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Apr 25, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

IL 25 APRILE E L’ARBUTUS UNEDO “L’ALBERO D’ITALIA” SIMBOLO DELL’UNITA’ NAZIONALE

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Il 25 Aprile di questo anno 2016 ricorre il 71° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E’ la festa civile della Repubblica Italiana. Il 25 Aprile è chiamato anche Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente il 25 Aprile. E’ un giorno importantissimo per la storia d’Italia. E’ la fine dell’occupazione nazista nel nostro paese avvenuta esattamente il 25 aprile del 1945. E’ giusto ricordare come l’Italia superò le barbarie della guerra e del nazifascismo grazie all’intervento di quanti, militari e civili, furono artefici di tale decisivo momento della storia italiana. Bisogna continuare a fare tesoro degli insegnamenti di chi, non volendo rinunciare alla libertà, diede il propri prezioso contributo alla nascita della democrazia  e delle Istituzioni repubblicane.

Un po’ di storia!

Durante la seconda guerra mondiale, l’Italia era divisa in due: al nord Benito Mussolini e i Fascisti avevano costituito la Repubblica Sociale Italiana vicina ai tedeschi e al Nazismo di Hitler. Al sud, in opposizione, si era formato il governo Badoglio in collaborazione con gli Alleati americani e inglesi. Per combattere il dominio nazifascista i Partigiani programmarono la Resistenza.
I partigiani erano uomini, donne, giovani, meno giovani, sacerdoti, militari, di diverse estrazioni sociali, di differenti ideologie politiche e religiose, ma tutte persone spinte dalla volontà di lottare con gli ideali di conquistare la democrazia, il rispetto della libertà individuale, l’unione e l’uguaglianza del popolo italiano.
Il 25 aprile del 1945 i Partigiani, supportati dagli Alleati, entrarono vittoriosi nelle principali città italiane. Esattamente il 25 aprile ricorda la liberazione di Torino e di Milano da parte dei partigiani al termine della seconda guerra mondiale. In seguito furono liberate altre città dell’Italia settentrionale: Bologna il 21 aprile, Genova il 26 aprile, Verona il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.
La fine della guerra per l’Italia intera avvenne i primi giorni del mese di maggio.
Il 25 aprile del 1945, alle 8:00 del mattino, attraverso la radio, dall’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, formato da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini, Leo Valiani, Rodolfo Morandi, Giustino Arpesani e Achille Marazza fu proclamata ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte di tutti i gerarchi fascisti.
Mussolini fu fucilato tre giorni dopo.
La Liberazione mise fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra. Rappresentò, pertanto, l’inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno del 1946 per la scelta fra la Monarchia e la Repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana fino alla stesura definitiva della Costituzione Italiana. Il primo governo provvisorio, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”), confermò la data del 25 Aprile dal 1946 giorno di festa nazionale.
L’articolo 1, infatti, così recita: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale“. La Legge n. 260 del 27 maggio 1949 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive”) rese definitiva la giornata festiva della Liberazione.
Il 25 Aprile è festa nazionale! Osservano il giorno festivo le scuole, gli uffici, le attività commerciali e artigianali con la sospensione delle attività lavorative su tutto il territorio nazionale. In molte città italiane ogni anno si organizzano manifestazioni, cortei e commemorazioni.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Roma, recatosi all’Altare della Patria, ha onorato il Milite ignoto deponendo una corona d’alloro. Durante la cerimonia di commemorazione ha espresso particolari apprezzamenti per gli uomini delle Forze Armate che assolvono i compiti loro assegnati dalla Carta Costituzionale con alto senso del dovere. Ha dettoanche che “la nostra Repubblica si fonda sul 25 Aprile”. “E’ sempre tempo di Resistenza contro guerre e violenze”.
A Licata il 25 Aprile ci sono stati tanti momenti celebrativi: la santa Messa, celebrata nel santuario di Sant’Angelo in ricordo dei Caduti di tutte le guerre e di quelli della Liberazione; il Corteo a cura  delle segreterie CGIL-CISL- UIL- A.N.P.I.
In Piazza Progresso il sindaco di Licata Angelo Cambiano

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ha accolto S.E il Prefetto S.E. Nicola Diomede, i Sindaci provenienti da altri paesi della provincia di Agrigento, le forze dell’Ordine e i civili presenti.

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In Piazza Progresso si è svolta la cerimonia ufficiale proposta dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo; la rassegna di picchetto interforze da parte del Prefetto di Agrigento;

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 l’alzabandiera e l’esecuzione del “l’Inno di Mameli” dagli alunni dell’Istituto Comprensivo “Francesco Giorgio” che hanno suonato anche “L’inno alla Gioia” di Ludwig Van Beethoven; è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa;

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 Una corona d’alloro è stata deposta ai piedi del monumento ai Caduti della I° e della II° guerra mondiale;

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 è stato letto il messaggio del Ministro della Difesa; è intervenuta sull’argomento la Prof.ssa Carmela Zangara.
S.E il Prefetto di Agrigento ha consegnato alcuni testi sulla Costituzione ad una rappresentanza di giovani che oggi hanno compiuto diciotto anni d’età.

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Una corona d’alloro è stata anche deposta anche ai piedi del monumento sito dentro la villetta “G.Garibaldi” a Licata per ricordare il coraggioso soldato e partigiano Raimondo Severino, nato a Licata il 22/02/1923, torturato e trucidato pubblicamente dagli aguzzini repubblichini nella piazza di Borzonasca il 21/05/1944. Raimondo Saverino ha combattuto giovanissimo la Seconda Guerra Mondiale col 241° Reggimento Fanteria “Imperia”, fu colpito in Grecia e rimpatriato.
Appena guarito dalle ferite, riacquistata la sua agilità,fu riassegnato alla caserma “Piave” di Genova.
Quando seppe dell’armistizio, si rifugiò sui colli genovesi per unirsi ai partigiani della brigata “Cichero”.
Scelse come nome di battaglia “Severino” e si distinse  per il suo intrepido coraggio.
Catturato dai tedeschi durante un rastrellamento, riuscì a fuggire e a tornare dai suoi compagni. Appena sopra Chiavari, sui monti della Rondara, i nazisti lo catturarono di nuovo.
Volevano da lui  informazioni sulla resistenza ligure.
Lo legarono e continuarono a chiedergli: « Dov’è la tua banda? Dov’è il tuo Comandante? Ti libereremo se ci darai queste informazioni».
Continuò a ripetere in dialetto siciliano: « Nun u sacciu ».
Condotto sulla piazza principale di Borzonasca fu fucilato. Il corpo di Raimondo Severino rimase tre giorni nella piazza del paese a scopo intimidatorio. Fu il primo caduto della “Cichero”.

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Licata è stata la prima città ad essere liberata dal governo fascista e dall’occupazione nazista.
Nella mostra dello sbarco, allestita nel chiostro Sant’Angelo dalla Pro Loco di Licata,  sono esposti i cimeli, la   foto identificativa del primo soldato dell’esercito americano caduto sulla spiaggia di Mollarella, (foto pervenuta grazie al nipote del milite tramite il sig. F. Sciarrotta), le divise militari (donate dal sig. R. Bilotta), una bicicletta utilizzata dall’US ARMY e tanto altro ancora.

 

 

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A Torre di Gaffe è stata deposta una stele commemorativa dello sbarco degli alleati in Sicilia e l’inizio della liberazione, avvenuto il 10 luglio del 1943.

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In Via Guglielmo Marconi si possono visitare i rifugi anti-aerei che si snodano sottoterra del centro storico di Licata.
Anche la Natura omaggia l’Italia con la coltivazione della pianta di ARBUTUS  UNEDO

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 L’Arbutus unedo è una pianta della famiglia delle Ericaceae originaria dell’Irlanda e diffusa nei paesi del Mediterraneo. In Italia l’Arbutus unedo è l’unica specie del genere Arbutus diffuso in tutte le regioni centrali della penisola dove spesso forma piccoli boschetti; è assente in Val d’Aosta, in Piemonte, in Lombardia, nel Trentino Alto Adige e nel Friuli Venezia Giulia. Cresce dal livello del mare fino a 1000 metri di quota.
La leggenda vuole che fu proprio il Corbezzolo ad ispirare i colori della bandiera nazionale. E’ chiamato “l’albero d’Italia” poiché la presenza contemporanea del verde delle foglie, del bianco dei fiori e del rosso dei frutti  diede origine ai colori del tricolore italiano tanto da diventare, durante il Risorgimento, il simbolo dell’ Unità Nazionale.

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Virgilio, nelle “Georgiche”, indica questa pianta semplicemente col nome “Arbutus”, “Arbusto”, mentre Plinio il Vecchio la denomina “unedo”, da “unus”, “uno” ed “edo”, “mangio”, vale a dire ne “mangio uno solo” per indicare che il frutto, sebbene buono da mangiare, non è gradevolissimo e l’assunzione eccessiva, per la presenza di un alcaloide nella polpa, potrebbe causare probabili inconvenienti a persone ipersensibili, quindi è consigliabile “mangiarne uno solo”. Dall’unione di questi due antichi termini deriva il nome scientifico della specie Arbutus unedo attribuito dal naturalista Linneo nel 1753.
Volgarmente è chiamato “Corbezzolo”. Il Corbezzolo ha dato il nome al monte Conero, il promontorio più importante del medio Adriatico alto 573 metri a sud della città di Ancona. Il nome Conero deriva dal greco “Кόμαρος”, che vuol dire “Corbezzolo”.
Il Corbezzolo, chiamato anche “Ciliegio di mare”, è un arbusto molto diffuso nei boschi del Conero e che produce frutti molto apprezzati localmente. Il Corbezzolo nelle diverse regioni d’Italia ha tanti altri nomi. In Calabria si chiama “Cucummaràra, Mbriacunedi, Cacùmbaru, Chùmma”, in Campania “Accummaro, Soriva pelosa”, in Liguria “Armôn” è l’albero e il frutto, “murta” sono le foglie, in Umbria “cerasa marina, lallarone”, in Toscana “albatro”, in Sardegna “Alidone, Arbòsc, Cariasa, Ghilisoni, Lidone, Mela de Lidone, Olidone, Olidoni, Olioni, Orioni, Ulioni”, in Sicilia “Per’i ruggia,” e “ ‘Mbriacula” perché fa ubriacare. Altri nomi comuni sono:“Fragolon, Pomino rosso, Elioni, Urlo, Tirosetto, Cerosa marina, Musta”. In francese si chiama “Arbousier”, in  inglese ”Strawberry tree fruits”, in spagnolo “Madroño”, in tedesco “Westliche Erdbeerbaum ”.

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 L’Arbutus unedo è un arbusto compatto, elegante, molto ramificato, pollonifero, a crescita lenta. Presenta il fusto alto circa 2 metri, ma può raggiungere anche i 12 metri, dritto, tendente ad inclinarsi e a contorcersi, rivestito dalla scorza sottile, rossiccia, vellutata nei rami giovani, successivamente finemente e regolarmente desquamata in lunghe e strette placche verticali di colore bruno. Le foglie, molto decorative, addensate all’apice dei rami, semplici, alterne, di consistenza coriacea, glabre, brevemente picciolate, hanno la lamina lanceolata con apice acuto e con margine seghettato, la pagina superiore lucida e di colore verde scuro, la pagina inferiore opaca, di colore verde chiaro e presenta anche nervature prominenti rossastre nelle giovani foglie. La chioma è densa, tondeggiante e, a volte, un po’ disordinata.

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La bella peculiarità è la presenza dei fiori delicati ed ermafroditi. Piccoli racemi penduli portano da 15 a 35 fiori presenti da ottobre a marzo dell’anno successivo nella parte terminale dei rami dell’anno. Il fiore è formato da un piccolo calice e da una corolla di colore bianco-avorio, lucida, orciolata, ristretta all’orlo e rigonfia nel centro, appunto come un otre, che termina con cinque denti rivolti verso l’esterno. Fiorisce nei mesi di marzo-aprile.

