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Nov 13, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LA STREPTOPELIA TURTUR, LA TORTORA PRESENTE IN CONTRADA MONTESOLE A LICATA

LA STREPTOPELIA TURTUR, LA TORTORA PRESENTE IN CONTRADA MONTESOLE A LICATA

La Tortora presente nella contrada di Montesole-Giannotta a Licata negli ultimi anni ha popolato tutta la montagna grazie alla sensibilità del maresciallo Pennisi Salvatore che ha schiuso la porta della sua voliera, che ha dato libertà, non solo alle sue tortore, ma a tutti gli uccelli in essa ospitati.
Sicuramente la tortora domestica aveva socializzato con gli altri volatili dell’uccelliera, soprattutto con quelli d’indole tranquilla e di piccola mole.
É stato un gran gesto di sensibilità e d’altruismo!
Grazie all’accoglienza del maresciallo Pennisi, avendo le nostre villette quasi confinanti, i pomeriggi d’estate accompagnavo i miei nipoti, Ernesto e Giuseppe, a visitare gli uccelli dentro la grande gabbia e dalla quale si staccavano, dopo tante ore, con nostalgia.
Riproducendosi in cattività, la nostra osservazione degli uccelli è stata attenta e prolungata.
Ancora oggi, dopo tanti anni, percorrendo la traversa Sant’Antonino, lungo la strada che conduce in contrada Montesole – Giannotta, mi capita di osservare decine di coppie di tortore che saltellano tranquillamente sugli alberi e popolano intensamente questa zona.
Belle le tortore! Eleganti, allegre, chiacchierone, felici.

Streptopelia turtur 1 ok

Foto di Salvatore Russotto

La Tortora è simbolo di pace, di amore, di purezza, di armonia e di fedeltà della coppia.
La Tortora torna sempre al nido.
Il maschio e la femmina si alternano entrambi nella cova delle uova.
Nella Bibbia il vocabolo “tor”, “tortora” è, di solito, tradotto con “colomba“.
Quella di Noè non è, quindi, una colomba, ma una tortora.
Nel Cantico dei Cantici lo sposo dice alla sposa: “I suoi occhi, come colombe su ruscelli d’acqua” (5, 12). “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia” (5, 2 ).
La Tortora era un uccello sacro alla dea Venere poiché si pensava che facesse parte della triade trainante il suo cocchio.
Il nome odierno “Tortora” deriva dal latino “turtur, turturis“, una voce onomatopeica
che esprime foneticamente il verso caratteristico, vibrante del tubare, “turturr”, prodotto dall’uccello per il richiamo territoriale degli altri.
Nel Medio Evo, un uomo soprannominato “tortora” era ritenuto un essere senza un carattere forte.
La Tortora selvatica, la Streptopelia turtur (Linnaeus, 1758), è un uccello facente parte della famiglia dei Columbidi.
Ha la conformazione corporea allungata, circa 27 cm, e un piumaggio diversamente colorato.
Il vertice e la nuca sono di colore grigio cinerino, le spalle e parte delle ali sono di colore bruno – ruggine- marroncino con macchie scure, la gola e il petto sfumati davanti in un roseo scamosciato, che degrada leggermente in bianchiccio verso l’addome.
Gli adulti mostrano due piccole mezzelune bianche e nere su fondo bianco ai lati del collo.
Il becco, sottile, diritto, appena ricurvo all’apice, è adatto al tipo di alimentazione costituita da semi, da frutti secchi di piante erbacee, da germogli e da piccoli invertebrati.
Gli occhi sono orlati di rosso, la coda, piuttosto lunga, è bruno – nera bordata di bianco sulle penne laterali ed è notevolmente visibile anche quando l’uccello è in volo.
Si muove con movimenti rapidi e, quando spicca il volo, frulla rumorosamente.
Ha una vita media di circa 10 anni.
É un uccello vivace e mai aggressivo, in libertà è diffidente e astuto.
Prima di fermarsi in un luogo, vola lungamente in esplorazione alzando la testa, battendo le ali, fuggendo al più piccolo sospetto di pericolo.

Streptopelia turtur 2 ok
La Tortora è molto diffusa in Europa, in Asia occidentale e in Africa, da dove giunge nel mese di aprile sostando in ambienti aperti, sui fili elettrici, nei fitti boschetti dove nidifica.
In Italia è distribuita equamente, ma, man mano che si va verso il Nord, diventa sempre più rara.
In autunno, alle prime acque piovane, migra nell’Africa tropicale dove sverna.
Viaggia con un volo agile e veloce, diretto, ma irregolare, timida, vigile, anche perché è molto cacciata in estate.
Percorre grandi distanze alla ricerca di un clima più caldo e secco.
Ritornerà nella primavera successiva.
Vive in piccoli gruppi, ma predilige la vita di coppia.
Il maschio, quando la sua diletta si avvicina, comincia a salutarla inchinandosi più e più volte così profondamente da toccare col becco il ramo su cui si posa.
La segue, le gira intorno con affetto sempre maggiore.
La femmina si lascia pregare.
Ad un tratto, non resistendo al fervido amante, irrompe anch’essa in gemiti e sospiri.
Scambiandosi tenerezze, la coppia felice si dilegua nell’ombra nascondendosi nel verde.
Nidifica tra aprile e settembre, due volte l’anno, costruendo il proprio nido nei cespugli, nei frutteti, nei boschetti, sui rami intrecciati dei pini dove depone due uova bianche.
Dentro la voliera, il maresciallo Salvatore Pennisi preparava per la coppia una casetta di legno poco profonda, riempita di rametti, di foglie e di muschio con i quali i futuri genitori preparavano insieme il nido dandogli una forma piatta e rendendolo soffice con qualche penna.
In genere, covano alternativamente per circa 15 giorni.
I piccoli, nutriti nel nido per una ventina di giorni, saranno in grado di volare perfettamente dopo circa un mese.
Per noi è stato interessante seguire lo sviluppo degli individui, dalla schiusa delle uova fino alla crescita dei piccoli dentro il nido.
Un giorno è stato molto emozionante seguire con lo sguardo l’allontanarsi della famigliola di tortorelle libere di volare e padrone dell’universo!
Sicuramente sapranno cercarsi il cibo e un riparo in cui sostare. Tutte le tortore selvatiche, giovani e vecchie, completate le covate, si riuniscono insieme per beccare, bere e, a sera, per dormire.

Nov 4, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LO SPARVIERE NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

LO SPARVIERE NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

 

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E’ di notevole interesse, tra gli uccelli stanziali, la presenza, pur fortemente ridotta, dello Sparviere.
La sua presenza si nota più facilmente durante il periodo di passaggio quando viaggia alla ricerca di un clima più favorevole.
Ho visto volare uno sparviere e ho avuto, improvvisa, la consapevolezza di quanto rara fosse diventata tale visione.
Eppure, fino a qualche decennio fa, sparvieri e nibbi erano abbastanza comuni; mentre, per chi sapeva osservare, non era difficile scoprire la poiana su uno spuntone di roccia o addirittura ammirare il volo elegante del falco pellegrino.
Non è mia intenzione rimestare tra i ricordi per rivedere gli aironi che nidificavano nella zona di Mollarella prima della urbanizzazione o gli anatidi, di casa sul Salso, prima che il fiume diventasse inquinato e maleodorante.
Presente nel nostro territorio, ma non facilmente visibile, lo SPARVIERE , nome scientifico ACCIPITER  NISUS, è un uccello appartenente alla famiglia Accipitridae che, grazie alla sua struttura “aerodinamica”, vola agilmente tra i rami intricati degli alberi.
Lo sparviere è un piccolo rapace diurno, snello, lungo circa 25 cm, robusto, agile, comune in
tutta l’Italia. Il maschio è notevolmente più piccolo della femmina.
Ha una livrea grigia -plumbea intensa, uniforme nella parte superiore e uno spazio bianco sulla testa. La parte inferiore è bianca con delle sfumature rosa – cannella. Le ali, corte e arrotondate, gli permettono una
grande agilità e rapidità.
La coda è allungata e troncata, il becco breve e adunco. Le dita, pure lunghe, sono provviste di artigli ricurvi e molto affilati. Gli occhi gialli sono molto vivaci.

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Lo Sparviere si è adattato a vivere nella Montagna di Licata per le condizioni climatiche favorevoli.
Le biforcazioni dei tronchi dei numerosi alberi di conifere presenti nella mia campagna gli offrono una gratuita ospitalità, dove l’uccello vi può costruire il nido rudimentale fatto di minuti rami, che amplia ogni primavera con l’aggiunta di nuovi materiali.
Lo sparviere occupa, infatti, di solito lo stesso nido, anno dopo anno, o ruba quello di qualche altro uccello accomodandolo a modo proprio.
In genere è la femmina ad occuparsi della costruzione del nido apportando con le zampe erba secca, foglie morte, sterpi rozzamente intrecciati.
Il periodo degli amori comincia in primavera e il corteggiamento avviene mediante volteggi, picchiate, figurazioni ondulate ed emissioni di suoni.
La femmina depone un numero di uova variabile da due a cinque, bianche, spruzzate di marrone, impiegando anche quattro, cinque settimane prima della completa deposizione.
I piccoli si sviluppano in cinque, sei settimane.
I fratellini, nascendo scaglionati, hanno differenti dimensioni già dentro il nido.
É solo la madre che si occupa della loro nutrizione con le prede procurate dal padre che non è in grado di imboccarli. Questi rifornisce di cibo tutta la sua famiglia o si ferma quando la madre si allontana per andare a mangiare nei dintorni dell’areale.
Il momento della schiusa è molto delicato poiché i piccioni sono molto sensibili all’inquinamento, agli insetticidi e agli anticrittogamici usati in agricoltura.

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Lo Sparviere, infatti, in questi ultimi anni ha fatto registrare un crescente crollo del numero della popolazione.
É un uccello sedentario e stanziale, ma regolari movimenti migratori di individui provenienti dal nord europeo si registrano durante l’autunno e all’inizio della primavera, quando il transito dei piccoli uccelli è massimo.
Il suo grido spaventa veramente gli altri uccelli ai quali dà una caccia spietata.
É così accanito nel cacciare che non teme neanche la presenza dell’uomo e non esita a precipitarsi sulla preda.
Le corte penne remiganti, che rendono le ali arrotondate, e la lunga coda che funge da timone, lo aiutano a cacciare gli uccelli di modeste dimensioni. Li sorprende con straordinaria abilità catturandoli al volo, con fulminei inseguimenti, o in mezzo agli alberi e ai cespugli, acquistando un’alta velocità in breve spazio con poderosi battiti d’ala.
É un irriducibile distruttore anche di piccoli mammiferi e di rettili.
Ho assistito impotente alla cattura di una giovane, indifesa cinciallegra che stava tranquillamente passeggiando su un muretto a secco. Il suo movimento radente è stato più veloce dei miei tentativi rumorosi per distoglierlo dalla caccia e per avvisare la povera vittima dell’imminente pericolo.
Ha, quindi, trasportato l’animale sul posatoio e, sicuro e tranquillo, l’ha spiumato.
Le sue abitudini di caccia, basate sulla sorpresa e sulla rapidità dell’attacco, rendono piuttosto fortuito l’incontro e fugaci le osservazioni.
Vive in uno spazio ristretto ed è un rapace individualista e solitario.
Anche durante la stagione riproduttiva maschio e femmina mantengono distinti i territori d’azione, separandosi subito dopo l’allevamento della prole.
Essendo tutti i rapaci, in genere, in cima alla piramide alimentare, rappresentano la misura della salute ecologica di una regione.
Si può allora affermare che la piana di Licata e le colline che la delimitano sono in buona salute solo perchè stamattina ho visto uno sparviere?
Non è così semplice.
Si vedono, e non solo in campagna, molte, troppe gazze. L’esagerato proliferare delle gazze è dovuto alla rarefazione dei rapaci diurni che, mediante l’attività predatoria, in un ambiente in buon equilibrio, ne limitano la crescita demografica.
L’eccessiva numerosità di gazze è quindi un campanello d’allarme: vuol dire che sparvieri, nibbi, poiane e falchi sono assenti o in numero talmente esiguo da non riuscire ad esercitare il ruolo che la Natura ha loro affidato.
Qual è questo ruolo?
Gli uccelli da preda, per saziare il loro appetito e quello alquanto ragguardevole dei loro neonati, sono costretti a cercare qualcosa da mangiare praticamente dall’alba al tramonto.
Il loro cibo, rappresentato da altri uccelli, da piccoli mammiferi e da rettili, non è disposto a farsi catturare facilmente.
Al becco e agli artigli è allora più frequentemente immolato l’individuo più debole degli altri, ovvero meno forte e veloce nel sottrarsi alla morte, perché troppo vecchio o ammalato.
In Natura non c’è posto per i vecchi, poiché essi hanno già assolto la loro funzione primaria di tramandare la propria specie nel tempo per mezzo della riproduzione.
Un individuo infermo è poi una sorta di bomba biologica, un pericolo per la salute della specie; se è affetto da qualche malattia infettiva, la trasmetterà agli altri individui sani con i quali verrà in contatto contribuendo così alla sua diffusione.
Una malformazione ereditaria sarà geneticamente trasferita, mediante la riproduzione, alle generazioni future indebolendo la specie.
Ecco come i predatori attivi operano una selezione naturale concorrendo, alla fine, allo scopo di conservare nel tempo le stesse specie che uccidono.
Togliere allora i predatori ad una regione può significare compiere il primo passo verso l’estinzione di molte altre creature.
Altro che “uccello del malaugurio” associato dal dialetto licatese “Tici” alla figura dello sparviere!
Il ruolo dei predatori meraviglia sempre il giovane, perché intravede per la prima volta un aspetto imprevisto della Natura in cui ogni essere dipende dagli altri e l’esistenza dell’individuo è ben poca cosa di fronte alla salute della specie a cui appartiene.
É un concetto difficile da assimilare perché porta a conclusioni non antropocentriche.
E il licatese medio, come tutti gli italiani medi, pecca di eccessivo antropocentrismo
tanto da collocarsi sopra le realtà naturali e dimenticare che egli stesso è una realtà naturale.
Così il cacciatore elimina sistematicamente gli uccelli rapaci e i mammiferi carnivori: volpi, donnole, furetti….. perché li considera “competitivi”nei confronti della caccia, suo passatempo preferito”.
Pensa che, uccidendo crudelmente una volpe, egli avrà più conigli per sè e non sa che sarà proprio il contrario.
I conigli vecchi, ammalati, mentre prima erano selezionati ed eliminati dai predatori, in assenza di questi, trasmettono la malattia ai soggetti sani con conseguente riduzione del numero della popolazione.
Può il cacciatore considerarsi un meccanismo biologico di selezione naturale alla stregua dei predatori?
Assolutamente no!
Lo era l’Uomo del Neolitico, forse del Medioevo, fin tanto che cacciava per nutrirsi, oggi non più.
Ogni essere vivente colpisce o uccide solo per sfamarsi ed è, a sua volta, colpito o ucciso per sfamare altri individui.
Ogni vivente ha il suo nemico naturale, cacciatore o parassita, mentre la specie umana sembra fare eccezione.
Sembra, perché l’Uomo porta in sè il germe della propria distruzione.
Egli violenta ogni giorno la Natura disboscando, incendiando, spianando montagne, riversando veleni d’ogni genere, accanendosi contro le cose naturali che vuole piegare al proprio tornaconto.
L’Uomo si oppone ad un’esistenza in armonia con la Natura in nome della tecnologia, meraviglioso frutto del suo intelletto, ma non si è preoccupato molto di conciliarla con gli equilibri naturali.
Come trema di paura il topo granivoro tra i cespugli perché vede proiettarsi vicina l’ombra gigantesca dello sparviere che si libra pronto a lanciarsi,

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così non batte ciglio l’Uomo, o al massimo si dispera, cercando altrove le cause delle inondazioni e delle siccità, della distruzione delle foreste, dei raccolti infestati da innumerevoli parassiti, delle frane, dell’impoverimento di falde acquifere, della morte per fame.
Fino a quando non avrà veramente compreso qual è il suo ruolo nell’economia delle risorse naturali, egli sarà il nemico di se stesso, cacciatore e preda, ospite e parassita ad un tempo e la sua “Bestia nera” sarà sempre con lui, dentro di sè.
Molto efficace è la favola di Esopo “l’usignolo e lo sparviero”.
Un piccolo usignolo, pigro e ozioso, posato su un’alta quercia, cantava come solitamente faceva.
Uno sparviere, provato dalla fame per mancanza di cibo, avvistatolo da lontano, subito gli piombò addosso.
L’usignolo, molto spaventato e comprendendo che per lui era giunta la fine della sua vita, lo supplicò di lasciarlo volare dal momento che, essendo giovane e poco
energetico, non avrebbe certamente riempito il suo capiente stomaco. Se proprio avesse dovuto saziarsi, sarebbe stato costretto a cacciare qualche uccello di maggiore mole. Lo sparviere così gli disse: “Sarei uno sciocco se lasciassi andare il pasto, che ho già qui, per correr dietro a quello che non si vede ancora!”
La morale insegna che anche tra gli uomini, stolti sono coloro i quali, nella speranza di mettere insieme beni maggiori, si lasciano sfuggire quello che è in loro possesso. Ci si deve saper accontentare di quello che si ha!
Ovidio, nella mitologia latina, nelle “Metamorfosi” (XI, vv. 301-327), nel mito di Chione, racconta della passione di Mercurio e di Apollo per Chione.
Entrambi gli dei si erano innamorati della bella fanciulla dopo averla avvistata dal cielo nello stesso istante. Apollo decise di attendere il calare della notte per unirsi a lei; Mercurio discese immediatamente sulla
terra per possederla addormentandola con la sua verga. Mercurio e Apollo, nello stesso giorno, soddisfecero il loro desiderio. Chione rimase incinta di entrambi gli dei.
L’essere stata amata da due divinità, l’avere avuto dei figli da loro, fecero inorgoglire Chione che si ritenne più bella della dea Diana. Per punire la giovanetta della sua vanità, Diana le trapassò la lingua con una freccia. Chione, a terra, circondata dai suoi due bambini e dal padre Dedalione, cercò di divincolarsi, ma inutilmente. Esanime, fu deposta sul rogo. Suo padre Dedalione, non sopportando la vista dell’amata figlia avvolta dalle fiamme, in preda al dolore, fuggì via, fuori di sé.
Giunto sulla cima del monte Parnaso, si gettò in mare.
Subito Apollo trasformò Dedalione, per pietà, in un uccello: “LO SPARVIERE”.
Foto dal Web.

