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Sep 4, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA FESTIVITA’ DEL SS.MO ECCE HOMO E LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

LA FESTIVITA’ DEL SS.MO ECCE HOMO E LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

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La festa del SS.mo Ecce Homo è una festa religiosa solenne, che uguaglia la festa di San Sebastiano, il patrono di Mistretta. Si commemora la seconda domenica del mese di settembre di ogni anno con le funzioni religiose che si celebrano nella chiesa di Santa Maria di Gesù e con il cammino processionale del venerato simulacro del SS.mo Ecce Homo e della Varetta per le vie della città di Mistretta.

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 Il culto e la devozione verso il SS.mo Ecce Homo furono istituiti fin dalla metà del 1600 dai Frati Minori Riformati, che abitavano nel convento annesso alla Chiesa Santa Maria di Gesù.

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Dopo la soppressione degli Enti Ecclesiastici, il patrocinio della festa del SS.mo Ecce Homo fu sopportato da alcune devote donne che fondarono, nel 1866, la “Pia Congregazione delle Donne” che si adoprava per non “far venir meno la devozione al santissimo Ecce Homo”.
Fino ai primi anni del 1900 e fino alla sua estinzione, molto meritatamente la Pia Congregazione delle Donne mantenne viva la devozione verso il SS.mo Ecce Homo. Alla Pia Congregazione delle Donne subentrò la “Società Agricola di Mutuo Soccorso”, formata da soci contadini, che continuarono la tradizione devozionale e festosa del SS.mo Ecce Homo per oltre un secolo.
Attualmente il merito di organizzare la festa del SS.mo Ecce Homo spetta ai giovani del Comitato o Associazione Pro Ecce Homo che, con tanta devozione, con notevole entusiasmo e grande impegno, dal 2010 riescono ad realizzare il vasto programma religioso e folkloristico con concerti, tornei e manifestazioni equestri. Il popolo partecipa a tutte le iniziative sostenendoli, lodandoli e applaudendoli.

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Sono i giovani che hanno fatto rinascere la Società Agricola di Mutuo Soccorso a Mistretta e, in particolare, Cicala Vincenzo, Contino Salvatore, Favaloro Francesco, La Ganga Giuseppe, Lipari Luciano, Lo Prinzi Vincenzo, Mazzurco Antonino, Mentesana Giovanni, Mingari Vincenzo, Ruggieri Giuseppe, Ruggieri Vincenzo, Rampulla Vincenzo, Sanzarello Antonino, Sanzarello Vincenzo, Scolaro Giuseppe, Testa Gabriele, Vinci Antonino, Zampino Sebastiano, guidati dal signor Sorbera Giuseppe, attuale presidente della Società.

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Da sx Sebastiano Zampino e Vincenzo Mingari

Un valido contributo alla Società Agricola ha dato il signor Enzo Giordano prematuramente scomparso.

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A centro del gruppo con gli occhiali  in basso

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I fratelli Antonio e Vincenzo Sansarello

 Valida e affettuosa guida è il loro presidente, il signor Giuseppe Sorbera.

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Per citare qualche attività: qualche giorno prima della festa si esibiscono nella piazza San Felice da Nicosia i concorrenti alla gara della corsa agli ostacoli. Nella piazza davanti alla chiesa si esibiscono i partecipanti alla caratteristica “‘ntinna”, il “gioco della pentolaccia”, il gioco diabilità per colpire e rompere, saltando, la pentolaccia di terracotta, posta in alto su una lunga corda, che contiene il premio.

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 La banda locale suona musiche adatte all’avvenimento.

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Dopo la Messa pomeridiana, quest’anno 2016, giorno 11 settembre, la statua del SS.mo Ecce Homo uscirà dalla chiesa di Santa Maria di Gesù.

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salutata dallo sparo dei mortaretti e alla dispersione dei bigliettini con la scritta “Viva l’Ecce Homo

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ed è trasportata in processione dal fercolo magnificamente addobbato con i fiori e con le offerte in denaro dei devoti per grazie ricevute.

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  Il sacro fercolo è accompagnato dal sacerdote, dalle autorità civili, dalla banda musicale, dalla gente. La festa è spettacolare e trasmette tanta emozione!

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Durante il cammino processionale il fercolo del SS. Ecce Homo è preceduto dalla Varetta, che contiene la reliquia della Santa Croce e i ceri votivi offerti dai fedeli per le grazie ricevute.

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Dopo il cammino processionale, la festa si conclude con lo sparo dei fuochi d’artificio e con l’estrazione dei biglietti vincenti i tanti premi messi in palio. Un momento molto atteso è l’esibizione degli artisti sul palco in piazza San Felice. Quest’anno, il 10 settembre, intratterrà il pubblico Annalisa Scarrone con la Band in concerto “Se Avessi Un Cuore Tour“.

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Letteralmente “Ecce Homo” significa “Ecco l’Uomo”, frase che il governatore della Giudea di allora, Ponzio Pilato, rivolse ai Giudei nel momento in cui mostrò loro Gesù flagellato.
Il Vangelo secondo Giovanni (19,5-22) racconta la crocifissione di Gesù: “Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo ». Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: « Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: « Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». Gli risposero i Giudei: « Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio ». All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: « Di dove sei? ». Ma Gesù non gli diede risposta.  Gli disse allora Pilato: « Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce? ». Rispose Gesù: « Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande». Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono: « Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare ». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litostroto, in ebraico Gabba-tà.  Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: « Ecco il vostro re! ». Ma quelli gridarono: « Via, via, crocifiggilo! ». Disse loro Pilato: « Metterò in croce il vostro re? ». Risposero i sommi sacerdoti: «Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Golgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei ».  Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: « Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei ». Rispose Pilato: « Ciò che ho scritto, ho scritto ».

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LA STATUA E IL FERCOLO DELL’ECCE HOMO

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La statua dell’Ecce Homo, coperto dalla mantellina rossa, è una figura di grande rilievo artistico. E’ una scultura lignea policroma attribuita a Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, della prima metà del sec. XVII, dove l’artista è riuscito ad esprimere il sentimento dell’umana sofferenza messo in evidenza dalla testa piegata a destra, dallo sguardo assente, dalle braccia incrociate, dalle mani legate, dalle ginocchia piegate e insanguinanti. Raffigura tutta l’Umanità che Lo ha offeso e martirizzato.

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Il fercolo, dal latino “fero” “portare” e “cultus” “ culto” “portatore di culto”, la macchina processionale per il trasporto del SS.mo Ecce Homo, fu realizzato dal valentissimo scultore intagliatore ebanista Pasquale Azzolina, nato a  Mistretta il 10 gennaio 1859 e deceduto il 15 febbraio 1934 che ha dimostrato di possedere notevole capacità artistica ricevuta in eredità dal padre Michele.

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 L’opera è venuta alla luce da un tronco legnoso di albero di tiglio finemente scolpito negli anni 1913 – 15. Presenta la base di 175×143 cm e l’altezza totale di 300 cm. Le colonne laterali riccamente lavorate, sorreggono la cupola formata da spicchi triangolari alternati e finemente intagliata lungo il perimetro del cornicione. La cupola termina con la croce composita poggiata sopra una sfera dorata.

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Adornano gli archi sotto la cupola paffute facce di angeli alati.

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Le quattro colonne, che reggono la cupola, riccamente intarsiate, nelle nicchie ospitano le statue raffiguranti la passione di Cristo:
Maria, la Madonna Addolorata, avvolta nel manto azzurro, stretta nel suo immenso dolore;

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 San Giovanni evangelista, nuovo figlio di Maria, in una posizione di statico abbandono.

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San Pietro, il capo della Chiesa cattolica, che stringe in mano un oggetto non identificato;

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Giuda, il traditore, che, nella disperazione del tradimento e nel gesto che prelude al suicidio, poggia una mano sui capelli e l’altra nel collo lasciando a terra il sacchetto con i trenta denari

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Il fercolo è stato dipinto con “l’oro dei poveri”, con la “porporina” una vernice dorata formata da polvere metallica mescolata ad una sostanza oleosa e poi coperta da una vernice trasparente. Recentemente il fercolo e’ stato sottoposto ad un necessario ed urgente restauro, lavoro eseguito magnificamente dall’artista mistrettese il maestro Mario Biffarella, perché la mancanza di manutenzione, le sollecitazioni dinamiche per il trasporto durante il cammino processionale, gli sbalzi termici avevano compromesso la stabilità della struttura.
Il restauro del fercolo è stato finanziato dal Comune di Mistretta grazie all’interessamento del dott. Giuseppe Testa, allora assessore al bilancio, e al contributo della Società Agricola elargito su proposta  dei signori Franco Scarito ed Enzo Giordano.
L’artista Pasquale Azzolina ha prodotto molte altre opere in legno, di grande valore artistico, commissionate dalle chiese, dalle confraternite, dalle famiglie nobili dell’epoca. Recentemente, dopo un’accurata ricerca, il Prof. Domenico Lo Iacono ha rinvenuto diversi lavori da lui realizzati e custoditi nella Chiesa Madre della vicina città di Nicosia  e nella chiesa del convento dei Cappuccini dove è custodito l’altare del Beato Felice. Pasquale Azzolina è il nonno degli illustri fratelli amastratini Domenico e Vittorio Lo Iacono che hanno descritto i tratti artistici e personali del loro congiunto in due libri presentati a Mistretta.
Durante la presentazione del libro “PASQUALE AZZOLINA Scultore” di Domenico Lo Iacono con la Collaborazione Storica Artistica di Mario Biffarella il relatore prof. Francesco Cuva così si espresse:
<< Varia è la produzione dell’artista che ha avuto la sensibilità di aprirsi al mondo dell’arte scegliendo il confronto continuo con gli altri artisti del luogo, in una stagione, a Mistretta, dinamica e ricca di innovazioni, e ricercando nuove tecniche di soluzione. Apparentemente, sembra che il fercolo abbia una funzione di cornice cioè complementare rispetto alla figura dell’Ecce Homo. Invece ne è strumento principale per comprendere la scena nella dimensione temporale e spaziale. Le due realtà, statua e fercolo, ad occhio creano una perfetta simmetria. L’osservatore attento, quindi, è portato ad immaginare l’antica scena drammatica allorché Ponzio Pilato consegna Gesù ai carnefici per farlo crocifiggere. Nello stesso tempo, focalizzando le due statue del fercolo, l’Addolorata e San Giovanni evangelista, ripercorre le vicende della crocifissione, mentre con Giuda, il traditore, e Pietro, il rinnegatore, si rivive la Passione.
Alzando lo sguardo verso la cupola con la croce appare l’immagine della chiesa che tramanda il sacrificio di Cristo per la redenzione dell’umanità. La macchina processionale di Pasquale Azzolina propone, perciò, il mistero del dolore e della pietà. Assistono alla scena, dall’alto, gli angeli, mentre i quattro archi e le quattro figure richiamo la perfezione del creato e del Creatore. Anche la finitura pittorica, “l’oro dei poveri”, oro-ocra spento, si adatta al clima mesto rappresentato dalla scena.
In conclusione, Pasquale Azzolina ha voluto trasmettere un messaggio sempre attuale sulla condizione umana che cerca protezione e trova conforto nella misericordia di Dio; tale conforto era rivolto ai contadini che ne sono stati, per altro, i committenti
>>.

LA CHIESA DI SANTA MARIA DI GESU’ A MISTRETTA

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La chiesa di Santa Maria di Gesù, situata alla fine della via Anna Salamone, risalente ai secoli XVI- XVII, già chiesa dei Frati Minori Riformati, è l’edificio associato a complesso ospedale SS.mo Salvatore. Attualmente la chiesa funge da cappella dell’ospedale e riceve quanti dal nosocomio passano a miglior vita e dove sono vegliati dai parenti prima di essere condotti al cimitero dopo la celebrazione del rito funebre.
I Frati Minori Riformati nel 1610 si insediarono nel convento annesso alla chiesa e nei locali ospitavano ammalati, poveri, bisognosi e pellegrini e,  soprattutto,  i ragazzi ai quali  insegnavano l’apprendimento di  un mestiere.
Vi rimasero fino alla soppressione degli Enti ecclesiastici.
Nel 1874 il convento, costruito attorno ad un ampio cortile circondato da portici,

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dalla Commissione Sanitaria fu destinato ad accogliere una nuova struttura ospedaliera, al posto dell’antico ospedale del SS.mo Salvatore costruito nel 1571 e condotto da sorelle religiose.
Il convento e l’ospedale erano circondati da un esteso orto, l’odierna Villa Chalet, coltivato a frutteto e a giardino.
Da alcuni anni un ampio spazio è stato sottratto all’orto per realizzare la pista di atterraggio dell’elisoccorso.
Probabilmente, anche il “giardino della complessità”, lo spazio verde limitrofo all’ospedale Ss.mo Salvatore e annesso al reparto di salute mentale, diretto dal dottor Antonino Puzzòlo, faceva parte del sopradetto orto. Il 20 novembre del 2015 in questo giardino è stata messa a dimora una giovane Betulla, alta circa tre metri, durante la “Giornata dell’arte in giardino, sezione autunnale” in onore di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano che ha rivoluzionato il sistema della cura delle malattie mentali in Italia. E’ stata scelta la Betulla perché è il simbolo della salute e dell’igiene mentale.
La chiesa di Santa Maria di Gesù esternamente appare molto semplice.
La facciata principale, restaurata nella prima metà del XX secolo, è ornata sul timpano da un bassorilievo in stucco raffigurante la Madonna col Bambino.

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La ristrutturazione dell’interno della chiesa, avvenuta nel 1847, dall’aspetto neoclassico, previde la realizzazione del pavimento e degli altari in marmo.
La chiesa, nel suo interno, presenta una sola navata che conduce al presbiterio dove nell’altare maggiore, entro l’edicola neoclassica dipinta, con le parti a rilievo in stucco, poggiante su balaustra marmorea, è esposta la tela che raffigura la Madonna degli Angeli con il Bambino in braccio che assurge in cielo accompagnata dagli angeli e dai santi francescani San Francesco e Santa Chiara,

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L’opera, del 1796, è di Giuseppe Scaglione da Mistretta, allievo di Agatino Sozzi e di Giuseppe Patania.
Il tabernacolo,  racchiuso fra colonnine, è chiuso dalla porta d’argento riccamente lavorata.

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Un altro dipinto, con tecnica ad olio su tela, di forma rotonda, è posto in alto. Rappresenta lo Spirito Santo sotto le sembianze di una colomba.

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Sulla chiave dell’arco trionfale si può ammirare lo scudo in stucco con l’emblema dell’Ordine dei Frati Minori Riformati.

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 Ai lati dell’altare, entro due nicchie, sono custodite le statue dei Santi francescani San Pietro d’Alcantara e San Pasquale Baylon.