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 Alla fioritura segue la maturazione dei frutti tra settembre e novembre dell’anno successivo contemporaneamente alla nuova fioritura di modo che la pianta ospita insieme fiori, frutti immaturi e frutti maturi, fenomeno che la rende particolarmente ornamentale. I frutti, chiamati “corbezzole”, commestibili, sono bacche carnose quasi rotondeggianti, con la superficie rugosa, irta di numerosi e piccoli tubercoli. La polpa, ambrata, succosa e di sapore dolciastro, è ricca di vitamina C.
Le bacche sono divise in loculi e ciascun loculo racchiude numerosi minuscoli semi ellittici di colore brunastro-chiaro lunghi 2-3 millimetri, spigolosi, caratterizzati da una scarsa germinabilità. In autunno si possono osservare il fiore bianco ed il frutto nelle varie fasi di maturazione: di colore verdastro quando è acerbo, di colore giallo in una fase intermedia e di colore rosso-arancio quando è completamente maturo.

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I corbezzoli possono essere consumati crudi, cosparsi di zucchero o con l’aggiunta di un vino liquoroso e in confettura. E’ importante mangiarli al giusto punto di maturazione, troppo immaturi o troppo maturi possono non essere gradevoli al sapore.
Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta ci sono diverse piante di Arbutus unedo e i mistrettesi chiamano i suoi frutti “ ‘miriacoli” perchè dicono che, mangiandone molti, fanno ubriacare.
I Greci amavano molto consumare i frutti perché l’uso abbondante creava un piacevole stato di ebbrezza. Ogni anno organizzavano la festa del Corbezzolo durante la quale si ubriacavano e socializzavano più facilmente tra loro. La propagazione avviene per seme in primavera o per talea semilegnosa in inverno, ma anche per margotta, per propaggine o per divisione di polloni.
La potatura va eseguita con molta attenzione poiché, per tutto l’arco dell’anno, la pianta presenta fiori e frutti, pertanto si eliminano le parti secche o danneggiate e i rami disarmonici. La fronda recisa con i frutti immaturi è utilizzata per decorazioni floreali.
La pianta ha uno spiccato potere pollonifero dovuto ad un ingrossamento ipogeo del fusto che funge da riserva nutrizionale per cui, anche se soggetta a continui tagli o all’aggressione degli incendi, riesce sempre a sopravvivere riemettendo numerosissimi getti dopo il passaggio del fuoco e ricostituendo, in tempi relativamente brevi, la vegetazione delle aree colpite e imponendosi sulle altre specie.
L’Arbutus unedo possiede un legno rossastro particolarmente dolce che può essere utilizzato per realizzare arnesi per alimenti e per piccoli lavori artigianali. In Sardegna i pastori lo utilizzano per realizzare “su pilìsu“, il particolare strumento impiegato per rompere la cagliata; è anche un ottimo combustibile e, non emettendo odore durante la combustione, è molto apprezzato come legna da ardere.
Il Corbezzolo dà altre gradite sorprese: ospita molti uccelli, insetti e mammiferi, che si cibano in gran quantità delle sue bacche mature preparandosi ad affrontare il lungo e freddo inverno, e la Charaxes jasus, la bellissima farfalla dai colori meravigliosi, chiamata la “farfalla del Corbezzolo” perché vive esclusivamente sulle foglie di questa pianta.
Il Corbezzolo è una pianta facile da coltivare. Predilige le aree soleggiate, ma tollera molto bene anche una parziale ombra posto su terreni acidi, anche se si adatta su quelli argillosi, ricchi di materia organica e ben drenati. Può resistere a temperature minime molto basse, ma mal sopporta le gelate precoci o tardive e non gradisce i venti freddi e secchi. Non richiede grandi quantità d’acqua ed è opportuno interrare del buon concime organico ai piedi della pianta in primavera per favorire lo sviluppo ottimale. Teme anche alcuni parassiti.
Gli eccessi d’umidità possono provocare attacchi da parte di alcuni funghi: l’Alternaria causa sulle foglie delle aree necrotiche circolari con alone rossastro; il Septoria unedonis causa maculature tra le nervature e sui lembi fogliari. L’Elsinoe matthiolianum aggredisce solitamente le foglie più giovani formando dapprima piccole macchie traslucide e, in seguito, bollicine di colore bruno che, al loro disseccamento, bucano il lembo.
Tra gli insetti sono principalmente riscontrabili: l’Otiorrynchus sulcatus, la cui presenza si nota per le erosioni sulle foglie;l’Afide verde del Corbezzolo, il Wahlgreniella nervata arbuti, che vive sulla pagina inferiore delle foglie più giovani. Varie specie di tripidi causano malformazioni dei fiori e dei frutti.
La pianta, già conosciuta ed usata in tempi antichi, da Dioscoride e da Galeno era ritenuta nociva per la testa e per lo stomaco. In età medioevale la peste era combattuta mescolando la polvere di “osso di cuore” di cervo con l’acqua distillata dalle fronde di Corbezzolo. Era annoverata tra le cosiddette “Erbe di S. Giovanni“, ricorrenza che cade nel solstizio estivo.
A tale proposito, davanti alle chiese si allestivano mercati delle erbe dove anche il Corbezzolo faceva bella mostra di sè insieme con altre essenze: aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, lavanda, mentuccia, salvia, rosmarino, biancospino, artemisia, ruta. Era considerata anche “erba cacciadiavoli e cacciastreghe” perché si credeva che diavoli e streghe viaggiassero, per partecipare ai loro convegni, proprio nella notte di S. Giovanni.
In fitoterapia le parti usate sono: i fiori, i frutti, le foglie, la corteccia e le radici.
Con le foglie e i frutti si ricavano tisane, infusi ed estratti. I fiori hanno azione sudorifera e diaforetica. Le foglie contengono l’arbutoside, un principio attivo che conferisce loro proprietà diuretiche e antisettiche del tratto uro-genitale, dell’apparato gastrico ed epato-biliare. I frutti, consumati nella giusta quantità, hanno azione astringente e quindi possono essere utilizzati come antidiarroici. Il decotto della radice, della corteccia, delle foglie e del frutto è utilizzato come antinfiammatorio, antiarteriosclerotico, diuretico e nei disturbi renali in generale.
Nell’industria alimentare il Corbezzolo ha numerosi impieghi. Specie mellifera, molto visitata dalle api, offre il famoso miele amaro della Sardegna e della Corsica che ha notevoli proprietà curative nelle affezioni bronchiali di tipo asmatico. Dalla fermentazione dei frutti si ricava il “Vino di corbezzolo” consumato soprattutto in Sardegna, in Algeria e in Corsica. In alcune regioni italiane è consuetudine utilizzare i frutti del Corbezzolo per preparare sciroppi, gelatine, frutta candita, marmellate, il “vino albatrino”, bibite molto dissetanti, una buonissima acquavite, e perfino un tipo d’aceto.
Il frutto entra volentieri anche nei piatti di carne sotto forma di salse.
Nei tempi passati le foglie del Corbezzolo, essendo ricche di tannini, erano usate per la concia delle pelli.
I romani attribuivano al Corbezzolo poteri magici. Virgilio, nell’Eneide, racconta che i parenti del defunto depositavano sulla sua tomba rami di Corbezzolo. Un’orsa, appoggiata ad un albero di Corbezzolo, è il simbolo della città di Madrid. Nella tradizione ligure è usato, assieme all’Alloro, nel carro del “Confuoco“, il carro che portava al podestà doni per dare, con i suoi frutti maturi, una nota di colore. Sempre in Liguria si usava mettere sul portale della propria casa un ramo di Corbezzolo con tre frutti maturi come segno di benvenuto quando si dovevano ricevere ospiti importanti. I vecchi liguri trattavano il Corbezzolo con un certo riguardo tanto da attribuirgli un notevole valore affettivo, chiamandolo, secondo la zona, “armuinermuin”, e perfino “ermelin”, cioè “ermellino” per indicare la sua preziosità.
Nel linguaggio dei fiori la bianca campanula è sinonimo “di ospitalità e di stima”.
Nella tradizione popolare il frutto simboleggia “l’amore”, sempre raffigurato di colore rosso, non disgiunto dalla gelosia che ha il colore giallo: il frutto maturo ha, infatti, la peculiarità di essere rosso fuori e giallo dentro; per tale motivo agli innamorati gelosi era maliziosamente regalato dagli amici intimi un ramo di Corbezzoli.

Apr 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA DRACUNCULUS VULGARIS NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Finalmente nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta sicuramente è fiorita la Dracunculus vulgaris. Un po’ in ritardo perché la vera primavera è stata molto lenta a presentarsi.
Per poter fotografare il suo fiore l’anno scorso sono venuta da Licata a Mistretta ben quattro volte, ma finalmente  ci sono riuscita!
Il nome della pianta di Dracunculus vulgaris ha conservato la sua origine latina “Dracunculus”, “piccolo drago”, nome botanico attributo a questa specie da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, anche se l’aveva usato per descrivere almeno altre due specie vegetali. Questo termine si riferiva al fusto punteggiato, simile alla pelle di serpente e, nel caso di altre piante, alla forma delle radici. Un altro nome della specie è Arum dracunculus.
Carl von Linné riprese il nome e lo usò come attributo nel binomio Arum dracunculus.
I greci antichi usavano il nome “δρακόντος”, “drago, grosso serpente” ma applicavano il nome “άρος”, “sciagura” comprendendo specie oggi classificate come Arum.
Già nel XVII secolo Philip Miller suggerì il nome Dracunculus per un genere a parte.
Nel 1832 Heinrich Wilhelm Schott (1794-1865), direttore dei Giardini Imperiali di Vienna, propose il nome Dracunculus vulgaris.
La specie è conosciuta con tanti altri nomi. In Italia sono relativamente comuni i nomi: “Dragontea”, “Dragonea”, “Dragonzio”, “Erba serpentona”, “Erba serpona”, “Serpentaria”. Altri sinonimi sono: “Arum dracunculus, Aron dracunculus, Dracunculus dracunculus, Dracunculus major, Arum guttatum, Dracunculus polyphyllus, Dracunculus creticus, Dracunculus vulgaris”.
Il nome Serpentaria è stato creato dalla credenza popolare perché si pensava che i serpenti trovassero riparo sotto le sue fronde o perché le macchie di colore rosso-bruno del fusto ricordano la pelle di un serpente. Il nome specifico “vulgaris” deriva dal latinocomune”, quindi “piccolo drago comune”.

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Appartenente alla famiglia delle Araceae, la specie è originaria della regione mediterranea centro-orientale: Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Corsica, Creta, Croazia, Isole dell’Egeo, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Turchia dove cresce sia nel sottobosco sia in radure e in terreni rocciosi. In Italia è distribuita in Sicilia, in Sardegna e in poche altre regioni. Mentre in passato in Italia era diffusa dal Nord fino all’estremo sud della penisola, come riferisce Filippo Parlatore nella sua Flora Italiana del 1853, incerta è oggi la sua presenza in Piemonte ed Umbria e non si incontra in Abruzzo e in Puglia.
La Dracunculus vulgaris è una pianta erbacea perenne tuberosa che vegeta bene fino a 1000 metri di quota. E’ provvista di una particolare radice sotterranea detta tubero. Il fusto, eretto, alto fino ad un metro, glabro, grosso, è di colore verde scuro chiazzato di bianco. Inizialmente la pianta presenta un gruppo di foglie che si ergono dal centro del tubero sotterraneo e che poi avvolgono lo stelo del fiore.
Le grandi foglie, lunghe 30-40 centimetri, molto decorative, sono sorrette da un lungo picciolo da cui parte  perpendicolarmente la lamina fogliare. Essa, di colore cangiante tra il verde chiaro e il verde scuro, lucida con rade macchie lineari bianche, presenta due nervature principali che la incidono profondamente in 5 – 7 lacinie lanceolate, quasi a simulare una foglia palmato-composta, con margini ondulati e appuntiti all’apice. In estate assume una colorazione rossa e non rimane in inverno.

