decise di farsi una cella sopra il noce, perché il luogo offriva impensata solitudine e quiete favorevole alla contemplazione. Il nobiluomo, appena venne a conoscere quel desiderio per mezzo dei frati, dopo aver riunito in quadrato e trasversalmente ai rami delle pertiche, preparò con le sue mani una cella di stuoie. […] Salendo lassù, egli mostrava di avvicinarsi al cielo”. Da qui il Santo scendeva solo per predicare e confessare.
Il 13 giugno del 1231,  avendo compreso che non gli restava molto da vivere, chiese di essere riportato nella chiesa di Santa Maria Mater Domini a Padova.
Durante il viaggio, le sue condizioni peggiorano ed i confratelli, vedendolo incosciente, decisero di tornare indietro. Nella nebbia della calura estiva Antonio vide una donna piangente che teneva in braccio un bambino completamente nudo, abbandonato, come se fosse morto. Interrogata prudentemente da Antonio, lei disse di essere fuggita perché uomini cattivi la inseguivano per uccidere il bimbo. Antonio, delicatamente, prese in braccio il bambino che si svegliò e sorrise.
Anche la donna alzò il capo e sorrise. Antonio riconobbe in lei la Vergine Maria. La tradizione vuole che Antonio a questo punto sia tornato giovane e sano e sia morto cantando un inno mariano.
La leggenda narra anche che Antonio fu trasportato sopra un carro agricolo trainato da buoi verso Padova, città dove aveva chiesto di morire.
Nel tragitto incontrò frate Vinotto che, notate le sue gravi condizioni di salute, gli consigliò di fermarsi all’Arcella, un borgo della periferia della città, nell’ospizio accanto al monastero delle Clarisse dove sarebbe stato al sicuro dalle “sante intemperanze” della folla quando si fosse sparsa la notizia della morte.
I confratelli temevano che la folla circondasse il carro per toccare il corpo di Antonio. Al convento di Arcella i confratelli adagiarono Antonio per terra. Ricevuta l’unzione degli infermi, ascoltò i confratelli cantare l’inno mariano “O gloriosa Domina” quindi, secondo quanto riferito dall’Assidua, pronunciate le parole “Video Dominum meum”  “Vedo il mio Signore”, spirò.
Era la sera del venerdì 13 giugno del 1231. Aveva 36 anni. La sua giovane vita, come un fiore profumato, fu trapiantata nei giardini celesti.
Al momento del suo trapasso, per le vie di Padova tanti giovani gridavano: “È morto il  padre Santo!”.
La notizia della morte di Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto si avverò. Le reliquie di un Santo erano viste come portatrici di vantaggi miracolosi, spirituali e di prosperità in tempi di pellegrinaggi e di fede diffusa. Per primi giunsero gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, che dissero: “Qui è morto e qui resta”.
Anche le Clarisse dissero: “Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto”. Giunsero all’Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare e seppellire “il prezioso tesoro” in quella chiesa, sede della comunità francescana alla quale Antonio apparteneva.
Con il concorso delle armi, furono affrontati dagli uomini più giovani di Capodiponte.
Intervenne il Vescovo che, avendo saputo che Antonio desiderava morire nel suo convento, diede ragione ai frati e incaricò il Podestà di sedare gli animi anche con la forza se fosse stato necessario. La cerimonia funebre si svolse all’Arcella il 17 giugno.
La stessa sera la salma di Antonio fu trasportata a Padova, nel convento di Santa Maria Mater Domini, e lì fu sepolto, nel suo rifugio spirituale nei periodi di intensa attività apostolica. Probabilmente non fu posto sotto terra, ma sollevato, in modo tale che i devoti, sempre più numerosi, potessero vedere e toccare la tomba. La tomba di Antonio divenne meta di pellegrinaggi. A causa della folla, le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova “nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi”, e anche di notte.
I devoti sfilavano davanti alla sua tomba toccando il sarcofago e chiedendo grazie e guarigioni. In quel periodo furono attribuiti, per sua intercessione, molti miracoli che il vescovo e il podestà  sottoposero al giudizio del Papa.
La fama dei tanti prodigi compiuti da Antonio convinse Gregorio IX ad accelerare l’iter del processo di canonizzazione. Nominò una commissione di periti, presieduta dal vescovo di Padova, per raccogliere le testimonianze e le prove documentarie utili al processo di canonizzazione.