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Realizzati in legno, tela e colla agli inizi del XIX secolo, sono opera di ignoto artista.
Nelle nicchie delle pareti laterali della chiesa sono accolte diverse statue, probabili opere di maestranze locali, che si fanno ammirare per la bellezza delle espressioni e per la cromatura vivace dei colori delle vesti dei santi.
La statua lignea policroma di Sant’Anna e Maria bambina è posta entro l’edicola in stucco.

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Realizzata alla fine del XIX e inizi del XX secolo, è di autore ignoto. Probabilmente la statua fu commissionata dalle suore Figlie di Sant’Anna, che offrivano la loro assistenza ai degenti dell’ospedale SS.mo Salvatore di Mistretta dal 1889 al 1974. Sotto la mensa dell’altare di Sant’Anna è deposta la statua in cera con le reliquie del corpo di Santa Colomba, del XIX secolo.

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La statua marmorea dorata e policroma della Madonna di Ogni Titolo, posta entro edicola in stucco, della scuola dei Gagini (fine del XVI – inizi del XVII secolo), mostra sul plinto lo stemma del committente.

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Sotto la mensa dell’altare della Madonna d’Ogni Titolo è deposta la statua in cera di San Severino, del XIX secolo.

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Arricchisce l’altare, il dipinto, di forma ovalizzata, che rappresenta San Giuseppe e il Bambino, opera della seconda metà del XVIII secolo.

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La statua di San Francesco d’Assisi, posta dentro l’edicola in stucco, è una scultura lignea policroma del XIX – XX secolo.

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Sotto la mensa dell’altare di San Francesco è deposta la statua in cera di Santa Veneranda, del XIX secolo.

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Adorna lo stesso altare l’immagine della Madonna del Santo Aiuto, olio su tela di Giuseppe Minutoli da Messina (1865).
La cornice è opera dell’intagliatore  Pasquale Azzolina di Mistretta.

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La statua di Sant’Antonio di Padova, in legno policromo, custodita dentro l’edicola in stucco, è opera di ignoto scultore del sec. XVII e rielaborata nel sec. XIX.

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 Sotto la mensa dell’altare di Sant’Antonio di Padova è deposta la statua in cera di San Perseverante, del sec. XIX.

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Prezioso è il bel Crocefisso, datato 1634-1635, una scultura lignea policroma, opera dello scultore francescano Giovan Francesco Pintorno, meglio conosciuto come fra’ Umile da Petralia Soprana, il più grande scultore di arte sacra del ’600.
L’artista, in questa intensa rappresentazione del Cristo Crocefisso, è riuscito ad esprimere il sentimento dell’umana sofferenza evocato attraverso i segni cruenti del martirio.
Il Cristo è colto nel momento del trapasso.
La drammaticità è molto accentuata dalla testa inclinata a destra, dalla bocca semiaperta, dagli occhi chiusi, dal corpo che si muove verso sinistra, dalle gambe nel momento di abbandono.
Il volto ha due immagini: da una parte c’è il Dio che si sacrifica per il riscatto dell’Uomo, dall’altra parte c’è l’Uomo che accetta il sacrificio.
Il corpo, asciutto, mostra ampi ematomi e numerose ferite. Si possono contare le costole.
Il Crocifisso è stato restaurato a Catania per opera del dott. Errera. La finitura pittorica non è più quella originale realizzata da fra Umile.

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Il grande realismo è accentuato anche dai solchi ai polsi e alle caviglie provocati dalle funi, dalle piaghe ma, soprattutto, dalla quantità di sangue che sgorga abbondante dalla ferita del costato. Segni distintivi della scultura di Frate Umile sono la grande corona di spine sulla testa e le ciocche di capelli che scendono dalla spalla. Il valore salvifico del sacrificio è percepibile nella serena e sublime compostezza dei tratti fisionomici del volto. L’opera è stata restaurata da Giuseppe Lupo nel 1960. Il Crocifisso dovrebbe essere posto nel Suo altare, nell’affresco fra Maria Addolorata e San Giovanni, ma è stato allontanato per proteggerlo dall’umidità della parete.

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Sotto la mensa dell’altare del Crocifisso è deposta la statua in cera di Santa Chiara, del XIX secolo.

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Di grande rilievo è la statua dell’Ecce Homo posta dentro l’edicola in stucco. E’ una scultura lignea policroma attribuita a Frate Umile Pintorno da Petralia Soprana, risalente alla prima metà del sec. XVII.

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 Sotto la mensa dell’altare dell’Ecce Homo è deposta la statua in cera di San Celestino, del sec. XIX.

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Tutte le statue reliquarie, giacenti sotto le mense degli altari, hanno le mani e il viso di cera e gli abiti ricamati.
Importante, nella sua semplicità, è la cantoria da dove si affacciavano, per partecipare alle funzioni religiose, le suore, le figlie di Sant’Anna, che fino al 1974, come già detto, assistevano gli ammalati bisognosi ricoverati nell’ospedale SS. Salvatore.

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Il Pulpito è formato da una balaustra in legno policromo ad imitazione di pannelli a transetto marmoreo di autore ignoto datato1716.

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Il confessionale in legno laccato con parti dorate  appartiene alla seconda metà del sec. XIX

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Nella cantoria è custodito l’organo a canne con cassa dorata e policroma, della fine del sec. XVIII. Necessita di un necessario ed imminente restauro.

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Sep 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA VITA DI SANTA ROSALIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

LA VITA DI SANTA ROSALIA E LA SUA CHIESA A MISTRETTA

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La tradizione racconta che al conte Ruggero, mentre osservava il tramonto con la contessa Elvira, sua moglie, gli apparve una figura che gli disse: «Ruggero io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine» e, per questo motivo, la neonata si chiamerà Rosalia.
Etimologicamente il nome Rosalia” è composto da “rosa” e “lilium”, “rosa e giglio”, fiori simbolo di purezza e di unione mistica che anticiparono le qualità che contrad­distinsero la giovane nel corso della sua vita. Rosalia nacque a Palermo nel 1130, figlia del Duca Sinibaldode’ Sinibaldi, e della nobildonna Maria Guiscardi.
Il padre era un vassallo del re normanno Ruggero, Il a cui il re aveva donatoun grande feudoalla Sier­ra Quisquina e il Monte delle Rosein contrada Realtavilla, nella ex provincia di Agrigento.La madre era cugina del re normanno Ruggero II.
Quindi apparteneva ad una nota famiglia del XII secolo. Dalla sua fami­glia ricevette una buona educazione e una so­lida formazione cristiana.

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Rosalia, crescendo,  divenne una graziosa fanciulla dalla carnagione chiara, dai capelli biondi e dagli occhi neri. Vissuta in ricchezza presso la corte di re Ruggero, era la damigella più bella fra tutte le altre giovanette che abbellivano il Palazzo con il loro fascino. Un giorno il re Ruggero fu salvato dal conte Baldovino dall’aggressione di un animale selvaggio. Il re, volendo disobbligarsi, gli chiese di esprimere un desiderio. Baldovino chiese Rosalia in sposa.
Rosalia, tagliò le sue lunghe trecce, respinse il pretendente, lasciò la vita di corte, si donò alla vita religiosa e abbracciò la fede di Cristo. I suoi genitori avevano sognato per lei un no­bile matrimonio, come si conveniva alle giovani del suo rango. Una tra­dizione popolare racconta che Rosalia, il giorno in cui avrebbe dovuto incontra­re Baldovino, si guardò allo specchio. Invece di vedere riflessa la pro­pria immagine, vide quella di Gesù Crocifisso con il volto rigato di sangue a causa della corona di spine conficcata nella Sua fronte. Rosalia non ebbe più dubbi.

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Poiché Rosalia visse nel periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia dopo aver scacciato gli Arabi che avevano dominato nell’isola dall’827 al 1072, accolse la vocazione religiosa scegliendo di vivere da eremita.In quel tempo l’eremitismo era molto frequente sia fra gli uomini  sia fra le donne e la scelta di una vita in solitudine, in preghiera e in contemplazione era l’espressione più alta della sensibilità religiosa. 
A soli 13 anni Rosalia lasciò la sua famiglia.
All’inizio si rifugiò presso il monastero delle Basiliane a Palermo. Ben presto, però, abbandonò quel luogo per distaccarsi dalle frequenti visite dei genitori e del promesso sposo che cercavano di dissuaderla dal suo intento di abbracciare la fede religiosa. Decise, quindi, di intraprendere la vita anacore­tica per trascorrere le sue gior­nate in solitudine e in preghiera per coltivare con più perfezione la pietà e la vita contempla­tiva.  In assoluta povertà, voleva possedere  il cielo come tetto e la terra come letto in  compagnia della voce della Natura per essere sempre più degna di Cristo Crocifisso, suo Sposo.
Vivendo in solitudine, avrebbe conservato la sua purezza e avrebbe fraternizzato con gli angeli del cielo. Alla morte di Ruggero II chiese ed ottenne di poter vivere in eremitaggio nella Sierra Quisquina, il feudo del padre, luogo che aveva visitato da bambina. Vi si trasferì in una notte buia, con il solo chiarore delle stel­le che guidava i suoi passi.
Portò con sé gli oggetti più cari: una picco­la croce d’argento e una corona per il Ro­sario.
Si rifugiò in una piccola grotta incuneata tra il monte Cammarata ad est e il monte delle Rose ad ovest ,a mezza costa di un dirupo di circa 900 metri di altezza.Un angolo di terra così nascosto tra i boschi che i saraceni lo avevano chiamato Quisquina, dall’arabo “Coschin” che signi­fica “oscuro”.
In quella grotta, nascosta nella cavità della roccia e protetta da una fitta vegetazione, nessuno si sarebbe accorto della sua presenza.