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  La chioma tende a crescere sia in altezza, sia in larghezza facendo assumere alla pianta la forma di un arbusto arrotondato. L’antesi avviene tra aprile e maggio. Lo stelo fiorale, di colore giallo-verde, emerge dalle foglie dando origine ad una delle più spettacolari infiorescenze della flora Italiana.
L’infiorescenza a spiga, nominata spadice, lunga fino a 60 centimetri, è avvolta da un’ampia brattea dai bordi ondulati, detta spata, che ha la pagina superiore prevalentemente di colore rosso-violaceo molto scuro e vellutata e la pagina inferiore di colore verde chiaro. Essa è chiusa alla base a formare la camera floreale cilindrica che agisce da trappola per gli insetti. La spata e lo spadice sono glabri. Lo spadice, che nella porzione racchiusa dalla camera floreale porta numerosi piccoli fiori unisessuali separati da alcuni fiori sterili, si prolunga all’esterno con una lunga appendice violacea a forma di clava.
Contemporaneamente all’apertura dei fiori femminili, l’appendice dello spadice emana un fortissimo odore nauseabondo di carne in putrefazione, odore che permane per un intero giorno associato ad un innalzamento della temperatura ben più alta di quella dell’ambiente.
Gli insetti impollinatori sono attirati nella camera florale dall’intensa secrezione zuccherina di cui sono avidi e dal calore dell’ambiente prodotto dell’attività termogenerativa dei fiori maschili che producono il polline. Il calore permette la vaporizzazione di queste sostanze e gli insetti attirati rimangono imprigionati da due corone di peli rivolti verso il basso. I fiori femminili occupano la parte inferiore della camera floreale, quelli maschili la parte superiore. I fiori femminili sono ricettivi prima dei fiori maschili. Questo fenomeno impedisce l’autofecondazione.
Nel tentativo di uscire, gli insetti si caricano le zampette di polline. Avvenuta la prima impollinazione, l’infiorescenza perde il suo turgore, i peli interni appassiscono, gli insetti, liberati, fuoriescono e vanno ad impollinare altri fiori continuando l’importante compito che la Natura ha loro affidato.
L’attività dell’infiorescenza si può protrarre per 3 – 4 giorni mantenendo quasi invariata la bellezza della spata e dello spadice, soprattutto se la pianta viene annaffiata abbondantemente. La fioritura di piante di grandi dimensioni può durare anche 20 giorni poiché si aprono progressivamente infiorescenze secondarie. Dopo l’impollinazione, le foglie cominciano ad appassire. Lo stelo, da solo, sorregge l’infruttescenza composta da numerosi frutti molto decorativi.
Sono le bacche piriformi lunghe qualche centimetro che, inizialmente, sono di colore verde,  poi, maturando a fine estate o all’inizio dell’autunno, assumono un colore rosso-arancio. Le bacche contengono pochi semi compressi e lunghi 4 – 5 millimetri e di colore bruno. La riproduzione avviene per seme.
Occorrono da tre a cinque anni prima che la pianta fiorisca per la prima volta. Si può praticare anche la divisione dei tuberi durante il riposo vegetativo. Raccolti e conservati in un ambiente asciutto, si ripianteranno in primavera o in autunno. Ogni sezione da ripiantare deve contenere almeno una gemma. I tuberi vanno collocati alla profondità pari almeno al triplo della loro altezza e distanziati l’uno dall’altro di circa 30 centimetri poiché la pianta si espande notevolmente, soprattutto al momento della fioritura.
I tuberi possono essere lasciati indisturbati nel terreno anche per diversi anni. Non richiede potatura se non per eliminare le parti danneggiate.
La Dracunculus vulgaris è coltivata per la bellezza delle foglie e dell’infiorescenza ma, per l’odore nauseante, è consigliabile sistemarla lontano dai luoghi d’incontro dei frequentatori del giardino.
Nella villa comunale di Mistretta la pianta delle fotografie presenti in questo articolo era collocata vicino alla casa degli attrezzi e faceva compagnia alla Digitalis purpurea. Durante la mia scorsa permanenza a Mistretta, nella prima decade del mese di Aprile, sono andata a visitarla, ma non c’era più..Nello giardino, però, sono presenti altre piante. Il signor Orazio Scilimpa, il giardiniere della villa, è una buona guida alla scoperta di qualche altra pianta di Dracunculus vulgaris.
Il fiore della Dracunculus vulgaris dura schiuso solo pochi giorni e, per gli entusiasti delle Araceae, il suo repellente odore è solo un fattore secondario rispetto al suo fascino da molti considerato come il più spettacolare delle Araceae europee.

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La Dracunculus vulgaris è una pianta semirustica, adatta ad essere coltivata nel giardino, ma anche nei vasi di terracotta in terrazza. Preferisce essere esposta in un luogo luminoso affinché il sole possa colorare bene la spata, ma accetta anche zone semi-ombrose. Si adatta bene a qualsiasi tipo di terreno preferendo un suolo ricco di materia organica, sufficientemente umido e ben drenato poiché i ristagni d’acqua favoriscono l’attacco dei funghi.
La fertilizzazione deve essere eseguita con concimi organici una volta all’anno all’inizio del periodo vegetativo. Sa resistere alle alte e alle basse temperature, ma la pianta  va comunque protetta dalle gelate tardive durante la ripresa vegetativa in primavera. Teme il vento, la causa di un’eccessiva traspirazione. La Dracunculus vulgaris è una pianta velenosa e, come tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Araceae, contiene una quantità elevata di principi tossici molto fastidiosi per la salute. Tutte le parti della pianta contengono sostanze potenzialmente irritanti.
L’insieme di queste sostanze può provocare dermatiti e irritazioni al contatto diretto.
L’ingestione, specie dei frutti, può provocare nausea, vomito, diarrea, crampi muscolari. I Tulipani, le Fritillaria, i Narcisi, gli Iris, gli Hemerocallis e il Dracunculus sono piante Monocotiledoni che regalano fiori molto appariscenti.

 

 

Apr 2, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CEDRUS ATLANTICA

IL CEDRUS ATLANTICA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, assieme al Cedrus deodora, vegeta bene il Cedrus atlantica di cui un bellissimo esemplare è quasi addossato al Quercus ilex.

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Il Cedrus atlantica è denominato “Cedro dell’Atlante” perché la sua patria d’origine è l’Africa settentrionale: l’Algeria e il Marocco e, più precisamente, la catena montuosa dell’Atlante dove vegeta tra i 1200 e i 2500 metri d’altezza e dove forma boschi puri e misti con altre conifere e latifoglie.
Il Cedro dell’Atlante fu introdotto in Europa per la  prima volta, precisamente in Inghilterra, intorno al 1839 e, nel nostro Paese, come specie ornamentale, nel I842.
Tra i molti alberi monumentali presenti in Italia il più notevole è, probabilmente, quello che si trova nel parco di un’antica villa di Montalenghe, in provincia di Torino, ad un’altitudine di 360 metri. E’ alto 36 metri, ha una circonferenza alla base di 13 metri ed un’età stimata di 300 anni.
Il Cedrus atlantica è una conifera fra le più maestose appartenente alla famiglia delle Pinaceae.
Albero dal portamento conico, può raggiungere, allo stato spontaneo, l’altezza di 50 metri nelle regioni d’origine, mentre in Europa supera raramente i 30 metri. Possiede il tronco dritto, cilindrico, terminante con la cima sempre eretta, ramificato fin dalla base, con palchi di rami inferiori quasi orizzontali, carattere più accentuato negli esemplari adulti, e rivolti verso l’alto a formare un angolo acuto.

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E’ rivestito dalla corteccia di colore grigio bruno, screpolata e ricca di strette fessure. I rami brevi hanno molte più foglie di quelli lunghi. Le foglie, aghiformi, di colore verde scuro, persistenti, rigide, pungenti, lunghe fino a 2 centimetri, sono riunite a ciuffi di 25, 30 sui rami dell’anno precedente, sono singole e solitarie sui germogli dell’anno in corso. L’insieme degli aghi forma la chioma piramidale.
E’ un albero monoico. I fiori,molto primitivi, sono unisessuali e portati sulla stessa pianta. La fioritura avviene in autunno per i fiori maschili, in seguito fioriscono i fiori femminili.
Gli amenti maschili, numerosissimi, compaiono in estate. Sono formati da lunghi coni di colore giallo ocra, eretti e di forma più o meno cilindrica, lunghi fino a 5 centimetriche, in autunno, liberano il polline in nuvole gialle che, affidato al vento, viene trasportato lontano.
Le strutture riproduttive femminili sono formate da coni di forma ovoidale. Sono lunghe anche 9 centimetri, hanno l’apice smussato, di colore verde-glauco, sono resinose e, a maturità, diventano legnose, brunastre e con sfumature verdastre.
I coni femminili, a forma di barile eretto, con apice concavo, hanno squame molto larghe, a ventaglio, con margine arrotondato, che si staccano liberando i semi e lasciando sull’albero l’asse centrale. La maturazione degli strobili avviene in due anni. Fruttificazione avviene all’età di circa 30 anni. La propagazione avviene, oltre che per seme, anche per talea.

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 Il Cedro dell’Atlante è una pianta relativamente rustica, longeva, può vivere anche 3000 anni, rapida nella crescita, utilizzata a scopo ornamentale nei parchi e nei giardini per il suo portamento elegante che dà effetti decorativi molto affascinanti.
Esistono diverse varietà: il Cedrus atlantica varietà “glauca”, che presenta il fogliame azzurro e il portamento colonnare, la varietà “pendula”, che presenta le branche divaricate e i rami penduli di notevole effetto estetico e la varietà “fastigiata”, che presenta rami asimmetrici e chioma irregolare. Durante il recente restauro botanico nel giardino di Mistretta sono stati trapiantati due piccoli alberi di Cedrus varietà “fastigiata” posti sotto la ringhiera.

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 Il Cedrus atlantica, specie eliofila, vegeta bene nel giardino di Mistretta perchè è stato collocato in un ampio spazio dove riceve la luce del sole per diverse ore del giorno. Gradito è il substrato sciolto, profondo, ben drenato, siliceo e ricco di nutrimenti. Non necessita di troppe annaffiature, bisogna intervenire solo quando il terreno è asciutto. Resiste relativamente bene al freddo e sopporta temperature di molti gradi inferiori allo zero, risulta, però, sensibile alle gelate intense e prolungate e agli inquinamenti atmosferici.
Il legno del Cedrus atlantica è bruno, molto odoroso, durevole nel tempo, lavorabile ed apprezzato in quanto resiste agli agenti atmosferici. E’ adatto, in particolare, per costruzioni, per mobili, per sculture e per lavori d’ebanisteria. Il suo intenso odore allontana gli insetti. Il legno era usato come incenso sin dalle civiltà più lontane, come quelle degli Egizi e degli abitanti del Tibet. E’ ancora ampiamente usato nella medicina tibetana.
I buddisti tibetani usano un bastone di legno di Cedrus atlantica durante le loro meditazioni perché, secondo loro, è ritenuto capace “di rinforzare la spiritualità e di avvicinarli al mondo Divino”.
Per la sua maestà e per la sua imponenza, il Cedro ispirò in ogni tradizione i simboli “dell’immortalità, dell’eternità, della grandezza e della potenza, del divino”. L’associazione del Cedro con il divino permane nel corso del tempo. Nella religione  cristiana si narra che l’albero che diede il legno per la croce di Cristo fu derivato da tre virgulti di Cedro, di Cipresso e di Pino, piantati ai tempi di Abramo, che si unirono miracolosamente insieme a formare un solo tronco indivisibile.
Per questo motivo il legno era usato nella costruzione dei loro templi. In Mesopotamia le popolazioni assire e babilonesi costruivano con il legno di Cedro le porte e le strutture portanti dei loro templi e dei palazzi regali.

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 Il legno del Cedrus atlantica, del Cedrus deodara e del Cedrus libani fornisce degli oli essenziali molto simili tra loro, dal colore giallo ambrato, usati per profumare la casa, conservandoli nel diffusore di essenze o negli umidificatori. Nelle applicazioni fisiche, l’olio di Cedro è un antisettico e un valido mucolitico che libera le vie respiratorie dal muco accumulato. E’ usato anche come coadiuvante nella cellulite, perché stimola la circolazione sanguigna, e nella ritenzione idrica.
Come altri oli estratti da piante forti e longeve, l’olio del Cedro può aiutare a restituire vitalità ed energia durante le malattie croniche che debilitano e mettono a dura prova le capacità di resistenza e il tono generale dell’organismo. Infatti, l’energia di un albero secolare, raccolta e concentrata nel suo olio esenziale, può essere in qualche modo veicolata in alcune gocce dorate e profumate di olio e trasmessa all’organismo che ne ha necessità. In cosmetica è molto benefico per curare la pelle ruvida e asfittica, per combattere le micosi cutanee, per contrastare la caduta dei capelli e per alleviare le punture degli insetti.
Utilizzato per bagni aromatici e per massaggi tonificanti l’olio di Cedro agisce come fortificante. E’ sconsigliato l’uso dell’olio di Cedrus nelle donne in gravidanza e nei bambini. Per questi motivi i boschi di Cedri furono letteralmente decimati dalle popolazioni antiche. Il legno di Cedro rappresentava anche un’ambita merce di scambio.
I Fenici lo importarono in Egitto dove era utilizzato, oltre che per fini di costruzione e per estrarre l’olio essenziale, per scopi cosmetici, medici, rituali anche per preservare nel tempo i papiri. I sacerdoti lo usavano per purificarsi prima delle sacre cerimonie. Il legno era ritenuto incorruttibile tanto che i Romani usavano la frase “digna cedro” per indicarequalsiasi azione degna di notorietà.
Il nome “Cedro” deriva, probabilmente, dalla parola araba “kedron” che significa “potere”. Anche gli Arabi nutrono una grande venerazione per i Cedri.  Infatti attribuiscono loro non soltanto una “forza vegetativa”, ma anche “un’anima” che consente loro di dare segni “di saggezza e di intelligenza”: sono esseri divini in forma di alberi.
In Cina il Cedro è il simbolo “dell’amore fedele”, che persiste anche dopo la morte.
I Cedri sono coltivati principalmente come alberi decorativi per giardini piuttosto che come piante da essenza perché, da qualche tempo, sono divenute specie protette che non possono essere abbattute.