Oct 26, 2023 - Senza categoria    Comments Off on MONDO DI SILENZIO-POESIA DEL PROF.CARMELO DE CARO

MONDO DI SILENZIO-POESIA DEL PROF.CARMELO DE CARO

“MONDO DI SILENZIO ”è la poesia tratta dal libro “SINTITI,SINTITI” del prof. Carmelo De Caro.
Non so quale necessità abbia spinto Carmelo, a pochi giorni dalla conclusione della sua vita terrena, avvenuta il 22 maggio del 2000, a scrivere il testo di questa poesia nel quale testo si nota la disillusione della fine alla quale si sentiva, probabilmente, ormai vicino.

MONDO DI SILENZIO

“Fresco di maestrale su per la collina
disseminata di bianche lapidi e marmi e croci e di eleganti frasi
fatte.
Da oggi un nuovo corpo spargerà i suoi umori sulla terra bruna.
Piangete donne, piangete.
Stormono i cipressi del mondo perduto,
rompono il silenzio degli avelli nel luogo dove tutti verremo.
Là dove riposa cullato dalle morbide ombre avvolgenti
del falso pepe il padre di mio padre, là anch’io sarò.
Una piccola foglia s’è staccata silenziosamente dal suo ramo, vola
sulle ali del vento.
Come è breve quel suo momento di libertà suprema!
Dopo aver sfiorato i riccioli del marmo bianco e freddo dell’angelo
è finita sull’osseo biancore d’una lapide.
Mondo di silenzio, mondo immobile, mondo di tutto e di nulla,
statico, rappreso, al di là del tempo, precluso ai viventi.
E’ lungo e diritto questo muro, non se ne vede la fine anche se so
che c’è.
Non voglio voltarmi a vedere l’inizio lontano sperduto tra le nebbie
del tempo e proseguo lungo le pietre provate da mille intemperie.
Paesaggio monotono, avanzo. Un cancello nel muro, una speranza
che subito muore.
Chiuso.
E il ferro è rugginoso. Dopo, ancora il muro. Vecchia pietra insultata
dalle ingiurie del tempo, quando finirai?
Non posso vedere oltre il muro e cammino, cammino accanto a esso
anche se ora il mio progredire è duro e faticoso.
Avanzo lungo questo muro con la speranza o la delusione che un
giorno possa finire”.
Licata, Maggio 2000

Oct 13, 2023 - Senza categoria    Comments Off on L’ASSIOLO, L’OTUS SCOPS NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

L’ASSIOLO, L’OTUS SCOPS NELLA MONTAGNA DI MONTESOLE A LICATA

Tutti i rapaci notturni, ad eccezione della civetta che è attiva anche di giorno, non sono facili da avvistare, ma gli inconfondibili versi testimoniano la loro presenza.
Il dolce, monosillabico “chiù” dell’Assiolo è la caratteristica voce che si ascolta nelle profumate notti d’estate.

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Tutti gli Strigiformi, che si sono evoluti nel periodo Cretaceo, circa 100 milioni di anni fa da un antico uccello notturno e che si sono distribuiti a livello mondiale, costituiscono un ordine di uccelli particolarmente interessante per le peculiarità della loro biologia e per il rilievo assunto nel folklore popolare.
In Italia medioevale e in America Latina erano ritenuti uccelli del malaugurio, in Grecia classica, in Mongolia, nei Paesi anglo-sassoni uccelli sapienti e sacri.
I rapaci notturni hanno dato luogo, nel corso dei secoli, alle più fantasiose e lugubri leggende.
Molte parti del loro corpo erano utilizzate nella farmacopea popolare come validi rimedi contro le patologie più strane e disparate.
La carne di gufo era ritenuta un potente afrodisiaco, mentre le zampe di assiolo erano considerate efficaci contro il veleno dei serpenti e il brodo di allocco era l’ingrediente principale delle pozioni magiche.
Purtroppo tali credenze irrazionali hanno spesso determinato feroci persecuzioni contro questi uccelli e, ancora oggi, in alcune zone del nostro Paese vige la macabra usanza di inchiodare civette o barbagianni sulla porta di casa per tener lontana la malefica iettatura.
L’aspetto antropomorfo e le l abitudini di vita hanno avuto certamente un ruolo primario tra le possibili cause di questa diffusa cattiva fama.
Sostituiscono i falchi nel ruolo di predatori e, al calare dell’ oscurità, sono in grado di catturare prede dalle dimensioni di una formica a quelle di un coniglio, anche se si concentrano soprattutto sui piccoli roditori o su altri uccelli.
Sebbene si servano dell’hoovering, ossia della caccia in volo, questi predatori cacciano, in genere, stando fermi su un posatoio da cui si lanciano, in una silenziosa e poco dispendiosa planata, sulla preda individuata con l’udito particolarmente sviluppato.
La vista, benché adatta ad operare in condizioni di bassa luminosità mediante grandi occhi, non è in realtà superiore a quella dell’uomo.
Le prede, uccise con gli artigli, sono costituite da: topolini, piccoli uccelli, rane, lucertole, vermi, coleotteri, farfalle.
Sono ingerite intere, mentre le parti non digeribili sono rigurgitate.
L’Assiolo, nome scientifico OTUS SCOPS, di modeste dimensioni, grande quanto un tordo e più piccolo di una civetta, lungo circa 20 cm, è riconoscibile per il suo aspetto di piccolo gufo.
Ha il volto quasi rotondo, incompleto e il margine superiore della fronte rialzato in corrispondenza dei ciuffi di penne folti, brevi, comunemente noti come cornetti. Ha orecchie evidenti, occhi gialli.
Il piumaggio varia dal grigio argenteo al marrone bruciato con striature verticali brune o nerastre.
Le ali sono lunghe, le penne copritrici macchiate di bianco, le remiganti e la coda barrate di chiaro.
Ha una sagoma molto affilata ed è ben proporzionato e svelto nelle pose e nelle movenze.L’Assiolo è l’unico rapace notturno europeo diffuso nell’area mediterranea dove arriva, ogni anno ad aprile, dall’Asia e dall’Africa attraversando il Sahara.
Un proverbio così recita: “Quando arriva l’assiolo, contadin, semina il fagiolo”!

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Predilige gli ambienti aperti della macchia mediterranea e della gariga dove, fra il lentisco, il terebinto, l’alloro, il corbezzolo, il pino, il carrubo, osservando ed ascoltando attentamente, è possibile scorgere il raro Assiolo solitario, che in primavera ed in estate emette il suo caratteristico, territoriale canto, ma che, qualche volta, è emesso dal maschio e dalla femmina in un monotono duetto.
Di giorno riposa tra i rami o nelle cavità dei tronchi.

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Nidifica in fori naturali di alberi o in vecchi nidi di altri uccelli o in anfratti rocciosi o in costruzioni abbandonate dove la femmina depone, verso il mese di marzo, in un nido rudimentale, da quattro a sei uova bianche che comincia a covare, per un mese circa, appena deposto il primo.
L’allevamento dei giovani dura in media due mesi e, ancora dipendenti, impegnano i genitori in un via vai tra il nido e i terreni di caccia richiamati dai loro suoni striduli e dai movimenti rotatori del capo.
I piccoli sono nutriti con: insetti, grilli, cavallette, scarabei per circa due mesi.

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La monogamia sembra la regola e il legame di coppia dura per tutta la vita.
Pur essendo molto simili nell’aspetto, tuttavia il maschio e la femmina differiscono per le loro dimensioni: la femmina è sempre più grande del maschio per la divisione dei ruoli nelle cure parentali tra i due sessi.
La cova delle uova è, infatti, compito esclusivo della madre, la caccia e il nutrimento della compagna e dei piccoli sono a carico del padre per tutto il periodo d’incubazione e per le prime settimane dopo la schiusa.
La femmina, proprio perché più grande, sa resistere meglio al freddo e ai periodi di possibile digiuno; il maschio, più piccolo, più agile nel volo, ha più riuscita nella caccia.
Qualche individuo sverna nell’area mediterranea, e, quindi, anche a Licata, ma la maggior parte della popolazione affronta, nel mese d’ottobre, i rischi di un viaggio migratorio verso le regioni tropicali africane poiché, nella stagione invernale, scarseggiano i grossi insetti di cui si nutre.
Prima di partire, l’Assiolo torna a volare sui campi alberati a rivedere e a salutare i luoghi dei suoi amori, delle sue cacce, dei suoi riposi, con una rifioritura vigorosa dell’usata “canzone”. Riparte solitario, passando incolume sopra la canna dei fucili dei cacciatori presenti in quella stagione nella nostra contrada di Montesole – Giannotta.
Non è facile avvistare l’Assiolo, ma il dolce, monosillabico chiù manifesta la sua presenza.
Di giorno rimane immobile addossato ad un tronco o ad un grosso ramo.

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Il suo piumaggio grigio brunastro, inciso da tante piccole zigrinature, lo rende simile alla corteccia screpolata degli alberi. Solo gli occhi appena socchiusi, dall’iride che sfuma dal giallo limone al dorato, svelano che è là.
Quando ha paura, schiaccia le penne contro il corpo, drizza le orecchie, chiude gli occhi e si trasforma in un insignificante ramo secco.
Il mio potente binocolo, ad un’accettabile distanza, senza disturbarlo, senza spaventarlo, mi ha permesso di osservarlo come se gli fossi stata vicina.
Purtroppo l’Assiolo, come gli altri uccelli, è in generale declino per la diminuzione degli insetti imputabile alle tecniche dell’agricoltura moderna più intensiva che prevede un ampio uso degli antiparassitari.
Le conseguenze sono: la riduzione di nicchie adatte per la nidificazione, il calo delle popolazioni di prede e i fenomeni di avvelenamento legato all’accumulo di prodotti tossici in questi uccelli che si trovano agli apici delle catene alimentari.
L’Assiolo ha ispirato la vena poetica pascoliana.
Inserita nella quarta edizione di Myricae nel 1897, “L’assiuolo” è considerata una delle più belle liriche della produzione di Giovanni Pascoli per due motivi fondamentali: per il valore simbolico e per il linguaggio.
L’Assiolo, piccolo uccello rapace notturno, emette un suono monotono,malinconico, lamentoso che Pascoli rende con l’onomatopeico “chiù”.
L’ASSIUOLO
Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
( tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?)
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
La poesia è la descrizione di un notturno lunare immerso in un’atmosfera arcana, gravida di sensi suggestivi legati da una trama sotterranea di echi e rimandi.
L’Assiolo è il protagonista di questo paesaggio notturno.
Nel suo canto lamentoso il poeta avverte qualcosa di misterioso, di terribile.
Descrive un’atmosfera iniziale, incantata e sospesa, che si converte in motivo di meditazione, d’angoscia, di tristezza, di dolore e di morte, che non permette il ritorno dei cari scomparsi e si materializza nel verso lugubre dell’Assiolo.
La voce inquietante, solinga, ripetitiva e misteriosa dell’Assiolo, nel diventare simbolo di pianto e di morte, fa nascere nel cuore del poeta un brivido di sgomento per il mistero che circonda la vita dell’uomo.
Anche nella narrativa di Giovanni Verga si nota una varietà sorprendente di uccelli.
C’è un parallelismo continuo tra gli stati d’animo dei protagonisti e il mondo dell’ornitologia.
Lo stesso tema è ripreso in Nedda, in “Primavera ed altri racconti”, novella in cui compaiono un pettirosso, “uccelletto del novembre”, canterino, che “sembra voler dire qualcosa”, e un Assiolo dal canto lamentoso.
Questi sono quadretti in cui s’immagina l’Uomo e la Natura consonanti di un’esistenza difficile e in cui è vibrante, come le ali degli uccelli in fuga, l’ansia di libertà.

Oct 1, 2023 - Senza categoria    Comments Off on L’ ORYCTOLAGUS CUNICULUS , IL CONIGLIO SELVATICO NELLA CONTRADA MONTESOLE A LICATA

L’ ORYCTOLAGUS CUNICULUS , IL CONIGLIO SELVATICO NELLA CONTRADA MONTESOLE A LICATA

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Quante volte ho incrociato il coniglietto selvatico percorrendo la strada interpoderale che conduce al mio villino in contrada Montesole a Licata.
Tantissime!
Soprattutto di sera, abbagliato dalla luce dei fari della macchina, l’animaletto interrompeva la sua passeggiata, bloccato, non curante del pericolo.
Potevo fare qualcosa? Certamente!
Fermarmi, spegnere le luci e cedergli la precedenza.
Certo il coniglietto non sapeva di avere incontrato un’amica!
Mi dava la possibilità di osservare da vicino il suo corpo, le sue movenze, la sua espressione, il suo stupore.
Trascorrendo in campagna il periodo estivo, lungo circa quattro mesi a contatto diretto con la Natura, la mattina, prima dello spuntar del sole, mi accovacciavo, seduta su uno sperone di roccia, aspettando l’arrivo dei coniglietti. Sapevo che sarebbero venuti. Puntuali. In tanti. Uno, due cinque otto. Tutti insieme!

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Giocavano, si rincorrevano, si disponevano a cerchio, si fermavano all’improvviso, si mettevano uno di fronte all’altro, calpestavano l’erba, drizzavano le orecchie, rosicchiavano la corteccia degli alberi o di un ramo, scavavano buche nel terreno con le zampette, muovevano continuamente il musetto. Erano insieme: grandi e piccoli. Appartenenti alla stessa famiglia o vicini di casa.
Tutti.
Passavo delle ore ad aspettare e ad osservare. Mi riportava alla realtà quotidiana Carmelo che mi diceva: “Nella la colazione è pronta”!
Purtroppo oggi gli eventi della vita sono cambiati! Carmelo non c’è più.
Al crepuscolo il fenomeno si ripeteva.
La mia attesa era premiata.

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I coniglietti venivano ad offrirmi un gradito spettacolo. Avevo imparato il loro linguaggio del corpo.
Quando appiattiscono le orecchie sulla schiena e si rannicchiano su se stessi vuol dire che hanno paura.
Se invece allungano la testa in avanti e allontanano la coda dal corpo, mantenendo sempre le orecchie appiattite all’indietro, sono pronti ad attaccare e a mordere.
Di solito, quando il coniglio mangia, si dovrebbe lasciare in pace e concedergli in queste ore importanti la possibilità di stare da solo.
Gli scontri violenti, che spesso avvengono tra conigli per un determinato ordine gerarchico, non sono disturbi comportamentali, bensì normali contatti sociali.
Un giorno, tagliando l’erba nel viottolo di collegamento con il villino dei miei vicini, ho sentito frusciare fortemente. Ho pensato ad un serpente.
Era un coniglio, un papà, grande, grosso, nascosto silenziosamente negli intrecci dell’erba alta.
Ci siamo spaventati. Io o lui?
Ho visto due occhietti impauriti che mi hanno fatto tanta tenerezza.
É stato emozionante!
Scientificamente il suo nome  è ORYCTOLAGUS CUNICULUS .

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Il nome “coniglio” deriva dal latino “cuniculus” per la sua abitudine di nascondersi.
Questo simpatico animale è stato chiamato così da Catullo, famoso poeta latino, per la sua abilità a scavare tane complicatissime fatte di cunicoli e di grotte.
Egli ha definito la penisola iberica, nel 50 a. C., la “Cunicoltosa Celtiberia”, ovvero “Terra dei Conigli”.
Aristotele lo chiama “dasypus”, i francesi “lapin”, gli inglesi “rabbit”, i tedeschi “kaninchen”.
Poco si sa sull’esistenza del coniglio nei tempi preistorici.
Si pensa che il coniglio e la lepre siano emigrati dall’Asia in Europa già nell’epoca terziaria.
I più antichi resti fossili, risalenti ad un periodo pre-pleistocenico, sono stati rinvenuti nel sud della Spagna dove questa specie era particolarmente numerosa. Sono stati scoperti nelle caverne dei graffiti raffiguranti scene di caccia con lepri e conigli.
In Turchia gli archeologi hanno trovato una sfinge, eretta 3500 anni fa, appoggiata su un basamento costituito da due giganteschi conigli.
Prima dell’era glaciale i conigli selvatici erano diffusi in tutta l’Europa centro meridionale e, dopo l’ultima glaciazione nel Pliocene, erano presenti solo nella Penisola Iberica e nell’Africa Nord – occidentale.
Secondo le testimonianze di Plinio, si può ritenere che il coniglio selvatico sia originario
dell’Africa settentrionale, da dove è stato introdotto in Spagna, moltiplicandosi rapidamente.
Sono stati i Fenici che, approdati nell’attuale Spagna intorno al 1100 a. C., scoprirono un animaletto e ne gustarono le carni: quelle del coniglio selvatico.
A loro si attribuisce la successiva ondata di colonizzazione nel bacino del Mediterraneo.
Plinio racconta che nelle Isole Baleari e a Lipari “La specie è tanto invadente da costringere gli abitanti a chiedere all’imperatore Augusto l’invio di milizie per distruggere questi animali” diventati una peste per le coltivazioni.
Plinio stesso sollecita le prime misure di controllo sulla popolazione.
L’imperatore Giulio Cesare narra invece che le dame usavano la carne come cura di bellezza per il corpo.
Il vero addomesticamento della specie ebbe inizio nel Medio Evo allorché i navigatori usavano abbandonare coppie di conigli nelle isole deserte in modo da assicurarsi una riserva di carne al viaggio di ritorno.
Dalla Spagna, il coniglio giunse in Italia per opera dei romani che impararono ben presto a conoscere la bontà delle sue carni diffondendo la specie nelle terre conquistate e trasmettendo il criterio dell’allevamento in cattività entro ampi recinti.
La fuga di alcuni individui dagli allevamenti ha consentito, a quest’adattabile specie, di formare in natura popolazioni stabili e riproduttive.
Intorno al secolo XIV il coniglio fu introdotto in Francia, in Germania e in altre regioni d’Europa.
In seguito, con l’aiuto dell’Uomo, si diffuse in tutti i paesi del mondo ed è l’unico mammifero, insieme all’Opossum, ad essersi conservato uguale dalla preistoria ad oggi.
L’ area di origine e di massima diffusione in Italia è la Sicilia dove il coniglio selvatico ha compiuto il suo miracolo riuscendo a colonizzare perfino l’infernale terreno lavico dell’Etna.
Tra gli Indiani d’America il coniglio era considerato un’ottima “cura” per rafforzare il corpo.
Famoso è l’esempio dell’Australia dove tre coppie di conigli, liberate nel 1859, in meno di trenta anni si sono moltiplicate fino a toccare i venti milioni di esemplari.
Il fatto non deve meravigliare se si calcola che una femmina può generare alcune centinaia di animali nell’arco di un anno.
Gli agricoltori, per fronteggiare il flagello, furono costretti a mettere in atto tutti i mezzi possibili, dalla caccia alla guerra batteriologica, importando dal Sud America il virus della mixomatosi, malattia letale.
Il coniglio è il simbolo della dea celtica Eostre citata nella mitologia nordica dal venerabile Bede (679 – 735) nel suo “De Temporum Ratione”.
La dea è collegata alla primavera e alla fertilità dei campi.
Il coniglio, in realtà, rappresenta la stessa divinità che si impone al dio dei boschi.
Per millenni il coniglio è rimasto un animale selvatico; solo negli ultimi tempi è stato addomesticato dall’uomo.