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LA GROTTA

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Il periodo di permanenza in quel luogo, in eremitaggio, è testimoniato  dal ritrovamento di un’epigrafe autografa, incisa su una superficie di roccia ben levigata con lettere alte due dita e disposte su nove linee irregolari, scritta in latino da Rosalia. Così recita: ” Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae Et Rosarum Domini Filia Amore D.ni Mei Jesu Christi In Hoc Antro Habitari Decrevi” “Io Rosalia di Sinibaldi, figlia del signore della Qui­squina e delle Monte delle Rose, per amore del mio Si­gnore Gesù Cristo stabilii di abitare in que­sta spelonca”. Questo mirabile ritrovamento, avvenuto il  24 agosto del 1624, fu attribuito a due muratori palermitani che lavoravano nel convento dei Domenicani di Santo Stefano di Quisquina.
Nel­l’angolo basso, a sinistra, comparve anche il 12,  il numero degli anni  che Rosalia trascorse nella grotta in  solitudine e in preghiera.
Allontanatasi dalla grotta della Quisquina, Rosalia, ritornata a Palermo, si soffermò per un breve periodo nella casa paterna, nel quartiere dell’Olivella.
Successivamente
si trasferì a Palermo, sul Monte Pellegrino,da tempo ritenuto un monte sacro, abitandodentro un’inospitale grotta dove gocciolava l’acqua dalle pareti rocciose,circondata da un paesag­gio selvaggio, accanto ad un antico altare, prima pagano e poi dedicato alla Madonna. Qui Rosalia visse in eremitaggio per circa 8 anni, fino alla morte, vestita  della sua tonaca e cibandosi di ciò che le offriva il suo rifugio.
Il motivo che indusse  Rosalia a la­sciare la Sierra Quisquina e a trasferirsi nella grotta sul Monte Pellegrino è sco­nosciuto. Alcuni autori sostengono che tutti i beni della famiglia furono confiscati in se­guito a una violenta ribellione dei conti e dei baroni contro i Normanni e nella quale fu ucciso anche il duca Sinibaldi. Ro­salia, sentendosi in pericolo nella grotta della Sierra Quisquina, non essendo più di proprietà della sua famiglia, decise di andar via e di ritirarsi sul Monte Pellegrino. Il Monte Pellegrino è una montagna calca­rea alta 606 metri che si affaccia sul golfo di Palermo e che i Greci chiamavano “Ercta”, “Impervio”.
Ro­salia scelse quel luogo considerandolo adatto al suo eremitaggio. Lo raggiunse salendo attraverso un sentiero impervio che, dal bosco della Favorita, portava alla vetta del monte. Trascorreva le giornate nella penitenza e nella continua adorazione di Cristo. Come fosse sopravvissuta con tali disagi ha del miracoloso.
Probabilmente un cacciatore, nativo del luogo, le procurava il cibo. Morì il 4 settembre, presumibilmente dell’anno 1160. Docilmente Rosalia si pre­parò al passaggio alla nuova e migliore vita. Si distese sulla terra della grotta, appoggiò la testa sul­la mano destra, usandola come cuscino, strinse forte al petto con la mano sinistra il piccolo crocifisso.
Rosalia non morì da sola! Una schiera di angeli scese dal cielo sulla terra per seppellire il suo corpo, poi ritrovato sepolto a quindici piedi sotto terra, contenuto in un sepolcro preparato dalla natura. Il 7 maggio del 1624 il viceré di Sicilia, Emanuele Filiberto di Savoia, avido di regali, nonostante il parere contrario del Senato Palermitano, concesse al vascello, proveniente da Tunisi e guidato da Maometto Calavà, di ormeggiare nel porto palermitano.
Trasportava innumerevoli doni e molti schiavi cristiani colpiti dalla peste. La malattia si diffuse rapidamente fra la popolazione palermitana. A causa del contagio, la gente moriva in gran numero e a nulla valsero le suppliche a Sant’Agata, a Santa Cristina, a Sant’Oliva, a Santa Ninfa, le sante protettrici della città. Alla signora Girolama La Gattuta, già ammalata di peste e ricoverata all’Ospedale Grande di Palermo, apparve una giovane fanciulla dal viso d’angelo, vestita da infermiera, che le accarezzò il viso, le raffreddò la fronte scottante per la febbre con un fazzoletto bagnato e le promise la guarigione se fosse salita sul Monte Pellegrino per ringraziarla. La fanciulla era Santa Rosalia.
Per intercessione di Rosalia la donna guarì miracolosamente dopo tre giorni di malattia. Girolama  non si recò  sul Monte Pellegrino, non effettuò il suo voto. Si ammalò nuovamente. Il 26 di Maggio del 1624 era il giorno di Pentecoste e Girolama, di nuovo in preda alla febbre, si recò sul Monte Pellegrino accompagnata dal marito Benedetto e dall’amico Vito Amodeo.
Appena bevve l’acqua, che gocciolava dalle pareti rocciose della grotta, Girolama miracolosamente guarì. Cadendo in un riposante torpore, rivide in fondo alla grotta la fanciulla, che aveva visto già all’Ospedale Grande, vestita con una lunga tunica di arbraxo, la stoffa di sacco vecchio, e con una cintura di cordone bianco intorno alla vita.
Ella pregava in ginocchio davanti ad un Crocifisso di legno posto sopra un masso su un rustico altare. Rosalia le apparve nuovamente per indicarle l’esatta posizione nella grotta dove scavare e dove trovare il “tesoro” delle sue reliquie. Nei primi giorni del mese di giugno del 1624 iniziarono gli scavi, indicati dalla stessa Girolama, ed eseguiti dai contadini dei dintorni e dai monaci francescani che vivevano nel vicino convento e che già nel Cinquecento con il loro superiore San Benedetto il Moro (1526-1589) avevano provato a trovare le reliquie. Il 15 luglio del 1624 gli scavi terminano. Sotto una grande lastra di calcarenite, lunga sei palmi e larga tre, posta a quattro metri di profondità, aderivano bianchissime ossa umane mescolate ad altre ossa di colore scuro, appartenenti probabilmente ad un frate perchè là vicino c’era una chiesetta.
Le ossa, per il loro candido colore e per le modeste dimensioni del cranio, furono attribuite ad una donna.
Emanavano un gradevolissimo profumo di fiori. Le ossa, ripulite, furono portate nella cappella del Palazzo Arcivescovile dove risiedeva Giannettino Doria, il Cardinale e Arcivescovo di Palermo. Il collegio di sei dottori nominati dall’Arcivescovo Doria sembrò poco convinto concludendo che le ossa, per le dimensioni, sembrava appartenessero ad uomini e non a donne. Ottenuto questo primo esito negativo il cardinale Doria non ritenne necessario portare in processione queste “non ancora reliquie”.
La peste continuava a mietere vittime ed il popolo aveva bisogno di sperare. Il 13 febbraio del 1625 il saponaro Vincenzo Bonelli, disperato per la perdita della giovane moglie quindicenne, si vestì da cacciatore e, contravvenendo all’ordine delle autorità che,per motivi di sanità pubblica, l’avevano obbligato a rimanere casa, nell’antico quartiere della “Panneria” dove viveva barattando mobili vecchi, perché, essendo la moglie morta di peste, avrebbe potuto essere probabile causa di contagio, in compagnia del suo cane e col fucile in spalla, si recò sul monte Pellegrino con l’intenzione di suicidarsi gettandosi giùdal precipizio prospiciente il mare dell’ Addaura.Al momento di mettere in atto il suo triste intentogli apparveuna splendida figura di giovane donna bella e colvolto splendente “come un angelo” che fermò il gesto suicida di Vincenzo.
Rosalia  lo condusse verso la grotta,
che ella gli indicò come la sua “cella pellegrina“, e scendendo con lui dalla cosiddetta “valle del porco” verso la città,lo esortò a pentirsi e a convertirsi, glipreannunciò che sarebbe morto di morte e gli promise la protezione per la sua anima se avesse riferito al cardinale Doria che le ossa rinvenute erano veramente le sue e di portare le reliquie in processione per la città di Palermo accompagnate dal canto del “Te Deum Laudamus” poiché lei, Rosalia, dalla gloriosa Vergine Madre di Dio aveva ottenuto la promessa che, al passaggio delle sante reliquie, la peste sarebbe cessata e la città di Palermo sarebbe stata risanata. Colpito dal morbo, come la Santa gli aveva predetto,  prima di morire confessò a padre Don Petru Lo Monaco, parroco della Chiesa di Sant’Ippolito Martire al Capo, le rivelazioni di Rosaliachiedendogli di informare della visione l’Arcivescovo.
Il 22 febbraio del 1625 Il Cardinale Doria, persuaso dal racconto di Vincenzo, dopo la sua morte, e convinto daldirettore della casa Professa, Padre Giordano Cascini, diede l’incarico di riesaminare per la seconda volta le ossa a un gruppo di soli padri Gesuiti, nessuno dei quali medico, ma tutti di incrollabile fede in Dio. I sei Padri, osservando l’insieme di ossa e di pietre, stabilirono che, senza dubbio, uno dei teschi appartenesse ad una donnaper le piccole dimensioni delle stesse, e poi  perché le ossa erano bianche, quasi candide, e le donne “ per il loro temperamento freddo e umido, hanno più bianchezza e morbidezza nelle carni e quindi anche delle ossa”.
Affermarono che quelle preziose ossa appartenevano con certezza a Rosalia Sinibaldi. Gli altri teschi appartenevano ad animali. Poiché sisapeva che l’unica donna vissuta sul monte Pellegrino era Rosalia, fu dichiarata l’autenticità dei resti trovati e a lei attribuiti.Il 9 giugno del 1625 l’arcivescovo Giannettino Doria, seguito da tutto il clero, dal senato palermitano, da molti cittadini eminenti e da tutta la popolazione, con grande solennità portò in processione l’urna contenente le sante reliquie di Rosalia attraverso le strade della città di Palermo. Al passaggio del corteo con le reliquie racchiuse in un’urna d’argento e al canto del Te Deum Laudamus, gli ammalati di peste guarirono miracolosamente.
In pochi giorni la città fu liberata dalla pestee fu ripresa la pubblicacircolazione di “persone, animali e mercanzie.Gli scrivani del re annotarono nei registri comunali il nome, l’età, il luogo della guarigione di tutte le persone guarite. Da allora Palermo ha sempre onorato Santa Rosalia dove il culto è particolarmente vivo.
Proclamata santa, Rosalia si festeggia,secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII che inserì Rosalia nel “Martirologio Romano”, il 15 luglio, perché ricorre l’anniversario del ritrovamento delle sue reliquie, e il 4 settembre, perchè ricorre il giorno della sua morte. Santa vergine dalla Chiesa cattolica, Rosalia fu eletta patrona di Palermo nel 1666, chiamata devotamente a Santuzza“, con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia con l’edificazione di chiese a Lei dedicate. A Palermo, nel mese di luglio ogni anno, si ripete il tradizionale “U Fistinu”.

“Il Festino” è la grande festa dei Palermitani in onore di Santa Rosalia per ricordare il giorno del ritrovamento delle spoglie mortali della Santuzza, avvenuto il 15 luglio del 1624, e il giorno in cui furono portate per la prima volta in solenne processione per la città il 9 giugno del 1625.
Quest’anno 2016 è stato ricordato il 392° Festino di Santa Rosalia  che si è svolto in 5 giorni, precisamente dal 10 al 15 luglio. Il programma è stato molto ricco di avvenimenti culturali, tradizionali, folkloristici.
Il 14 luglio, dopo la celebrazione dei solenni vespri pontificali, la grande “processione popolare“, trainando il carro trionfale a forma di barca, che si rinnova ogni anno e che ricorda il vascello, con in cima la statua di Santa Rosalia, è iniziata dalla Cattedrale, è proceduta lungo l’antico asse viario del Cassaro in Corso Vittorio Emanuele, ha attraversato Porta Felice ed è giunta fino al mare del Foro Italico.
Ai Quattro Canti, come da tradizione, il sindaco ha deposto i fiori ai piedi della statua della Santa gridando “Viva Palermo e Santa Rosalia!”
Un grande spettacolo pirotecnico ha concluso la serata.

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Foto da internet

Hanno accompagnato la processione i canti di devozione:

“Uno. Nutti e jornu farìa sta via!

Tutti. Viva Santa Rusulia!

U. Ogni passu e ogni via!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca ni scanza di morti ria!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca n’assisti a l’agunia!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Virginedda gluriusa e pia

T. Viva Santa Rusulia!”

ed ogni tanto il grido “E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia”. Ilcarro, che si è ispirato al carro del Pitrè, quest’anno è stato ricco di decori. Il pittore Jean Houel, nel 1776, nel descrivere il carro così lo definisce: «È un’arca di trionfo mobile che porta una grandissima quantità di musici e la cui base è come una conca, portata su quattro ruote. Nel mezzo il simulacro della giovane con splendido abito, sospesa su di una nuvola e circondata di raggi di gloria”.
Il 15 luglio per la città di Palermo è il giorno solenne dei festeggiamenti in onore di Santa Rosalia. In Cattedrale, durante la giornata, sono state celebrate varie messe solenni e, nel pomeriggio, è iniziato il cammino processionale delle Sacre Reliquie di Santa Rosalia contenute in un’artistica urna argentea. Hanno partecipato: l’Arcivescovo, il Sindaco, le Autorità civili e militari, il Capitolo Metropolitano, il Capitolo Palatino, il Clero del Seminario Arcivescovile, le Parrocchie e le Confraternite della Città. Il percorso si è snodato lungo il corso Vittorio Emanuele, Piazza Marina, dove l’Arcivescovo ha espresso il suo messaggio alla città di Palermo, e il ritorno dal Corso Vittorio Emanuele, Quattro Canti, Via Maqueda, discesa dei Giovenchi, Piazza Sant’ Onofrio, Via Panneria, Piazza Monte di Pietà per sostare davanti alla prima edicola votiva dedicata alla Santuzza, Via Judica, Via Gioiamia, Via M. Bonello.
I solenni festeggiamenti sono terminati col rientro delle sante reliquie in Cattedrale e con la benedizione eucaristica. Fanno parte della tradizione popolare palermitana alcuni alimenti: la Pasta con le sarde (la pasta chî sardi), i babbaluci (lumache bollite con aglio e prezzemolo), lo sfincione ( ‘u sfinciuni), il polpo bollito ( ‘u purpu), Calia e simenza (‘u scacciu), la pannocchia bollita (pullanca) e l’anguria (detto ‘u muluni). Allietano la festa le moltissime bancarelle allineate al Foto Italico che espongono le loro mercanzie.

Santa Rosalia si festeggia il 4 settembre, giorno della Sua morte, seguendo alcuni riti. Per tutta la notte, tra il 3 e il 4 settembre, i fedeli si sono recati in pellegrinaggio, a piedi scalzi o in ginocchio per grazie ricevute, al  santuario di Monte Pellegrino compiendo la tradizionale “acchianata”, la salita a piedi  per rendere onore a Santa Rosalia. Il santuario, scavato nella roccia, è il luogo dove Rosalia visse da eremita, come recita l’iscrizione sulla parete d’ingresso alla chiesa. Prima di entrare nella grotta si ammirano gli ex voto per grazie ricevute che, nel tempo, hanno riempito le pareti del vestibolo della grotta del santuario.
Una cancellata di ferro battuto divide la prima parte del santuario dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte che ricordano la presenza della santa. La statua di santa Rosalia giacente, in atto di esalare l’ultimo respiro, rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788), si venera sotto una grande teca di vetro trasparente all’interno della quale i fedeli visitatori depositano ori, monili, monete e banconote.

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La “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana. Ancora oggi in qualsiasi parte del mondo i palermitani si incontrano si salutano così: “Viva Palermo e santa Rosalia!” Inoltre Santa Rosalia protegge la città di Palermo dai terremoti, dalle tempeste e dai temporali. E’ anche protettrice dei marinai. I suoi emblemi sono: il giglio, la corona di rose, il teschio.
Auguro Buon Onomastico a tutte le donne che portano il nome di “Rosalia”.

 LA CHIESA DI SANTA ROSALIA A MISTRETTA

La chiesa di Santa Rosalia, comunemente conosciuta dai mistrettesi come la chiesa di Santa Rosa, è stata edificata nel  XVII secolo dalla congregazione allora esistente dopo il rinvenimento del corpo di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino nel 1624. Si trova esattamente all’inizio del paese percorrendo la strada proveniente da Santo Stefano di Camastra verso Mistretta.

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Della originaria costruzione oggi non rimane quasi nulla, però la chiesetta è stata ricostruita nella metà del XVIII secolo.Apparentemente, osservando la  facciata esterna, non sembra essere una chiesa in quanto il prospetto, poco piacevole alla vista, è rivestito dal grigio cemento.
Solo il piccolo campanile dà l’aspetto di una chiesa. Il portale originale è stato ricomposto e collocato sul retro della chiesa. Nell’architrave è incisa la data:1666.

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 Si accede all’interno della chiesa superando qualche gradino esterno. La chiesa è di modeste dimensioni e a navata unica.

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Modifiche strutturali e decorative sono state eseguite nel 1750. Danneggiata dal terremoto del mese di ottobre del 1967, la chiesa è stata riaperta al culto dopo molti anni. All’interno, inoltre, due dipinti dell’ambito di Vito D’Anna, riconducibili alla seconda metà del XVIII sec. La chiesa possiede pochi altari e pochi arredi. Nell’altare maggiore del presbiterio, entro la nicchia è custodita la statua lignea dorata e policroma di Santa Rosalia, opera di anonimo intagliatore siciliano risalente alla prima metà del XVII secolo.

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Adorna l’altare il paliotto in cuoio dipinto e pirografato della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare dell’Immacolata custodisce il dipinto ad olio su tela, dell’ambito di Vito D’Anna, della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare di San Michele Arcangelo custodisce il dipinto ad olio su tela, dell’ambito di Vito D’Anna, della seconda metà del XVIII secolo.

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L’altare di San Liborio custodisce la statua lignea policroma del santo risalente agli anni intorno al 1750. Arricchisce l’altare il sottostante paliotto marmoreo del tardo barocco.

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 L’altare del SS.mo Crocifisso custodisce la pittura murale con le Dolenti Donne risalente ai primi anni del 1750;

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Foto di Antonino La Ganga

Il Cristo in Croce, recuperato dal giovani del nuovo comintato, è stato collocato fra le Dolenti.

Il confessionale è in legno policromo e dorato risalente alla prima metà del sec. XIX.

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Il pulpito è di lego scuro con decorazioni floreali in metallo dorato

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Ringrazio la guida turistica il signor Nino Dolcemaschio per la sua disponibilità a fornirmi le preziose informazioni.

Aug 25, 2016 - Senza categoria    Comments Off on IL LIBRO DI POESIE “AD UN SOFFIO DA TE” DEL POETA DONATELLO SCIEUZO PRESENTATO NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

IL LIBRO DI POESIE “AD UN SOFFIO DA TE” DEL POETA DONATELLO SCIEUZO PRESENTATO NELLA SEDE DELLA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

 

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La sede della SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO di Mistretta spesso è teatro di importanti eventi culturali. Il 16 agosto del 2015 nell’accogliente sala delle conferenze, l’Ass.ne Kermesse d’Arte, nella terza giornata culturale, di seguito al concorso letterario “Enzo Romano”, ha attuato la presentazione del libro di poesie “AD UN SOFFIO DA TE” del poeta Donatello Scieuzo.