 

 

 

 

 

Mar 22, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CEDRUS DEODARA

IL CEDRUS DEODARA

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I Cedri sono conifere presenti nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta per il loro aspetto molto ornamentale e per la loro adattabilità alle rigide condizioni climatiche invernali. Vegetano: il Cedrus deodara e il Cedrus atlantica, invece il Cedrus libani, presente nella villa, è oramai estinto da molto tempo. Aiutiamoli a vivere bene e proteggiamoli dall’attacco dalla temeraria Processionaria, Thaumetopoea pitycampa, presente in abbondanza in questo periodo nella villa.
Il termine “Cedro” deriva dal latino “Cedrus” e dal greco “κέδρος” e indica “un albero non bene identificato”. Tutti i Cedri appartengono alla famiglia delle Pinaceae.
Il genere Cedro è originario della regione montuosa dell’Algeria e del Marocco. Alcuni autori sostengono che, in lontani periodi della storia della Terra, il Cedro abbia vegetato in Europa allo stato spontaneo. In Italia i Cedri più diffusi per la velocità di crescita e per l’adattabilità ai nostri climi sono sostanzialmente quattro: il Cedrus deodara, il Cedrus atlantica, il Cedrus libani, il Cedrus brevifolia.
Il Cedrus deodara è un maestoso albero detto “Cedro dell’Himalaya” perché nativo del versante occidentale della catena dell’Himalaya, dove è considerato sacro, ma cresce spontaneamente nella parte orientale dell’Afghanistan, nel nord del Pakistan, nel Kashmir, negli Stati nord-occidentali dell’India, in Tibet, fino al Nepal occidentale a quote da 1550 a3200 metri di altitudine e dove forma fitte foreste.
Per la sua bellezza è chiamato “l’albero degli Dei”, come indica il nome della specie “deodara” che, dal sanscrito “deva-dara”, significa appunto “albero degli Dei”.

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E’ stato introdotto in Europa nel 1822 ed è il più diffuso fra i Cedri per la sua valenza ornamentale e per il legno pregiato. E’ coltivato in Italia nei parchi e nei giardini, sia pubblici che privati, dove richiede spazi ampi.

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 E’ un albero ad accrescimento giovanile rapido, molto longevo e può vivere anche trecento anni.

E’ facilmente riconoscibile, rispetto agli altri Cedri, perchè presenta il tronco biforcato, i rametti e i germogli apicali penduli, le foglie morbide, che rendono l’aspetto della pianta particolarmente attraente. Le sue dimensioni sono notevoli: può raggiungere i 30 metri d’altezza ed una circonferenza della base del tronco di 2 metri. Il tronco è massiccio  diritto, colonnare, abbastanza spoglio in basso, mentre in alto sviluppa molte ramificazioni. E’ rivestito dalla corteccia levigata, grigio-bruna che, col tempo, si fessura finemente.

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 I rami principali sono orizzontali e gracili, con le estremità pendule e ripiegate verso il basso a formare, insieme alle foglie, una chioma a portamento largamente conico d’elevata densità. I getti sono dimorfici: quelli lunghi, i normoblasti, formano la struttura dei rami, quelli brevi, i brachiblasti, portano le foglie aghiformi. Esse sono singole e inserite a spirale sui rametti apicali giovani, mentre sono riunite in ciuffi di aghi, in numero di 30-40, sui rametti corti. I rametti sono densamente pelosi. I rami più alti degli esemplari più vecchi, in caso di forte vento, possono spezzarsi. Le foglie, tenere, sempreverdi, di colore verde chiaro tendente al grigio, sottili e flessibili, leggermente pungenti, sono lunghe da 5 a12 centimetri.

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 Il Cedrus deodara è una pianta monoica. Le infiorescenze fiorali maschili, a spiga, sono erette, lunghe da 4 a7 centimetri, prima di colore giallo verdastro, poi di colore rosso che, in autunno, liberano il polline. Le infiorescenze femminili, poco appariscenti, ovali, più piccole di quelle maschili, lunghe un centimetro appena, sono di colore verde che diventa poi bruno rossastro.

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La fioritura dei fiori maschili avviene nei mesi di settembre e di ottobre. Successivamente fioriscono i fiori femminili. L’impollinazione è anemofila. La pianta fruttifica intorno ai 30-40 anni d’età.
I frutti sono grosse pigne erette sui rami, ovoidali, lunghe fino a 13 centimetri, con apice arrotondato, resinose, legnose e che giungono a maturazione in due anni. Disintegrandosi in squame a ventaglio, si disarticolano sull’albero per lasciar uscire i semi alati, triangolari, lunghi da 10 a15 millimetri. I semi hanno due o tre capsule contenenti una resina dall’odore disgustoso ritenuto una difesa efficace contro i topi campagnoli.

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Il Cedrus deodara è una pianta piuttosto esigente riguardo alla luce e all’umidità atmosferica. Gradisce un’esposizione soleggiata, dove può ricevere la luce solare per alcune ore al giorno. Il terreno deve essere fertile, piuttosto umido e profondo dove le radici, che nel corso degli anni si diramano anche per decine di metri, possono trovare gran parte dei nutrienti. E’ consigliabile, in ogni caso, arricchire periodicamente il terreno con fertilizzanti in modo da garantire il giusto apporto di sali minerali. Necessita di annaffiature solo se il clima è particolarmente siccitoso e il terreno asciutto. E’ una pianta rustica, che non teme il freddo, le nevicate abbondanti, ma non prolungate, e il gelo fino a circa – 25 °C, che resiste all’inquinamento atmosferico.
Il Cedrus deodara è coltivato, oltre che per la sua magnificenza, anche per il suo legno resistente, profumato e dalla resina aromatica, ma meno apprezzato di quello del Cedro dell’Atlante. Nell’arcieria tradizionale il legno di Cedro è usato per la costruzione delle frecce.
Il Cedro è una pianta d’importanza storica e mitologica. In India è simbolo “di fertilità, di durezza, di incorruttibilità, di distinzione in santità e in sincerità”. Probabilmente il simbolismo è legato alle qualità del legno che è durevole e molto aromatico, pur non avendo canali resiniferi, e molto resistente all’attacco degli insetti. E’ quanto afferma Origene, il teologo e filosofo del II secolo, commentando il Cantico dei cantici : “Il Cedro non marcisce; fare in Cedro le travi delle nostre case è preservare l’anima dalla corruzione“. Fin dall’antichità, ha avuto un certo legame con il sacro.
Il Cedro, per le sue notevoli dimensioni, è stato eletto ad emblema della grandezza, della nobiltà, della forza e dell’immortalità. Salomone, per la costruire la struttura del tempio di Gerusalemme e della sua reggia, 950 anni prima della venuta di Cristo, utilizzò il profumato legno di cedro, il più pregiato che allora si conoscesse, come si legge nel Primo libro dei Re (6,18) nella Costruzione del tempio: “Il cedro all’interno del Tempio era scolpito a rosoni e a boccioli di fiori; tutto era in cedro e non si vedeva una pietra “.
Ancora, nel Primo libro dei Re (5,22-24), nel Trattato con Chiram è scritto: “Chiram mandò a dire a Salomone: <Ho ascoltato il tuo messaggio; farò quanto desideri riguardo al legname di cedro e di abete. I miei servi lo caleranno dal Libano al mare; io lo metterò in mare su zattere fino al punto che mi indicherai. Là lo scaricherò e tu lo prenderai. Quanto a provvedere al mantenimento della mia famiglia, tu soddisferai il mio desiderio>. Chiram fornì a Salomone legname di cedro e legname di abete, quanto ne volle“.
Il Cedro è anche simbolo di “bellezza”. Ezechiele (17,22-24), nella Promessa del re Messia, utilizza il Cedro come simbolo “del Messia e del suo Regno”: “Dice il Signore Dio: Io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio segare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò“.
Nella sua terra d’origine, data l’importanza religiosa, è noto anche come “Abete sacro indiano”. Spesso è rappresentato in affreschi e in mosaici greco-romani. Numerose sono le statue di idoli scolpite nel legno di Cedro. Amos (2,9) in Contro Israele scrive: “Eppure io ho sterminato davanti a loro l’Amorreo, la cui statua era come quella dei cedri, e la forza come quella della quercia; ho strappato i suoi frutti in alto e le sue radici di sotto”.
Gli Egiziani usavano il legno di Cedro per costruire i sarcofagi dei faraoni. I Fenici realizzarono ampie barche diventando grandi commercianti ed esperti navigatori, soprattutto quando riuscirono a superare lo Stretto di Gibilterra.
Dal legno di Cedrus deodara si estraeva l’olio, “oleum deodarae”, con il quale gli Indù usavano profumare gli ambienti. Gli Arabi considerano l’albero l’”essere divino sotto forma di pianta” o il “candelabro del cielo”.
Per la maestosità, per la resistenza, per la longevità, un piccolo albero di Cedrus deodara è stato trapiantato in un’aiuola della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” dai giovani studenti delle Scuole di Mistretta il 10 febbraio del 2010  in memoria delle vittime delle Foibe.

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Mar 9, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ ABIES DOUGLASIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ ABIES DOUGLASIA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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 La villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è un piccolo cosmo che ospita tantissime essenze vegetali provenienti da diverse parti del mondo. L’Abete di Douglas proviene dall’America settentrionale.

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Il nome botanico latino della specie presente nel giardino di Mistretta è Pseudotsuga menziesii.
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inonimi della stessa pianta sono: “Pseudotsuga taxifolia,Douglasia, Abete di Douglas, Abete americano, Pino dell’Oregon”.
 Il Pseudotsuga menziesii è una conifera sempreverde della Famiglia delle Pinaceae. Esso ha un areale molto ampio, sia per latitudine sia per altitudine, che si estende dalle regioni canadesi fino al sud-ovest degli Stati Uniti. Particolarmente diffuso negli Stati di Washington e nell’Oregon, in California si trova sulle Klamath Muontains fino a raggiungere a sud la Sierra Nevada. Il suo habitat varia dal livello del mare sino ad un’altezza di 1800 metri. L’Abete di Douglas, prima dell’ultima era glaciale, era indigeno in Europa. Dall’America settentrionale, dove si è potuto conservare e dove rappresenta un’importante fonte di legname, si è ampiamente diffuso altrove.

Il merito di aver introdotto l’Abete di Douglas in Europa spetta al botanico David Douglas, esploratore e naturalista scozzese, la cui attività di ricerca ha avuto un’immensa importanza per l’orticoltura europea. Assunto dal giardino botanico di Glasgow nel 1820 e partito per il primo dei suoi viaggi nel Nord America e nelle Hawaii per conto della Royal Horticultural Society di Londra, nel 1828 inviò in Europa i primi semi del “Pino dell’Oregon” o “Abete di Douglas” che da lui prese il nome.
In Italia la specie vegeta nella zona del Castagno spingendosi sino sotto a quella del Faggio. La pianta fu coltivata dapprima per il suo aspetto gradevole e, in seguito, perché fonte importante di pregiato legname, anche se le Douglasie presenti nel territorio italiano non sono ancora così vecchie da produrre legname di elevata qualità come quello prodotto nell’America settentrionale. In Italia la pianta è presente abbondantemente nel tratto appenninico Tosco-Emiliano da 700  a 1000 metri d’altitudine. Se dispone di un buon terreno, la pianta, vegetando bene, sa produrre un legname di ottima qualità che può essere verniciato e lucidato con eccellenti risultati.