Secondo l’Assidua la commissione fu sommersa “da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio”. Il Vescovo ascoltò “le deposizioni confermate con giuramento”, mise per iscritto i “miracoli” approvati e promosse le indagini necessarie. Completato l’esame diocesano, inviò al Papa una seconda delegazione.
A Roma l’istruttoria fu assegnata al cardinale Giovanni d’Abbeville, che esaurì il compito in pochi giorni.
Papa Gregorio IX, in considerazione della gran quantità di miracoli, fissò la cerimonia ufficiale di canonizzazione il 30 maggio del 1232, festa di Pentecoste, dopo solo circa un anno dalla sua morte, ed inviando la Bolla ai fedeli e al podestà di Padova.
Nel Duomo di Spoleto papa Gregorio IX, dopo avere ascoltato la lettura dei 76 prodigi approvati, raccolti nel Trattato dei miracoli  e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente santo frate Antonio. La sua festa liturgica ricorre il 13 giugno, giorno della sua ascesa in cielo.
Per contenere l’enorme numero di pellegrini che continuamente affluivano a Padova per vistare la tomba, fu iniziata la costruzione di una chiesa più capiente. I lavori furono ultimati nel 1240.
Nel 1263 Bonaventura da Bagnoregio, Ministro Generale dei francescani, fece trasportare la salma di Antonio di Padova nella nuova basilica.
Si narra che durante l’ispezione, prima del trasporto dei resti mortali, è stata rinvenuta la lingua “intatta e rosea come fosse viva”.
 Presa la lingua tra le sue dita, rimasta miracolosamente intatta, Bonaventura da Bagnoreggio esclamò: “Lingua Santa e Benedetta, che sempre benedicesti il Signore e Lo facesti benedire dagli altri, ora appare chiaro di quanto gran merito fosti davanti a Dio”. Nacque così la devozione alla lingua di Sant’Antonio in quanto strumento portentoso della Parola di Dio che Antonio annunciò sempre tra gli uomini.
Conservata in un prezioso reliquiario, è possibile ammirarla nella basilica di Padova.
Ogni anno, ancora oggi, i frati Antoniani ricordano il ritrovamento della lingua festeggiandolo il 15 febbraio.  Ancora oggi sono milioni le persone che, annualmente, visitano con grande devozione la tomba di Sant’Antonio nella grande Basilica di Padova.
Moltissimi sono coloro i quali partecipano all’imponente celebrazione liturgica e alla sentita processione del Santo per le vie della città di Padova.
Nel 1946 Pio XII inserì Sant’ Antonio tra i Dottori della Chiesa cattolica conferendogli il titolo di “Doctor evangelicus” “dottore della chiesa universale” perchè nei suoi scritti e nelle sue prediche era solito citare il Vangelo.
La denominazione “Sant’Antonio da Padova” non è esatta in quanto non indica la sua originaria provenienza essendo nato e cresciuto nel Portogallo. Il suo nome si riferisce alla città di Padova perché qui ha esercitato la sua attività più efficace.
E’ usanza che i frati prendono il nome del convento a cui appartengono. Quindi è corretto riferirsi a “Sant’Antonio di Padova” e non a “Sant’Antonio da Padova”. In Portogallo egli è chiamato comunemente “Santo António de Lisboa”, ovvero “Sant’Antonio da Lisbona“, la sua città natale.
Sant’Antonio di Padova è patrono del Portogallo, del Brasile e della città di Beaumont, in Texas. In Italia, oltre ad essere patrono della città di Padova, unitamente a San Prosdocimo, Santa Giustina martire e San Daniele, è santo patrono di moltissime altre località in tutte le regioni.
Il culto di Sant’Antonio di Padova si sviluppò per le testimonianze di grazie ottenute per l’intercessione di Sant’Antonio.
Sono evocate diverse situazioni della vita: «Se cerchi i miracoli, ecco messi in fuga la morte, l’errore, le calamità e il demonio; ecco gli ammalati divenir sani. Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono e ritrovano la sanità e le cose perdute. S’allontanano i pericoli, scompaiono le necessità: lo attesti chi ha sperimentato la protezione del Santo di Padova».
Tradizionalmente è invocato anche contro la sterilità coniugale e le malattie dei bambini e da chi cerca gli oggetti smarriti.
Moltissimi sono i miracoli attribuiti a Sant’Antonio di Padova compiuti durante la sua vita: dagli esorcismi alle profezie, alle guarigioni, alle resurrezioni. La fama del suo potere taumaturgico oltrepassò i confini naturali raggiungendo luoghi molto lontani. Per questo è conosciuto con l’appellativo del “Santo dei Miracoli”.
Per citarne alcuni: le apparizioni di Gesù Bambino, il piede riattaccato, il neonato che parla per testimoniare l’innocenza della madre accusata di adulterio, il peccatore pentito,