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Donatello Scieuzo è nato a Bivona (AG) il 02/05/1971 e risiede a Mistretta (ME) assieme alla sua famiglia.
Il poeta Donatello ha ottenuto tanti meritati riconoscimenti. Nel 2014, con la poesia “Notte”, è stato menzionato nel premio Letterario “Il Federiciano” a Rocca Imperiale Reggio Calabria per il 6° Concorso Internazionale di Poesia Inedita.
Erano presenti: Mogol e Alessandro, il figlio di Salvatore Quasimodo, Premio Nobel. La poesia è stata pubblicata da Aletti Editore nel libro “Il Federicano”.
Il giornale “Il Centro Storico” di Mistretta nel foglio informativo dei soci dei mesi Luglio-Settembre 2014 gli ha dedicato un lungo articolo pubblicando la sua poesia “T’ammiro” dedicata a Mistretta.

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In qualità di Presidente fondatore e coordinatore internazionale della –Scuola di poesia-School of poetry Unione mondiale dei poeti –U.M.P.

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 il Cav. Silvano Bortolazzi ha conferito a Donatello la Croce D’Oro Commemorativa della Scuola di Poesia per l’evento “Comune di Spadafora, 02/06/2015, festa della Repubblica con la scuola di poesia”;

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lo ha nominato “Membro Onorario Scuola di poesia-School of poetry Unione mondiale dei poeti –U.M.P. e responsabile Provinciale Messina della scuola di poesia –School of poetry Unione mondiale dei poeti U.M.P.

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Ha aperto i lavori  il signor Dino Porrazzo, presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte. Il signor Giuseppe La Via, presidente della Società fra i militari in congedo, ha elogiato Donatello Scieuzo, socio del sodalizio, per avere scelto questa sede per presentare il suo libro e fare ascoltare la lettura di alcune sue poesie. Donatello ha ringraziato il presidente e tutti i soci della Società per la calorosa accoglienza e per le parole di apprezzamento.

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Da sx: Dino Porrazzo- Giuseppe La Via-  Donatello Scieuzo

 Anche il sindaco di Mistretta, avv, Liborio Porracciolo, si è complimentato con Donatello per la stesura delle sue poesie, sensibili e meditate, che ha avuto il privilegio di leggerle in ante prima. 

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Sulle sillogi ha ampiamente relazionato il prof Antonio Oieni che così si è espresso: “ temi dominanti di questa raccolta poetica sono l’Amore e la Natura. L’Amore inteso come intrecci di sguardi, di sincerità, di serenità, di passione forte. Musa ispiratrice del poeta è la sua amata consorte, la signora prof.ssa Valeria Oieni. La Natura, tramite gli occhi del poeta, trasvola magica verso la luna, il vento, il sole, gli alberi, la sabbia del mare, le farfalle fino ad arrivare a Dio che rasserena l’animo del poeta che Lo ringrazia senza fine per l’amore che Egli dona a tutte le Creature. Il poeta trae ispirazione dalla VITA, che regala emozioni forti e anche leggere come il vento. Anche la piuma riesce ad ispirare l’animo del poeta: <leggera si eleva nel cielo ed insegue le direzioni del vento>”.

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Avendo letto le sue liriche, posso affermare anch’io che Donatello, nelle sue composizioni, trova sempre l’occasione per parlare di famiglia, il fulcro principe della sua esistenza, di amore per la vita, di fede cristiana, di gioia, di nostalgia, di speranza. In molte di esse emerge il suo entusiasmo verso le cose del Creato. La Natura, per Donatello, è bellezza, è seduzione, è evocatrice di grazia, è forza terrificante, è mare in tempesta, è distesa tranquilla di un lago, è corsa inarrestabile del fiume verso il mare, è vastità di una foresta, è silenzio di un bosco interrotto dal sibilo del vento. Il desiderio di esprimersi mediante la poesia denota, in Donatello, il possesso di uno spirito semplice e delicato, che sceglie proprio la poesia per trasmettere sensazioni, riflessioni e profondi sentimenti. Nelle sue poesie le riflessioni diventano sorgente di ispirazione per l’uomo che, con pudore e con intelligenza, apre il suo cuore e invita a lasciare sempre aperta la porta del tuo cuore.

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Al lettore offre la possibilità di leggere se stesso nella propria interiorità, di commuoversi, di impressionarsi creando così un’intima comunione di pensieri. Leggere i versi poetici, raccolti in “Ad un soffio da te”, significa aprire lo scrigno segreto e penetrare nell’intimo della anima del poeta per coglierne la ricchezza di sentimenti a lungo gelosamente custoditi.
La poetessa licatese Angela Ylenia Torregrossa, con la lettura di alcune poesie, tratte dal libro “ Ad un soffio da Te”, ha piacevolmente intrattenuto il folto pubblico che ha applaudito calorosamente.

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NOTTE

La notte giunge puntualmente,

le stelle illuminano il cielo

regalando magie ad ognuno di noi

e desideri da realizzare.

 DONNA

Figura sublime fonte di vita, guida e sostegno.

Tu sei piena di dolcezza e passione,

degna di essere amata, desiderata e rispettata.

Donna, ispiratrice dell’amore fonte di passione senza fine:

semplicemente Donna.

 HO SOGNATO L’ALBA CHE TI ACCAREZZAVA

Al mio risveglio

c’ era solo la tua ombra.

Sentivo l’aroma del caffè, ed odore di rose, mentre mi svegliavo

un solo pensiero,

grazie di esistere, mio dolce Angelo.

Un dolce ricordo è rimasto vivo, il desiderio dell’amore.

INVISIBILE DONNA

Invisibile donna,

donna di casa,

sempre pronta a tutto.

Presenza attiva in casa,

premurosa e paziente.

Basta guardarla negli occhi

per trovare la risposta giusta

ai tanti perché.

Regina del focolare domestico,

riferimento unico e insostituibile per i propri figli,

semplicemente, mamma e donna.

 LA FATA DELLA CASA

Giornalmente, senza mai stancarsi,

stracci e scope attendono la donna di casa.

Finestre al mattino spalancate

segnano il giorno della fatica, che l’attende.

Canti e musiche accompagnano

il suo gran da fare.

Tra i  fornelli, l’odore del buon cibo cucinato

segna la fine della mattinata.

La giornata continua, con impegno e dedizione

ai figli e al marito che, stanco dal lavoro,

ha bisogno di una carezza, di un sorriso e di un bacio.

Inestimabile il mestiere della donna casalinga,

duro, ma proiettato verso un futuro pieno di speranze.

L’unica forza che la sostiene

è quella di essere  pronta a ricominciare.

 DEDICA

Bellezza infinita,

elegante nei tuoi movimenti,

come una musa, donna

ispiri la fantasia del mio poetare.

Delicato e rispettoso,

mentre ti osservo,

ti dedico questa ode

dettata da emozioni senza fine.

Dalla voce del poeta Donatello, dedicata a Mistretta,  abbiamo ascoltato

T’AMMIRO

T’ammiro cara Mistretta, baciata dal sole,

ai miei occhi sei un topazio che brilla.

Antica e graziosa fra le montagne

fai sognar ad occhi aperti,

ed il vento pian piano ti dona l’aria pura,

mentre gli alberi ed il verde

colorano di vita i tuoi spazi.

Cara mia città sei sempre la mia regina

da amare e rispettare.

Ispiratrice di pittori e scultori

sei e sarai la sovrana unica di cultura ed arte.

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LA SOCIETA’ FRA I MILITARI IN CONGEDO DI MUTUO SOCCORSO A MISTRETTA

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La Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso ha la sua sede a Mistretta nel palazzo nobiliare Allegra Trasselli, ubicato prima del palazzo Russo, con l’accesso in via Primavera. Nella facciata principale, che dona in via Libertà, al centro del balcone è esposto lo stemma del vecchio casato.

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 Il 10 gennaio del 1887 fu costituita la Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso. Riconosciuta giuridicamente, con provvedimento del Tribunale di Mistretta in data 22 novembre 1902 a norma della legge 15 aprile 1886 N° 3818, è di durata illimitata. Gli scopi, come recita l’art. 1 dello Statuto, erano: “Di riunire tutte le classi in un’unica fratellanza, di soccorrere i soci ammalati e bisognosi, di elevare moralmente e politicamente lo spirito, di svolgere le attività proprie della Società (sport, escursionismo, educazione culturale ed artistica), dell’assistenza sociale, e di tenere desto e sviluppato maggiormente il sentimento del militarismo nazionale”. La Società era regolata da un preciso statuto antico che, man mano è stato rivisto ed ampliato. Potevano far parte della Società gli Ufficiali, i Sottufficiali, graduati e militari di truppa sia in servizio sia in congedo. I soci, qualunque fosse il grado conseguito durante il servizio militare, sono considerati tutti uguali.

I fondatori furono: i consiglieri comunali Francesco Consentino e Francesco Lo Iacono de Carcamo, l’avv. Salvatore Giordano, che fu eletto come primo presidente della Società. Eletto presidente onorario perpetuo fu il Principe di Napoli. I soci del sodalizio si distinguevano in: soci effettivi, soci corrispondenti, soci temporanei, soci benemeriti. Soci effettivi della Società dei Militari in Congedo potevano essere “gli individui di bassa forza dell’Esercito italiano in congedo assoluto o illimitato, gli ufficiali di complemento, di riserva e territoriale”. I soci “benemeriti” erano coloro i quali, “per benefici arrecati alla Nazione, al Paese o alla Società”, erano proclamati dall’Assemblea degni di tale “onorificenza”. Soci corrispondenti erano quelli che non fecero parte delle forze armate dello Stato, purchè di sana costituzione fisica. Erano soci temporanei quelli che, per ragione di impiego o di altro, non erano residenti a Mistretta. La persona, che voleva essere iscritta nei ruoli dei soci del sodalizio, dopo aver prodotto la domanda, dopo aver presentato l’attestazione di sana costituzione fisica e il congedo militare, doveva versare una somma in denaro come tassa di ammissione. Da questa tassa erano esclusi i soci temporanei. Tutti gli associati dovevano versare la quota mensile ogni quadrimestre.

La Società fra i Militari in Congedo di Mutuo Soccorso il 10 gennaio 1987 ha compiuto 100 anni. E’ tutt’ora in attività.

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Adesso la quota associativa annuale di ciascun socio è di 60 €. Sono esenti dal pagamento dei contributi mensili i soci che hanno compiuto cinquanta anni di iscrizione alla Società. I soci morosi per oltre quattro mesi non avranno diritto a visite mediche e al seppellimento nella cripta sociale in caso di morte. L’azione della Società è esercitata: dall’Assemblea dei soci, dal Consiglio, dalla Giunta dell’amministrazione, dal Presidente. Sono presenti anche il Segretario, l’Esattore, il Cassiere, il bibliotecario. La Società, infatti, è dotata di una biblioteca costituita da volumi ricevuti in dono e acquistati o ricevuti in premio e dall’abbonamento ad alcune testate giornalistiche. Il gonfaloniere porta la Bandiera in caso di partecipazione a solennità pubbliche come la festa dell’Immacolata Concezione e del venerabile San Sebastiano che, essendo stato un condottiero, occupa il primo posto nella Società.

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Essendo una società di mutuo soccorso, il culto dei morti è rispettato. Il presidente pro-tempore e molti soci disponibili, con il gonfalone della Società, si recano ogni anno, in un giorno stabilito durante la ricorrenza dei morti, al cimitero monumentale per onorare gli estinti dignitosamente sepolti nella cripta sociale e dove assistono alla funzione religiosa della celebrazione della Santa Messa.

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Sono ospitati nella cripta sociale: il socio, la madre del socio se vedova, i figli maschi fino all’età di sedici anni e le femmine se nubili di qualunque età, le sorelle nubili, se orfane di padre all’atto dell’ammissione a socio del fratello. Non ha diritto al seppellimento nella cripta la moglie del socio separata dal marito. La vedova del socio non ha diritto al seppellimento quando, con la sua condotta disonorevole, offenderebbe la memoria del marito.

 

Aug 23, 2016 - Senza categoria    Comments Off on CYPERUS PAPYRUS I PAPIRI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

CYPERUS PAPYRUS I PAPIRI NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il Cyperus papyrus, la straordinaria pianta dall’aspetto molto caratteristico, comunemente chiamata “Papiro, Giunco del Nilo”,appartenente alla famiglia delle Cyperaceae, è originario delle zone umide ed acquitrinose di diversi paesi: dell’America meridionale, dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa. Sulla presenza della pianta in Sicilia i botanici hanno molto discusso se è una pianta autoctona o se è stata importata dall’Egitto. Una delle ipotesi più accreditate ha sostenuto che la pianta sia stata importata dall’Egitto già verso il 250 a.C. Altre ipotesi hanno sostenuto che sono stati gli Arabi ad introdurre la pianta in Sicilia, altre ancora che il Papiro sia stata una pianta autoctona.

Il nome “Papiro”, molto probabilmente, è stato usato per primo da Teofrasto. Al genere Papiro appartengono circa 600 specie.
Diverse piante di Papiro, posizionate nell’aiuola vicinissima al laghetto nella villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, di fronte all’Arundinaria e fra le due
Buddleia colvilei, necessitando di ambienti acquitrinosi, lì vivevano molto bene, amorevolmente curate dal signor Vito Purpari, come documentano le mie foto scattate qualche anno fa. Oggi in quell’aiuola i papiri non ci sono più.

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Tre vasi di papiri erano stati collocati dentro l’acqua del laghetto. Stavano bene, erano rigogliosi e vivaci. Rendevano il panorama del laghetto molto armonioso e gradevole. E dove vorrei che fossero di nuovo ricollocati!

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I tre vasi di papiri non stanno più là, sono stati spostati in un’altra aiuola attorno al laghetto, sotto le Cordyline australis. Soffrono la sete. Sono dei condannati a morte! La loro unica speranza è la generosità dell‘acqua del cielo!

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Molto raramente l’apparato radicale, formato dal rizoma che fissa la pianta al terreno tramite piccole radici di colore bianco, riceve una goccia d’acqua.

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Normalmente dalle radici si innalza il caule, o canna. I cauli, lisci, di colore verde scuro, alti circa 60 centimetri in una pianta ancora giovane, ma nella pianta adulta possono raggiungere anche 4 metri d’altezza, sono diritti, senza nodi, a sezione triangolare e con abbondante midollo. Di solito il Papiro non si pota, man mano che la pianta cresce e i cauli diventano gialli vanno rimossi tagliandoli alla base. Sui cauli, spogli nella parte inferiore, alla loro estremità si inseriscono le foglie, strette, lineari, sottili, arcuate e disposte ad ombrella che, nella parte centrale, portano i fiori piccoli e senza petali riuniti in infiorescenze, simili a dei ventagli, formate da spighette piumose. Fioriscono da luglio a settembre.