L’Abete di Douglas è un albero imponente, con uno sviluppo notevolissimo. Crescendo, raggiunge nei luoghi d’origine la rilevante altezza fino a novantacinque metri. Non sono rari gli individui alti anche 100 metri e aventi il diametro di 3 metri. Il più alto esemplare di Abete di Douglas si trova in Arizona ed ha raggiunto l’altezza di 116 metri. In Europa raggiunge l’altezza di cinquanta metri e un diametro di un metro.
E’ una pianta longeva raggiungendo l’età di 500 – 700 anni; singoli esemplari superano i 1000 anni.

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 La pianta presenta un portamento elegante, il tronco cilindrico, diritto e slanciato, irregolare, ramificato quasi fin dalla base, sorretto da un apparato radicale non fittonante, ma espanso, è ricoperto dalla corteccia che, nelle giovani piantine, si presenta liscia e di colore bruno-grigiastro e, invecchiando, diventa più scura, più spessa e con delle placche suberose causate da fessure longitudinali. Sulla corteccia si formano delle vescichette contenenti la resina.

 I germogli, dal marrone al verde oliva, diventano sempre più di colore grigio scuro man mano che invecchiano. Hanno una forma conica molto particolare, sono lunghi da 4 a 8 millimetri ed hanno squame di colore rosso bruno.

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 Le foglie aghiformi, lunghe fino a tre centimetri, strette e lineari, flessibili, molto tenere, acuminate, appiattite, resinose, con la pagina superiore di colore verde lucido intenso e con la pagina inferiore piatta e di colore verde più chiaro caratterizzata da due bande longitudinali argentate, persistenti per 5-8 anni, rimangono sulla pianta anche in inverno. Gli aghi s’inseriscono singolarmente lungo il rametto mediante minuscole estroflessioni ed hanno una distribuzione spiralata molto densa. Ogni ago porta due canali resiniferi e, se è strofinato, emana un gradevole odore di limone. L’insieme delle foglie conferisce alla chioma una forma piramidale che, con l’avanzare dell’età, tende a diventare irregolare data la tipica ramificazione monopodiale. I rametti sono rivolti verso il basso e si inseriscono su rami che, inizialmente, sono orizzontali, e, successivamente, tendono ad inclinarsi pure verso il basso.

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 La chioma della pianta può essere danneggiata dalla furia del forte vento. L’Abete di Douglas è un albero monoico, con le strutture riproduttive che sono ben differenziate sulla stessa pianta. I fiori maschili, rudimentali e poco appariscenti, sono riuniti sotto i rametti in infiorescenze molto piccole a forma di “uovo” di colore rosso. Le infiorescenze sono lunghe circa tre centimetri e sono poste all’apice dei rami dell’anno precedente.
I fiori femminili, invece, sono più appariscenti e formano infiorescenze erette più grandi e di colore variabile dal verde al giallo.
Le infiorescenze femminili si formano pure sui rami dell’anno precedente verso l’apice dei rami principali e sono riunite a gruppi di 3. Sono pendenti su un breve peduncolo ricurvo, non caduche, lunghe fino a 9 centimetri, con squama copritrice più lunga di quella fertile. La fioritura avviene tra marzo ed aprile.
I coni sono molto grandi ed eretti e possiedono delle brattee bifide che fuoriescono dalle squame. Le squame tricuspidate, molto serrate, non cadono a seguito della loro divaricazione e si aprono a maturazione completa per disperdere i semi mediante il vento.
I coni femminili giungono a maturazione nel corso dell’anno assumendo un intenso colore bruno. Il seme, alato, lungo circa 6-8 millimetri, di forma triangolare, è di colore rosso bruno. Le pigne rimangono integre sull’albero e, dopo la disseminazione, cadono a terra l’anno successivo e si possono raccogliere facilmente. I semi maturano ad ottobre. La caduta al suolo delle foglie e della corteccia forma un substrato che impedisce la crescita di piante infestanti.

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 L’Abete di Douglas è una pianta che si adatta a vivere su qualsiasi tipo di terreno dal quale riceve le necessarie sostanze nutritive. Lo preferisce abbastanza soffice e non eccessivamente drenato per favorire una sua crescita rapida. I giovani esemplari di Douglas necessitano di più cure rispetto agli esemplari adulti.
Con il passare degli anni, lo sviluppo di un buon apparato radicale, che si dirama anche per decine di metri, consente alla pianta di accontentarsi delle piogge senza la necessità di ulteriori annaffiature. All’occorrenza, bisogna distribuire irrigazioni moderate bagnando il terreno in profondità e, prima di annaffiare, controllare sempre che il terreno sia ben asciutto. Predilige vivere in un luogo semi-ombreggiato dove può ricevere i raggi solari durante le ore più fresche della giornata.
Durante l’inverno le giovani piante possono richiedere una leggera protezione dal vento. Non teme il freddo e sopporta temperature minime molto rigide. Il clima primaverile, con un elevato sbalzo termico tra le ore diurne e quelle notturne e le piogge frequenti potrebbero favorire lo sviluppo di malattie fungine, pertanto è consigliabile agire preventivamente con un fungicida sistemico.
Il fungo della muffa grigia, il Botrytis cinerea, attacca la giovane pianta danneggiandola.Negli alberi più vecchi il Rhabdoclyne pseudotsugae procura macchie scure sulle foglie. L’insetto maggiormente nocivo è l’afide Adelges cooley.

Le piante di Douglasia sono importanti essenze forestali largamente sfruttate per il legno esportato dagli USA in tutto il mondo. Anche in Italia si è tentato di “coltivare” l’albero, ma con risultati molto lontani da quelli ottenuti in USA. L’albero, infatti, cresce ottimamente lungo le coste pacifiche dove esistono condizioni di climi umidi e spesso nebbiosi.
Il legno della Douglasia è molto richiesto ma, essendo di resistenza e di tessitura piuttosto varie, esige un’attenta selezione per avere una buona uniformità. Si presta ad una svariatissima serie di impieghi: per qualsiasi tipo di costruzioni delle strutture portanti di case, di ponti, di barche, per lavori di falegnameria in genere e nell’industria della carta. Un Abete di Douglas adulto è anche un albero ornamentale e non è difficile ammirarlo nei parchi e nei giardini e come albero di Natale.

 

Mar 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES CEPHALONICA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES CEPHALONICA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il visitatore della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, appena superato il cancello d’ingresso, addossato al balcone belvedere, all’inizio del viale di destra è accolto dagli splendidi alberi: dal Cedrus deodara e dalla Sequoia sempervirens e, nella parte sottostante, dall’Abies cephalonica e dall’Abies nebrodensis, mentre nel viale di sinistra emerge, per la sua altezza, l’Abete del Caucaso. Sono alberi alti, slanciati, maestosi, vicini, in solidale compagnia.Hanno resistito alla forza impetuosa distruttrice del vento che in  questi giorni ha soffiato arrabbiato?

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L’Abies Cephalonica, più comunemente conosciuto come  “Abete greco”, è una conifera sempreverde appartenente alla Famiglia delle Pinaceae. La pianta, originaria della Grecia, esattamente dell’isola di Cefalonia dalla quale ha preso il nome, vegeta spontaneamente in tutto il sud della Penisola balcanica, sulle montagne del Peloponneso, e nelle zone mediterranee.
L’Abies cephalonica abita su Enos, il più alto monte dell’isola e dell’intera regione, un gigante per la piccola isola di Cefalonia di appena 737 km2, il più grande “museo” naturale che, con la sua sommità, alta 1628 metri, chiamata Megas Soros, svetta sul mare Ionio.
La foresta nazionale di Enos ha una superficie di 28.620 ettari di cui 19.730 sono coperti da una rara specie di Abete: dell’Abies cephalonica. La foresta di Abeti dell’Enos, pertanto, è di particolare rilevanza per la purezza della specie Abies cephalonica. Nelle zone originarie la foresta forma boschi misti a Castagni e a Querce e anche boschi puri perché, a causa dell’isolamento di tutta l’isola, l’Abies cephalonica non ha prodotto ibridi con altri Abeti, mentre nelle regioni continentali della Grecia si è ibridato con la specie di Abete dei Balcani, l’Abies borisii-regis. Il primitivo denso bosco del monte Enos è stato gravemente danneggiato dagli incendi del 1792 che hanno ridotto drasticamente la sua superficie ad un quarto di quella originale con grave danno per tutte le specie vegetali e animali.

 L’Abies cephalonica è stato introdotto in Italia e negli altri Paesi europei e diffusamente impiegato come pianta ornamentale per la rapidità del suo accrescimento e per la gradevolezza della sua chioma. Ha abbellito esteticamente parchi, giardini, orti botanici. Insieme all’Abete bianco e all’Abete rosso è anch’esso simbolo “dell’albero di Natale”. Vegeta bene nei luoghi montani da 700 a 1500 metri di altitudine, ma in Grecia può anche vegetare a quote maggiori.

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L’Abete cephalonica è un albero maestoso, elegante, che raggiunge un’altezza di oltre 30 metri e un diametro del tronco fino a 1 metro. L’albero, sempreverde, a forma di cono allungato, è sostenuto da un tronco colonnare rivestito dalla corteccia liscia, di color marrone scuro tendente poi al grigio che, con la vecchiaia, si rompe in placche quadrate da cui fuoriescono lacrime di resina.

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 Dal fusto si dipartono i rami disposti in palchi orizzontali pendenti in modo da fare scivolare facilmente la neve. La chioma è formata dalle foglie aghiformi. Gli aghi sono solitari, brillanti, lineari, rigidi, appuntiti, pungenti, inseriti radialmente attorno ai rametti. Sono lunghi da 20 a 30 millimetri, di colore verde carico sulla pagina superiore e nella pagina inferiore si evidenziano due strisce bianche-blu. Gli aghi sono leggermente aromatici ed emanano un profumo molto sottile.

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E’ una pianta monoica dicline. Le infiorescenze maschili ad amento, prima di colore rosso e poi giallo, sono riunite in gruppi nella parte inferiore dei rami dell’anno precedente. I fiori femminili, riuniti in strobili da 10 a 16 centimetri di lunghezza, sono eretti e di colore verdastro.
La fioritura avviene tra maggio e giugno. I coni, affusolati alle due estremità, lunghi anche 20 centimetri, marrone, formati da circa 150 squame, si disintegrano a maturità per rilasciare i semi alati.
I semi, caduti a terra, hanno solo il 60-70% di probabilità di germinare perché di essi si nutrono molti altri esseri viventi, ma germinano facilmente. L’albero comincia a fruttificare intorno al ventesimo anno d’età continuando la fruttificazione fino ad un centinaio di anni. La pianta, longeva, raggiunge anche i 500 anni d’età. La raccolta avviene ogni 2- 4 anni. La propagazione avviene, oltre che per seme, anche per talea.

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L’Abies cephalonica predilige il clima di montagna e riesce ad essere un grande albero imponente se posto su terreni calcarei, fertili, profondi, sciolti, umidi e ben drenati. Si può sviluppare bene anche sulle rocce e sul suolo gessoso. Sopporta il freddo, ma risente di eventuali gelate primaverili nonostante abbia una buona capacità di resistenza al vento ed alle intemperie, sopravvive alla siccità e alle temperature elevate ed è abbastanza intollerante all’inquinamento.
Ama essere esposto in luoghi anche particolarmente soleggiati richiedendo alcune ore al giorno d’irraggiamento solare e irrigazioni frequenti. E’ consigliabile, per il periodo primaverile, effettuare una concimazione ricca in azoto e un trattamento preventivo con qualche insetticida ad ampio spettro e con un fungicida sistemico in modo da prevenire l’attacco degli Afidi e lo sviluppo di malattie fungine spesso favorite dal clima fresco e umido.
Molto nocive sono le muffe dell’Armelaria melea e dell’Agrobacterium tumefaciens. Necessita di potature in rare occasioni solo per ripristinare la forma e per eliminare i rami spezzati.
La pianta produce il legno molto simile a quello dell’Abete bianco, ma di qualità inferiore per resistenza e per durezza. L’Abete greco, per la sua ramificazione irregolare, nel legno presenta molti nodi che non sono graditi nei lavori di falegnameria. Fino alla metà dell’Ottocento il suo legno era usato per la costruzione delle navi.