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Il coniglio non domestico è largamente rappresentato in tutto il mondo e ancora oggi è ritenuto dagli agricoltori un pericolo per le coltivazioni perché, essendo un gran divoratore, è capace di distruggere in poco tempo un campo coltivato!
Il merito di aver allevato e di aver cominciato a selezionare i primi conigli, con mutazioni naturali, spetta ai monaci francesi nel XVI secolo.
Nella seconda metà del secolo scorso, grazie al biologo abate austriaco Gregor Johann Mendel (1822-1884), scopritore dei principi dell’ereditarietà fattoriale che costituiscono la base della genetica moderna, cominciò la produzione di nuove razze morfologicamente molto diverse tra loro.
Appartenente alla famiglia dei Leporidi, il coniglio selvatico, grazioso e timido, è il capostipite del coniglio domestico.
É un animale di piccole dimensioni.
Da vivo pesa al massimo 2 kg ed ha un corpo lungo una cinquantina di cm compresa la coda, cotonosa, di 6 -8 cm.
La parte superiore della coda è marrone nell’adulto e, quando fugge, è visibile soltanto il bianco sottostante.
La testa, con due grandi occhi sporgenti, due orecchie molto mobili, lunghe 6 – 7 cm, grigio – brune esternamente e biancastre internamente, termina con un grazioso musetto arrotondato munito di lunghe vibrisse.
Caratteristico è il labbro superiore, sempre in continuo movimento, profondamente inciso da una piccola linea in senso verticale, da cui appunto il labbro leporino.
Il corpo, allungato, è dotato di una buona muscolatura e porta quattro arti.
Le zampe posteriori, più lunghe di quelle anteriori perché adatte al salto, quando l’animale è a riposo sono piegate a formare una zeta e gli permettono la fuga con balzi piccoli zig-zagando molto velocemente.
Anche le impronte sono inconfondibili.
Quando l’animale è spaventato o avverte un pericolo, si avvia verso la sua tana, dalla quale non si allontana molto, tambureggiando sul terreno per avvisare gli altri.
Tutto il corpo è rivestito dal mantello costituito da una corta e fitta lanugine e da lunghi peli robusti; è di colore grigio sul dorso con una macchia rossa sulla nuca, il ventre e la parte interna delle zampe sono biancastri.
Due volte l’anno rinnova la sua pelliccia facendo la muta.
Sempre attivo, il coniglio selvatico è gregario, socievole e vive in gruppi familiari, più o meno numerosi, all’interno di tane lunghissime, intricate, con moltissime entrate e uscite.
Ogni colonia è composta da maschi e femmine dominanti di rango superiore e da altri di rango inferiore.
Le tane sono molteplici e naturali trattandosi di un terreno calcareo; altre sono artificiali perché formate dall’ accumulo di terra di riporto, ora ricoperta dalla macchia mediterranea.
È difficile vedere il coniglio di giorno e, quando la vegetazione non è fitta, tanto da liminare le perplessità e da soddisfare l’appetito, il coniglio passa quasi tutto il tempo nascosto nella tana o accovacciato sull’uscio aspettando che il sole cali.
Svolge la sua attività prevalentemente di sera; si può incontrare di giorno nei luoghi dove non è disturbato o quando il tempo minaccia la pioggia.
Va al pascolo, ma sempre con prudenza, tenendo le orecchie ben tese per ascoltare eventuali rumori sospetti.
Prima di allontanarsi dalla tana, esplora minuziosamente il campo, si assicura che nessun pericolo lo minacci e, alla minima incertezza, raspa la terra con le zampe anteriori per avvertire i compagni.
Vive generalmente in terreni sabbiosi, aperti, incolti, pianeggianti, ben esposti, soleggiati e piuttosto asciutti, spingendosi non oltre i 500 metri d’altitudine in Inghilterra, fino ai 1000 metri sulle Alpi e fino ai 2000 metri sui Pirenei.
I cespugli gli offrono un riparo sicuro in cui scavare anche la tana, mentre le macchie erbose gli assicurano il cibo.
La sua tana è spesso identificabile dalla notevole quantità di piccoli escrementi che si trovano in prossimità dell’entrata.
Il coniglio è un animale pauroso, diffidente, curioso, attento, vivace, buono.
Sulla sua fama di “fifone”, però, sono stati concepiti molti modi di dire.
La vista del coniglio è eccellente. Ha un campo visivo che gli permette di vedere in tutte le direzioni senza muovere la testa.
Perciò, se avverte una qualsiasi presenza estranea, terrorizzato, fugge precipitosamente a gambe levate!
Corre per la paura di essere catturato.
Il suo senso dell’olfatto è molto sviluppato e gli odori costituiscono il più importante mezzo di comunicazione.
Il coniglio maschio usa, come linguaggio chimico, i feromoni prodotti dalle ghiandole poste sul mento e sotto la coda.
Per marcare il territorio il coniglio li strofina sul terreno, sui cespugli, sui rami e sui recinti.
Questi feromoni informano sul sesso, sullo stato riproduttivo e sulla posizione gerarchica.
In natura, il coniglio selvatico si nutre di una vasta gamma di alimenti che contengono i più disparati valori nutritivi.
Il regime alimentare è esclusivamente vegetale; erbe spontanee, radici e bacche, leguminose, cereali coltivati costituiscono la sua dieta principale.
Rosicchia sempre, soprattutto la scorsa degli alberi, per consumare i lunghi denti incisivi ricurvi, a forma di scalpello, che altrimenti, crescendo continuamente, gli impedirebbero di aprire la bocca per mangiare.
La presenza del coniglio selvatico provoca, in una determinata zona, la vastissima crescita di alcune piante come le ortiche perché non gradite al suo palato.
Il coniglio compie la ciecotrofia.
Produce, in pratica, due tipi di deiezioni: le cacarelle vere, dure, sono evacuate solo durante il giorno; le cacarelle molli, ricoperte di muco, sono espulse durante la notte.
Queste, recuperate con le labbra senza masticarle, sono nuovamente ingerite dall’animale che le aspira direttamente dall’ano perché ricche di vitamine del gruppo B e dei prodotti della degradazione della cellulosa.
Le cacarelle, elaborate dall’azione dei batteri, assieme ad altre sostanze, costituiscono un alto valore nutritivo.
La durata media della vita di un coniglio è tra gli 8 e i 10 anni.
Per raggiungere questa età deve, però, potersi muovere abbondantemente in uno spazio territoriale abbastanza grande.
Il corteggiamento dei conigli è relativamente semplice e, durante la stagione degli accoppiamenti, il maschio cerca attivamente quante più femmine è possibile procedendo in circolo o sfilando avanti e indietro.
La poligamia sembra la regola.
Spesso la femmina, di solito indifferente, nel periodo degli amori assume un comportamento irrequieto e aggressivo, nettamente in contrasto con la sua abituale timidezza.
Il maschio, passandole accanto, ruota il posteriore e le spruzza addosso dell’urina.
La maturità sessuale è raggiunta a 4 – 5 mesi d’età ancor prima di aver raggiunto lo sviluppo completo.
La femmina partorisce sei, sette volte in un anno, da febbraio ad agosto, dopo una gestazione di 28-30 giorni, generando da sei ad otto piccoli a nidiata.
Sicuramente le abbondanti piogge primaverili di quest’anno hanno ridotto notevolmente la prole per la distruzione dei nidi e per l’otturazione delle tane a causa delle frane.
Le femmine sono pronte all’accoppiamento il giorno stesso del parto.
In nessun altro animale gli istinti sessuali si sviluppano così precocemente come nel coniglio.
La madre rimane durante il giorno all’interno della tana ben imbottita accudendo con amore i giovani conigli nudi e ciechi, che sono allattati e svezzati a circa un mese d’età.
La loro crescita è molto veloce e, dopo 4-5 settimane, abbandonano la tana rendendosi indipendenti.
A circa 5 mesi di vita sono già adulti e pronti per la riproduzione.
La conigliera è fatta di lunghe gallerie ripiegate ad angolo che portano a tante “stanzette”.
Una è a fondo cieco, generalmente scavata dalla femmina per partorire; altre, comunicanti tra loro mediante la costruzione di ampi slarghi agli incroci, sono usate come abitazione e come rifugio degli adulti ed hanno numerose uscite. Ogni coppia ha la propria dimora e non vi tollera estranei.
La mamma fodera la “stanza” con ciuffi di soffice pelo, che strappa dal mantello dell’addome e dei fianchi, con erba secca e con foglie che spiana perché i nidi siano morbidi, caldi accoglienti per i nuovi nati.
I piccoli, senza pelo, stanno vicini tra loro per mantenere la temperatura ideale.
Aprono gli occhi a circa 10 giorni dalla nascita.
La madre li pulisce leccandoli. Alla fine della pulizia, li allatta allontanandosi per poi tornare a nutrirli solitamente durante le ore notturne.
All’uscita dal nido, chiude l’entrata con della terra per evitare che i predatori possano scoprire i piccoli.
Purtroppo il coniglio ha diversi nemici che gli causano malattie soprattutto durante lo svezzamento e la muta: due periodi piuttosto delicati della sua vita.
Mixomatosi, Escherichia Coli, Pasteurellosi, Stafficolcoccosi, Clostridiosi, Salmonellosi, Coccidiosi, Tricomoniasi, rogna, tigna sono solo alcuni nomi di malattie.
Inoltre la donnola, la puzzola, la volpe, i serpenti, alcuni rapaci diurni e notturni sono degli intrepidi cacciatori di conigli perché rappresentano la maggior parte della loro dieta alimentare.
Riescono ad entrare dentro le tane dove compiono vere e proprie razzie.
Le bisce cacciano i piccoli coniglietti direttamente dentro il nido, la donnola, se incontra il coniglio fuori della tana, lo cattura aggrappandosi al suo dorso, mentre la preda squittisce e fugge disperatamente fino a morire di collasso.
Il barbagianni e la civetta ghermiscono il coniglio durante la notte mentre pascola.
L’unico scampo è la fuga!
Ma il più reale e temibile nemico del coniglio è il Cacciatore.
Nel ‘600 i nobili francesi si divertivano a dargli la caccia avvalendosi di questo “sport” considerato un hobby fantastico.
Tutti gli uomini dovrebbero manifestare rispetto e protezione difendendo un animale più piccolo dell’”Animale Uomo”.
La caccia, usata dall’uomo primitivo, era dettata dalla necessità dei suoi bisogni alimentari, ma, con l’andar del tempo, si è trasformata in un vero “sport” che forniva all’uomo un cibo prelibato.
I discendenti di Romolo e di Remo, durante i loro banchetti, che si protraevano per intere giornate, disdegnavano le lepri nostrane preferendo quelle della Spagna e della Francia, più piccole e probabilmente molto più simili ai conigli selvatici. Arrivavano addirittura a pagare a peso d’oro i piccoli conigli estratti dal ventre della madre o sottratti durante il primo allattamento.
Nel Medio Evo la caccia era un divertimento riservato ai regnanti e ai nobili.
Si praticava con la balestra, con le reti, col falcone e con l’archibugio.
Dal Medio Evo al Rinascimento la situazione non è cambiata sostanzialmente.
I nobili cacciavano aironi, cicogne, cigni, fenicotteri, ma cominciavano ad apprezzare sempre di più la delicatezza e il raffinato sapore di pernici, di beccacce, di beccaccini, di fagiani, di merli, di conigli, di caprioli, di cinghiali, di cervi, di daini, cotti dal fuoco ardente dell’avidità.
La crudeltà del bracconiere, che caccia durante tutto l’anno, anche quando è proibita, senza tener conto dell’età dell’individuo, dello stato di maturità o della gravidanza in atto, provoca la mia rabbia e la mia disapprovazione.
Non mi è gradito neanche il cacciatore che, accompagnato dai cani e dai furetti, anche se col permesso della legge, si arroga il diritto di togliere la vita ad uccelli, a conigli, a lepri, a tutti gli animali indifesi, fiduciosi, inconsapevoli della malvagità di un “animale” più grande di loro, più potente, padrone indegno dell’universo che uccide e scarica con cattiveria la propria aggressività su esseri più deboli.
Allora il furetto costringe il coniglio ad uscire allo scoperto. Il cane intercetta il percorso fra l’animale e la tana impedendogli l’ingresso.
Il cacciatore, col fucile, spara.
Il coniglio, anche se è un abile maestro nell’ arte di correre e di descrivere una linea spezzata per sfuggire al cane, soccombe.
Non ha scampo!
É questo il torto più vile che “l’Uomo” fa ad un piccolo animale perseguitato da sempre.
Sono un “cacciatore” anch’io. Solo di immagini però!
La mia arma inoffensiva è la macchina fotografica.
Cacciatori…….imitatemi!!!!!

Sep 7, 2023 - Senza categoria    Comments Off on SOLENNI FESTEGGIAMENTI IN ONORE DI MARIA.SS.MA DEI MIRACOLI NEL SUO SANTUARIO A MISTRETTA

SOLENNI FESTEGGIAMENTI IN ONORE DI MARIA.SS.MA DEI MIRACOLI NEL SUO SANTUARIO A MISTRETTA

Dal 4 al 14 Agosto 2023 il popolo di Mistretta ha vissuto importanti, gioiosi ed emozionanti momenti di condivisione per i festeggiamenti in onore di Maria Ss.ma dei Miracoli.
Mons.Michele Giordano, arciprete del Santuario di Maria Ss.ma dei Miracoli così si è espresso: ” Il 15 dicembre 2019 abbiamo celebrato con solennità il IV centenario della prodigiosa sudorazione della statua marmorea di Maria Ss.ma dei Miracoli e abbiamo iniziato un Anno Santo Mariano che, a causa della pandemia, non abbiamo potuto vivere come avevamo progettato.
Dopo la riapertura del Santuario, in seguito ai lavori di restauro, abbiamo programmato una festa solenne di Maria Ss.ma dei Miracoli preceduta dalla celebrazione di una Settimana Mariana.
Vuole essere un attestato di amore alla Madre e Regina di Mistretta e dei Nebrodi, speranza liberatrice nostra e richiesta di grazie, impegno di tutti per preparare il futuro del nostro territorio sulla scia del suo glorioso passato.
Lo slogan che abbiamo scelto per la festa: “Insieme con la Madre per essere comunità unita nell’amore” vuole essere l’obiettivo che ci proponiamo: raccoglierci attorno alla nostra Madre per imparare a lavorare insieme convinti che solo l’unità ci consente di essere comunità che, nell’amore, prepara un futuro di speranza per le famiglie e per le nuove generazioni. Tutti insieme: lavoratori e professionisti, giovani e adulti, famiglie e consacrati,emigrati ed immigrati, sani e malati, vogliamo camminare uniti perscrivere una nuova pagina di storia della nostra comunità.
Con Maria siamo certi che il sogno diventerà realtà e che Lei presenterà a Gesù le nostre necessità:” Non hanno più vino,” e ci dirà ancora:” fate tutto quello che Gesù vi dirà” facendo sì che la crisi presente si trasformi in un nuovo cammino di vita, così come a Cana di Galilea Gesù, per intercessione della Madonna, ha cambiato l’acqua in vino. Il nostro Santuario vuole annunciare a tutti che Gesù, attraverso l’efficace e dolce Mezzo di Maria, Sua Madre, vuole continuare a donarci la Grazia e le grazie di cui abbiamo bisogno lungo il pellegrinaggio terreno in attesa di giungere alla gloria del cielo”.
In questi giorni il santuario di Maria SS.ma dei Miracoli è stato attivo centro propulsore di moltissimi eventi. Per l’apertura ufficiale dei festeggiamenti, il 5 Agosto 2023 il prof. Sebastiano Lo Iacono ha recitato brillantemente il “Magnificat” di Alda Merini.

Quando il cielo baciò la terra nacque Maria
che vuol dire la semplice,
la buona, la colma di grazia.
Maria è il respiro dell’anima,
è l’ultimo soffio dell’uomo.
Maria discende in noi,
è come l’acqua che si diffonde
in tutte le membra e le anima,
e da carne inerte che siamo noi
diventiamo viva potenza.