il riattacco dei capelli ad una donna che il marito geloso aveva tagliato, il giovane resuscitato, il rilevamento del cuore dell’avaro dentro uno scrigno pieno di gioielli, il cibo avvelenato reso innocuo, le ripetute bilocazioni, il ritorno alla vita un bambino che nel sonno si era soffocato avvinghiandosi le coperte al collo, la tempesta del temporale,
le passere rinchiuse dentro una stanza perchè mangiavano i chicchi di grano. Le leggende poi si sono focalizzate sulla sua devozione a Gesù Bambino e sul suo amore per la natura: per gli animali, per gli alberi, per i fiori.
Anche dopo la morte moltissimi prodigi furono attribuiti ad Antonio. Dopo varie ricerche, fatte dall’allora Papa Gregorio IX, si accertò la guarigione di 22 contratti: di 5 paralitici, di 7 ciechi, di 3 sordi, di 3 muti, di 2 epilettici, 2 resurrezioni. L’autore dell’Assidua trascrive che nel giorno della traslazione del Santo “moltissimi colpiti da diverse infermità vi furono portati e tosto ricuperarono la salute per i meriti del Beato Antonio”.
Il giorno della sua sepoltura una donna inferma e storpia pregò davanti all’urna e fu completamente risanata.
Un’altra donna aveva la gamba destra paralizzata. Il marito la condusse al sepolcro di Antonio e, mentre pregava, sentì come se qualcuno la sostenesse. Si stava compiendo il miracolo della sua guarigione. Lasciò le stampelle camminando perfettamente.
Una bimba piccola, con le membra atrofizzate, fu posta sulla tomba del Santo e guarì completamente.
Un singolare episodio accadde al cavaliere Aleardino da Salvaterra che da sempre aveva deriso i fedeli considerandoli ignoranti o ingenui.
In un’osteria iniziò a deridere pubblicamente alcuni che parlavano con entusiasmo dei miracoli di Antonio. Il cavaliere, schernendoli, disse: “E’ possibile che questo frate abbia compiuto dei miracoli quanto questo bicchiere di vetro non si rompa gettandolo con forza per terra. Faccia questo miracolo il vostro santo e io abbraccerò la vostra fede“.
Aleardino da Salvaterrà scagliò con forza il bicchiere a terra. Non si ruppe, anzi scalfì le pietre su cui cadde. Il cavaliere si convertì.
Verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, al rientro dal lavoro per la costruzione della strada in contrada San Giovanni, Romei-Scammari a Mistretta, un camion, carico di giovani lavoratori, si capovolse.
Non ci fu nessun morto, ma tanti feriti. Sant’Antonio li ha miracolati tutti. In segno di devozione e di ringraziamento, è stata edificata nel luogo dell’incidente, in contrada San Giovanni, un’edicola votiva in onore di Sant’Antonio.
Mia mamma, che si recava spesso nella nostra campagna a Scammari, ogni volta si fermava davanti all’edicola per recitare a Sant’Antonio una preghierina e per depositare un mazzo di calle appena raccolte. Giunta a casa, non riuscì trovare gli occhiali, pur cercandoli ansiosamente.
Donna pia e devotissima, la mia mamma Maria Grazia chiese a Sant’Antonio la grazia di farle ritrovare i suoi occhiali.
Ritornando di nuovo in campagna il giorno successivo e fermandosi davanti all’edicola di Sant’Antonio, vide gli occhiali deposti sul davanzale dell’edicola.
Questo miracolo accrebbe in lei maggiormente la sua fede.
La devozione di Antonio per la povertà e per i poveri è sottolineata dalla istituzione del “Pane di Sant’Antonio”. Questa benefica opera, nota dapprima come Pondus Pueri, ebbe notevole sviluppo alla fine del sec. XIX. Era un’istituzione d’assistenza di notevole rilevanza sociale, sotto forma di pia devozione in onore di Sant’Antonio, distribuire ai poveri elemosine sotto forma di pane.
Questa consuetudine ricorda il prodigio di una madre che ottenne dal Santo la rinascita del figlioletto annegato in una vasca piena d’acqua. Aveva promesso di dare ai poveri tanto pane quanto era il peso corporeo del suo bambino. Questa opera caritativa, che distribuisce cibo, è ancora attiva nei paesi del Terzo Mondo. Durante la celebrazione eucaristica per la festa di Sant’Antonio, anche a Mistretta e in tante altre località si ripete tuttora la tradizione del rito della benedizione del Pane di Sant’Antonio.
Per grazia ricevuta per intercessione di Sant’Antonio, le famiglie o le persone miracolate ringraziano il Santo mantenendo la promessa del voto. Esso consiste nel portare ceste colme di piccoli pani che, deposte ai piedi dell’altare, sono benedette dal celebrante durante la funzione religiosa. Alla fine della funzione il panino benedetto è distribuito ai presenti, ai parenti e alle persone care.