 

Feb 22, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL CASTELLO DI MISTRETTA

IL CASTELLO DI MISTRETTA

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  L’imminente inizio della primavera incoraggia a brevi escursioni in territori noti o in luoghi nuovi.
Amici, a Mistretta una piacevole camminata è al castello, itinerario importante per i mistrettesi e per i turisti.
Su,allora, andiamo!
L’amico Antonio Ribaudo, già arrivato primo, seduto sulla roccia, ammira il meraviglioso paesaggio.

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Sulla rocca che sovrasta la città di Mistretta sorgeva la primitiva acropoli successivamente modificata dagli arabi, dai Normanni, dagli Svevi, dagli Aragonesi.
Da questa vetta si osserva un panorama veramente incantevole.
Volgendo lo sguardo verso il mare si possono vedere, quando l’aria è tersa e non offuscata dalla nebbia, le isole Eolie.
Guardando a sud si ammira la catena dei monti Nebrodi.
Lo sguardo, rivolto verso il basso, poggia sulla città dove si nota l’immensa distesa di tetti, le torri dei campanili, le cime degli alberi della villa comunale, i verdi boschi nello sfondo lontano.

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Conosciuto già in epoca romana, Polibio definì il castello di Mistrertta “vetustissimo”.
Le prime notizie sulla fortezza si hanno da un privilegio del 1101 con il quale il conte Ruggendo donò al Demanio Regio la città di Mistretta e il suo castello. Per circa 300 anni il castello fu teatro di grandi avvenimenti.
Intorno al castello si raccolgono la storia e la gloria della città.
In esso si organizzavano i convegni e i festini dell’antica nobiltà rallegrata dai trovatori che inventavano madrigali per le belle castellane. Subì i passaggi dei vari dominatori e guerrieri, accolse cavalieri erranti, fu testimone della congiura di Matteo Bonello, che vi si rifugiò durante la rivolta contro Guglielmo, re dei Normanni.
Nel 1360 vi si trattenne Federico d’Aragona prima del matrimonio con Costanza. Vi si stabilì Federico d’Antiochia durante la rivolta contro il re Pietro d’Aragona.
Assistette al tradimento di Artale d’Alagona il quale, riunendo i baroni ribelli, scatenò l’anarchia sotto Martino I. Artale era figlio di Manfredi, reggente di Maria di Sicilia e tutore di Maria, figlia di Artale I. Inizialmente, al fianco del padre, spesso riuscì a dirigere la politica e a sostituirlo al comando in occasione dello scontro con Martino I di Sicilia.
Fu l’organizzatore del matrimonio della regina Maria con Giangaleazzo Visconti, il duca di Milano, con l’intento di legare la Sicilia al resto dell’Italia. Tuttavia fu forte l’opposizione di alcuni baroni che preferivano l’influenza catalana.
Fra questi il nobile Guglielmo Raimondo Moncada che, con l’approvazione del re Pietro IV d’Aragona, per evitare il matrimonio, rapì la regina dal castello Ursino di Catania nella notte del 23 gennaio 1392. Maria fu quindi condotta a Barcellona alla corte aragonese dove, fra le proteste dei baroni e del Papa Urbano VI, sposò Martino d’Aragona detto “il Giovane”, figlio di Martino “l’Umano” e nipote del re.. Verso la fine del 1400 al castello di Mistretta fu castellano Sigismondo De Luna che, pur riscuotendo le gabelle dei cittadini, lasciò deperire il castello che, ridotto in rovina, fu trasformato in carcere nel 1520. Nel 1608 il castello era completamente in rovina.
Nel 1686 una grande frana investì tutta la vallata distruggendo il versante Nord-Est che cambiò la sua morfologia.
Nel 1632 i mistrettesi, dopo avere riscattato la libertà col sangue di tante vite e con grandi sacrifici economici, salirono sulla montagna e distrussero i resti di quel castello simbolo del potere regio, delle angherie, delle prepotenze, delle sottomissioni.
Essendo rimasti solo i ruderi del vecchio castello, le rocce circostanti furono estratte come cava di pietra per la costruzione delle case dei mistrettesi tanto che nel 1863 il sindaco di allora, con una delibera comunale, vietò di “fare pietra al castello”.

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Sul lato nord si nota uno degli antichi ingressi.

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Oggi del castello rimangono i ruderi delle mura di cinta.

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Con gli scavi archeologi, effettuati negli anni ’80 nell’area posta sotto ai ruderi, sono state rinvenute le fondamenta di una piccola chiesa, di probabile epoca normanna, impiantata su uno strato di materiale bizantino.
Il castello è stato molto rivalutato ancora negli anni 2000 con lavori di riqualificazione e di restauro condotti da una ditta locale. Si sono rinvenuti degli ambienti che prima erano nascosti. Entrando dall’ingresso, sulla destra ci sono tre ambienti contigui che sono stati identificati come magazzini. Un po’ più a valle di questi magazzini c’è un ambiente che si può definire un arsenale perché sono state rinvenute delle palle di pietra  che erano espulse e gettate con le catapulte. Dal lato opposto sempre entrando dall’ingresso,  c’è una cisterna, testimonianza dell’uso frequente di questo castello perché l’approvvigionamento idrico  era indispensabile.  In mezzo a queste due ali ci sono 6 stanze di cui la più ampia, a pianta rettangolare,  era la sala del potere del castello usata come sala di rappresentanza. I reperti archeologici rinvenuti al castello in età preistorica è l’ ossidiana sia a nuclei che a lamelle. Il castello ha restituito anche delle monete di età ellenistica del terzo secolo,  lucerne, unguentari, oggetti di vita quotidiana, mattonacci di epoca bizantina.
Si arriva al castello percorrendo la via Libertà e, giunti in piazza San Vincenzo, si devia a destra camminando un stradina lunga, un po’ ripida ma agevole.

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Molto eloquente è la poesia della dott.ssa Filippa Manfredone

U castieddu

U castieddu tisu, tisu, a pippituni

cunta e porta supra li so spaddi

a storia di lo me paisi.

Tuttu l’annu, da javutu no so riuni,

talia lu sciumi ca scurri

mistiriusu e lestu nni lu vadduni.

Quannu lu suli l’allucia e lu vasa a livanti,

iddu l’occhiu scaccia a l’isuli e

 a li muntagni cchi ci stannu r’avanti,

quannu no nmiernu s’appoia la nivi,

a rocca rusata, pi incantu diventa fatata.

Certi jorna pari ca rormi,

 nmeci, stu masculu vigurusu,

nni tutti li misi, proteggi li mistrittisi.

Si cumporta comu lu nigghiu

 ca controlla lu cunigghiu.

NI li so shianchi vivinu e ruorminu

chiddi chi sunu e chiddi chi furuno.

Fu abbitatu nticamenti ri li bizzantini,

arabi, nurmanni, svevi, anguini e aragunisi

e jautra genti assai putenti!

ca pi tantu tiempu stu paisi cumannaru

e pi riuordu a pallata ci lassaru.

‘Sti rignanti, ’no mumento ru periculu

o populu castiddanu ci vuciavunu:

acchianati,accurriti,

ca’ sutta l’ali ru castieddu nun piriti.

A bannera triculuri purtau

pi prima ‘stu gran signuri,

prumittiennu fidiltà a n’Italia traritura,

Ora, è cu li mura allivancati e carenti

E cuomo nu viecchiu sunnulenti,

pari abbannunatu di la so genti,

ca pi bisuogniu partiu

 cu na valigia pi lu ponenti.

Ma a Maronna ru castieddu,

cu li so mani ginirusi,

nsigna o munnu li biddhizzi

 di stu munti assai ridenti.

Nt’austu, quannu acchiana

silinziusa e umitusa a paisana

lu cummogghia a la vista

ri l’amici e ri li parenti,

e i nnuccenti picciriddi,

allampati e scantati, vannianu:

talè u castirddu s’ammuccia pi jucari!

 e nun sannu ca lu manieru,

di li omini chi cumannunu è sdignatu,

e suventi, taliannu versu u cielu s’arrancura:

 oh putenti, oh latruna ri sta patria traritura,

nni stu seculu decadenti,

vi scurdastu ra muntagna

e ri so omini l’unuri,

ca cu cori assai amaru,

i figghi pi la verra vi mannaru,

 e ncanciu na petra cu li nomi ci turnaru

in cumpienzu u spitali, u tribunali e

 u travagghiu e picciotti n’arrubbaru

                               Poesia di Filippa Manfredone

 

 

Feb 17, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES PINSAPO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES PINSAPO NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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A Mistretta non c’è luogo migliore dove potere sostare per ammirare le bellezze della Natura e dove potere combattere la calura estiva.
E’ la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”!
Nella villa “Giuseppe Garibaldi” vegetano in armonia nella stessa aiuola l’Abies alba e l’Abies pinsapo.

 

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Sono talmente amici che, probabilmente, le loro radici si abbracciano.
“L’Abies pinsapo, l’Abete di Spagna, l’Abete dei Pirenei” è un albero nativo delle zone montuose del sud della Spagna e descritto per la prima volta dal botanico svizzero Pierre Edmond Boissier nella sua opera “Voyage botanique dans le Midi de l´Espagne” nel 1838.
Il nome “Pinsapares” a questa bella specie di Abete è stato attribuito dalla popolazione del luogo. Appartenente alla Famiglia delle Pinaceae, l’Abete di Spagna è un albero di notevole sviluppo ed ha il legno molto simile a quello dell’Abete bianco.
E’ un Abete certamente raro e si trova localizzato in ristrette zone montuose della Spagna meridionale e del Rif marocchino. Probabilmente, molto tempo fa ricopriva migliaia di ettari di superficie delle montagne della Spagna centro-merdionale, inclusa la Sierra Nevada, dove attualmente si riscontra solamente l’esistenza di residui boschi di Pino silvestre e di sporadiche Querce.
Durante l’era glaciale questa conifera è stata quasi completamente eliminata. Quando i ghiacciai si ritirarono, la vegetazione si spinse gradatamente verso nord per ricolonizzare le aree lasciate nude dai ghiacciai.
La diffusione dell’Abete pinsapo fu bloccata dalla vallata del fiume Guadalquivir e l’albero fu confinato in aree molto circoscritte. Attualmente l’Abete pinsapo cresce solamente in una piccola area protetta della Spagna meridionale, sulla Serrania de Ronda e sulla Serra de Las Nieves tra i 1200 ed i 1700 metri d’altezza dove esistono solamente poche migliaia di esemplari.
I popolamenti sono sempre molto scarsi e risentono di millenni di pascolo sfrenato ed incontrollato. Inoltre, l’Abete di Spagna è seriamente minacciato dagli incendi, dalla siccità, dall’erosione, dal turismo.
E’ facilmente riconoscibile dagli altri abeti per la disposizione ad angolo retto degli aghi intorno al rametto.
La pianta ha un portamento eretto raggiungendo, gli esemplari adulti, i 28 metri d’altezza. Il fusto, in genere, è abbastanza spoglio nella parte bassa, mentre in alto sviluppa molte ramificazioni che si allargano a formare la chioma irregolare.

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E’ rivestito dalla corteccia scura, simile a quella degli altri abeti, ma meno fessurata che, con l’età diventa rugosa.
La chioma, di forma conica regolare, sempreverde, di colore verde grigiastro, è costituita da foglie aghiformi lunghe circa tre centimetri, molto rigide, leggermente ricurve, pungenti, disposte a scovolo e che rimangono sulla pianta per tutto l’arco dell’anno.
Gli aghi, staccati dalla pianta, lasciano sul ramo delle cicatrici rotonde molto caratteristiche.

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Le gemme invernali sono resinose. Gli strobili eretti, di colore bruno porpora, lunghi fino a 15 centimetri, sono di dimensioni ridotte rispetto a quelli dell’Abete bianco. L’Abete di Spagna è una pianta monoica.
I fiori, maschili e femminili, sono portati dallo stesso individuo. I fiori maschili sono grandi e di colore rosso ciliegio.

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I fiori femminili sono di colore verde chiaro. Lo strobilo, di colore bruno purpureo, è più allungato e più appuntito di quello degli altri abeti. Le brattee squamose sono nascoste. La fioritura avviene in primavera, da marzo a maggio.
L’Abies pinsapo è un albero abbastanza rustico e ambientato ai climi di montagna.
Si adatta a vivere su qualsiasi tipo di substrato preferendo i terreni moderatamente calcarei, soffici e ben drenati.
Lento nella crescita, ama vivere isolato, ma accetta anche la compagnia di altri alberi.