Germogliava in lei luce
come se in lei in piena notte
venisse improvvisamente il giorno.
Ed era così piena della voce di Lui
che Maria a tratti diventava grande
come una montagna,
e aveva davanti a sé
il Sinai e il Calvario,
ed era ancora più grande di loro,
di queste montagne ardenti
oltre le quali lei poneva
il grande messaggio d’amore
che si chiamava Vita.
E intanto si lavava
nelle fonti più pure
e le sue abluzioni
erano caste
perché Maria era fatta
di sola acqua.

Maria vuol dire transito,
ascolto, piedi lieve e veloce,

ala che purifica il tempo.
Maria vuol dire una cosa che vola
e si perde nel cielo.

Ella era di media statura e di straordinaria
bellezza, le sue movenze erano quelle di una
danzatrice al cospetto del sole.
La sua verginità era così materna che tutti i
figli del mondo avrebbero voluto confluire nelle
sue braccia.
Era aulente come una preghiera, provvida come
una matrona, era silenzio, preghiera e voce.
Ed era così casta e ombra, ed era così ombra
e luce, che su di lei si alternavano tutti gli
equinozi di primavera

Se alzava le mani le sue dita diventavano uccelli,
se muoveva i suoi piedi pieni di grazia la
terra diventava sorgiva.
Se cantava tutte le creature del mondo facevano
silenzio per udire la sua voce.
Ma sapeva essere anche solennemente muta.
I suoi occhi nati per la carità, esenti da qualsiasi
stanchezza, non si chiudevano mai, né
giorno né notte, perché non voleva perdere di
vista il suo Dio.

Salvate la madre di Gesù,
ella è dimora degli angeli,
ella è dimora della Parola.
La parola fiat
ha tagliato il suo grembo in due:
metà tenebra e metà dolore.

Salvate la valle del Signore.
Per camminare Dio bambino
ha bisogno di un prato,
per camminare Dio
ha bisogno del mondo.

Salvate la madre di Dio,
ella è tenera,
ella è solo una fanciulla,
ma tiene i coltelli della sapienza
nel grembo
per aprire un varco al demonio.

Lei lo affronterà,
la madre di Dio,
la migliore,
lo prenderà per sempre
lo caccerà all’inferno.
Lei,
l’eroina di tutti i tempi,
la dolce madre di Dio,
la tenera fanciulla d’amore,
lei aprirà un varco alla poesia,
lei aprirà un varco al sole.

Salvate la tenera madre di Dio,
i suoi seni acerbi,
le sue braccia bianchissime,
le sue mani che culleranno
il Dio vero.

Salvate i suoi fianchi di giada,
i suoi occhi che paiono stelle,
la sua pelle che è bianca
come il respiro.

Fu trapiantato in lei
l’albero e la luce,
il pesce dell’immanenza,
il Dio secolare,
ambrosia di tutte le genti.
Benedite la tenera ancella di Dio
e la sua signoria.
Ella diventerà la regina,
la regina dei cieli,
ella diventerà il manto secolare
che coprirà di gioia gli umani.

Salutate in lei
la porta del sorriso beato
e l’onniscienza futura:
ella ha previsto tutto
perché pur non avendo radici
Maria è la sola radice del mondo.

Ti è stato insegnato il peccato come legge
del demonio e tu non ti sei infuriata.

Hai solo guardato l’uomo come una terra
inondata di errori e hai tolto da lui le erbacce
del desiderio, la fame, la sete, il sonno, la grande
paura del dolore.
Chi ti guarda, chi ti conosce depone le armi
della difesa contro il dolore e capisce che solo
tu lo puoi annientare col senso della misericordia
di Dio.
Tu sei la legge divina ma sei anche un canestro
di pace e di fermento, tu sei la terra che
sorge, la terra che ti adora e ti ringrazia, tu
conosci i movimenti del cielo, la parola ignuda, e
i tuoi grandi occhi celesti sono degli antidoti
contro la morte.
Poter morire in te è la consolazione dell’uomo.
Fidarti la nostra anima vuol dire ingiuriare
quell’ala che è demonio e che pasce i nostri
visceri.

Tu sei bella, pellegrina di fede, nessuno è
mai riuscito a rappresentarti perché sei un
sospiro, e anche se Dio ha voluto vestirti di panni
di materia, lo Spirito ha guidato talmente in
alto il tuo cuore da rapirti perennemente in
estasi.

Il tuo grande uomo era Gesù, la tua spiritualità
si è incarnata in lui. Gesù è ridisceso nelle
tue viscere un’infinità di volte e tu l’hai
rivestito del tuo pianto secolare, del tuo pianto che
attraversa i secoli.
I secoli e la storia non moriranno mai finché
tu li attraverserai come una spada.

Sei la povertà e la ricchezza, il sogno e la
contraddizione, la volontà di Dio e la volontà
dell’uomo, che tu educhi alla contemplazione.
Il dolore è la tua casa, è la casa del mondo,
eppure tu sei la regina degli angeli, la regina
nostra, la regina di tutti i tempi.

Maria,
ci sono dei venti
che ardono e gemono in noi,
e dividono le nostre intime parti
in tanti flagelli
e ci rompono le ossa
e sono le tentazioni,
i progetti sbagliati,
le orme indisciplinate,
i feretri dei morti
che secondo noi non hanno reserrezione.

Quanto è immodesto l’uomo
che pensa che l’inverno congeli tutto
e non spera nella primavera.
L’uomo beve il proprio odio
come un buon vino,
e più odia e più si sente ebbro,
e più si sente ebbro
e più abbandona
le rive della tua giovinezza.

Gesù è una fiamma d’amore,
lui purificherà il mondo,
brucerà le scorie del dolore,
ma per fare questo, figlio,
abbiamo patito sopra un legno ignudo
senza vesti
trafitti da misere spade.
Il tuo è un dolore di carne,
il mio è un dolore dell’anima.
La mia anima urla, Gesù,
le mie carni soffrono.
Ridatemi le spoglie del mio bambino.
Non l’avessi mai visto correre per i prati,
non l’avessi mai sentito gridare dalla gioia,
non avessi mai incontrato il suo volto
così beato,
da rendermi beata tra le genti.

Le mie ginocchia
avide di molto cammino
sono state generate
dalla tua grazia.
Ho dovuto riposare
ai piedi della montagna
senza mai sormontarla
ma Ti ringrazio
per avermi destinata a servire.
Non ad essere
una regina potente
ma un’umile serva.
Tu mi hai concesso
la contemplazione.
Ho contemplato la Tua Sapienza,
ho contemplato la Tua Creazione.
Ho visto da vicino
come Tu mi hai creata
e come Tu mi hai benedetta.
Ho saputo tutto di Te,
come ogni donna terrena
sa tutto dell’uomo che ama.
Ella lo conosce dalla sua infanzia,
lo brama nei suoi destini,
lo imprigiona nei suoi deliri.
Così è la donna che ama.
Ma Tu,
che non avevi principio,
mi hai sprofondata
nella carne angelica
dove non si nasce
e non si muore
se non con la sua resurrezione
e il suo grido.
Io, Maria,
sono il tuo grido, o Signore.
Col tuo grido mariano
Tu hai sconvolto le genti,
con i veli della mia castità
hai messo pudore
dove c’era vizio e odio.

A seguire gli altri eventi: la descrizione del restauro delle antiporte del Santuario, l’inaugurazione della mostra di quadri “MARIA OGGI”, esposta nella cripta del santuario, e della mostra “LA DEVOZIONE ALLA MADONNA DEI MIRACOLI”esposta nella chiesa di Sant’Antonio.
Le celebrazioni eucaristiche sono state officiate da Mons. Michele Giordano, Arciprete del Santuario Maria SS.ma dei Miracoli di Mistretta, e da altri vescovi: da Sua Ecc.za Mons.Ignazio Zambito, Vescovo emerito di Patti, da Sua Ecc.za Mons. Salvatore Pappalardo, Arcivescovo emerito di Siracusa, da Sua Ecc.za Mons. Pietro Maria Fragnelli, Vescovo di Trapani, delegato della Cesi per la Pastorale Familiare, da Sua Ecc.za Mons. Giorgio Demetrio Gallaro,Vescovo emerito di Piana degli Albanesi, da Sua Ecc.za Mons. Giuseppe Schillaci. Sante messe sono state celebrate,inoltre, da: Don Daniele Bertino, Missionario del preziosissimo sangue e da Don Silvio Rotondo, Presidente dell’OASI Maria SS.ma Assunta di Troina con la benedizione Eucaristica degli ammalati.
Gli eventi sono stati talmente tanti che è quasi impossibile descriverli tutti. Molto applauditi sono stati: la sfilata del Complesso Bandistico Città di Mistretta e il concerto del Coro “Claudio Monteverdi” .
La celebrazione delle sante messe è stata preceduta dalla recita del santo rosario e animata dal Coro parrocchiale.
Riti sacri, convegni, spettacoli, balli si sono effettuati fino alla conclusione di tutti gli eventi il giorno 14 Agosto 2023.
Venerdì, 4 Agosto 2023, durante la mattinata, è avvenuta l’intronizzazione della statua di Maria Ss.ma dei Miracoli, opera marmorea attribuita a Giorgio da Milano e datata 1495. Lo spostamento della statua dal Suo altare è avvenuto grazie alla maestria dei tanti soci della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Mistretta.

La Madonna dei Miracoli, traslata e collocata sul fercolo processionale, è stata posta davanti all’altare maggiore della chiesa ed esposta alla devozione dei fedeli. A seguire la supplica alla Madonna dei Miracoli.
Il cinque dicembre del 1619 un violentissimo terremoto investì Mistretta e il suo territorio senza provocare morti fra la popolazione.
In quella occasione fu attribuito il titolo ”dei miracoli” alla Madonna di Loreto che ha sudato.
In un atto pubblico, conservato nella chiesa Madre, si legge:” La statua, il 5 dicembre 1619 dopo vespro mandò fuori per lo spazio di 3 ore con stupore e commozione di tutta la città tanto umore da tutte le parti che se ne poterono riempire caraffe e inzuppar bambagie e tovaglie”.
Il popolo mistrettese attribuisce alla Madonna dei Miracoli a protezione di tutte le calamità naturali, soprattutto dei terremoti. Il 16 febbraio del 1783 le autorità di allora, davanti al notaio, hanno fatto Voto alla Madonna dei Miracoli che così recita: “Da allora si è accesa in tal modo la fiamma della devozione che par che ognuno, sin dalle fasce, non respiri che devozione, confidenza, tenerezza ed amor filiale verso Maria dei Miracoli”.
Preghiamo tutti insistentemente la Nostra Madre, la Madonna dei Miracoli! “A Lei Mistretta ricorre nei bisogni, nei pericoli, nelle angustie

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Domenica, 13 Agosto 2023, è iniziata la festa di Maria SS.Ma dei Miracoli. Durante la mattina sono state celebrate le sante messe. Alle ore 11,00 il Solenne Pontificale è stato presieduto da Sua Ecc.za Mons. Guglielmo Giambanco, Vescovo di Patti, a cui hanno partecipato le autorità civili e militari di Mistretta.
Alle ore 20,00 è iniziato il cammino processionale del simulacro marmoreo di Maria SS.ma dei Miracoli lungo le vie di Mistretta accompagnata dalla banda musicale e da una folla di fedeli.

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Al termine del percorso è stato recitato l’atto di Affidamento della città di Mistretta e dei Nebrodi alla Madonna dei Miracoli. Quanta emozione!





Lunedì, 14 Agosto 2023, la statua della Madonna dei Miracoli è stata ricollocata nella sua cappella.

Viva Maria! Madunnazza dei Miracoli accogli le nostre preghiere.

 

 

 

Sep 1, 2023 - Senza categoria    Comments Off on E’ LA STORIA DI UN’ AMICIZIA VERA

E’ LA STORIA DI UN’ AMICIZIA VERA

La sera del tre agosto del 1989 erano appena suonate le 21,00.
In ospedale quest’ora segna di solito il riposo notturno e il silenzio è appena rotto da lievi lamenti.
Rosalia ascoltava il suo respiro e i battiti tranquilli del cuore.
Il dottor Pasquale Pellicanò aveva finito il giro d’ispezione. Aveva augurato la buona notte ai degenti, istruito gli infermieri di turno, Nicola e Tiziana, licenziato i visitatori, abbassato le luci diventate tenui, soffuse.
Sembrava che l’attività ospedaliera si fosse fermata. Gli infermieri, con il loro andare e venire, avevano terminato la frenetica giornata tra punture, misurazione della pressione sanguigna, campanelli di richiamo. Avevano cercato di combattere le malattie e di alleviare le sofferenze. Un lavoro molto delicato, il loro, e d’estrema umanità.
Letizia, un’infermiera, col suo carattere vivace, brioso e molto socievole, metteva allegria e tutti gli ammalati l’accoglievano benevolmente.
Un’altra giornata di dolore e di tribolazione era stata sopportata dagli ammalati e dai loro assistenti: come gli infermi soffrono fisicamente, così i parenti patiscono moralmente, ma sono contenti di poter essere loro utili.
Rosalia si trovava in quell’ospedale per assistere il marito Antonio, afflitto da anni da una malattia reumatica altamente invalidante. Non sentì mai la fatica nel dedicarsi a lui.
Aiutava anche i tanti altri malati là ricoverati e ai quali recava consolazione, tergeva le lacrime, dava da bere, riapriva la via della speranza. Non si stancava mai. Se il bene è vero, voluto per la gloria di Dio e per il servizio all’umanità, esso dona sempre forza, promuove sinergie, crea armonia anche fra i diversi.
Il direttore sanitario, il dottor Vincenzo Tedesco, la ringraziava ogni qual volta la incontrava nei reparti, perché pensava che Rosalia, per la sua nobiltà di cuore, fosse una caritatevole assistente sociale; invece era un’insegnante. Gentile e disponibile verso gli altri, ha assimilato una delle più belle massime di Madre Teresa di Calcutta: ” Ho scoperto il paradosso secondo il quale se amo fino a soffrirne, non esiste nessuna sofferenza, ma ancora più amore”. Rosalia è molto più contenta nel dare che non nel ricevere!
L’ospedale era una villa settecentesca molto bella, posta su una collinetta, a Ganzirri, immersa nel verde e trasformata in nosocomio dal proprietario, il dottor Franco Scalabrino.
E’ l’Istituto ortopedico del Mezzogiorno d’Italia.
E’uno dei campi vastissimi dove si può attuare il precetto dell’amore evangelico, esercitare la virtù della carità cristiana, quella chiave che apre le porte del paradiso e che mette la persona al centro della stessa fede religiosa e ne fa criterio di valutazione d’ogni istituzione politica, sociale e civile.
Bisogna aprire braccia e cuore all’accoglienza di ogni uomo proveniente da qualsiasi altra parte del mondo.
Mentre l’afa estiva si placava lasciando il posto alla dolce brezza notturna e l’aria odorava del profumo del gelsomino, Rosalia, affacciata al balcone della sua stanza nell’Istituto ortopedico del Mezzogiorno d’Italia, fissava lo sguardo ora in lontananza, sul mare dello Stretto di Messina e sui laghi di Ganzirri, ora nel cielo punteggiato da una miriade di stelle lontanissime, pulsanti tentando di individuare le costellazioni e i pianeti.
Quella sera la stella Sirio era ancora più brillante del solito. La luna, dai riflessi argentati, era apparsa timidamente nel cielo. Nuvole di panna montata le davano il benvenuto. Scure, veloci, spinte dal vento le passavano davanti velando il chiarore lunare diffuso e diafano. Rosalia era incantata dal loro movimento e dalle bizzarre forme che assumevano contorcendosi.
Il sole, andando a dormire, era tramontato da un pezzo non rallegrando più la terra, anche se leggere striature dorate ne avevano trattenuto l’ultimo saluto.
Enorme, placida, sveglia con la sua faccia rotonda e sorridente, che saliva sempre più in alto nella volta celeste, come un enorme lampadario, la luna illuminava la costa riflettendo sul mare la sua scia .
Immersa a contemplare tanta immensità e sorretta dalle sue conoscenze astronomiche, Rosalia conduceva la mente a ripassare le varie teorie sull’origine del sistema solare, ad ipotizzare il futuro e a recitare ad alta voce la poesia i cui ricordi la trasportavano molto lontano nel tempo, al periodo del Liceo.
… Costellazione
Notti d’estate:
veglia ancora un nitido cielo sulla collina
e mille stelle occhieggiano
silenti e misteriose
e invitano a respirare l’infinito e la sua pace,
dopo l’accanito sole
infuocato
fino all’ultimo raggio all’orizzonte.
In quella calma apparente, in quella pace che cosa sarebbe potuto accadere? Nulla!
Invece un grave incidente era avvenuto su una nave di nazionalità greca nel porto di Augusta.
Quel nefasto giorno ha cambiato la vita ad un giovane ganese di 37 anni: un marinaio clandestino che si era allontanato dalla sua terra natia, il Ghana, alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli.
Il Ghana, pur essendo uno stato molto ricco, non offre lavoro ai molti giovani che lasciano il paese con la speranza di trovare altrove migliori condizioni economiche e sociali.
La popolazione è sottomessa al governo e la gente è ridotta alla fame per motivi politici.
I ricchi sono pochi e conducono una vita molto agiata.
I poveri sono tutti gli altri e sono moltissimi. Una volta Rosalia gli ha chiesto come mai il popolo non si ribellava a questa forma di sottomissione. Ha risposto così: ”Come possiamo vincere noi? Il popolo ha le pietre e i bastoni, i potenti le armi!”
Intanto che era in compagnia dei suoi pensieri, improvvisamente Rosalia è stata richiamata alla realtà dal suono allarmante di una sirena dell’ambulanza, che, ancora lontanissima, spezzava, col suo grido, il silenzio notturno.
Il giovane di colore, disteso sulla barella, fu collocato momentaneamente nel lungo corridoio.
Rosalia gli si avvicinò non per curiosità, ma per umanità, per stringergli la mano.