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 Le foglie sono impregnante di silice che le rende solide e con il margine spesso tagliente. Il frutto è un achenio allungato. Il Papiro si può riprodurre per semina in primavera, o per suddivisione dei rizomi della pianta, o per talea fogliare. Si taglia il caule con un’infiorescenza e si accorciano le foglie per circa la metà della loro lunghezza. Questa parte della pianta si pone, capovolta, in un recipiente pieno d’acqua. Quando si formeranno le radici e i nuovi germogli, allora la talea di Papiro si trapianterà in un vaso con del terriccio buono. Non è difficile coltivare il Papiro perché, essendo una specie rustica perenne, cresce normalmente all’aperto, negli ambienti umidi e con abbondante luminosità, ma non sotto i raggi diretti del sole. Il Papiro è una pianta che ha bisogno di tanta acqua, pertanto è bene porla in un luogo dove può assorbire liberamente la quantità d’acqua necessaria sia d’estate sia d’inverno. Non bisogna lasciare mai il terreno molto bagnato poiché l’acqua potrebbe provocare marciumi delle radici. E’ importante usare un terriccio molto poroso per non far ristagnare l’acqua. Durante il periodo primaverile ha bisogno di un poco di fertilizzante liquido, diluito con l’acqua d’irrigazione, che contiene azoto che favorisce lo sviluppo delle parti verdi. Non devono mancare: il fosforo, il potassio, il ferro, il manganese, il rame, lo zinco, il boro, il molibdeno, il magnesio, tutti elementi chimici importanti per una corretta ed equilibrata crescita della pianta. L’esposizione alla luce diretta del sole per lungo tempo, oppure la modesta quantità di luce, l’eccessiva o l’insufficiente provvista d’’acqua, la presenza della Cocciniglia farinosa e del Ragnetto rosso sono le cause principali del danneggiamento delle foglie che iniziano a marcire fin dalla base e mostrano le macchie brune sulla lamina e la punta necrotica.

Il Papiro è una pianta famosa sin dall’antichità perchè impiegata dal popolo Egizio fin dal XIV secolo e, successivamente, anche da tutte le popolazioni dell’area Mediterranea per la fabbricazione di materiale scrittorio. La pianta di Cyperus papyrus è molto abbondante e ancora presente lungo le sponde del fiume Nilo, in Egitto, e del Ciane, il fiume della Sicilia orientale che nasce dalle sorgenti Pisma e Pismotta e che sfocia nel porto grande di Siracusa. Sembra che la presenza del Papiro nell’acqua del Ciane risalga al III secolo a.C. quando arrivarono dall’Egitto alcune piante inviate da Tolomeo II Filadelfo all’amico Gerone II.

Attraverso le escursioni in barca lungo il corso del fiume si può ammirare la più grande estensione europea di Cyperus papyrus che cresce spontaneo lungo le sue rive. Il Consiglio d’Europa ha incluso il Papiro del Ciane nell’elenco dei biotopi di grande interesse naturalistico e, quindi, meritevole di MASSIMA TUTELA.

Questa estensione siciliana di Papiro è di grande interesse naturalistico e storico perché conserva l’antica tradizione della produzione della carta di Papiro. Per valorizzare e diffondere la cultura del Papiro, nel 1989, a Siracusa, è sorto il Museo del Papiro, un’istituzione intellettuale che raccoglie un’importantissima documentazione storico-scientifica. Oggi, considerato il vasto panorama che offre sulla storia del Papiro, l’ambiente siracusano è stato proclamato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. La prima testimonianza certa sulla presenza della pianta di Papiro nel territorio di Siracusa risale al 1674 fornita dal botanico palermitano Paolo Silvio Boccone che la segnalò nelle vicinanze di Augusta. Il merito di aver identificato il Cyperus papyrus fu attribuito al conte siracusano Cesare Gaetani, mentre Saverio Landolina fu riconosciuto il promotore della fabbricazione della carta a Siracusa nel XVIII secolo, merito che gli diede notorietà nel mondo scientifico e letterario. Egli non riuscì a rifare la carta con la stessa tecnica usata dagli egizi e non fu il primo a fabbricare la carta papiracea a Siracusa, ma diede un valido contributo alla storia del Papiro in Sicilia e alla produzione di carta di Papiro a Siracusa.

La pianta, già nota ai siracusani prima del 1674, era chiamata “Pappera, Pampera o Parrucca”. Era utilizzata dai pescatori siracusani per intrecciare corde e dai contadini per legare i covoni. Le ampie chiome verdi erano utilizzate come ornamenti e, durante le festività, erano usate per ricoprire i pavimenti delle strade e delle chiese. Era utilizzato anche per comporre splendidi mazzi offerti agli dei e ai morti.

Il Papiro era comune anche tra i greci intorno al IV sec. a.C. La principale fonte d’esportazione era la città fenicia di Gubal il cui nome greco “βίβλος” significa appunto “Papiro“. Questa pianta era usata per svariati usi: per l’edilizia, per l’abbigliamento, ma soprattutto per ricavarne materiale utilizzato per scrivere che, in seguito, è stato sostituito dalla carta. La sua fabbricazione risale ai tempi molto antichi tanto da ritrovare un rotolo di Papiro nella tomba di qualche faraone della prima dinastia. La migliore “carta papiro” risale all’epoca faraonica,tra il 3100 e il 332 a.C. Quella riservata ai testi sacri era chiamata “hieratica”. Intorno al 3000-3500 a.C., i sacerdoti e i contabili dei faraoni egizi scrivevano su un supporto leggero e duraturo: sui rotoli di Papiro fabbricati utilizzando gli steli di questa pianta acquatica. Sullo stesso materiale sono stati redatti i manoscritti rinvenuti nella grotta 7Q (Qumran) del famoso complesso di Qumran, nei pressi del Mar Morto, che alcuni considerano i più antichi testi evangelici redatti prima della conquista romana di quei territori avvenuta nel 70 d.C.

Per produrre i fogli di Papiro si procedeva così: si tagliava la parte superiore del lungo stelo delle piante in sottili strisce longitudinali larghe pochi centimetri e lunghe oltre un metro. Tali strisce erano poi disposte, l’una accanto all’altra, sopra un piano orizzontale, in modo da formare uno strato continuo e il più possibile omogeneo.

Su questo primo strato se ne collocava un altro, con l’accortezza di disporre le strisce incrociate parallelamente e perpendicolarmente in modo da ottenere una trama molto resistente. Il reticolo così formato era poi bagnato con acqua e pressato affinché le sostanze collanti contenute nelle fibre della pianta facessero aderire i due strati sovrapposti; successivamente veniva fatto asciugare all’aria. Incollando i margini di più fogli di Papiro si otteneva una striscia continua che si arrotolava per costituire il “volumen o rotolo”: in pratica era l’antenato del nostro libro. Il rotolo di papiro inviava distinti messaggi: arrotolarlo significava il “segreto, il portatore di notizia”, svolgerlo significava “la conoscenza, la rivelazione”.

La carta prodotta in epoca romana, fino al III sec. d.C., è ancora buona, mentre è scadente quella del periodo bizantino e arabo fabbricata in Egitto, in Sicilia, in Siria, in Mesopotamia. In Egitto la produzione è cessata nel XI-XII secolo d.C. e i metodi di fabbricazione della carta ad uso scrittorio non furono più tramandati. Soltanto nel 1962 riprese una produzione simile a quella che gli antichi egizi definivano “emporetica”, cioè commerciale. A Siracusa, dove la carta di Papiro si produceva sin dal 1781, nei laboratori dell’Istituto del Papiro oggi si rivive ancora questo prodigio di tecnica e di arte?

Il leggerissimo legno del Papiro era sfruttato in Egitto anche per la costruzione di imbarcazioni. Nel linguaggio floristico il Papiro è la pianta del “mondo in gestazione, segno di gioia e di fanciullezza”. Nella Bibbia, nella Nascita di Mosè Esodo (2, 5-6) è scritto:Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi( i papiri) e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide un bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: <E’ un bambino degli ebrei>”.

 

 

      

   

  

Aug 15, 2016 - Senza categoria    Comments Off on CONCORSO LETTERARIO DI POESIA E NARRATIVA ”ENZO ROMANO” 2016 A MISTRETTA

CONCORSO LETTERARIO DI POESIA E NARRATIVA ”ENZO ROMANO” 2016 A MISTRETTA

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Nella prestigiosa sala delle conferenze del palazzo Mastrogiovanni-Tasca a Mistretta il giorno 13 Agosto 2016 si è tenuta la cerimonia di premiazione dei vincitori partecipanti al concorso letterario di poesia e narrativa, edita ed inedita, in dialetto siciliano “Enzo Romano” giunto alla IV edizione e promosso dall’Ass.ne Kermesse d’Arte.

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All’inizio interessante è stata la proiezione del video “A Filippieddu” del prof. Lucio Vranca.

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Enzo Romano è nato a Mistretta il 12 agosto 1933 ed è morto a Calolziocorte il 12 giugno del 2009. Ha insegnato nelle Scuole Elementari di Reitano, di Castel di Lucio, di Mistretta, di Calolziocorte. Ha condotto corsi di aggiornamento per gli insegnanti della Scuola dell’obbligo in varie province della Lombardia. Incaricato dal Provveditorato Agli Studi prima, dall’Università di Bergamo poi, ha insegnato nei corsi polivalenti di formazione professionale per gli insegnanti delle Scuole Elementari, Medie e Superiori. Ha collaborato con l’I.R.R.A.A.E. della Lombardia quale consulente per l’educazione logico-matematica nelle Scuole Elementari. Dal 1978 al 1998 ha collaborato con la rivista di pedagogia e didattica “L’Educatore” della  Fabbri Editore. Ha collaborato con diverse Case Editrici ed è l’autore della didattica per la matematica della “Guida Fabbri” per gli insegnanti delle Scuole Materne ed Elementari e di diversi altri sussidi didattici per l’educazione logico-matematica. Ha collaborato alla raccolta del materiale dialettale del “Vocabolario Siciliano”, opera fondata da G. Piccitto, diretta poi da G. Tropea e, infine, da S. Trovato. Cultore del dialetto, Enzo Romano ha pubblicato diverse opere in lingua dialettale riscuotendo notevole successo e, per questo motivo, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: nel mese di Dicembre del 1994 l’Università degli Studi di Palermo gli ha assegnato il premio “Giuseppe Cocchiara” con la motivazione di aver prodotto etnotesti,  in dialetto amastratino arcaico, che esprimono con grande efficacia e precisione i valori ormai sbiaditi dalla cultura popolare di Mistretta e dei Nebrodi.
Nel  mese di Febbraio del 2004 la sua opera “LUMAREDDI” è stata segnata dal “Premio Vann’ Anto’ – Saitta”. Nel mese di Maggio del 2004 a Caravaggio (BG), dal Cenacolo di Storia Patria di Enna e provincia, gli è stato assegnato il Premio Sicilia “Proserpina”, quale riconoscimento della vasta produzione di preziosi etnotesti siciliani.

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Ha introdotto i lavori il signor Dino Porrazzo, promotore del concorso letterario e presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte,

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 che ha salutato il pubblico presente, ha manifestato ampia soddisfazione per l’elevato numero di componimenti poetici e narrativi ed ha illustrato l’impostazione del concorso così articolata:

Categoria “A”- Poesia – Scuola Primaria e Sec. Primo grado;

Categoria “B”- Poesia – Scuola Secondaria;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie edite;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie inedite;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  edita;

Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  inedita;

La maestra, signora Mariangela Biffarella, ha illustrato la personalità di Enzo Romano commentando le sue opere: “MUDDICATI”, “ A CASA PATERNA”, “ALLA RICERCA DELLE RADICI” , “LUMAREDDI”, “CUNTARI PI NUN SCURDARI”,”JAUDDI TIEMPI”, “SI RACCUNTA CA NA OTA dove l’autore, in dialetto siciliano, descrive la cultura popolare a Mistretta attraverso ricordi e racconti dei nonni.

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 Il Vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Mistretta, avv. Vincenzo Oieni, ha portato i saluti dell’Amministrazione Comunale ed ha ringraziato l’Ass.ne Kermesse d’Arte per aver dato lustro ad un importante personaggio a cui Mistretta ha dato i natali.

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Il prof. Roberto Sottile, docente di Linguistica Italiana c/o Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo e membro del Comitato Scientificodel Centro Studi Filologici Linguistici Siciliani, si è favorevolmente espresso con queste sue parole: “ Ben vengano i concorsi di poesia dialettale, tra i quali quello di Mistretta, che rappresenta non solo l’occasione per render omaggio a una straordinaria figura di dialettologo e scrittore siciliano, ma anche per dare voce a quanti vogliano affidare a un codice generalmente marginale, com’è oggi il dialetto, il più potente strumento di espressione del loro più intimo sentire”.

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L’amico avv.Sebastiano Insinga, in maniera brillante come sempre, riscuotendo calorosi applausi, ha recitato la poesia “E-siddu fussi veru…!”, tratta dal volume “Lumareddi”, e qualche poesia della poetessa Graziella Di Salvo.

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Quindi, la conduttrice Mariangela Biffarella ha dato inizio alla fase fondamentale della cerimonia con la premiazione dei vincitori giunti a Mistretta anche da paesi lontani per riscuotere il meritato riconoscimento.

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Categoria “A”- Poesia – Scuola Primaria e Sec. Primo grado:

3° classificata: Emanuela Occorso, di S. Mauro Castelverde, per la poesia dal titolo: “U SORRISU D’UN MPICCIRITRU”.Ha consegnato l’attestato di partecipazione la dirigente scolastica prof.ssa Antonella Cancila.

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2° classificata: Greta Scalone, di Mistretta, allieva del plesso “Neviera” I.C “T. Aversa” per la poesia dal titolo: “GRAZIE NONNA”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Pina Manerchia.

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1° classificata: Francesca Artale, di Mistretta, allieva del plesso “Neviera” I.C “T. Aversa” per la poesia dal titolo: “ A ME PATRI”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Liria Bongarrà.

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Categoria “B”- Poesia – Scuola Secondaria:

1° classificata:  Diana Diaconu”, allieva del Liceo Artistico “Diego Bianca Amato” di Cefalù, per la poesia dal titolo: “GIUVANI”. In sua assenza ha ritirato l’attestato di partecipazione  la prof.ssa Antonella Cancila che ha letto integralmente la poesia.

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 Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie edite:

1° classificato: Salvatore Gaglio,di Santa Elisabetta, per la poesia dal titolo “LU CANTU DI LA NOTTI”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione Sebastiano Insinga.

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 Categoria “C”- Altri partecipanti – Poesie inedite:

3° classificato Vincenzo Aiello, di Bagheria, con la poesia dal titolo “CORSO BUTERA 333”. Ha letto, in sua assenza, Sebastiano Insinga.

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2° classificato Salvatore Bruno, di Finale, per la poesia dal titolo “RIUORDU”. Ha consegnato l’attestato di partecipazione Sebastiano Insinga.