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 E’ una conifera ornamentale molto apprezzata nei giardini e nei parchi poiché è poco esigente. Nelle ville italiane numerosi Abeti spagnoli hanno trovato felice dimora e, non di rado, hanno raggiunto notevoli dimensioni. Fino alla metà della seconda guerra mondiale tre grandi piante di Abete di Spagna vegetavano ancora nel Parco del Pincio a Roma; una di queste raggiungeva 20 metri d’altezza e 50 centimetri di diametro. Fortunatamente il giardino di Mistretta ospita un esemplare che deve essere salvaguardato  e protetto.
L’Abete pinsapo gradisce essere posto possibilmente in un luogo luminoso, dove può ricevere almeno alcune ore al giorno di luce diretta del sole e dove può respirare l’aria pulita perché sensibile all’inquinamento atmosferico. Non teme il freddo, può sopportare temperature minime molto rigide e può essere coltivato in giardino, all’aperto, per tutto l’arco dell’anno. Durate l’inverno le giovani piante hanno bisogno di una leggera protezione dal vento o dal freddo.
La pianta richiede annaffiature regolari, bagnando il terreno a fondo. Fra un’annaffiatura e la successiva bisogna aspettare che il substrato si asciughi completamente evitando di lasciare stagnare l’acqua. E’ opportuno annaffiare solo gli esemplari giovani, o quelli posti a dimora da poco tempo; gli esemplari adulti si accontentano delle acque piovane. L’albero, man mano che cresce, sviluppa un apparato radicale cospicuo, che si dirama anche per decine di metri, capace di succhiare dal suolo l’acqua e i sali minerali, quindi le annaffiature sono necessarie solo se il clima è particolarmente asciutto.
Tuttavia, per garantire alla pianta il giusto apporto di nutrimento, è opportuno arricchire periodicamente il terreno deponendo qualche secchio di concime ai piedi del tronco. Trattamenti specifici sono utili per combattere gli attacchi da parte di funghi, di Afidi e di Cocciniglie che potrebbero compromettere lo stato di salute di tutta la pianta.

 

 

Feb 8, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES NORDMANNIANA DEL CAUCASO NELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ABIES NORDMANNIANA DEL CAUCASO NELLA VILLA “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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L’Abies nordmanniana è l’altissimo albero che viene di fronte a chi entra nella villa “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta e si accinge a percorrere il viale di sinistra.
 Il suo nome scientifico è Abies nordmanniana, ma è chiamato ancheAbete del Caucaso,  Abete di Crimea”.

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Il suo nome è un omaggio al botanico finlandese Alexandervon Nordmann (1803-1866), professore di Botanica ad Odessa, colui il quale fece la prima descrizione scientifica nel 1836 incontrandolo nelle regioni della Caucaso e che, nel 1838, introdusse la specie in Europa.

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L’Abies nordmanniana è originario del Caucaso occidentale e dell’Armenia dove vegeta tra i 400 e i 2000 metri di quota e dove forma grandi foreste. Si trova sulle montagne a sud e ad est del Mar Nero, in Turchia, in Asia minore e in Grecia.
L’Abies nordmanniana è una rustica e vigorosa conifera sempreverde ad alto fusto della Famiglia delle Pinaceae.
Ha un aspetto molto elegante che, nelle nostre zone, raggiunge, a maturità, i 30 – 40 metri d’altezza e, talora, esemplari isolati, piantati nei giardini dove trovano migliori condizioni di coltivazione, sfiorano altezze ancora maggiori. Nella terra d’origine l’albero raggiunge i 60 metri di altezza e un diametro del tronco fino a 2 metri.
Nel Caucaso Western Reserve alcuni esemplari hanno raggiunto altezze di 78 metri e il più alto in Europa ha raggiunto gli 85 metri.
Il tronco, colonnare, diritto, è sostenuto da un sistema radicale a fittone e ricoperto dalla corteccia grigia, liscia e sottile nelle piante giovani, ma che diventa ruvida e fessurata in piccole piastre quadrate nelle piante adulte.

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 Dal fusto si dipartono i rami a palchi regolari disposti in piani orizzontali che, da giovani, sono pelosi. Sono carichi di foglie aghiformi, solitarie, appiattite, dall’apice arrotondato, non pungente, scanalate lungo la nervatura centrale e con la pagina inferiore che presenta due bande argentee. Gli aghi, di colore verde scuro, lucidi, brillanti e molto lunghi, resistenti e coriacei, sono disposti a spirale o in doppia fila intorno ai rametti e si protendono in avanti coprendo completamente i rami. Se sono schiacciati, emettono un profumo simile a quello della buccia d’arancia.
Tutti insieme, gli aghi formano la chioma, slanciata, dal fogliame denso, e che termina con un lungo germoglio apicale. Queste caratteristiche rendono la pianta adatta ad essere impiegata come notevole “Albero di Natale”.

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E’ una pianta monoica dicline. Le infiorescenze maschili e femminili a strobili sono riunite a gruppi sotto l’apice dei giovani getti. I fiori femminili sono raggruppati in strobili di squame spiralate portanti alla base due ovuli; i fiori maschili, raggruppati pure in coni che si formano in prossimità della cima negli esemplari adulti, sono formati da stami squamiformi.
La fioritura avviene nei mesi di aprile e di maggio. Gli strobili maschili e femminili sono facilmente distinguibili per il colore: quelli maschili sono inizialmente rossicci e a forma di fragola; quelli femminili, isolati, di forma cilindro-conica, di colore bruno violaceo, resinosi e con squame larghe e tozze, si formano solo sui palchi più alti.
Il frutto è la pigna eretta, lunga circa 15 centimetri e provvista di squame uncinate. La pigna racchiude i semi alati che, quando si disintegra a maturità, li libera cadendo a terra.
Come tutti gli abeti, si riproduce per seme in primavera e per innesto. L’Abete del Caucaso è simile all’Abete rosso con il quale divide gli spazi dentro il giardino di Mistretta.

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L’Abies nordmanniana è una specie adatta a vivere nei climi di montagna perché, rispetto agli altri abeti, è meno esigente per quanto riguarda le temperature: resiste al freddo, reagisce al caldo, sopporta le gelate primaverili e la siccità. Gradisce essere esposto al sole, perché l’ombra rallenta la crescita, posto su qualsiasi tipo di terreno.
Gli esemplari giovani accettano regolari annaffiature, l’adulto, invece, si accontenta dell’acqua del cielo. Non richiede potature, tranne che per eliminare i rami danneggiati dal vento e dalla neve.
Non è vulnerabile a nessuna malattia in particolare ma, in condizioni ambientali non favorevoli, potrebbe essere colpito più facilmente da alcuni parassiti.
Marciumi radicali causati da diversi funghi possono rovinare le radici e fare marcire il legno. Per prevenire tali patologie è fondamentale mantenere le piante in buone condizioni vegetative fertilizzandole e irrigandole durante i periodi asciutti.
La pianta, nei primi anni di vita, cresce lentamente, poi più rapidamente fino a raggiungere l’età di 300 anni.
In fitoterapia le gemme, i rami e la resina sono utilizzati per la preparazione di ottimi prodotti balsamici ed espettoranti per curare malattie da raffreddamento.
E’ un albero ornamentale presente nei parchi e nei grandi giardini.
Nelle zone caucasiche la pianta è utilizzata soprattutto come essenza da legno e la sua diffusione nei Paesi Europei, avvenuta nel secolo scorso, ha sfruttato la specie per lo stesso motivo.Il legno, morbido e bianco, è impiegato nella costruzione di mobili e della carta. In Giappone, dove frequenti sono i terremoti, è adoperato per la costruzione di case antisismiche.

E’ il mese di luglio 2022. Con mio grande dispiacere mi accorgo che il vecchio albero sta molto male.
Molti dei suoi rami sono ingialliti e hanno perso gli aghi.

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Due alberi della stessa specie vegetano molto bene dentro il giardino.
Il primo si può ammirare sul lato destro percorrendo l’inizio del viale di sinistra entrando dal cancello principale.
Ho chiamato questo albero: “l’Abete Peppino” perchè l’amico Peppino Ciccia, che l’aveva acquistato per utilizzarlo come albero di Natale per abbellire la sua casa, avendo intuito presto il suo stato di malessere, perchè giorno dopo giorno deperiva, ha preferito sostituire l’albero vero con uno artificiale ed ha trasportato la piantina nel suo habitat naturale: dentro la villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta circa una quindicina di anni fa.
La pianta, amorevolmente curata dal sig. Vito Purpari, ha ripreso a vegetare, le sue foglie sono diventate lucide, la crescita continua e certamente compierà il ciclo della sua vita. Altrimenti, dopo il periodo natalizio, sicuramente l’alberello morto sarebbe stato ospitato da un contenitore della spazzatura. E’ bello, rigoglioso, sorridente. L’albero ha gratificato l’amico Peppino Ciccia acquisendo il suo nome e, soprattutto, ringrazia il giardiniere per le sue costanti attenzioni. Ha un portamento eretto, alto circa 8 metri, a forma piramidale, con i rami quasi perpendicolari al fusto e le foglie di colore verde brillante.
L’alberello ringrazia tutti coloro i quali si sono presi cura di lui e soprattutto è grato al giardino che gli ha dato ospitalità e a tutte le piante vicine che lo hanno incoraggiato nella sua lotta per la sopravvivenza.

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Il secondo si trova nell’aiuola centrale dell’agorà, osservato dai busti di Vincenzo Salamone e di Noè Marullo.

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Feb 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ABIES ALBA

L’ABIES ALBA

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Nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta l’Abies alba occupa, nell’insieme delle conifere, un posto di primaria importanza. E’ facilmente incontrarlo perché, fra tutte le piante della villa, che sono sprovviste dell’etichetta didascalica, è quasi l’unico albero ad esserne provvisto. Si trova esattamente nella piazza principale, nell’aiuola a destra, adiacente a quella dove è esposto il busto dell’on. Vincenzo Salamone.

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 L’Abies alba è una delle numerose specie di conifere, circa 55, che appartengono al genere Abies e alla famiglia delle Pinaceae, diffuse nelle regioni montagnose dell’Emisfero settentrionale. Già Plinio, nella sua “Storia Naturale”, lo classificava come Abies. Distribuita in Europa, dai Pirenei ai Carpazi e dalla Sassonia orientale alla Grecia settentrionale questa specie, presente sulla terra già da molti milioni di anni fa, ha resistito ai capovolgimenti geologici dell’era quaternaria e, di generazione in generazione, è giunta fino all’era odierna.

L’Abies alba ha diversi sinonimi: “Abies pectinata, Abete d’argento, Abete comune, Abete vero, Abete europeo, Pino bianco, Abezzo o Avezzo”.

L’Abete bianco è un albero maestoso, slanciato, di prima grandezza e, data la notevole altezza che alcuni esemplari raggiungono, fino a 50 metri, e un diametro di tre metri, è considerato “il principe dei boschi“. Vive in montagna, ad altezze comprese tra i 400 e i 2000 metri sul livello del mare ed è originario del Caucaso e dell’Armenia.

Molto comune in tutta l’Europa, l’Abete bianco forma vaste foreste allo stato puro, ma può crescere bene anche al di fuori del suo ambiente originario. 

 Il più grande Abete bianco d’Europa, segnalato dal Corpo Forestale dello Stato in un censimento sugli alberi monumentali d’Italia, è un esemplare alto 60 metri e con una circonferenza di 4,8 metri. Si trova a Lavarone, in località Malga Laghetto, in provincia di Trento ed è chiamato dalla gente del luogo “Avez del Principe”.

In Italia l’Abete bianco cresce rapidamente e spontaneamente. Si trova negli Appennini e nelle Alpi, in particolare è frequente nel margine esterno del Trentino, nell’ Altopiano di Asiago, in Cadore e nelle Alpi Carniche dove vegeta insieme all’Abete rosso e al Faggio. Si trova solitamente anche in Calabria, sull’Aspromonte, sulla Sila, nella Serra S. Bruno e in Corsica.

Un nucleo di Abete bianco spontaneo si trova a sud del Monte Amiata misto ai Cerri. Nelle Marche una stazione di Abete bianco è segnalata sui Monti della Laga e nel bacino del Trigno.

In Sicilia è presente, come già detto, anche nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.