Lui e lei si guardarono intensamente. Negli occhi di Rosalia brillava la luce dell’amore del prossimo, del sostegno morale, della fede; negli occhi dello straniero c’erano paura, terrore, sgomento e molto dolore.
Nel Vangelo secondo Matteo (22, 36-39), così rispose Gesù ad un dottore della legge: ”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Rosalia mette in atto questo comandamento ogni qual volta le si presenta l’occasione. Il dialogo fra Rosalia e il giovane di colore era molto stentato. Lui parlava solo la lingua inglese, lei aveva una conoscenza appena scolastica della sua lingua, tuttavia Rosalia gli chiese: What is your name? Come ti chiami? Rispose: Simon. How are you? Come stai? I’m well, thanks. But peoccupied. Sto bene, grazie. Sono preoccupato.
Where are you from? Da dove vieni? I come from Tema, Ghana. Vengo da Tema, nel Ghana.
You’ll have lots of friends. Avrai molti amici. I thank you very much. Grazie.
L’intensità di quegli sguardi era stata più esplicita d’ogni più lunga conversazione.
Lui non era più solo, lontano dai suoi affetti, non sapendo ancora che cosa gli fosse realmente capitato. Aveva trovato veri amici.
La notizia di un grave incidente occorso ad un giovane africano fece immediatamente il giro dell’ ospedale. Fu un accorrere di gente da tutti i reparti verso la sala del pronto soccorso che immediatamente fu gremita da persone curiose di conoscere il malcapitato. Era un negro, alto, magro; il colore della sua pelle contrastava con quello della mano bianchissima di Rosalia e col bianco nitido del lenzuolo.

Faceva caldo, molto caldo.
I suoi capelli erano nerissimi, lunghi, arricciati, da rasta, come quelli del suo idolo, il cantante jamaicano reggae Bob Marley. Un nonno, sicuramente razzista, così ha esortato il suo nipotino: ”Vieni, ti faccio vedere il negro”.
La bestia nera!
A quell’affermazione Rosalia si era molto infastidita e, contrariamente alla sua indole tranquilla, aveva aggredito verbalmente quell’asino d’uomo.
Simon, all’età di 17 anni, imbarcatosi clandestinamente su un mercantile spagnolo, aveva lasciato il suo paese, il Ghana, alla ricerca di un lavoro più redditizio che avrebbe consentito una vita meno stentata a sé e ai suoi familiari. Viaggiando sulle navi aveva fatto il giro del mondo più volte.
Lungo il suo peregrinare era approdato in India, penultima tappa da marinaio.
Nel golfo del Bengala un fuoco vasto, violento esplose improvvisamente a bordo della nave. In poco tempo l’incidente distrusse i modesti averi, il frutto del suo faticoso lavoro a volte di mozzo, a volte di macchinista, a volte di pilota. Erano andati in fumo i sogni e la speranza di tornare nella sua terra. Ecco perché ripete sempre: “Patria, sei sempre nel mio cuore”!
A Madras, in India, aveva patito la fame, dormito all’aria aperta, raggomitolato il suo corpo, alto 1,95 metri, dentro degli scatoloni di cartone. Si era ripetutamente ammalato.
Tuttavia è stato più fortunato di tre nigeriani, suoi compagni di viaggio che, nel tentativo di circoscrivere l’incendio e di evitare il naufragio, avevano perso la vita inghiottiti dal mare. Con diversi mezzi di fortuna e senza un soldo era arrivato in Grecia.
Dopo lunghi mesi di permanenza, finalmente, era riuscito a trovare lavoro su un mercantile greco che trasportava petrolio greggio. In Grecia aveva dovuto mendicare un tozzo di pane, sopportare maltrattamenti d’ogni genere e assaggiare le bastonate dentro il carcere, dove era stato rinchiuso per alcuni giorni, perché ritenuto uno spacciatore di droga a causa dei suoi capelli da rasta.
Quattro mesi dopo, nella rada del porto di Augusta, il cavo d’acciaio, usato per l’attracco della nave al molo, o per una manovra maldestra, o per usura, si spezzò colpendo Simon alla gamba destra frantumandola in 19 frammenti. Era lui al timone della nave in quel momento.
Timoniere, per dirigere la nave dentro il porto, era stato designato Richmond, un compagno di lavoro, ma un malore improvviso lo aveva fatto allontanare dal posto di guida.
Molto solidale con gli altri e sempre disponibile, Simon si era offerto spontaneamente di sostituirlo alla guida del timone. La sorte aveva già deciso per lui!
Trasportato d’urgenza all’ospedale di Siracusa i medici, conoscendo la bravura dell’ortopedico dottor Vincenzo Tedesco e della sua equipe, lo avevano inviato all’Istituto ortopedico del Mezzogiorno d’Italia con la precisa diagnosi: “frattura pluriframmentaria biossea di tibia e di perone esposta, rottura del legamento rotuleo e lacerazione del vasto laterale del ginocchio destro. Gravi turbe trofiche cutanee da trauma”.
La gamba investita in pratica doveva essere amputata.
Ancora una volta il destino aveva deciso: ottime le mani e la preparazione dei sanitari a cui Simon era stato affidato.
Il dottor Tedesco non amputò la gamba, ma, con un lavoro certosino, ha sistemato i vari pezzi di quel puzzle. Trascorse cinque lunghi mesi di degenza in ospedale.
Rosalia e Antonio cominciarono a sostenerlo moralmente e a dimostrargli che aveva trovato degli amici sinceri che si sarebbero presi cura di lui, nei limiti delle loro possibilità. Antonio incoraggiava Simon quando, nascondendo la sua testa fra le lenzuola, piangeva in silenzio.
Rosalia lo stimolava a mangiare preparandogli il latte senza zucchero e coinvolgendo la signora Anna, la caposala, a fargli preparare il riso, alimento a lui molto gradito. Flavia, la responsabile della lavanderia, si preoccupava di fargli pervenire la biancheria pulita che Rosalia era andata a comprare a Messina col contributo di molte persone. Letizia, l’infermiera, lo faceva sorridere con le sue spiritose barzellette.
Il dottor Tedesco gli dava dei buffetti sulla guancia, come ad un bambino, per dimostrargli il suo affetto e la sua solidarietà. I degenti dell’ospedale facevano a gara: chi gli portava il caffè, chi il gelato, chi il vocabolario inglese-italiano, chi i libri di poesie e i romanzi d’avventura, chi le carte da gioco. Il suo angelo però era Rosalia.
Seri problemi erano sorti con l’agente assicuratore, il signor X, che, dopo appena quindici giorni dall’intervento di riduzione cruenta e di sintesi di tibia e perone con l’inserimento di viti, di ricostruzione del legamento rotuleo e della fascia del vasto laterale della gamba e del ginocchio destro, voleva costringere il direttore sanitario dell’azienda ospedaliera a dimetterlo dall’ospedale e a spedirlo al suo paese.
Non era umanamente possibile perché aveva la gessatura dal piede all’inguine, una placca d’acciaio dentro la tibia, che sarebbe dovuta essere rimossa dopo la giuntura dei pezzi, i muscoli atrofizzati.
Avrebbe avuto bisogno di molte terapie riabilitative che, certamente, non avrebbe potuto effettuare al suo paese.
Gli incontri di Rosalia e del signor X erano sempre forti, intimidatori, violenti.
Categoricamente Simon non sarebbe uscito dall’ospedale nemmeno con l’intervento delle forze armate!
Rosalia aveva organizzato la sorveglianza sostenuta da tante altre persone volontarie là ricoverate per i loro problemi di salute. Molte erano le stampelle pronte a colpire il signor agente X nel momento in cui, di notte, avesse deciso di portarlo via forzatamente con la promessa di 500 dollari o con la minaccia di abbandonarlo al suo destino.
Simon piangeva, allora non sapeva parlare in italiano, non capiva bene ed esprimeva con le lacrime il suo stato d’animo. Comprendeva che per lui sarebbe stata la fine sicura della sua vita.
Rosalia era sempre presente. Era avvisata dell’arrivo del signor X dal portinaio e dal telefonista. La forza della ragione e dell’amore ebbe il sopravvento sulla volontà dell’assicuratore che non voleva sprecare denari per le necessarie cure ospedaliere.
Simon era rimasto là.
Anche dopo le dimissioni di Antonio, Rosalia e il marito tornavano a Ganzirri ogni fine settimana a trovare il loro caro, fraterno amico per portarlo fuori da quella stanza di ospedale, nel giardino, anche se seduto sulla sedia a rotelle.
Il 21 dicembre dello stesso anno Simon, essendo sprovvisto del permesso di soggiorno ed autorizzato solo al transito, fu costretto a partire per il Ghana, senza il gesso alla gamba, appoggiandosi a due eleganti stampelle che gli erano state regalate dal dottor Tedesco. Il viaggio in aereo era stato tranquillo.
L’Italia e il Ghana sono separati appena dal fuso orario di un’ora. Come affrontare sua madre, l’amata Jane, i fratelli, che tutti gli erano andati incontro nel Niger, ignari dell’incidente?
La lontananza, il pensiero della sua salute, tenevano, però, in molta apprensione gli amici italiani Rosalia e Antonio che decisero di invitarlo a tornare in Italia per continuare a curarsi e a soggiornare gratuitamente nella loro residenza estiva munita di tutte le comodità.
Simon aveva così risposto all’invito: “Ho ancora le stampelle, mi accoglierete lo stesso”?
“Certamente”! E’ stata l’immediata e affermativa risposta.
E’ arrivato a Licata, dal Ghana, il cinque maggio del 1990, quando in paese ferveva la festa del patrono Sant’ Angelo. La sua permanenza a Licata si è protratta per diversi, lunghi anni. La frattura, per denutrizione, non riusciva a rimarginare. Sono stati necessari altri due interventi: uno per la rimozione della placca e delle viti, per il problema del rigetto, l’altro per il trapianto d’osso e per l’installazione di un infibulo per sostenere la gamba che cominciava ad incurvarsi.
Gli anni passavano.
A Licata ha trovato tanta solidarietà in molti medici disposti a curarlo. Simon era un paziente speciale: sensibile, timido, educato, gentile, riconoscente. Onesto e pieno di risorse morali, è un vero gentleman.
Tutti gli amici di Rosalia e di Antonio sono diventati anche suoi amici.
Pian piano, con molta buona volontà, dopo tre anni, è riuscito a liberarsi, una per volta, dalle stampelle e a cominciare a passeggiare in campagna, a salire qualche gradino.
Trascorreva l’interminabile giornata da solo a leggere i romanzi di viaggi e d’avventura, a guardare la televisione, dalla quale ha imparato la lingua italiana, ad ascoltare la musica e a cantare, con la sua voce intonata, facendosi accompagnare dal suono della chitarra che gli aveva regalato Valentina.
Fuori di casa aveva paura di qualsiasi animale: delle farfalle notturne, dell’insetto stecco, dei pentadomiti, delle scolopendre. La stampella era la sua arma di offesa e di difesa.
Questo comportamento faceva molto arrabbiare Rosalia. Gli voleva spiegare che in Italia gli animali non sono pericolosi. Non c’è riuscita. Li uccideva tutti, non certo per cattiveria, ma per il terrore di essere aggredito.
Un giorno disse. “Antonio, Rosalia, io qua mangiare e dormire gratis e voi lavorare. Vorrei lavorare anch’io”.
Era una bellissima notizia. Aveva recuperato in parte la sua salute. Avrebbe finalmente riacquistato la libertà!
Licata non ha offerto nessuna opportunità di lavoro.
Trasferitosi a Palermo, presso l’abitazione di un facoltoso ingegnere, svolgeva il lavoro di colf, ma con un minuscolo salario. La scarsa retribuzione, infatti, non gli permetteva di arrivare alla fine del mese. I suoi amici dovevano continuare ad aiutarlo.
Spinto dal bisogno di aiutare la sua famiglia, di cui era l’unico sostegno, si lasciò convincere dal suo paesano Patrik a trasferirsi in una città del nord Italia, alle dipendenze di una cooperativa per il trasporto di mobili.
Le sue condizioni economiche peggiorarono perché il costo della vita al Nord è più caro rispetto al Sud e i suoi amici, in Sicilia, erano molto lontani.
Tuttavia, grazie all’aiuto di Antonio, di Rosalia, di Anna Bonavena, un’insegnante calabrese, di Giuseppina e di Titina, due suore oblate di don Mottola, a Tropea, nel mese di luglio del 2003, dopo 14 anni, è tornato in Ghana a riabbracciare l’anziana Grace, sua madre, e a sposare Jane, la sua fedele fidanzata.
Un mese di tempo è stato breve, ma sufficiente per concepire un bambino, il figlioletto Prince-Nii, nato nel mese di marzo del 2004 in Ghana. Intanto il 25 agosto del 2003, al ritorno dal suo paese, mentre rientrava dal duro lavoro di scaricatore, è stato coinvolto in un altro incidente: l’aggressione da parte di un gruppo di giovani razzisti del luogo. Rimase ferito cruentemente all’occhio sinistro.
Gli oculisti non nutrirono fin da subito nessuna speranza di salvargli l’occhio che, irrimediabilmente perso, gli fu estirpato. E’ stato necessario ricorrere alla protesi dell’occhio di vetro.
Ancora, per i suoi gravi problemi di salute, Simon non può lavorare e Rosalia, sempre disponibile, continua ad aiutarlo con generosità. Antonio invece ha lasciato questa terra il 22 maggio 2000.
Simon non può fare ritorno in Ghana perché le sue condizioni economiche non glielo permettono.
La salute individuale, le medicine, le stampelle sono delle chimere. Gli ospedali e le cure mediche sono a pagamento e non esistono pensioni per gli invalidi e per gli anziani.
I genitori, se non hanno figli che possano sostenerli, o sono costretti a lavorare per tutta la vita o si lasciano morire.
Quando Simon era tornato in Ghana con le eleganti stampelle italiane, i suoi paesani avrebbero voluto toglierle perché loro conoscono solo le grucce di legno che si appoggiano sotto le ascelle, ma, in quel periodo, sostituivano le sue gambe.
Quando raccontava che, di notte, durante il sonno, mentre la gente dormiva con la finestra aperta a piano terra, qualcuno, entrando nell’ambiente, rubava i pantaloni costringendo il malcapitato a rimanere in casa o ad uscire in mutande, Rosalia rideva.
Le parlava del santone che da molti popoli primitivi dell’interno del Ghana è, a tutto oggi, ritenuto essere dotato di forza e di poteri magici e capace di guarire con la sua pranoterapia. Per farsi riconoscere, indossa una tunica bianca lunga fino ai piedi nudi e scalzi. I creduloni, per combattere le malattie e le disavventure, si rivolgono a lui che, con il movimento delle mani, tenta di scacciare il male. Chiede in cambio: 2 pecore, 4 galline, un gallo, una dozzina di uova oppure una mucca. Al sale pensa lui!
Le raccontava che quando i cinque figli, Simon, Vittoria, Caesar, Matilde, Giovanna e Eddy le chiedevano da mangiare, mamma Grace rispondeva ”Mangiate aria”. Oppure quando raccontava: ”Andavamo a cercare qualcosa da mangiare”.
Era una festa quando potevano guadagnare un casco di banane, un’ ananas, un po’ di latte in polvere o una tazza di tè o di cioccolato: il Ghana è il principale produttore mondiale di cacao d’ottima qualità.
Il cuore di Rosalia si stringeva riflettendo sul benessere degli italiani e sugli sprechi che ogni giorno avvengono nelle tavole domestiche senza pensare a quelli che effettivamente nel mondo patiscono la fame.
Ernesto era un bambino viziato e spesso buttava alle formiche, in campagna, il latte con i biscotti che la mamma gli preparava ogni mattina; preferiva la brioche.
Un giorno Rosalia gli disse: ”Ernesto, lo sai che molti bambini muoiono di fame perché non hanno da mangiare quello che tu butti via? Li vuoi aiutare”?
Rispose: “E come? Sono molto lontani”.
Rosalia insistette:“Se tu bevi il latte e non butti i biscotti, la mamma invierà a questi tuoi fratellini lontani il denaro che oggi hai risparmiato”.
Ernesto è stato sensibile nel recepire il messaggio.
Intanto che Simon si trovava a Licata, ha ricevuto dal suo amico Richmond una lettera contenente 100 dollari.
Una somma enorme! Non avendo bisogno di nulla a casa di Rosalia e di Antonio, ha custodito quei soldi.
Poco tempo dopo ricevette la notizia dell’improvvisa ed immatura morte di Richmond a causa di un incidente su un’altra nave. Grande è stato il suo dolore, anche perché sapeva che in Ghana aveva lasciato la moglie e tre bambini in tenera età.
Ha conservato gelosamente quei soldi e, quando è andato in Ghana, ha consegnato alla moglie l’intera somma.
E’ stato un gesto di grande generosità! Era un regalo di Richmond e apparteneva alla sua famiglia! Gli amici ganesi pensavano che Simon aveva trovato l’America in Italia e tutti gli scrivevano chiedendo “help, help”.
Simon aveva recuperato la salute grazie alla sensibilità, all’aiuto e alla grande amicizia di Rosalia e di Antonio.
Si dovrebbe prendere insegnamento dalla poesia di Giacomo Leopardi “La Ginestra”, dove egli ha saputo disegnare di se stesso il più nobile ritratto nella figura dell’ “Uom di povero stato e membra inferme”, ma “generoso e alto nell’anima“. Egli è stato capace di lasciare un messaggio molto efficace di solidarietà tra gli uomini perché perfettamente consapevole della precarietà della condizione umana. E’ un’esortazione a tutti gli uomini affinché, deposta ogni meschina rivalità, siano solidali e uniti nella lotta contro la fatica dell’esistere e contro la natura che “De’ mortali madre è di parto e di voler matrigna”.
La Natura, alla fine, non è stata molto matrigna con lui.
La sua esistenza è più accettabile grazie all’incontro con Rosalia e con Antonio e alla nascita del figlioletto Prince-Nii.
Simon continua a ringraziare, dopo tanti anni, Rosalia, il suo angelo tutelare, “la piccola missionaria Madre Teresa di Calcutta”, come lui la chiama affettuosamente, che lo sostiene ancora moralmente e materialmente, e tutti gli amici di Licata.
“God bless you all”. Dio vi benedica tutti. Così dice sempre.
Un pensiero particolare e un’intensa preghiera rivolge ad Antonio, che ha chiuso prematuramente la sua giornata terrena, al quale era legato da una profonda, sincera e fraterna amicizia e alla sua mamma italiana Maria Grazia, la madre di Rosalia, che gli ha voluto un bene filiale.
Amicizia: importante valore morale! E’ la gioia d’amare e di essere amati.
Rosalia è riuscita a riunire tutta la famiglia di Simon. Nel mese di giugno del 2007, dal Ghana, sono arrivati in Italia Jane, sua moglie, e il figlioletto Pince-Nike che ancora non conosceva.
Baby Sebastiana si è aggiunta alla famiglia venendo alla luce, in Italia, il 26 aprile del 2008 recando tanta gioia a mamma, a papà e al fratellino.
La vita di Simon continua ad essere molto stentata per il precario stato di salute e per la mancanza di un lavoro.
E’ aiutato, comunque, anche dal Comune dove risiede: a Verona.