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1° classificato: Gaetano Spinnato, di Mistretta, per la poesia dal titolo “CUNTIMI” magistralmente letta dalla maestra Mariangela Biffarella. Ha consegnato l’attestato di partecipazione il poeta Filippo Giordano.

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Categoria “C”- Altri partecipanti – Sezione narrativa  inedita:

Gaetano Spinnato, per il racconto “U FUNERALE RU ZZU PIPPINU – U MISIRU –“ ha ottenuto la menzione speciale con la motivazione: <Per la strutturazione del racconto; per il tema che evoca le vicende della migrazione di tanti siciliani; per l’ironia che pervade l’intera storia e che trova il suo culmine nella chiusura del racconto>. Ha consegnato l’attestato di partecipazione la prof.ssa Marisa Antoci.

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Il prof. Lucio Vranca ha letto la sua gradevole poesia “NA VOTA SI CHIAMAVA FUITINA”.

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In un’antologia sono stati raccolti tutti i testi vincitori.

Il presidente dell’Ass.ne Kermesse d’Arte, il signor Dino Porrazzo, concludendo i lavori, ha ringraziato i componenti della giuria,

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 l’Amministrazione Comunale di Mistretta, i Lions Club Mistretta  – Sez. Nebrodi per il sostegno economico, il prof.Giovanni Ruffino, direttore del Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani di Palermo e tutti i suoi preziosi collaboratori, l’Assessorato Regionale ai BB.CC e all’ Identità Siciliana per il patrocinio a titolo non oneroso alla quarta edizione del Concorso letterario “Enzo Romano”, la prof.ssa Lilly Blanco per il suo supporto durante le edizioni precedenti, i presenti intervenuti in gran numero.

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Ringrazio l’amico Emanuele Coronato per avermi concesso l’uso di alcune sue fotografie.

Per ricordare la cara Lilly

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Graziella Di Salvo

Aug 9, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ARUNDINARIA JAPONICA IL BAMBU’ NELLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

L’ARUNDINARIA JAPONICA IL BAMBU’ NELLA VILLA COMUNALE “G.GARIBALDI” DI MISTRETTA

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L’Arundinaria japonica, che sta appoggiata al bordo del laghetto della villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, quasi sopra le tegole del tetto che copre il motore dell’acqua, dopo la drastica potatura, che l’ha spogliata dai suoi numerosi culmi, adesso si sta riempiendo di nuovi giovani e teneri fusti che rendono l’habitat ancora più piacevole.

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L’Arundinaria japonica, il “Bambusa metake” o, comunemente, chiamato “Bambù”, è una pianta appartenente alla famiglia delle Graminaceae.
I Bambù sono presenti con più di 75 generi diversi e con oltre 1200 specie diffuse in tutto il mondo. Sono tutte originarie delle regioni tropicali e sub tropicali, esattamente dell’Estremo Oriente, della Cina e del Giappone, anche se sono state scoperte alcune specie spontanee in Africa, in Oceania e in America.

Il Bambù è una pianta di taglia media, può raggiungere anche i due metri d’altezza e, crescendo, sviluppa un arbusto tondeggiante. L’Arundinaria japonica è coltivata a scopo ornamentale perché, in tutte le stagioni dell’anno, assume sempre una colorazione verde e mantiene la foglia anche in inverno.

E’ una pianta straordinaria, molto vigorosa, a portamento arbustivo. Il culmo è quello delle Graminaceae, tipico di tutti i Bambù: rigido, alto, eretto, quasi lignificato e duro. Tanti culmi insieme spuntano dal rizoma sottostante a formare fitti gruppi specialmente attigui ad un laghetto o ad un corso d’acqua.

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Presenta internodi cavi e nodi cilindrici molto evidenti dai quali si sviluppano le foglie. Il culmo è conosciuto per la resistenza, per la leggerezza e per la flessibilità tanto da creare un commercio molto florido in tutto il mondo nell’artigianato per la produzione di cestini, “panara” e “carteddi”, nell’industria del mobile e del tessile, per la realizzazione di tessuti, di ventagli, di parquet perché le sue fibre sono molto lunghe.

Haicu (poesia giapponese)

Bianche gocce di rugiada

Sui pennacchi di canne del mio giardino

Potessi perforarle intatte,

Una collana per te.

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La pianta è saldamente legata al suolo tramite le radici rizomatose che si sviluppano considerevolmente in profondità. Il diverso modo di svilupparsi delle radici consente di identificare i vari tipi di Bambù. Vi sono, infatti, piante che sviluppano rapidamente il proprio apparato radicale rizomatoso strisciante allontanandosi velocemente dal luogo d’origine e diventando molto invasive; altre che si sviluppano più lentamente, affondano le radici in profondità e non si allontanano.
Le foglie, provviste di un corto peduncolo,sono sottili, lunghe, lanceolate, appuntite, a margine intero, erette o reclinate verso l’esterno, di colore verde scuro brillante sulla pagina superiore, glauche nella pagina inferiore.

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I fiori somigliano ai lunghi e grossi turioni degli asparagi, anche se le piante coltivate fioriscono raramente. Le spighette, formate da un numero vario di fiori, generalmente unisessuali, sono riunite in pannocchie: quelle maschili sono poste alla sommità della pianta, quelle femminili si trovano all’ascella delle foglie. Talvolta i due tipi di spighette sono riuniti sulla stessa infiorescenza che porta in alto gli elementi maschili e in basso quelli femminili.

Difficilmente è possibile osservare una pianta di Bambù fiorita anche nel proprio paese d’origine. In alcune specie la fioritura avviene contemporaneamente su vaste regioni e rappresenta un processo eccezionale che consuma in abbondanza energia e risorse nutritive.

Gli scienziati non sono ancora riusciti a capire perché, iniziata la fioritura di una specie in una qualunque località della terra, essa si estenda a tutti gli appartenenti a questa specie in qualsiasi parte del mondo e qualunque sia l’età di ogni singola pianta.

In genere, la fioritura avviene in aprile. Avvenuta la fioritura, il culmo muore, ma la ripresa vegetativa della pianta è assicurata dal rizoma sotterraneo. Alle volte il Bambù muore dopo che fiorisce. Una delle tante ipotesi attribuisce la causa all’impollinazione anemofila, cioè per mezzo del vento. Una singola pianta deve produrre una gran quantità di fiori per essere certa di poter produrre i semi; questo è già un notevole sforzo. La pianta, per lo stress subìto, potrebbe anche morire. Inoltre, essendo a crescita molto fitta, la “pianta madre“, per garantire alle piantine della nuova generazione spazio vitale, luce, acqua, aria, sali minerali, sacrifica se stessa.

Sono soltanto delle ipotesi in quanto le vere ragioni non sono ancora state chiarite. Il metodo più pratico per la riproduzione è la via agamica per divisione dei cespi, in primavera, oppure delle parti giovani del rizoma sotterraneo che possono generare nuovi culmi, oppure per talea, scegliendo un tratto di culmo non ancora lignificato e comprendente almeno un nodo e qualche ramificazione. La semina non è una pratica usata per la difficoltà di trovare i semi nei nostri climi.

L’Arundinaria japonica è una pianta un pò esigente e, per il suo equilibrato sviluppo, è consigliabile evitare di esporla a gelate tardive coltivandola in un luogo riparato e in uno spazio dove può ricevere almeno alcune ore di sole diretto. Il terreno deve essere fertile, profondo e ben drenato perché è una pianta che ama un ambiente umido.

Il clima primaverile, con un notevole sbalzo termico tra il giorno e la notte, le piogge abbondanti e frequenti, possono favorire lo sviluppo di alcune malattie fungine. Durante i mesi invernali, per proteggere la pianta dal clima rigido, bisognerebbe ricoprire la porzione di terreno attorno alle sue radici con foglie secche o altro materiale.

Il Bambù è la pianta dai mille usi.
Infatti, oltre ad essere un vegetale di incredibile bellezza, trova innumerevoli impieghi: nella manifattura della carta, delle canne da pesca, di strumenti musicali, nell’artigianato, in medicina, come materiale da costruzione, come utensili da giardino, per bastoni da passeggio.
Alcune specie sono utilizzate nell’industria cosmetica per la fabbricazione di creme e di lozioni perché la linfa contiene amminoacidi, vitamine e numerosi sali minerali. Per le sue caratteristiche la pianta è, pertanto, usata come emolliente, rinfrescante e tonificante della pelle; inoltre migliora la resistenza dei capelli e svolge un’azione protettiva verso gli agenti esterni.

Nella cucina asiatica il Bambù è usato come alimento umano, sotto forma di verdura, perché i giovani germogli si possono cucinare, e come cibo per gli animali.

Il buon funzionamento delle prime lampade Edison è stato favorito dall’impiego di un filamento carbonizzato di Bambù, pertanto si è apprezzata l’utilità della pianta anche nel campo dell’elettricità.

E’, inoltre, molto conosciuto in quanto nelle foreste di Bambù della Cina centro-meridionale, tra i 1800 e i 3000 metri d’altitudine, vive il Panda gigante, l’Ailuropoda melanoleuca, che si nutre proprio delle sue foglie. Il Panda, secondo le informazioni fornite dal WWF, è considerato la specie a maggior rischio d’estinzione per il continuo impoverimento del suo habitat naturale, per il bracconaggio per ricavare la sua pelle, per il basso tasso di natalità della specie, per la morte dei Bambù dopo la fioritura.

Per ricostituire una foresta aggredita dai ripetuti incendi, dai tagli impropri, dalla cementificazione selvaggia quanti anni occorreranno? Quando l’attività antropica non era così accentuata i Panda non avevano problemi di esistenza perchè potevano muoversi liberamente da una zona ad un’altra. Attualmente gli insediamenti umani rendono impossibili i loro spostamenti. Si stima che vi siano meno di 1000 esemplari di Panda divisi in poche decine di popolazioni.

Aug 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on INAUGURAZIONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO A LICATA

INAUGURAZIONE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO A LICATA

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Il giorno 27 luglio del 2016 ho assistito alla cerimonia di inaugurazione del Museo Archeologico all’interno del convento cistercense di Santa Maria del Soccorso, meglio conosciuto come la “Badia”, sito in via Dante a Licata,

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che, finalmente, dopo sette anni di chiusura per restauri e ammodernamenti, è stato riaperto e fruibile da quanti desiderano conoscere la storia antica di Licata.

Erano presenti: il sindaco della città di Licata, il dott. Angelo Cambiano,

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che, nel suo breve discorso, ha sottolineato la notevole importanza del museo ed ha elencato tutti gli altri siti che raccontano la storia di  Licata “Dilecta”, il prof. Gioacchino Francesco La Torre, docente nell’ateneo di Messina, che ha parlato degli scavi da lui diretti al Castel Sant’Angelo ed ha ringraziato i collaboratori, che operano nel campo dell’archeologia, per l’impegno e per il proficuo  lavoro, la dott.ssa Luisa Lantieri, Ass.re Regionale alle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica che, nel suo intervento, si è soffermata  sul precario stato delle strade siciliane non agevolmente percorribili, la dott.ssa Gabriella Costantino, Soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento, che ha messo in luce l’importanza di questo Museo nel territorio licatese,  il dott. Marco Alletto, dirigente del Commissariato di Polizia di Stato di Licata, la prof.ssa Vitalba Sorriso, unica presidente donna dell’Associazione Archeologica licatese, l’arch. Pietro Meli, già soprintendente ai Beni Culturali di Agrigento e presidente dell’Associazione Archeologica Licatese.

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Da sx: G. F.La Torre, Luisa lantieri, Angelo Cambiano, Gabriella Costantino, Pietro Meli, Marco Alletto,

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Vitalba Sorriso

L’arch. Pietro Meli ha parlato della nascita del museo archeologico grazie all’entusiasmo e al lavoro degli allora giovani membri della AAL.

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Foto di gruppo della AAL di Giuseppe Cavaleri e Marco Lanzerotti

 Alcune sue le frasi:”Il Museo Archeologico nasce nel 1971, in forme certo diverse dall’attuale,contestualmente all’Associazione Archeologia Licatese, che viene creata da alcuni giovani di allora col preciso intento di dare origine ad un museo per l’archeologia licatese. Con le prime vetrine allestite all’interno della biblioteca comunale, che danno vita al Museo Civico, si avvia il percorso che porterà nei primi anni ’90 del secolo scorso alla creazione dl Museo Archeologico Regionale della Badia. Fu proprio l’Associazione a proporre per prima, già nel 1977, la scelta di questo sito e a redigere un primo progetto che, negli anni successivi, la Soprintendenza fece proprio e attuò con fondi regionali. Non voglio ricordare ruoli e nomi di coloro che sono stati coinvolti a diverso titolo in tale lunga gestazione e realizzazione se non quello dell’ideatore dell’Associazione medesima perché, proprio grazie alla sua passione, al suo impegno, alla sua lungimiranza, Licata ha avuto il suo Museo Civico da cui deriva l’attuale Museo Regionale. Parlo di Totò Cellura, che da anni non è ormai più tra di noi. La fortunata circostanza che all’inizio della sua vita l’associazione si ritrovasse come soprintendente di Agrigento il prof. Ernesto De Miro e, come soprintendente aggiunto la dott.ssa Graziella Fiorentini, fece sì che essa potesse svolgere la sua attività con la loro piena fiducia, guadagnata sul campo, e con il loro appoggio. Fu, grazie alla dott.ssa Graziella Fiorentini, soprintendente succeduta al prof. Ernesto De Miro, che Licata ebbe finalmente il suo Museo. Devo compiacermi, oggi, che il museo riapra con la grandissima novità dell’esposizione degli scavi di Finziade, la cui preziosità di contenuti e di allestimento fa passare quasi in secondo piano la riduzione-direi del 60%- dei reperti precedentemente esposti. E’ stata una contrazione inevitabile a cui si potrà porre rimedio solamente con il restauro e l’allestimento dell’adiacente alla della Badia, che consentirà di esporre non solo i reperti archeologici rimasti fuori dall’allestimento odierno, ma anche le opere di proprietà comunale già destinate al Museo. Tornando brevemente alla storia dell’Associazione, con la  nascita del Museo Archeologico della Badia, gestito direttamente dalla Soprintendenza di Agrigento con personale proprio, la sua attività cessò quasi completamente essendosi essa basata, pressoché esclusivamente, alla gestione del nuovo museo civico. Ripresa solo da qualche anno,l’attività dell’Associazione si è rivolta ad altro. Ha collaborato, pertanto, con la Soprintendenza negli scavi archeologici di Monte Sant’Angelo condotti dal prof. Gioacchino F. La Torre dell’Università di Messina,nello scavo dello Stagnone Pontillo, nell’apertura estiva di quest’ultimo nel biennio 2014-2015 e, soprattutto, spendendo le sue energie nell’organizzazione del convegno che avrà luogo nel prossimo mese di ottobre nella ricorrenza del 1550° anniversario della nascita di San Calogero. In tale circostanza, di concerto col Comune, con la Soprintendenza e con l’Arcivescovado di Agrigento, e con la partecipazione delle università siciliane, di archeologi etno-antropologici e storici, si parlerà non solo di San Calogero, ma anche della diffusione del Cristianesimo nell’agrigentino nei primi secoli dopo Cristo. Altro importante incontro, a cui l’associazione sta già lavorando con l’Amministrazione Comunale, sarà, nel 2018, la ricorrenza dei 2300 anni dalla fondazione di Finziade, che costituisce l’inizio della vita della città attuale. Sarà un appuntamento importante ai fini della promozione della città di Licata anche per il tramite della sua storia”.