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L’iconografia rappresenta Sant’Antonio di Padova vestito con il saio dell’ordine francescano e con il volto giovanile. I simboli rappresentano momenti della sua vita: Gesù Bambino fra le braccia rievoca la visione avuta a Camposampiero, il giglio nella mano indica la sua purezza, il libro simboleggia la sua dottrina e la sua predicazione, il cuore, la fiamma e il pane ricordano il suo amore verso Dio e verso il prossimo, seduto su un noce, simboleggia la solitudine. Gli emblemi sono: il giglio e il pesce.

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Preghiera a Sant’ Antonio

Sant’Antuninu munachieddu finu,
‘n mirazza purtati lu santu Bamminu,
l’abbrazzati, lu strinciti,
la razzia chi v’addumannamu nni cunciriti.
Tririci razzi aviti ri cuntinuu,
facitimmilla a mia, Sant’Antuninu.

Sant’Antonio monachello fine,
in braccio portate il santo Bambino,
l’abbracciate, lo stringete,
la grazia che Vi domandiamo ci concedete.
Tredici grazie avete di continuo,
fatene una a me Sant’Antonio.

 

Oggi è il 13 giugno del 2017.
La comunità amastratina festeggia Sant’Antonio di Padova.

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Foto di Sebastiano Zampino

Dopo la celebrazione ecucaristica, la statua del Santo compie il cammino processionale lungo
le strade principali della città di Mistretta.
Per favorire l’uscita dalla Sua chiesa, gli organizzatori momentaneamente rimuovono una parte della ringhiera della cancellata.

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Foto di Luigi Marinaro

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Foto di Giuseppe Ciccia

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Foto di Paolo Trincavelli

Oggi, 13 giugno 2022, Sant’Antonio di Padova attraversa le vie di  Mistretta in cammino processionale.

https://youtu.be/MSuZwnTeOww

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LA CHIESA DI SANT’ANTONIO DI PADOVA A MISTRETTA

La chiesa di S. Antonio di Padova, costruita nel  XVI secolo, è un piccolo tempio ad una navata che si può ammirare percorrendo la Via Anna Salamone. Una breve scala esterna e un modesto balconcino protetto da una ringhiera conducono all’interno della chiesa.

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 Importante è il portale che sostiene nella chiave di volta il volto scolpito in pietra di un bambino sormontato da un’altra figura a forma di cuore che protegge all’interno l’immagine del Santo.

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Nell’altare centrale la statua del Santo, opera dell’artista Noè Marullo del 1910, sorregge col braccio sinistro il Bambino che, con la sua manina, tenta di aggrapparsi al bavero di Sant’Antonio.

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La committente della statua di Sant’Antonio di Padova è stata la signora Filippa Marchese Varisano, la moglie del signor Antonino, la nonna della signora Maria Cecilia Marchese.

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Dalla viva voce della signora Maria Cecilia Marchese (nella foto) ascoltiamo il suo racconto:

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https://www.youtube.com/watch?v=yGKyAN33It0&t=14s

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 Importante è l’altare di marmi polIcromi

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Le altre statue sono quelle di San Ciro e di San Benedetto.

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Da ammirare è la cantoria dove, in diverse lunette, sono illustrati i miracoli del Santo e l’organo posto sopra di essa.

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Dono di una devota

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