 

 

 

Aug 14, 2023 - Senza categoria    Comments Off on IL PROF.CALOGERO CARITA’, ILLUSTRE CITTADINO DI LICATA. IL SUO RICORDO

IL PROF.CALOGERO CARITA’, ILLUSTRE CITTADINO DI LICATA. IL SUO RICORDO

Venerdì, 11 Agosto 2023, improvvisamente è venuto a mancare il prof. Calogero Carità, primo relatore del libro “UNA FINESTRA SU VIA SANT’ANDREA E DINTORNI”, dell’autore Francesco Glicerio, presentato al Chiostro della Badia, all’interno del Museo civico, a Licata.

Un malore improvviso, causato da un arresto cardiocircolatorio, lo ha stroncato prematuramente. A nulla sono valsi gli immediati interventi di rianimazione dei medici presenti alla cerimonia e dei sanitari del 118. La morte del prof. Calogero Carità ha sconvolto e addolorato tutta la cittadinanza licatese per essere privata di un pregevole cittadino che tanto ha amato la sua città.

L’amico LORENZO PERITORE ha scritto:” UNA FESTA TRASFORMATASI IN TRAGEDIA”.
È stato un vero e proprio shock per le tante persone che ieri sera affollavano il Chiostro della Badia per assistere alla presentazione del libro di Francesco Glicerio. Eravamo seduti sulla stessa pedana, caro Preside Carità, a poco più di un metro di distanza, ma io non mi sono reso conto immediatamente di ciò che stesse per accadere.
Ho cominciato a intuirlo dopo qualche minuto che il malore che ti ha colpito sarebbe potuto essere fatale.
E lo è stato! Eravamo tutti attoniti. Difficilmente dimenticherò questa serata che doveva essere di festa. Una di quelle feste culturali che tu amavi tanto, e in un luogo che ti era caro, e che invece si è trasformata in una vera e propria tragedia. Buon viaggio caro Preside Carità. Ti ricorderò sempre per la tua umiltà, per la tua discrezione, per il tuo impegno per la città di Licata, per il tuo immenso bagaglio culturale e di conoscenze e per il modo, sin da quando eravamo ragazzini, di come hai saputo essermi amico. Con la dipartita del Professore Carità molti licatesi perdiamo un amico e la città di Licata perde uno Storico illustre di grande valore e concittadino assai perbene. Non è un lutto che riguarda solo i familiari del Professore, ai quali vanno le mie condoglianze più sincere, ma è un lutto cittadino. Buon viaggio, Lillo.

IL CUNTASTòRIE LICATESE –di Mel Vizzi–
COM’ A CULONNA ‘NTERRA DAVANTI O SARVATURI
“L’ ùnnici Austu, o Musèu da Badìa
a storia truppicàu ! na culònna abbattìa !
Com’ a culònna ‘n terra, davanti “o Sarvatùri”
lu vìttimu ddrà stisu, o nostru prufissùri.
Luttànnu ppa’ curtùra, l’arritruvò la sorti
un micròfinu ppi’ spata, ccussì ‘ncuntrò la morti !
In campu fin’allùrtimu, ppa’ sò Licata amata
ccussì lassàu stu munnu …parlànnu da Lacáta…
Forsi fu cuincidènza, o forsi fù distìnu
propr’ ‘intra “u sò Musèu” morsi lu paladinu !
Ma…
u so’ messaggiu è vivu: …Amàtila stà città !
Facìtilu ppi’ Lillu… facìtilu… ppi’ Carità !”
Licata 11 Agosto 2023

Calogero Carità è nato a Licata (Ag.) il 28 Luglio 1945 in via Lunga, una traversa di via Sant’Andrea .