Essendo stata anch’io membro dell’Associazione Archeologica Licatese voglio ricordare che il Centro Attività Subacquee, diretto dal prof. Carmelo De Caro, ha collaborato con la AAL per effettuare i recuperi in mare di alcuni reperti come, ad es. i resti dei cannoni.

Alla benedizione, impartita dal Rev.Padre Totino Licata, è seguito un lungo e caloroso applauso da parte delle tante persone presenti all’evento.

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I reperti, esposti nel Museo Archeologico in sei sale, secondo un criterio cronologico, raccontano la storia antica di Licata. Provengono dai siti più significativi del territorio di Licata e della bassa valle dell’Imera e testimoniano la presenza di insediamenti a partire da Neolitico. Provengono dalle contrade: Casalicchio, Colonne, Caduta. Poliscia. Sono ceramiche a decoro impresso, inciso e dipinto che caratterizzano il Neolitico (VI – V millennio a.C.).

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 L’età del Bronzo  (fine III – prima metà del II millennio a. C.) è caratterizzata dalla ceramica, detta di Castelluccio, a motivi geometrici dipinti in nero su fondo rosso, proveniente dai siti di Monte Petrulla, Monte Sole, Giannotta, Landro, Canticaglione, Muculufa, Sottafari, Calì.  

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L’età del Bronzo  medio  (XV – XIII sec. A. C.) è documentata nel villaggio di Madre Chiesa con ceramiche di uso comune.

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Il periodo arcaico  e classico è documentato nelle contrade di Mollarella e Casalicchio dove è stato rinvenuto il santuario dedicato a Demetra e Kore risalente al VI sec.a,C. Dal santuario provengono: lucerne, statuette fittili, testine, vasi.

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Le statue raffigurano: Demetra, vestita dal peplo,

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la Madonna del Soccorso,

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Foto di Francesco Sottile

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Foto di Francesco Sottile

 Grande rilievo assume la città ellenistica sulla Montagna, dove è stata identificata la città di Finziade, fondazione del tiranno agrigentino Finzia nel 282 a.C., che  consente la lettura urbanistica della città con le strade, gli isolati, le case. In prossimità di una vecchia casa signorile, ubicata a ridosso del castello, proviene il “Tesoro della Signora”, costituito da gioielli aurei finemente lavorati e da circa 400 monete d’argento, scoperto durante alcuni scavi effettuati sul monte Sant’Angelo.

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Foto di Francesco Sottile

Trasferito ed esposto ad Agrigento, è ritornato per essere esposto definitivamente nel Museo archeologico di Licata. La mostra sul “Tesoro della Signora” era visitabile alcuni anni fa nella sede centrale della Banca Popolare Sant’Angelo a Licata.

II 13 ottobre 2018, per la giornata del FAI, l’archeologo dott.Fabio Amato ha piacevolmente intrattenuto gli alunni di alcune classi del liceo “V.Linares”, accompagnati dai loro docenti,  illustrando i contenuti degli oggetti esposti nelle vetrine che raccontano la storia di Licata.

 

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Jul 26, 2016 - Senza categoria    Comments Off on L’ECHIUM ITALICUM SUBSPECIE SICULUM

L’ECHIUM ITALICUM SUBSPECIE SICULUM

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Amo le piante! Le osservo e le rispetto tutte allo stesso modo!

Nel mese di ottobre dell’anno 2015 da Licata giungevo a Mistretta percorrendo la strada statale 117. La mia attenzione è stata attratta da un cuscinetto di foglie aggrappate a un muro nei pressi della contrada “Cunigghiera”, distante qualche chilometro dal centro di Mistretta. Molto forte è stato lo stimolo a registrare l’evento tramite lo scatto della fotografia. Sapete come mi ha risposto il mio amico, il prof. Giuseppe Bazan? “sorride misteriosa… nascondendo la sua identità.Aspettiamo che un fiore la sveli”.

Essendo molto curiosa di conoscere l’identità di questa pianta che, inspiegabilmente, mi aveva incantata e, probabilmente anche stregata, temendo di non carpire il momento giusto della sua fioritura non risiedendo stabilmente a Mistretta, ho reso complice il mio amico, il dott.Luigi Marinaro e la sua gentile signora, la prof.ssa Matilde Bongarrà, che ringrazio per la loro disponibilità, affinchè fotografassero la pianta in fiore inviandomi qualche foto.

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Sono stata premiata!

 Nel mese di maggio di quest’anno 2016, percorrendo la stessa strada, ho notato che la pianta stava per fiorire. E’ stata così grande la mia gioia da coinvolgere anche la Flora Spontanea Siciliana e il prof. Alfonso La Rosa. Ringrazio tutti gli amici.

Finalmente la magica pianta, regalando i sui fiori, stava per appagare la mia curiosità.

 E’ l’Echium italicum, la pianta che avevo già ammirato in fiore lo scorso anno. L’Echium è stato classificato da Linneo nel 1753. Per maggior precisione, la popolazionesiciliana è riferita alla sottospecieEchium italicum L. subsp.  siculum (Lacaita) Greuter & Burdet.

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Il genere Echium comprende una sessantina di specie originarie dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa settentrionale, ma alcune si sono naturalizzate in altri continenti. Per esempio lEchium plantagineumè diventato infestante in Australia. In Italia l’Echium italicum è presente in tutte le regioni, ad eccezione del Trentino-Alto Adige, ma è più comune nell’Italia mediterranea, in Sicilia e in Sardegna.

Etimologicamente il termine “Echium” deriva da greco “έχις” “ vipera” . Gli antichi greci pensavano che queste piante fossero attive contro il veleno delle vipere. Probabilmente la credenza nasceva, secondo la teoria della “segnatura”, dalle caratteristiche anatomiche di queste piante: per la forma delle infiorescenze ricurve somiglianti alla testa di un serpente oppure per gli stami sporgenti dal fiore come la lingua del serpente, oppure perchè il fusto chiazzato di scuro richiama la pelle del serpente.

La specie “italicum” è riferita alla sua origine.

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 L’erba Echium italicum più comunemente è conosciuta col termine diViperina maggiore siciliana, erba viperina”. In Italia settentrionale è chiamata “Echio di Bieberstein”, in Toscana “Echio, Anchusa, Lingua di cane”, nel Veneto “Buglossa”, in Calabria “Vurrainazzu servaggiu”, in Sardegna “Pabulosu”, in Sicilia “Lingua viperina, Lingua di cani, Pizza di jattu”.

L’Echium italicum,appartenente alla famiglia delle Boraginaceae,è una pianta erbacea a ciclo biennale. Ecco perché ho dovuto aspettare due anni prima che fiorisse!

Nel primo anno forma la rosetta basale e nel secondo anno emette i fusti. E’ una pianta densamente ispida in tutte le sue parti perché rivestite da una peluria setolosa dura e pungente che possiamo verificare se, inavvertitamente, le tocchiamo.

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Le foglie basali, sessili, ravvicinate al suolo, disposte a rosetta, lunghe da 20 a 35 cm, di forma lanceolata, hanno margine intero con setole molli appressate. Le foglie cauline sono lineari e picciolate. Il fusto, eretto, nasce dalla rosetta basale ed è alto da 30 a 150 cm. 
I fiori, raccolti in infiorescenze piramidali, poco ramificate, sono addensati lateralmente al fusto.La corolla, campanulata-imbutiforme, ha la lunghezza del tubo uguale a quella del calice. Di colore bianchiccio, è piccola, pelosa all’esterno. E’ formata da 5 lacinie di cui le 2 superiori sono un po’ più grandi.

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 Dalla corolla sporgono 4-5 stami filamentosi, bianchicci, arcuati, glabri, lunghi il doppio della corolla. La fioritura avviene da aprile ad agosto. I fiori sono amati dalle api e permettono loro di produrre grandi quantità di miele monoflora dal gusto molto gradevole.

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 I frutti sono delle nucule a contorno triangolare, di colore grigiastro e ricoperti dal calice e dalle setole. Si separano a maturità per la fuoriuscita dei semi che sono duri e di colore bianco-perlaceo.

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 E’ consigliabile effettuare la semina in primavera o nella prima metà dell’estate. I semi germinano facilmente e le nuove piantine spuntano dopo 4-6 settimane. Fioriscono al secondo anno di età.

L’Echium è una pianta rustica e di facile coltivazione. Non necessita di terriccio particolare. Cresce nei terreni aridi e incolti, nei pascoli, ai bordi stradali, nelle discariche, ai margini degli abitati, nelle duneda 0 a 1300 metri sul livello del mare. Non ha bisogno di concimazione e di irrigazioni frequenti. Predilige una buona esposizione alla luce del sole.

Per quanto riguarda le proprietà officinali l’Echium ha le stesse virtù della borragine. I semi dovettero colpire profondamente l’immaginazione degli empirici. Infatti, la pianta, per il seme, fu ritenuta per molto tempo efficace contro i calcoli renali secondo la dottrina della “dottrina della signatura“. Per i principi attivi contenuti le foglie, in erboristeria, sono usate per le proprietà diuretiche, depurative e sudorifere per l’apparato escretore, per le proprietà antinfiammatorie ed emollienti per l’apparato respiratorio. La pomata è usata come antinfiammatorio sulle pelli arrossate, aride e sulle mucose boccali irritate. Una piccola quantità di fiori, immersi nell’acqua del bagno, esercita una delicata azione emolliente sulle pelli delicate. Le foglie della rosetta basale potrebbero essere commestibili. Andrebbero raccolte in primavera senza recidere la parte centrale da dove l’anno successivo spunterà lo stelo fiorifero. E’, comunque, più prudente non raccogliere erbe spontanee perché, anche se assunte in modeste quantità, potrebbero contenere sostanze tossiche.

L’Echium, come pianta ornamentale, può essere coltivato in vaso e addobbato come piccolo albero di Natale.

       

Jul 11, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA FESTA DELLA VISITAZIONE DI MARIA ALLA CUGINA ELISABETTA NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

LA FESTA DELLA VISITAZIONE DI MARIA ALLA CUGINA ELISABETTA NEL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

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Dopo tantissimi anni che abito a Licata, giorno 3  luglio 2016 nel Santuario di Monserrato ho assistito per la prima volta alla funzione religiosa e alla festa in onore della “Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta”, che si trovava in attesa di Giovanni Battista.

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Gli  evangelisti hanno scritto su Giovanni Battista.
Nel Vangelo secondo Luca (1, 5-80), in Apparizione a Zaccaria, si legge: “Al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giunti davanti a Dio, osservavano irreprensibili le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni. Mentre Zaccaria officiava  davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso. Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso.
Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse
: <<Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto>>. Zaccaria disse all’angelo: << Come posso conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni >>. L’angelo gli rispose: <<Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio>>.
Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo>>. Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava del suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: << Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini>>. Nel sesto mese della sua gravidanza Elisabetta ricevette la visita della cugina Maria”.

Nel Vangelo secondo Luca (1, 39- 56), in Visita a Santa Elisabetta, si legge: “In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito santo ed esclamò a gran voce:<< Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore>>.

Allora Maria disse:

<< L’anima mia magnifica il Signore,

e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

E santo è il suo nome;

di generazione in generazione la mia misericordia

si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia,

come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza,

per sempre>>.

Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Giovanno Battista è stato definito da Cristo “il  più grande tra i nati da donna”. 

Il nome Giovanni Battista deriva dal greco “Іωάννης”  “Вαπτιστής”, e dal latino “Iohannes Baptista” e significa “Dio è propizio”.

Devo ringraziare l’amico Ivan Frisicario che mi ha invitato a partecipare a questo evento religioso.

La funzione religiosa, con riflessioni Mariane, è stata celebrata nella chiesetta di Maria SS.ma di Monserrato dal Parroco e Rettore Padre Angelo Santamaria e alla quale ha partecipato molta gente.

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 Il fercolo è stato amorevolmente e devotamente addobbato dai giovani volontari: Andrea Occipinti, Raimondo D’Andrea, Luca Lombardo.

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Dopo la celerazione della Santa Messa, i presenti abbiamo assistito all’esibizione dei giovani dell’Associazione Culturale Zampognari Licatesi “V.Calamita” che hanno manifestato la loro bravura nel piazzale davanti alla chiesa e che ci hanno allietato con canti e balli tipici del folklore siciliano. 

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Particolarmente sentita è la processione dedicata alla Madonna di Monserrato.
La statua, che raffigura l’abbraccio di Maria e di Elisabetta, ha iniziato il cammino processionalelungo le strade di campagna in contrada Monserrato.

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 Nella sua semplicità questo è stato un momento ricco di amore, di fede, di devozione verso Maria Santissima come recita la massima:

Madonna di munzirràtu,tuttu u munnu àtu furriàtu e nni mia un ciàtu vinùtu: vinìti ora e ddatimi aiùtu”..

Fino a qualche anno fa il fercolo era portato a spalla dalle donne, tradizione oggi non più in vigore.

Alla fine della passeggiata ecologica, col rientro in chiesa della statua, i festeggiamenti sono terminati con la esplosione dei fuochi pirotecnici.

IL SANTUARIO DI MARIA SS.MA DI MONSERRATO A LICATA

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La chiesetta di Maria SS.ma di Monserrato è stata costruita nel XVI secolo  per volere di Don Giovanni Guevara Cama, capitano d’armi a Licata, per rispondere a un miracolo sopra i calanchi in contrada Monserrato a Licata.
Padre francescano Antonio Mario Serrovira, nella sua storia inedita di Licata, ha raccontato che il capitano, giunto a Licata per impossessarsi della città, fu travolto da un turbolento naufragio nel mare di Licata. L’intero equipaggio si salvò grazie alle preghiere rivolte alla Madonna di Monserrato.
La chiesetta è  circondata dalle ville nobilari di stile Liberty.
A causa dei continui scivolamenti del terreno, la chiesetta ha subito notevoli danni per cui, negli anni 1983-1993, è stata ristrutturata ex novo. Tuttavia nel prospetto conserva i pochi elementi architettonici originari.