 

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Le poche abetine, che si possono ammirare ancora oggi sugli Appennini, sono sopravvissute grazie alle cure e alla custodia delle comunità monastiche residenti presso le antiche e celebri abbazie di Vallombrosa, di Camaldoli, di La Verna e di tante altre ancora che hanno saputo proteggere gli Abeti preservandone la specie.

Tuttavia, l’uso eccessivo dell’Abete da parte dell’uomo ha causato la sua scomparsa nell’Appennino, pertanto le abetine appenniniche oggi esistenti sono quasi tutte di origine artificiale.

 Anche l’Abete bianco spontaneo in Italia è in via d’estinzione a causa dell’eccessivo sfruttamento perché, come tutte le conifere, quando la pianta è tagliata alla base del tronco, muore a differenza delle latifoglie, come il Faggio e il Castagno, che, se tagliati, generano polloni, cioè nuovi giovani fusti.

 L’Abete bianco è una conifera sempreverde, molto rustica, che si riconosce facilmente per alcune caratteristiche peculiari: per la sua forma conica, per il colore della chioma tipicamente verde cupo e con riflessi chiari nella pagina inferiore della foglia e dalla quale prende il nome di “alba”, per il tronco chiaro, per i rami disposti orizzontalmente e mai penduli.

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 L’Abete bianco possiede un apparato radicale inizialmente fittonante formato da un’unica grande radice che, penetrando nel terreno, àncora saldamente la pianta al suolo. Successivamente la radice principale si atrofizza a vantaggio di altre radici laterali che, continuando ad accrescersi e ad ingrossarsi, si spingono in profondità permettendo alla pianta di avere una buona resistenza meccanica al vento. L’Abete bianco è, per questo motivo, una delle conifere che meglio si vincola al terreno ed è poco soggetto a sradicamenti.

Il fusto è diritto e colonnare. Il legno  è privo di resina e con venature rossastre. Se la pianta cresce isolata, allora il fusto presenta fitti e folti rami fin dalla base, se, invece, cresce a stretto contatto con altre piante, il fusto è spoglio per una ragguardevole parte della sua altezza.

Il fusto è rivestito dalla corteccia che, negli alberi giovani, è liscia e di colore grigio argenteo e presenta delle piccole sacche resinose che, se schiacciate, diffondono l’odore di trementina, mentre negli esemplari adulti diventa più spessa, scura, si screpola e si fessura profondamente soprattutto nella parte basale del fusto.

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I rami principali sono verticillati e disposti orizzontalmente, mai penduli, i rami secondari sono distici e disposti su un piano lungo il tronco seguendo un andamento a spirale, i ramuli terminali sono coperti da sottili peli di colore bruno chiaro.
La chioma, nell’insieme di colore verde-blu cupo, è stretta e slanciata, di forma piramidale nel periodo giovanile; successivamente, quando la pianta raggiunge la maturità, essendo longeva, potrà contare fino a 300 anni d’età, termina l’accrescimento apicale sviluppando le gemme laterali dei rami sottostanti che danno origine ad una specie d’incavo, forma nota come “nido di cicogna”.

Le foglie sono aghiformi e inserite a pettine sul rametto, da cui il sinonimo “pectinata”. Sono solitarie, inserite in due serie opposte su un solo piano, leggermente ristrette alla base. Gli aghi, persistenti, corti, appiattiti, coriacei, lucidi, con la punta arrotondata, non pungente e con i margini lisci, presentano la pagina superiore di colore verde scuro e la pagina inferiore di colore bianco azzurrino con due linee parallele di colore bianco argenteo.

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L’Abete bianco è un albero monoico, cioè presenta sulla stessa pianta fiori maschili e fiori femminili portati da infiorescenze separate. La fioritura avviene nei mesi di maggio e di giugno. Parlare di fioritura nelle conifere è, in realtà, inesatto dal momento che queste piante sono gimnosperme e non producono i fiori come li intendiamo noi, né i frutti. Gli organi riproduttivi consistono in sporofilli raggruppati a formare gli strobili: gli sporofilli maschili, i microsporofilli, preposti alla formazione del polline, sono riuniti in strobili; gli sporofilli femminili, i macrosporofilli, portano alla formazione degli ovuli e sono riuniti in strobili o pigne.

I microsporofilli fioriscono nella parte centrale e alta della chioma. Sono più piccoli e più numerosi di quelli femminili e sono raggruppati sul lato inferiore dei rametti. Hanno forma ovoidale, sono di colore giallastro e presentano due antere che contengono il polline. Il polline è facilmente trasportato verso l’alto dal soffio dell’aria calda.

I macrosporofilli si trovano nella parte superiore dei rametti del primo anno e nella parte alta della chioma. Sono eretti e formano infiorescenze cilindrico-ovali, di colore verde o rosso-violaceo, con squame copritrici più lunghe delle squame ovulifere.

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Gli strobili, di forma quasi ovoidale, un po’ affusolati alle estremità e lunghi anche 18 centimetri, inizialmente di colore verde, poi di colore rosso bruno, sono formati dalle squame acuminate a ventaglio, di consistenza legnosa che, a maturità, si sfaldano, si staccano e cadono al suolo, mentre l’asse centrale della pigna rimane a lungo, anche per vari anni, eretta sul ramo. Le squame degli strobili variano in numero da 150 a 200 e ogni squama porta due ovuli che si trasformano in semi fertili che, liberi, sono dispersi dal vento.

Il seme è di forma triangolare, lungo da 6 a 9 millimetri, di colore giallo bruno e presenta un’ala saldamente attaccata al seme stesso che gli permette, una volta liberato, di volteggiare nell’aria.

 Gli strobili maturano nei mesi di settembre e di ottobre. La riproduzione avviene per seme a marzo.     

La pianta raggiunge la maturità sessuale abbastanza tardi, fra i 20 e i 40 anni di età se vive isolata, fra i 40 e i 60 anni se vive nel bosco assieme ad altre piante. Dopo i 100 anni la pianta diminuisce la quantità di coni e la qualità del seme.

L’Abete bianco preferisce vivere in un ambiente di montagna, dove il clima è fresco, con estati relativamente umide e con inverni molto nevosi, ma non troppo rigidi, collocato preferibilmente sui versanti esposti a nord poiché necessita di un lungo periodo di riposo vegetativo con ridotte escursioni termiche. E’ molto resistente al vento e alle intemperie. È, però, sensibile alle gelate tardive.

Necessita di un’elevata piovosità e soprattutto di buona umidità atmosferica ed è capace di superare brevi periodi di siccità grazie all’apparato radicale profondo. Non ama il ristagno idrico, la causa del marciume dell’apparato radicale. L’Abete bianco è indifferente alla natura litologica del substrato prediligendo i terreni silicei, freschi, profondi, umidi e ben drenati tipici delle zone ombreggiate e molto piovose. Non necessita di particolari annaffiature.

 In condizioni di sviluppo normale l’Abies alba ha bisogno di spazio e di luce per potersi accrescere e raggiungere grandi dimensioni con buone prospettive di longevità; può essere, quindi, esposto in luoghi anche particolarmente soleggiati.

I giovani Abeti sopravvivono in una situazione d’ombra mantenendosi allo stadio di piccola pianta con sviluppi molto ridotti. La crescita potrà essere ripresa anche in età adulta se riceverà una buona quantità di luce.

L’Abete bianco cresce lentamente nei primi dieci anni di vita, poi si sviluppa rapidamente.

E’ comunemente soggetto all’attacco di parassiti. Quando si verificano gelate precoci si può avere la formazione di spaccature da gelo lungo il fusto e i rami che aprono una via d’ingresso alle infezioni parassitarie. Anche successioni di annate siccitose sono correlate a particolari crisi patologiche. Diversi sono i parassiti che possono attaccare l’Abete bianco: l’Heterobasidion annosum, che è l’agente del marciume radicale, la Melampsorella caryophyllacearum, che è l’agente della ruggine che sfigura la pianta, gli Afidi, che s’insediano sugli aghi ed elaborano la “manna” o “melata” di Abete, una soluzione zuccherina ottenuta dagli scarti delle sostanze succhiate dalla pianta. La manna è molto gradita alle api che la convertono in un miele pregiato chiamato “miele d’abete“.

Altri fattori possono essere nocivi per la pianta di Abete bianco, soprattutto quando ha raggiunto i 60, 70 anni di età, causando la perdita anticipata degli aghi vecchi, l’alterazione del colore degli aghi, la discesa dei flussi di liquidi lungo il tronco, la perdita delle radici sottili fino a causare la “moria dell’Abete bianco“. Questi fattori sono: i cambiamenti climatici, l’inquinamento atmosferico, l’immissione nell’aria di anidride solforosa, di metalli pesanti e di ossidi di azoto, che danno luogo alle piogge acide, la perdita di variabilità genetica della specie, il trattamento sbagliato, la mancanza di cure colturali e l’azione antropica del disboscamento anche per creare nuovi pascoli.

Questi fenomeni accadono specialmente se la stagione è calda e meno piovosa, quindi in situazioni che indeboliscono la pianta stessa.

Dell’Abete bianco, in fitoterapia, si utilizzano gli aghi, le gemme, le foglie, i semi e la resina estratta dalla corteccia. Le gemme si raccolgono all’inizio della primavera e prima della loro schiusa staccandole con le mani e, se non sono usate fresche, si possono essiccare all’omb­ra, in un luogo areato. I rametti possono essere raccolti durante tutto l’anno recidendo la parte giovane, quindi non sono conservati perché sono sempre disponibili. Le gemme contengono un olio ed un glucoside, detto “piceina”, che le rende balsamiche, con proprietà sfiammanti, antireumatiche e diuretiche.

Il decotto di gemme è molto utile per risolvere le malattie delle vie respiratorie come antisettico ed espettorante. Nell’ambiente dove sosta il paziente sofferente di malattie respiratorie è buona abitudine introdurre rami di giovani Abeti o di Pini che, diffondendo le sostanze balsamiche, migliorano il suo stato di salute. Quanto più spesso i rami si rinnovano, tanto maggiore è il beneficio che se ne ricava. Inoltre, i principi contenuti nelle gemme servono anche per risolvere i problemi legati al sistema osteo-articolare fragile. Fu il medico belga Pol Henry, il padre della gemmoterapia, a scrivere per primo che il macerato di gemme agì favorevolmente nei confronti delle ossa e della crescita dell’individuo per la capacità di fissare il calcio e di rimineralizzare in caso di fratture.

L’olio, estratto dai semi, è usato per aromatizzare prodotti cosmetici, per massaggi tonificanti, nell’industria delle vernici e come combustibile. Le foglie, ricche di provitamina A, erano utilizzate per curare le malattie degli occhi. Il decotto delle foglie è utile per l’artrite e per le malattie della pelle. Dalle pigne si può estrarre un olio lenitivo per le ferite. Incidendo la corteccia dell’Abete bianco si ottiene una resina dalla quale si ricava la così detta “Trementina di Strasburgo” o “di Alsazia” utile, sotto forma d’impacco, per sanare le lombaggini, gli strappi e le contusioni e, diluita, in parti uguali, con olio di mandorle dolci, serve per curare i geloni, le ragadi e le ulcere. La resina è utilizzata soprattutto per preparare le vernici. I monaci di Camaldoli con estratti di questa pianta producono un liquore chiamato “Lacrima d’abete”.

 Essenza forestale di primaria importanza, l’Abete bianco fornisce anche un legname che, sebbene di qualità inferiore rispetto a quello dell’Abete rosso, trova molteplici impieghi in falegnameria e nell’industria cartaria. Il legno ha struttura eterogenea e presenta numerose nodosità che ne rendono difficile la lavorazione. Si presta per varie costruzioni di mobili e di porte esterne, nonostante sia abbastanza vulnerabile ai tarli e agli agenti atmosferici, per  la fabbricazione di scatolami, di fiammiferi e di casse di risonanza adoperate in liuteria. In passato, tra il XV e il XVIII secolo la pianta, data la notevole altezza dei suoi fusti, era utilizzata come albero di maestra per le navi e per la costruzione di remi.

Ancora oggi, soprattutto nell’Europa centrale, gli esemplari più giovani sono tradizionalmente utilizzati come albero di Natale in sostituzione del più usato Abete rosso. I suoi aghi sono aromatici e resistenti e cadono molto più tardi rispetto a quelli dell’Abete rosso.

Simbolicamente l’Abete rappresenta “il tempo e l’immortalità” in quanto ha aghi persistenti e pigne che rimangono sempre rivolte verso l’alto anche a maturità.

 

 

 

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