Ha frequentato il liceo classico “Vincenzo Linares” ed ha frequentato l’ateneo di Palermo.
Trasferitosi a Verona dal 1971, coniugato con Nazzarena, ha due figli: Enrico e Riccardo che gli hanno regalato gli adorati nipotini.
Conseguita la laurea in Lettere nel 1971, ha insegnato italiano e latino al Liceo Scientifico Statale “G. Galilei” di Verona sino al 1988, anno in cui, a seguito di concorso nazionale per titoli ed esami, è stato nominato Dirigente Scolastico al Liceo Scientifico Statale “E. Medi” di Villafranca che ha diretto sino al 1996.
A Verona, dal 1996 al 2012, ha diretto il Liceo delle Scienze Umane “C. Montanari”. Dal 1° settembre del 2012 ha lasciato la Scuola per raggiunti limiti di età.
Dal 1970 si occupa di storiografia, di archeologia e di arte e vanta in questi settori numerose pubblicazioni.
Dal 1971 al 2010 è stato socio della Società Siciliana per la Storia Patria di Palermo.
Nella sua città natale nel 1971 ha contribuito alla fondazione dell’Associazione Archeologica Licatese di cui è stato il primo presidente. Nominato nel 1972 Ispettore onorario ai beni culturali, si è dedicato per più di vent’anni alla tutela del patrimonio artistico, storico, monumentale, archeologico e paesaggistico del suo territorio ottenendo la istituzione del Museo Archeologico e numerosi interventi di restauro di opere d’arte e di monumenti.
Bibliografo e studioso di bibliografia e biblioteconomia, ha curato il catalogo dei manoscritti e delle edizioni rare e di pregio della Biblioteca Comunale di Licata, pubblicato in volume dall’editore Sellerio di Palermo.
Tra i suoi interessi ci sono anche lo studio dell’architettura castellana siciliana in generale, e dei castelli agrigentini in particolare, di cui ha curato un dettagliato inventario e vari studi monografici apparsi in volume e nelle rivista dell’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio.
Giornalista pubblicista dal 1974, ha collaborato per anni con articoli e servizi al “Giornale di Sicilia” e a “La Sicilia” e a vari periodici e riviste anche a diffusione nazionale. Dal 1982 è direttore del mensile “La Vedetta” pubblicato nel suo paese di origine e che purtroppo ha sospeso la pubblicazione da qualche anno.
Attiva è stata anche la sua presenza nel sindacato autonomo della scuola, lo Snals, di cui è stato per lungo tempo segretario regionale.
Ha ricoperto la carica di segretario regionale della Confederazione dei sindacati autonomi dei lavoratori. E’ stato presente negli organi statutari nazionali del sindacato scuola e della confederazione.
Per la sua intensa attività di editore (ad oggi oltre 20 titoli di saggi su storia, arte e architettura), di studioso e di ricercatore (conta oltre 25 pubblicazioni) ha ricevuto numerose benemerenze: è stato premiato per la cultura nel 1972, nel 1975, nel 1978 e nel 1983 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri; nel 1999 ha ricevuto ad Agrigento il prestigioso Premio “Telamone” e nel 2006 il premio Sikelè per la ricerca storica e l’attività giornalistica.
Nel 2013, in occasione del 70 anniversario dello sbarco alleato in Sicilia, ha pubblicato sull’argomento un interessante saggio storico di circa 400 pagine che ha riscosso enorme successo, tanto che ha dovuto provvedere ad una sua seconda edizione.
Ha ricevuto il Premio “Telamone” e il Premio”Sikelé” .
Il Premio “Telamone” è un’attestazione di riconoscimento e di stima per gli illustri siciliani che si sono distinti nella politica, nella cultura, nel giornalismo, nell’arte, nel sociale e che hanno contribuito a dare una visione ottimale della propria terra: della “Sicilia”.
La designazione dei “Telamoni” rappresenta, quindi, una testimonianza molto significativa, riservata a quelle personalità che hanno concretamente operato per la crescita culturale e umana della Sicilia consegnando a siciliani e non solo i prodotti della loro intelligenza, del lavoro, della ricerca, dell’arte.
L’emblema del Premio, una riproduzione dei maestosi Telamoni che sostenevano il grande Tempio di Giove Olimpico nella Valle dei Templi di Agrigento, spiega la grandezza dei “Telamoni”.
il Premio”Sikelé”, ideato ed è organizzato dall’Aics di Agrigento, è una qualificata occasione di encomio, di stima e di gratitudine della Città dei Templi e di tutta la provincia a personalità ed istituzioni del territorio agrigentino che sono riuscite ad attestarsi ai più alti livelli nei diversi settori dell’impegno culturale, civile, sportivo ed imprenditoriale.
Il simbolo del Premio è la riproduzione in terracotta di un busto femminile d’epoca greca che raffigura idealmente la mitologica divina Sikelè, da cui prese il nome la Sicilia, terra di Storia e d’Arte, di pensiero e di genio, di lotte e di conquiste sociali, di traguardi atletici e d’invincibile vigore produttivo.
Moltissimi sono stati i messaggi di cordoglio dei licatesi e non solo per la prematura morte del nostro caro Lillo.
ANGELO BALSAMO, il sindaco della città d Licata, ha scritto. ” Licata, La città che mi onoro di rappresentare, perde stasera uno dei suoi cittadini più illustri: il prof. Calogero Carità.
È stata una persona di incommensurabile valore: innamorato delle sue radici e tradizioni, innamorato della sua Licata che ha studiato e raccontato permettendo a noi di apprezzarla e conoscerne la storia. Grazie professore per il patrimonio che ha lasciato alla nostra città. Porgo alla famiglia le mie più sentite condoglianze”.
Il sindaco Angelo Balsamo, con un’ordinanza speciale, ha autorizzato l’allestimento della camera ardente nell’androne del Municipio per dare a ogni licatese la possibilità di porgere l’ultimo saluto al caro prof. Calogero Carità.
Inoltre, nella facciata del Palazzo di città è stata innalzata la bandiera del Tricolore, tenuta a mezz’asta nei giorni della camera ardente e nel giorno del funerale, celebrato il 14 agosto nel Santuario di San’Angelo.
E’stato imposto il lutto cittadino “in segno di cordoglio” per la scomparsa dell’illustre concittadino licatese. L’ordinanza, inoltre, ha stabilito la sospensione di tutte le manifestazioni pubbliche, organizzate dall’Amministrazione comunale, nel giorno del funerale. E’ stato un abbraccio sincero alla moglie Nazarena, ai figli Enrico e Riccardo, al fratello Angelo,alle sorelle e a tutta la famiglia.
FRANCESCO PIRA  ha scritto:” Addio Lillo. Tutto è scritto e forse doveva andare proprio così.
Doveva accadere che dovevo assistere all’ultimo atto della tua vita. Esattamente 43 anni dopo averti conosciuto, grazie a tuo fratello Angelo, mio compagno di scuola. Non sempre siamo andati d’accordo e abbiamo fatto insieme cose straordinarie.. che rimangono nel tempo. Ci siamo voluti bene ed abbiamo amato la nostra Licata. Ieri sera eri all’interno del Museo, che adoravi, per presentare il libro del giovane Francesco Glicerio appassionato di storia locale. Non hai vinto l’emozione quando parlavi della tua meravigliosa mamma. Io ero lì, in prima fila ad applaudirti. Tu eri l’unico in giacca e cravatta. C’ero perché era scritto così. Addio amico mio. Mi mancherai. Davvero!
L’ ASSOCIAZIONE MEMENTO ha pubblicato un documento dove si legge:” L’ Associazione Memento è a lutto per la perdita di uno dei suoi più rappresentativi soci fondatori: il carissimo presidente del comitato tecnico scientifico Lillo Carità.
Una grave perdita per la sua famiglia, per la cultura, per la città di Licata e per la nostra associazione, nata proprio per ricordare la memoria storica della città e dei suoi più illustri cittadini. Viene a mancare una voce libera e autorevole che, prima con il mensile la Vedetta, poi con i suoi articoli, con le sue preziosissime attività di ricerca e di raccolta della memoria storica e con le sue pubblicazioni ha saputo incidere profondamente sulla storia di questa città, sul progresso e sulla conoscenza storica e culturale di Licata.
Un doloroso addio innanzitutto all’amico e all’uomo con il quale abbiamo condiviso un lungo cammino umano e culturale. Il nostro pensiero va tuttavia alla famiglia: alla sua amata moglie Nazzarena, ai figli Enrico e Riccardo, agli adorati nipotini e a tutti i suoi familiari. La città di Licata perde una delle sue punte di diamante. Addio caro Lillo. Riposa in pace”.
ANGELO BIONDI ha commentato: “La notizia dell’improvvisa scomparsa del professore Calogero Carità mi rattrista moltissimo. Licata perde uno dei suoi illustri concittadini. Sui suoi meriti e sulle sue tantissime qualità di uomo, di storico, studioso ed intellettuale, già tanti altri hanno scritto e scriveranno meglio di me.
Come tanti altri, anch’io ho avuto la fortuna di conoscere ed incrociare i passi della vita col “caro Preside”, era questo il titolo con cui mi rivolgevo a lui, nelle tante email che ci siamo scambiati negli anni.
Le ultime di pochissimi giorni fa, in occasione del 80° Anniversario dello sbarco degli Americani, nelle quali mi dava spunti ed indicazioni per la messa in scena di alcuni episodi del romanzo “Una Campana per Adano”. Tra i suoi tanti libri e scritti su Licata e la sua ricca storia (che ho letto tutti e con i quali ho imparato a conoscere ed amare, ancor di più, la nostra città), ce n’è uno ancora inedito: la relazione sul tema “Cultura e Beni Culturali: Importanza e valorizzazione”, redatta in occasione del ciclo di incontri organizzati, di recente, dal Centro Studi Gaetano De Pasquali. Relazione che sarà, a breve, pubblicata nel documento conclusivo che raccoglie le idee e le proposte in favore della nostra città, emerse nel corso della citata iniziativa. Leggere questo suo ennesimo omaggio alla “sua” Licata, ricco di spunti programmatici sul tema da lui trattato, credo sia il miglior modo per ricordalo e ringraziarlo ancora ed ancora”.
ANNALISA TARDINO ha commentato :” L’estate scorsa ho avuto l’onore di ricevere in dono alcuni dei testi scritti dallo storico, nostro caro professore, Calogero Carita. Nella sua dedica in uno dei testi che mi ha donato, che custodisco gelosamente, ha confuso il mio nome con quello di mia sorella, sua giovane collega. Abbiamo riso insieme, ha deletato il nome carcerandolo e riscrivendolo, come fa un dirigente. Storico, letterato, dirigente della pubblica amministrazione, ma soprattutto illustre cittadino di Licata per l’amore della quale spendeva le sue energie mentali e fisiche. Ci ha lasciato, inaspettatamente, mentre era impegnato nella presentazione di un libro. Mentre faceva ciò che amava fare, parlare di libri, di cultura nella nostra città. Sarà impossibile sostituirlo. Ci lascia con il cuore infranto e tanta gratitudine per ciò che ci ha dato. Buon viaggio professore!”
SALVO D’ADDEO: “Licata ha perso stasera uno dei suoi cittadini più illustri. Un grande storico, un intellettuale che ha raccontato passato e presente di una città che amava profondamente. Il prof. Calogero Carità ci ha lasciati mentre raccontava la sua via Sant’Andrea all’interno di uno dei luoghi che forse amava di più, il museo archeologico di Licata. Lascia un grande vuoto umano e culturale. Mi pregio di aver avuto modo di interloquire con lui di tematiche e di proposte delle quali farò tesoro per il mio ruolo istituzionale. Giungano le mie più sentite condoglianze alla famiglia. Grazie Prof. Carità”.
GIUSEPPINA INCORVAIA: ” Ieri, 11 Agosto 2023, Licata ha perso un figlio speciale, un pezzo della sua storia e un patrimonio culturale di grande prestigio; gli amici abbiamo perso un uomo di immensa sensibilità, distinto, garbato e mai sopra le righe; la famiglia il pilastro su cui si reggeva. Il prof. Calogero Carità ha iniziato il suo ultimo viaggio proprio dalla città che tanto amava, nel luogo che forse meglio di ogni altro ha fatto da cornice a questo atto finale di una vita intensa, di cui tutta la città è orgogliosa. Ciao Lillo, grazie della tua Amicizia, fai buon viaggio e che la terra ti sia lieve”.
DON PINO AGOZZINO, parroco del Sacro Cuore e di Sabuci, in una nota diffusa stamattina per ricordare Calogero Carità scomparso mentre partecipava alla presentazione di un libro nel chiostro della Badia.“scrisse: “Sotto gli occhi di tanti presenti il grande Professore Carità saluta tutti e va… non poteva essere diversamente. In campo fino all’ultimo respiro”.
All’apice dell’emozione, ha abbracciato il cielo e la terra” .”Vengo dalla Marina e sono nato vicino a via Sant’Andrea, presso la via Longa dove è nata mia nonna, mia madre e io”.
“La sua Fede, il suo cuore e la sua mente hanno contribuito, in forma esemplare, a dare lustro anche alla nostra terra di Licata. La leggerezza stilistica e la pesantezza contenutistica dei suoi interventi, in ogni forma, hanno generato e provocato Bellezza. Ero venuto alla presentazione della pubblicazione, “Una finestra su via Sant’Andrea”, per incontrarlo fisicamente e così è stato. Ho raccolto nel mio cuore e nei miei occhi l’emozione del professore, dello storico, del ricercatore e dell’uomo”.
SALVATORE ABBRUSCATO:” Il prof. Lillo Carità non c’è più tra noi ! Abbiamo perduto un intellettuale di grande livello culturale, uno storico, un giornalista, un ottimo dirigente scolastico, un vero signore, garbato, buono, rispettoso, un amico affettuoso, sincero, dalla loquela forbita, elegante e convincente.
Amava la sua Licata, di cui seguiva tutte le sue vicende politiche, sociali pur vivendo a Verona e per la quale ha scritto numerosi libri che costituiscono una fonte indispensabile per chi vuole conoscere la storia di Licata in tutte le sue manifestazioni sociali,economiche, politiche, culturali, archeologiche. Siamo grati al nostro amico Lillo per quello che ha fatto per la sua Licata, per i suoi cittadini e per tutti gli uomini di cultura. Piangiamo la sua improvvisa scomparsa avvenuta ieri 11 agosto 2023 a Licata, mentre parlava promuovendo cultura, come è stato sempre il suo ruolo nella società: fertile, creativo! Non lo dimenticheremo!”
GIUSEPPE CACI: ” E’ stato terribile apprendere ieri sera la notizia, che non avrei voluto sentire, della perdita improvvisa del Prof. Calogero Carità, che ricorderò come persona autorevole, grande studioso, scrittore, pubblicista, storico di Licata e di grande spessore culturale, sempre disponibile e rispettoso nei miei confronti e di quanti gli chiedevano informazioni o spiegazioni inerenti al territorio di Licata, a lui molto caro.
Un territorio che in tanti modi e in tante occasioni ha voluto valorizzare e promuovere. Oggi, giorno in cui tutta la comunità licatese si sente colpita da questo evento funesto e partecipando al dolore della famiglia per la perdita subita, esprimo le mie più sentite condoglianze e quelle dell’Associazione Italiana Turismo Sociale.”
STEFANIA ROLLINI: ” Molto difficile e doloroso per me, scrivere questo post, ma doveroso.
Ieri sera la città di Licata ha perso uno dei suoi più illustri concittadini, il prof.Calogero Carità: uno storico, uno studioso, un preside ed un amico.
Anche io ieri sera mi trovavo al Chiostro della Badia per assistere alla presentazione del libro di Francesco Glicerio. Appena entrata, i nostri sguardi si sono incrociati e ci siamo salutati da lontano, con un cenno della mano. Avrei voluto avvicinarmi e salutare di persona il prof. Lillo Carità ma, visto che era impegnato a discutere con gli altri gli ultimi dettagli dell’evento, ho preferito desistere. Mi sono detta: <<Finita la presentazione avrò tutto il tempo per andare a salutarlo>>.
Ma il tempo è tiranno e non mi ha permesso di riabbracciare quello che è stato un grande uomo, ma anche e soprattutto un grande amico di mio papà. La loro amicizia è stata una grande amicizia, una di quelle che dura per tutta la vita. Ricordo le lunghe passeggiate tra il mio papà , Vincenzo Rollini, e il prof. Carità. Alcune volte ero presente anche io, e ricordo soprattutto le loro lunghe chiacchierate.
La loro amicizia non è durata fino alla prematura morte del mio papà, ma è continuata anche dopo, attraverso le meravigliose parole di stima e di affetto che il prof. Carità spendeva per lui quando lo incontravo, o quando commentava dei miei post su facebook.
La loro amicizia continua ancora adesso che sono lassù insieme..Mi sembra di vederli, felici di essersi ritrovati e con tante cose da dirsi. Buon viaggio, prof. Lillo Carità, grande uomo, grande storico e grande amico!!!”
FABIO AMATO: ” Sono senza parole! Il destino ha voluto che te ne andassi proprio nel tuo museo, che amavi tanto e di cui sei stato il creatore insieme a tanti giovani licatesi che amavano la Storia e le gloriose origini della nostra Cittá.
Grazie di tutto, Lillo, sei stato un punto di riferimento.”
GIUSEPPE FEDERICO: “L’ho conosciuto la prima volta nel 2015, quando fui eletto consigliere comunale, perchè il Prof. Carità faceva parte, come membro onorario, della commissione toponomastica. Con lui va via un enorme patrimonio culturale. Riposa in Pace”.
PAOLOLA QUATRA: “Lo stimatissimo prof. Calogero Carità aveva gioiosamente accettato di essere iscritto all’Associazione Nazionale Carabinieri di Licata e stava lavorando ad una ricerca storica sull’Arma dei Carabinieri a Licata nell’ambito della relativa mostra storica che sarà allestita presso la sede di Piazza Elena.
Non ho fatto in tempo a consegnargli la tessera che avevo approntato e che conserverò come affettuoso ricordo”.
IL RICORDO DI ESTER RIZZO PUBBLICATO SU MALGRADO TUTTO, il  giornale di Racalmuto.
“…Ricordo, nel quartiere Marina, via Lunga, la via dove sono nato io, dove è nata mia madre, dove è nata mia nonna”. Queste le ultime parole del professore Calogero Carità, davanti ad un folto pubblico che gremiva l’atrio della Badia sede del Museo Civico Archeologico di Licata. Stava presentando il libro “Una finestra su via Sant’Andrea e dintorni” di Francesco Gaetano Glicerio.Se ne è andato via così, in una sera d’agosto, in un attimo.Se ne è andato via nella sua amata città e nel luogo simbolo del suo perenne impegno per la diffusione della cultura e per il recupero dei beni culturali e archeologici.Ritornava spesso per effettuare ricerche negli archivi e scoprire storie, raccontarle e indurre i suoi concittadini ad amare Licata.
Amarla come visceralmente l’amava lui.Calogero Carità, storico e giornalista, già Ispettore Onorario ai Beni Culturali e socio della Società Siciliana per la Storia Patria, viveva ormai da tantissimi anni a Verona. Lì si era trasferito nel 1972, prima come docente di Italiano e Latino e poi come Preside fino al pensionamento avvenuto nel 2012.Lì, al Nord, come tanti nostri conterranei, aveva costruito la sua famiglia e la sua carriera, apprezzatissimo non solo dai discenti e dai colleghi ma anche dalle più importanti istituzioni e associazioni culturali veronesi.A Licata aveva contribuito in maniera determinante a fondare l’Associazione Archeologica Licatese.Innumerevoli le sue pubblicazioni, tra cui, sicuramente la più preziosa ed importante “Alicata Dilecta” dove, in circa ottocento pagine, sono compendiati gli oltre duemila anni della città. Dall’etimologia del nome, al significato degli stemmi, dalla preistoria alla dominazione borbonica, passando per le due Guerre Mondiali, per arrivare alla contemporaneità del 1980.In “Alicata Dilecta” troviamo le minuziose ricostruzioni di mura, fortificazioni e baluardi cittadini, la storia del porto di Licata, uno dei più fiorenti del passato, lo sviluppo urbanistico tra Ottocento e Novecento, l’origine delle fondazioni monastiche, delle molte chiese non più esistenti, delle Confraternite.
Tra quelle pagine, alcuni capitoli sulle feste religiose, gli usi e i costumi del popolo licatese ma anche sulle antiche Accademie, sulle scuole, sulle biblioteche e sulla stampa locale. Chiude il volume l’elenco dei licatesi illustri.Un’opera sicuramente necessaria per la storia della città, un lavoro certosino che permette di ricostruire la Memoria di un luogo in “un unicum” di ampio respiro e alto profilo storico.Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo: “Castelli e torri della provincia di Agrigento”, “10 Luglio 1943”, “Una campana per Adano”, “I Vecchio Verderame tra 800 e 900”, “I castelli e le torri di Licata”.Alcuni suoi studi hanno costituito la base storica su cui il regista Pif ha realizzato, nel 2016, il film “In guerra per amore”.In campo giornalistico numerose le sue collaborazioni a riviste storiche specializzate ma anche a periodici e quotidiani regionali e provinciali.Carità è stato fondatore nel 1982 del periodico locale “La Vedetta” pubblicato ininterrottamente fino al 2017. Un giornale che costituiva un punto di riferimento per tanti licatesi emigrati all’estero e palestra di formazione per tanti giovani aspiranti giornalisti.Ma “La Vedetta” è stato soprattutto” un faro” puntato sulla città che denunciava il degrado in cui versavano monumenti e ambienti con il rischio di perdita di fruibilità. Negli articoli pubblicati ritroviamo il periodo di “lotta” contro la centrale a carbone, le rubriche “Sindaco risponda”, “Il dito nell’occhio”, ”Signor Sindaco No”, “Accadde a Licata”, “L’angolo di Limicedda surda”.Tramite interviste e reportage si denunciavano sempre comportamenti scorretti o interessi clientelari a cui a volte seguivano minacce intimidatorie. Ma quella de “La Vedetta” e del suo direttore è sempre stata “una voce libera”, mai al servizio del Potere ma della città e dei licatesi. E gli articoli redatti da lui spesso ottenevano interventi di restauro sul patrimonio monumentale o archeologico.Aveva a cuore, come i collaboratori che aveva scelto, il decoro urbano e le richieste pressanti erano rivolte a tutte le Amministrazioni che si succedevano, ai politici quasi sempre impotenti a risolvere gli annosi e atavici problemi di Licata e a modificare quella sorta di “immobilismo gattopardiano” che Calogero Carità non concepiva e non tollerava.E’ stato quasi un segno del destino che la sua vita sia finita in quel modo e in quel luogo e che la camera ardente sia stata allestita nel Palazzo di città.Licata ha perso sicuramente uno dei suoi cittadini più illustri ma anche più innamorati del paese che gli aveva dato i natali. La famiglia ha perso un marito, un padre ed un nonno affettuoso ed amorevole.Ci piace ricordare la dedica iniziale che lui scrisse in “Alicata Dilecta” che sinteticamente e mirabilmente riassume il suo rigoroso impegno e i suoi sentimenti più profondi:“Alla mia città perché possa rifiorire e ritrovare la dignità del passato. Ai miei figli perché possano conoscerne ed apprezzarne la storia. A mia moglie che con amore mi ha sostenuto nell’ardua ricostruzione delle vicende licatesi”.
NELLA SEMINARA:” Lillo, carissimo amico di Carmelo De Caro e mio!
Sei stata una delle prime persone che mi hanno accolto con affetto quando sono giunta a Licata nel 1967,dopo il catastrofico terremoto che ha colpito la città di Mistretta.
Ti ricorderò sempre e ti aggiungerò nelle mie preghiere.”
VINCENZO TARDINO: “Non so come cominciare per ricordare Lillo Carità, l’amico carissimo ,amabile ,signorile,disponibile; uomo colto,corretto,pulito.L’uomo che amava il suo paese come gli occhi suoi e che diceva di rispettare più della sua vita.Mi diceva che lo voleva sempre pulito,perché un paese sporco è un paese che non si vuole bene.E quando non si vuole bene al suo paese ,questo paese è perso,irrecuperabile,quali che siano I tesori che possiede.Era questo il senso della sua politica:la moralità dell’uomo.La sua era una sorta di mania:un paese pulito è un paese dignitoso che non può non avere una sua grande pulizia morale.Amava salire,salire sempre più in alto,ma non già perché fosse ambizioso,ma perché dall’alto si colgono i riverberi e i brividi del mistero della vita ;si vede tutto di noi e degli altri e si può essere la” vedetta “della nostra salvezza.Ha fatto tanto,ha scritto tanto ;ma il suo fiore all’occhiello è il suo giornale di Licata,”LA VEDETTA”:un gioiello di sapienza cronistica e giornalistica:che non c’è più, ma che si dovrebbe ripristinare per ricordarlo.Ciao, caro Lillo, uomo probo ,superiore e buono:che hai lasciato una grande eredità di beni per il tuo senso civico e morale:che è tutta una lezione di vita per noi tutti.”
Sei stata una delle prime persone che mi hanno accolto con affetto quando sono giunta a Licata nel 1967,dopo il catastrofico terremoto che ha colpito la città di Mistretta.
FRANCESCO PIRA .” Giorno 14 agosto 2023 , alle ore 11,00 nella Chiesa di Sant’Angelo c’è stato l’ultimo saluto di Licata all’insigne Preside, Storico e Giornalista prof. Calogero Carità Onorio, con cui ho condiviso in 43 anni di amicizia tante emozioni. Compreso quella di fondare insieme a suo fratello, Angelo Carità, mio compagno di scuola, il mensile La Vedetta. Insieme abbiamo pubblicato due libri sulla storia della Confraternita di San Girolamo della Misericordia. Sono stati giorni difficili per me, ma so che Lillo è morto sereno ed ha vissuto intensamente la sua vita insieme all’amata moglie Nazarena e ai figli che adorava Enrico e Riccardo, e ai nipotini. È morto parlando dei suoi meravigliosi genitori a cui ero molto legato. Ti ho voluto bene Lillo e grazie per tutto quello che mi hai donato. Grazie al Sindaco e alla giunta per la camera ardente e il lutto cittadino. Grazie a chi mi è stato vicino consapevole del mio affetto nei confronti del professore Carità. Buon viaggio Lillo.
Mi mancheranno la tua risata, la tua curiosità e la tua voglia di iniziare ogni giorno una nuova battaglia.”
ANGELO CARITA’ “Caro fratello Lillo, sono 5 giorni da quando sei volato in cielo. La morte ti ha strappato all’amore dei tuoi cari.
Per me sei stato come un padre, sei stato sempre presente, non hai mai smesso di seguirmi, dandomi sempre i giusti consigli, soprattutto nei momenti in cui volevo spaccare il mondo intero.
Sei stato la mia guida, il mio faro, il mio punto di riferimento, l’esempio da seguire sempre. Eravamo, io lo sono ancora di più, orgogliosi l’uno dell’altro, abbiamo collaborato a molte iniziative, in maniera indefessa, senza guardare ostacoli.
Caro fratello, non ce lo siamo mai detti, ma ci siamo voluti tanto bene e te ne voglio di più oggi che non ci sei più.
Hai lasciato un vuoto incolmabile in tutti noi.
Mi mancheranno le tue telefonate, mi mancherà la tua voce, il tuo fare spiritoso.
La tua domanda dopo “Tutto bene?” era “che si dice a Licata”, la tua città che tanto hai amato e che hai descritto in modo sapiente in tutte le tue opere. Tantissime.
Ero convinto che avresti avuto una lunga vita come la mamma, invece qualcosa non ha funzionato come doveva e poi il fato ha fatto il resto.
Oggi ti ho accompagnato assieme a nostro cugino Franco Morello per l’ultimo viaggio, così come desideravi, ora sei diretto a Verona dove riceverai l’ultimo meritato saluto dai tuoi alunni, dai tuoi colleghi, dai tuoi amici e da quanti ti hanno accolto come uno di loro, guadagnandoti rispetto e stima per ciò che hai fatto nella tua carriera lavorativa e nel tempo libero.
Un pezzo di te sarà sempre con me finché vivrò.
Ti abbraccio forte forte.
La tua anima vivrà per sempre nei nostri cuori.
R. I. P. Calogero Carità Onorio”

RINGRAZIAMENTI
La famiglia Carità tutta, ringrazia sentitamente quanti ci sono stati vicini in questo momento tanto difficile ed hanno partecipato al dolore per la improvvisa dipartita del nostro caro Calogero, per gli amici Lillo, scomparsa avvenuta tragicamente la sera dell’11 agosto al Chiostro Badia, sede del Museo Archeologico, che egli stesso ha contribuito a far nascere, quale socio fondatore assieme ad altri giovani della Associazione Archeologica Licatese.
Lillo è stato colto da un malore che non gli ha lasciato scampo nel corso della presentazione del libro di Francesco Glicerio “Una finestra su via Sant’Andrea e dintorni”, testo del quale aveva curato la prefazione.
Con il dolore nel cuore vogliamo porgere un ringraziamento a tutta la Città e a quanti sono intervenuti personalmente ed ai tanti che per ovvi motivi non hanno potuto farlo.
Ringraziamo quanti hanno voluto in ogni modo esternare il loro affetto ai familiari e a Lillo in ogni momento e hanno voluto dare l’ultimo abbraccio nel corso delle due veglie funebri tenutesi presso il Palazzo di Città nei giorni 12 e 13 agosto; grazie a quanti sono stati presenti al funerale presso la Chiesa di Sant’Angelo lunedì 14; grazie ai Sacerdoti che hanno concelebrato le esequie del nostro caro assieme a don Giuseppe Sciandrone, che conobbe Lillo oltre 60 anni fa e che era suo amico.
Grazie ai tantissimi che hanno partecipato al cordoglio familiare, nelle più svariate forme, attraverso i Social.
Grazie alle tante Associazioni ed ai loro rappresentanti che hanno voluto testimoniare la loro vicinanza e presenza, in particolare alla Associazione Nazionale Carabinieri Licata. Grazie al Corpo dei Vigili Urbani e al loro comandante che hanno vigilato fin dal primo momento vicini al feretro rendendogli gli onori.
Un immenso e speciale ringraziamento va al Sindaco Avv. Angelo Balsamo e alla intera Giunta che ha voluto concedere l’onore al nostro caro Lillo e ha voluto che la città gli rendesse omaggio presso il Palazzo di Città.
Grazie infinite al Sindaco e al Comune di Licata per avere istituito il lutto cittadino nel giorno del funerale, atto non richiesto dalla famiglia, inaspettato, ma gradito e che rende onore ad un figlio prediletto della Città, alla quale ha dedicato la sua vita con i suoi studi e il suo sapere, difendendola in ogni sede, a conferma che il nostro caro Lillo ha lasciato una testimonianza attraverso i suoi studi, le sue opere, le sue azioni, quali atti di amore verso la Sua città, alla quale era legato in modo viscerale e spasmodico e per questo ha voluto rivederla per l’ultima volta scegliendo di morirvi.

 

Aug 3, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LE PIANTINE DI BORRAGO OFFICINALIS NELLE CAMPAGNE DI LICATA E DI MISTRETTA

LE PIANTINE DI BORRAGO OFFICINALIS NELLE CAMPAGNE DI LICATA E DI MISTRETTA

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Le passeggiate all’aria aperta nelle campagne di Licata e di Mistretta mi danno la possibilità di osservare, conoscere e fotografare sempre nuovi elementi naturalistici. Questa piantina, molto semplice, ma vivace nel colore dei suoi fiori, è degna di essere raccontata perchè molto comune non solo nei campi di Licata e di Mistretta, ma ovunque, nel pianeta Terra, dove trova le condizioni ideali per vegetare e riprodursi.