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Salvata dalla rovina e risorta per l’impegno del parroco Vella, del Comitato e dei fedeli, la chiesetta è stata riaperta al culto dal Vescovo Mons. L. Bommarito il 3 luglio del 1983. Il 2 luglio del 1991 il vescovo Mons.Carmelo Ferraro  innalzò alla dignità di Santuario la piccola chiesetta intitolata alla Madonna di Monserrato.

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Si accede al santuario attraverso il superamento dei gradini di  una lunga scala esterna.

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Il santuario mostra il prospetto molto semplice adornato da tre campane, una più grande e due più piccole,  racchiuse entro finestrelle allungate. Sono sormontate da un arco che ternima con la Croce di ferro battuto. L’’interno, illuminato da due grandi finestre a vetri colorati, ha una navata centrale che contiene pochi arredi. Due grandi finestre a vetri colorati donano luce all’interno della chiesa.
L’altare maggiore è arricchito dalla statua del Crocifisso e dal tabernacolo.

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I quadri raffigurano:  l’Annunciazione dell’Angelo Gabriele

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 La “Visitazione e “l’abbraccio di Maria e di Elisabetta” fra Zaccaria e Giuseppe, che tiene nella mano sinistra il bastone  con i gigli bianchi fioriti,  simbolo di  essere stato scelto come padre putativo del figlio della vergine Maria.

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   Nella pareti laterali è scritto il testo originale latino “Ave Maria, gratia plena …”

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la statua della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta è al suo posto.

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La statua di legno, che raffigura San Giuseppe, è stata donata dalla famiglia dell’avv. D.co Orlando per devozione.

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 Il santuario è circondato da numerose palme, qualcuna purtroppo già colpita dal “Rhynchophorus ferrugineus”, il temibile Punteruolo rosso.

  
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Jul 1, 2016 - Senza categoria    Comments Off on LA CAMPANULA RAPUNCULOIDES SPONTANEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

LA CAMPANULA RAPUNCULOIDES SPONTANEA NELLA VILLA COMUNALE “GIUSEPPE GARIBALDI” DI MISTRETTA

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Il fiore! Il dono che Gea, la madre Terra, ha fatto alla Natura e all’umanità. Una varietà di colori eterogenei, di profumi, di forme semplici e strane, regolari o irregolari, effimeri o durevoli i fiori sono naturalmente molti; in essi sussiste l’incanto della vita.

Dice Guy de Maupassant: “La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito la cui aria, in primavera, è tutto un profumo”. Scrisse Chateaubriand che “ il fiore è il figlio del mattino, la delizia della primavera, la sorgente dei profumi, la grazia delle vergini, l’amore dei poeti”.

 I fiori non potevano passare inosservati ai poeti, ai pittori, ai musicisti, agli scultori, agli architetti, menti fertili e pronte, che hanno saputo trarre dai fiori ispirazioni per generare vere opere d’arte.

Nelle loro corolle, pur minuscole, grandi o mancanti, è nascosta l’alcova dove si innalzano padiglioni per favorire i più puri fra gli amori nel mondo vivente. Un fiore superbo, un altro semplice, solitario o in infiorescenza, ciascuno ha la stessa funzione: quella di consentire alla specie vegetale di appartenenza di tramandarsi.

I fiori allietano qualsiasi prato, qualsiasi bosco, qualsiasi giardino, qualsiasi aiuola, qualsiasi vaso del balcone.

L’Uomo vuole che il giardino sia sempre fiorito. Mette la rosa spinosa accanto alla gialla calatide del girasole, alla zinnia policroma, alla vellutata viola del pensiero dai vivaci colori lasciando che il verde delle aiuole faccia solo da sfondo. Di qualsiasi colore, bianco, rosso, azzurro, giallo, le corolle dei fiori, in un ciclo ininterrotto, fioriscono sempre. Tutti i fiori, a modo loro, dimostrano la gioia di salutare il sole.

Poiché le piante che fioriscono in primavera e in estate sono moltissime, per l’esperto giardiniere del giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta, il signor Vito Purpari, quando era in servizio al Comune di Mistretta, oggi in quiescenza, era sempre facile orientarsi fra le specie e le varietà per dare un aspetto cromatico e armonioso alle aiuole della “nostra” villa.

Conosceva i cicli di fioritura delle piante che esplodono in ogni stagione. Sceglieva le piante, componeva le aiuole, otteneva una ricca ed esplosiva fioritura soprattutto in primavera e in estate.

Per coltivare le piante sono indispensabili poche cognizioni della loro ecologia: le abitudini nutrizionali e ambientali, la presenza delle sostanze minerali nel terreno, l’humus, l’acidità del suolo, ossia il pH.  Ma è  la Natura a dare a ciascun ambiente le proprie piante, i propri fiori.

 E’ ancora la Natura ad insegnare il bisogno di distribuire nel giardino le piante per gruppi aventi le stesse necessità. Naturalmente vi sono anche piante indifferenti, che si adattano ad ogni suolo: sono le piante rustiche.

 Gioiamo di questo grande regalo che la Natura ci dà!

Bello questo discorso sui fiori, ma la nostra villa comunale “Giuseppe Garibaldi” e anche la villa “Chalet”, attualmente danno la possibilità di ammirare e gioire della bellezza dei fiori?

Possiamo oggi dire che la villa comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta è il gioiello di Mistretta?

Dov’è l’antico splendore della villa di alcuni anni fa quando in ogni periodo dell’anno mostrava le sue meraviglie?

Non c’è esplosione di fiori considerato che la primavera è andata via e l’estate è appena all’inizio!

Sono scomparse dalla villa le Lunarie, le Viole tricolor e Mammole, le Petunie e l’Althaea officinalis,

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le Digitalis purpuree, l’Antirrhinum majus, le Veronicahe spicata e variegata, l’Impatiens balsamina, la Buddleja colvei,  la Speronella, le Gazanie, il  Cosmos bipennatus, l’Helianthus  annuus, le Dalie variabili, i Tagetes, le Zinnie eleganti, le Celosia plumosa e cristata, l’Euphorbia marginata, la Bergenia saxifraga, l’Hydrangea macrophylla, il Coleus blumei, i Tulipani, la Fritillaria  imperialis, il Narcissus, l’Iris germanica e fiorentina, l’Hemerocallis, la Dracunculus vulgaris.

E’ appassita la Magnolia grandifolia che abbelliva il lato destro del busto dell’artista  Noè Marullo.

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E’ appassita la Clematide che abbelliva il lato destro del busto dell’on. Vincenzo Salamone.

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Non c’è più il Papiro che adornava il laghetto,

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è appassito da tempo il Pinsapo, albero che ancora non si abbatte.  Sono appassite alcune Tuje e molti Cycas sono in sofferenza.

E’ appassito il Carrubo che si incontrava alla fine del viale di sinistra.

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Era stato piantato nella primavera del 1993 come testimonianza per non dimenticare l’uomo che ha dedicato la sua esistenza, il proprio lavoro e che ha donato la sua vita per la lotta alla mafia.

L’albero di Carrubo è il simbolo della vitalità di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morbillo e agli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montanaro mentre percorrevano, all’altezza di Capaci, l’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi conduce a Palermo e di tutti i caduti per mano mafiosa. Era stato scelto proprio l’albero di Carrubo perché esso indica la continuità della vita senza pause, nemmeno quelle stagionali, perché Falcone, come l’albero, “vive”.

L’Associazione culturale “Progetto Mistretta” ha donato la targa per ricordare la persistenza dei valori di legalità e di giustizia.

Nella targa si legge: “Albero Falcone / coltivare la giustizia / per far crescere la civiltà / Mistretta ai caduti di mafia”.

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Erano le essenze vegetali presenti nel NOSTRO giardino fino a qualche anno non lontano nel tempo.

Ho citato solo alcune piante, ma potrei ancora ampliare l’elenco di quelle non più presenti nel giardino “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta.

Una domanda: noi, popolo amastratino, diamo alla villa il meritato Valore?

Non ci rendiamo conto della grande importanza naturalistica, ambientale, turistica che la villa possiede.

Chi dobbiamo rimproverare? E’ vergognoso NON SAPERE custodire ambienti così preziosi!

Son molto dispiaciuta!

Spero almeno che gli arbusti, le Palme, gli alberi ad alto fusto resistano alla “nostra” indifferenza!

Durante la mia recente permanenza a Mistretta ho assistito alla manifestazione della “Giornata dell’Arte” organizzata dall’IIS “Alessandro Manzoni” e all’”Assemblea Corradiniana” della Congregazione delle Suore Collegine della Sacra famiglia di Palermo.

Luogo d’incontro è stata proprio la villa comunale “Giuseppe Garibaldi”.

Ho notato che alcune piante spontanee di Campanula rapunculoides, poste vicine, a gruppi di sei, sette insieme, esattamente sotto il balcone belvedere, con i bei fiori violetti che coronavano gli steli verdi, davano alla villa un’immagine di straordinaria e di spettacolare bellezza.

https://youtu.be/QvLIJ86PaYg

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Le Campanule appartengono alla famiglia delle Campanulaceae e comprendono circa 250 specie di piante erbacee annuali, biennali e perenni alte da 20 fino a 100 centimetri e coltivate soprattutto nel giardinaggio come piante ornamentali perché si prestano per la formazione di aiuole e di bordure nei parchi, per la coltura in vaso sulle terrazze e, industrialmente, per la produzione del fiore reciso. Presentano ricche fioriture di vario colore: bianco, celeste, rosa-lilla, viola, blu, giallo.

L’etimologia di questa parola è abbastanza intuitiva: il nome del genere “campanula”, “piccola campana”, dal latino “campana”, indica la forma del fiore a campana. Il primo studioso ad usare il nome botanico di “Campanula” è stato il naturalista belga Rembert Dodoens vissuto fra il 1517 e il 1585.

 Tale nome era usato già da diverso tempo da molte altre lingue europee.

Infatti, nell’antica lingua francese le Campanule erano chiamate “Campanelles”, oggi si chiamano “Campanules” o “Clochettes”, in tedesco sono chiamate “Glockenblumen” e in inglese “Bell-flower” o “Blue-bell”. In italiano “Campanelle”. Tutte forme derivanti, ovviamente, dalla madre lingua latina.

Le Campanule sono piante “pioniere” importantissime nell’equilibrio ecologico naturale perché capaci di conquistare spazi appena colonizzati dal muschio e di aprire la strada ad altre piante. La loro piantagione nei giardini e nelle coltivazioni orticole già nel secolo XVIII comprendeva una ventina di specie. In Italia molte sono spontanee. Questo numero aumentò nel secolo successivo grazie ad un largo sviluppo delle importazioni europee dagli altri continenti.

Il bacino d’origine delle Campanule è la zona mediterranea dell’Europa. L’Asia, l’Africa, l’America del Nord, ma anche le isole del Capo Verde e le regioni artiche manifestano la loro presenza . È, comunque, dalle regioni mediterranee che si pensa abbia avuto inizio la distribuzione e la diffusione di queste piante in tutto il mondo. In Inghilterra molte specie sono state importate inizialmente per essere coltivate negli orti e, in seguito, come specie ornamentali. E’ stato merito del botanico inglese John Gerard (1545-1612) di avere introdotto in Inghilterra, alla fine del 1500, la Campanula medium e la Campanula persicifolia. Erano entrambe specie solamente della flora spontanea italiana, quindi del tutto ignote al clima insulare inglese.

La Campanula rapunculoides, presente nella villa Comunale “Giuseppe Garibaldi” di Mistretta,  presenta un portamento vigoroso, cespitoso, con fusto eretto, non molto foglioso e poco ramoso, alto circa 60 centimetri.

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Le radici sono di solito grosse e ricche di sostanze lattiginose. Le foglie, disposte a rosetta, sono di colore verde chiaro, tomentose, intere, alterne. Quelle basali sono dentate, più grandi di quelle cauline e più lungamente picciolate. Le foglie non sono persistenti alla fioritura.

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Il fiore ha la caratteristica forma a campanella. I fiori, ermafroditi, penduli, dal colore blu violetto, disposti in infiorescenze racemose, hanno calici con 5 divisioni, corolla con 5 petali lobati e appuntiti, 5 stami e le antere saldate.

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La fioritura avviene tra giugno e luglio ed è abbastanza prolungata. L’impollinazione è entomogama.

Il frutto, carnoso, è una capsula ovata che si apre mediante fori dai quali fuoriescono molti semi.

La moltiplicazione avviene per semina o per via agamica mediante la divisione dei cespi separando i numerosi germogli che la pianta emette attorno al vecchio ceppo dopo la fioritura. E’ meglio propagare le Campanula per divisione dei cespi, piuttosto che per seme, perché difficilmente si otterrebbero piante uguali alla pianta dalla quale si è raccolto il seme. Le piante ottenute da semi fioriranno dopo circa due anni.

Tutte le Campanule sono piante rustiche e non particolarmente esigenti crescendo rigogliose sia al sole sia in luoghi con una leggera ombreggiatura. Amano un terreno ricco di sostanze organiche, fresco, umido, soffice e ben drenato. Non temono il freddo e il gelo e si possono coltivare in giardino in qualsiasi periodo dell’anno. Durante i mesi freddi la parte aerea può disseccare completamente per rispuntare l’anno successivo. Abbondanti annaffiature d’acqua a temperatura ambiente occorrono in estate evitando i ristagni. In primavera è necessario nutrire il terreno utilizzando un concime specifico per piante da fiore. Le Campanule non hanno molti nemici. Le Lumache e i Lumaconi, ghiotti di queste piante, sono il solo loro problema. Anche gli Acari possono arrecare gravi danni ad una parte o a tutta la pianta.

 Le Campanule sono coltivate soprattutto come piante ornamentali, ma alcune specie vengono utilizzate in cucina.  Le radici e le rosette fogliari di Campanula rapunculoides e di Campanula persicifolia sono usate in insalata. Le radici carnose devono essere raccolte prima dell’inizio della fioritura. Le prime notizie di un uso commestibile di queste piante risalgono al XV secolo trasmesse dall’agronomo francese Oliviero de Serres (1539-1619) nel suo “Théàtre d’agriculture“.

 Lo scrittore e umanista François Rabelais, (1494 – 1553), nella serie dei cinque romanzi “Gargantua e Pantagruel”, dove l’autore racconta le avventure di due giganti, del padre Gargantua e del figlio Pantagruel, ne consigliava l’uso come insalate estive o autunnali. Le radici e le parti aeree della Campanula rapunculus, usate in medicina, hanno proprietà antinfiammatorie e rinfrescanti. Le foglie, applicate per uso esterno, combattono le verruche, gli infusi dei fiori sono utili nei gargarismi. Secondo molti studiosi, la Campanula rapunculus è nociva e quindi è sconsigliato l’uso interno.

Nel linguaggio dei fiori la Campanula simboleggia “civetteria e pettegolezzo”.

 

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