 

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Il suo nome botanico è “BORRAGO OFFICINALIS“.

Nomi italiani sono:” Borragine comune, Borrana, Borragine“.

Sinonimo del nome botanco è ” Borago hortensis“.

Ogni regione italiana la chiama con nomi diversi: “Vurrania in Calabria, Verraine in Abruzzo, Vorraina in Campania, Vurrane in Puglia, Borrana in Toscana, Buraze in Friuli, Borrana in Lombardia, Burraxa in Liguria, Burage in Piemonte, Borase in Veneto, Burrascia in Sardegna.

A Mistetta la chiamiamo”Urrania”.

Nomi popolari internazionali sono: “Borai, Boraso, Bragia, BuraxuBurràs, Erba d´la torta, Malai, Borrana, Buglossa vera, Burràgine, Verràine, Borraccia, Vorràgine, Bburraina, Inistrora, Urraina, Vurraina, Burraxi, Limba´e boe, Limbuda, Lingua rada, Borage, Bourrache, Boretsch, Borag, Stofférblomma, Agurkurt, Hjulkrone, Purasruoho“.

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Etimologicamente il nome del genere “Borrago” deriva dal latino “borra“, una stoffa grossolana di lana ruvida con lunghi peli, per via dei peli presenti nel fusto e nelle foglie e che rendono la pianta ruvida al tatto, oppure dal latino “borrus” “ispido, peloso” in riferimento alla pelosità ispida delle foglie, o sempre dal latino “borrago” per le proprietà sudorifere della pianta.

Una tesi sostiene che derivi dall’arabo “Abu araq” ” padre del sudore“, a sottolineare le proprietà sudorifere diaforetiche della pianta.

Un’altra tesi sostiene che il nome derivi dal celtico “barrach” che significa ” coraggio” .

Infatti la Borragine, aggiunta al vino, era usata dai guerrieri dell’antico popolo celtico per affrontare i nemici, prima di una battaglia, convinti che desse loro coraggio. La Borragine incoraggia anche “l’allegria“.

La Borragine era già conosciuta da Plinio che la chiamava “Euphrosinum” considerandola capace di donare la” felicità“.

Dioscoride la chiamava “Buglossa” per la forma della foglia somigliante alla lingua del bue.

Il nome della specie “officinalis” deriva da “offícina, laboratorio medioevale“, perchè è una pianta usata in farmaceutica, in erboristeria e in profumeria.

La Borrago officinalis è un’essenza vegetale appartenente alla famiglia delle Boraginaceae.

E’ originaria del Medio Oriente, ma naturalizzata ovunque, in tutte le regioni temperate del globo terrestre.

Cresce allo stato spontaneo in tutta l’Europa, nell’America settentrionale e nell’Africa settentrionale raggiungendo quote altimetriche da 0 fino a 1000 m s.l.m.

E’ presente in tutte le regioni italiane spesso come pianta avventizia.

In Sicilia è presente in tutta l’isola. La possiamo ammirare nei prati incolti, nei bordi delle strade, nei sentieri, lungo i muretti, nei giardini privati.

La specie è stata introdotta in molti paesi per la sua coltivazione.

La Borrago officinalis è una pianta erbacea annuale o perenne legata al terreno mediante una radice a fittone dalla quale si sollevano i fusti cavi, carnosi, alti 50-70 cm, dal portamento eretto, ricoperti di peli biancastri e ramificati in alto.

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Le foglie basali, sostenute dal lungo picciolo, hanno la lamina di forma ovata, di colore verde scuro, con il margine seghettato irregolarmente.

Le foglie cauline, sostenute da un breve picciolo, dal margine ondulato e con la nervatura rilevata, sono alterne, ovali, lunghe 10–15 cm, di colore verde scuro, ricoperte da una ruvida peluria.

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I fiori, ermafroditi, di breve durata, raccolti in infiorescenze sommitali, sono riuniti all’ascella delle foglie.

La corolla, di forma stellata, ha i petali bilobati di colore azzurro. Sono peduncolati e disposti a grappolo. Al centro del fiore sono visibili le antere derivanti dall’unione dei 5 stami.

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I fiori della Borragine, oltre ad essere molto decorativi, sono importanti per le api e per gli apicoltori per produrre un ottimo miele.

I fiori, infatti, producono polline e nettare in quantità notevoli per tutto il periodo della fioritura. L’antesi è molto lunga.

La fioritura inizia nel mese di aprile continuando fino al mese di ottobre. In Sicilia la fioritura avviene da gennaio ad aprile. I fiori, commestibili, aggiungono un tocco insolito alle insalate e alle torte.

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I frutti sono dei tetracheni circolari, di colore marrone chiaro, molto duri, che contengono al loro interno piccoli semi neri da cui si ricava il prezioso olio.

I semi sono dotati di elaiosomi, particolari appendici contenenti sostanze nutritive appetibili alle formiche, che ne facilitano la disseminazione detta per mirmecoria.

La moltiplicazione avviene per seme in primavera. Le piante crescono abbastanza velocemente. Se i semi si lasciano sui fiori, senza toglierli, la pianta si riproduce automaticamente.

La Borragine, oltre a vegetare spontaneamente come pianta infestante, è coltivata nei giardini sia come erba culinaria, sia perché le api visitano i suoi fiori facendo produrre un eccellente miele. Si può coltivare nei vasi di grandi dimensioni.

La Borragine è una pianta rustica, facile da coltivare, non necessitando di particolari attenzioni. Cresce bene in quasi tutti i tipi di terreno prediligendo quelli asciutti, sciolti, ben assolati, ma tollera anche un’esposizione parziale al sole, in semi-ombra, e dove le temperature primaverili non siano inferiori ai 10°C.

La Borragine va annaffiata con regolarità, in particolare durante il periodo estivo. Se cresce spontanea, è sufficiente l’acqua piovana.

La Borragine è una pianta molto resistente e non è attaccata da muffe, da funghi o da parassiti.

La Borragine trova un largo utilizzo come pianta officinale. E’ usata, infatti, per la creazione di medicinali e di creme cosmetiche.

Le parti usate sono: le foglie, le sommità fiorite, i semi.

Gli antichi fitoterapeuti, che basavano i loro rimedi curativi sulle proprietà delle varie piante che conoscevano, consigliavano l’uso dei decotti ottenuti dalle sommità fiorite di Borragine per combattere gli stati febbrili proprio per il loro effetto sudorifero e depurativo.

Utili anche per calmare la tosse secca, per combattere le infiammazioni delle vie respiratorie, per lenire i disturbi gastro-intestinali .

I semi sono ricchi di acidi grassi polinsaturi e sono utilizzati per le loro proprietà antinfiammatorie e protettive del sistema cardiovascolare.

Fin dall’antichità la pianta ebbe fama di svegliare gli spiriti vitali.

Plinio il Vecchio sosteneva che i fiori della Borragine macerati allontanassero la tristezza e, se mangiati in insalata, potessero sgombrare la mente dai pensieri cattivi procurando effetti positivi anche sulla psiche. Un suo pensiero: «Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere».

Dalla spremitura a freddo dei semi della Borragine si ottiene un olio vegetale, o olio di stella, molto prezioso, utile nelle patologie della pelle come eczemi, dermatosi, psoriasi, aumentando le difese immunitarie per via delle proprietà antiinfiammatorie grazie alla presenza di omega 6 e della vitamina E.

Prima di utilizzare i prodotti farmaceutici derivati dalla Borragine, è prudente chiedere sempre consigli al proprio medico.

Plinio e Dioscoride concordavano nell’affermare che una tazza di vino caldo, con l’aggiunta di qualche foglia tritata di Borragine, era un ottimo rimedio per combattere la malinconia.

Secondo Dioscoride, la Borragine è in grado di “rallegrare il cuore e sollevare gli spiriti depressi”.

Il medico napoletano, Giuseppe Donzelli nel sua trattato alchemico del 1660 “Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico” riporta che essa <<toglie le immaginazioni cattive, acuisce la memoria e la mente e distacca dal corpo tutti gli umori cattivi>>.

Attualmente l’uso terapeutico della Borragine è sconsigliato sia per l’insufficienza delle evidenze mediche, sia per il fatto che i petali e le foglie contengono alcaloidi pirrolizidinici che hanno proprietà epatotossiche e cancerogene.

In cucina, nella tradizione gastronomica italiana, le foglie giovani della Borragine, lessate in poco acqua e condite con olio, sono usate nelle insalate, nelle minestre, nelle zuppe, e anche per insaporire il té freddo e le bevande di frutta.

Ricordo che mia madre andava a raccogliere le foglie e i fiori della Borrago nella sua campagna, in contrada Scammari, per preparare una gustosa frittata. Oppure preparava la “pasta con la vurrania”, detto il pasto povero,  alla quale aggiungeva un pò di pomodoro per dare colore alla pietanza. Comunque, sono contraria a mangiare erbe spontanee, soprattutto crude, perchè la mancanza di conoscenza delle varie specie mangerecce e non, potrebbe creare diversi problemi ala mia salute.

Le foglie giovani e fresche, raccolte in primavera, ricche di vitamina C, di calcio, di potassio e di sali minerali, sono utilizzate solitamente cotte perchè la cottura evita l’effetto urticante dei peli che le ricoprono interamente. Con l’essiccazione, le proprietà diminuiscono sensibilmente. L’aggiunta delle foglie dona alle pietanze un leggero aroma simile a quello del cetriolo.

L’infusione di foglie di Borragine è il miglior tonico naturale per i problemi legati allo stress. Galeno credeva che “facessero buon sangue” se messe nel vino.

I fiori sono usati per guarnire le preparazioni dolciarie e mantengono il colore violetto anche dopo la cottura al forno. Come tisana, la Borragine ha effetti calmanti che la rendono perfetta per trascorrere una buonanotte.

Tuttavia, anche l’abbondante uso alimentare dei fiori della Borragine, specialmente per lunghi periodi, è sconsigliato per la presenza, in alcune fasi vitali della pianta, di composti pirrolizidinici per sospetta attività epatotossica (come già detto).

Gli alcaloidi pirrolizzidinici sono una categoria di composti metabolici prodotti dalle piante allo scopo di disincentivare l’erbivoria.

Si stima che il 3% di tutte le specie vegetali producano questo tipo di composti che sono, quindi, onnipresenti all’interno delle catene alimentari.

La loro azione si esplica a carico delle vene epatiche favorendone l’occlusione e sono colpevoli di generare mutazioni nelle cellule del fegato con esiti cancerosi, soprattutto se la verdura è consumata spesso e in abbondanza.

Le persone con problemi epatici è bene che si astengano dal consumo alimentare di questa pianta.

Non ci sono invece problemi di tossicità nell’assunzione dell’olio ottenuto dalla spremitura dei semi perchè esso non contiene alcaloidi pirrolizidinici.

Con la Borraggine si prepara anche un miele molto particolare perchè ha un aroma delicato e aromatico.

Nel Regno Unito il miele di Borragine è una specialità dello Yorkshire orientale, dove viene coltivata la maggior parte delle piante di Borragine.

Curiosità: la pianta di Borragine tradizionalmente era usata per abbellire le case durante i preparativi delle feste matrimoniali.

Il nome gallese per la borragine, “llawenlys“, significa infatti “erba della contentezza“.

Nel linguaggio dei fiori la Borragine esprime “coraggio, felicità, gioia“.

E’ di fondamentale importanza non confondere la Borragine con la Mandragora.

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La Mandragora è una pianta velenosissima che fiorisce in autunno, non è commestibile, potrebbe causare la morte al malcapitato che, ignorantemente, l’avrebbe mangiata scambiandola per la Borragine.

Ha la corolla dei fiori gamopetala, a forma di campana, di colore viola.

I fiori sono inseriti a gruppo al centro della rosetta di foglie quasi glabre.

E’ inconfondibile!

 

Jul 15, 2023 - Senza categoria    Comments Off on LA PHYLA NODIFLORA – IL TAPPETO DI PICCOLI FIORI COLORATI

LA PHYLA NODIFLORA – IL TAPPETO DI PICCOLI FIORI COLORATI

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Ho notato questo tappeto di fiori in un’aiuola passeggiando all’interno del Porto Turistico “Marina di Cala del Sole” a Licata la scorsa estate.
E’ la “Phyla nodiflora” ,detta Lippia nodiflora”.

https://youtu.be/JOEyg2LuJ0k

CLICCA QUI

 Nomi comuni sono: “ Lippia repens o Lippia nodiflora, Pianta a dente di Sega, Groviglio di tacchino, Erba di Santa Luigia minore”.
Il nome generico Lippia deriva dal greco φῦλονtribù ed è riferito alle fitte colonie dei fiori che ricordano una tribù.

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La Phyla nodiflora è una piccola pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Verbenaceae.
Originaria dell’America meridionale, si è diffusa allo stato spontaneo quasi ovunque. In Europa e in Italia vive in modo spontaneo soprattutto dove può godere di un clima mite.
La Phyla nodiflora è una pianta sempreverde, perenne, tappezzante, di piccole dimensioni, alta circa 10 cm, ideale per formare prati colorati molto belli.
Possiede radici non molto profonde, mentre la parte aerea è formata da una fitta serie di fusti molto sottili che si allungano, quasi strisciando sul terreno. Forma tappeti erbosi molto fitti per mezzo dei rizomi che si sviluppano emettendo radici ai nodi delle foglie. Le piccole radici rizomatose si allargano orizzontalmente sul terreno ricoprendo in breve tempo ampie aree favorisendo un ulteriore sviluppo della pianta in tutte le direzioni.

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Sui fusti, sottili, spuntano le foglie, piccole, disposte a coppie opposte. Possiedono piccioli corti, a forma di cuneo, che sostengono la lamina fogliare di forma ovata-lanceolata e con il margine frastagliato.
Il colore delle foglie può variare a seconda della specie di Phyla nodiflora e dell’ambiente in cui essa si trova a proliferare.
Possono essere di colore blu-verde ma nelle regioni con inverni rigidi allora diventano brunastre e possono anche cadere per poi essere ricacciate nella primavera successiva. Sia gli steli che le foglie sono generalmente glabri.

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La produzione dei fiori è abbondante.Da  maggio a settembre alla base delle ascelle fogliari spuntano i fiori numerosi, riuniti in infiorescenze profumate. Sono un’ottima fonte di nettare per le api e per le farfalle essendo una pianta mellifera.
I fiori, profumatissimi, sono di piccole dimensioni. Hanno la corolla composta da 5 petali lobati e di vari colori, che possono spaziare dal giallo al rosa porpora al violetto al bianco rosato.

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I frutti sono delle piccole capsule a due celle ognuna contenente minuscoli semi di colore grigiastro, molto fertili.
Infatti, quando cadono sul terreno, germinano dando vita a nuove piantine.
La moltiplicazione può avvenire sia per seme, sia tramite la propagazione agamica, che può essere effettuata agevolmente per divisione dei cespi in primavera. Le piante di Phyla nodiflora si possono mettere a dimora tutto l’anno, ma il momento migliore è l’inizio dell’autunno.
La piantumazione primaverile è valida per una crescita armonica delle piantine.
La Phyla nodiflora è una verbenacea adatta a realizzare tappeti erbosi fioriti, a coprire muri di recinzione e anche scarpate oppure lastricati in pietra nelle zone di passaggio.

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Può essere coltivata anche come pianta ornamentale per abbellire balconi e terrazze posta in vasi abbastanza ampi riempiti con un un normale terreno non argilloso e ben drenato in modo che l’acqua defluisca bene.
La Phyla nodiflora gradisce qualsiasi terreno, meglio se soffice, sciolto, asciutto, ben drenato e con una discreta dose di nutrienti. E’ una pianta dei climi tropicali, quindi necessita di una posizione in pieno sole per almeno 3-4 ore al giorno. Si adattata anche alla mezz’ombra, ma producendo fioriture meno abbondanti.
Teme le gelate prolungate ed intense, ma riesce a sopravvivere anche a temperatura inferiore ai -10° C. Nelle regioni con clima invernale rigido perde la parte aerea ed entra in uno stato semi -vegetativo per poi risvegliarsi nella primavera seguente più forte e più bella di prima.
Nuovi germogli, infatti, compariranno sugli steli stoloniferi radenti al terreno.
Nei climi miti vegeta tutto l’anno, anche se le foglie tendono a imbrunire.
E’ una pianta che non teme la siccità e, anche se generalmente si accontenta delle acqua piovana, va irrigata saltuariamente altrimenti non riesce a svilupparsi in altezza e il tappeto erboso sarà rado e sottile.
Per assicurare i nutrienti indispensabili allo sviluppo della pianta e alla produzione dei fiori, in primavera bisogna somministrare sul terreno un concime granulare ricco di azoto e di potassio. Ha una buona resistenza alla salsedine.
Per contenere lo sviluppo della pianta ed evitare che possa diventare un’erbacea infestante può essere tagliata 1-2 volte all’anno. Le cure periodiche prevedono l’eliminazione degli steli secchi e danneggiati.
La Phyla nodiflora è una pianta rustica. Resiste alle malattie fungine, ma teme il marciume delle radici che insorge solo se il terreno non è drenante o gli apporti idrici sono inadeguati.Tra i parassiti animali, anche se raramente e quando il clima è particolarmente umido, teme l’attacco degli Afidi e delle Coccinelle che colonizzano i nodi dei fusti.
Alla Phyla nodiflora sono state riconosciute proprietà erboristiche calmanti, antibatteriche, diuretiche, e refrigeranti.
In erboristeria, il succo della pianta è consigliato per sedare la tosse e per lenire i sintomi dell’influenza, del raffreddore, nel trattamento di disturbi gastrici.
In cucina le foglie fresche sono usate come sostituto del tè, dal sapore erbaceo, non particolarmente distintivo.

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